IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO 
                       (Sezione Prima Quater) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 564 del 2017, proposto da: 
    (Omissis), rappresentati e difesi dagli avvocati Stefano Orlandi,
Micaela Grandi, con  domicilio  eletto  presso  lo  studio  dell'avv.
Renato Caruso in Roma, via Cristoforo Colombo, n. 436; 
    Contro Garante per la protezione dei dati  personali,  Presidenza
del Consiglio dei ministri, rappresentati  e  difesi  dall'Avvocatura
generale dello Stato, presso la cui sede domiciliano in Roma, via dei
Portoghesi, n. 12; 
    e con l'intervento di 
    ad opponendum: Codacons - Coordinamento delle associazioni e  dei
comitati di tutela dell'ambiente e dei diritti  degli  utenti  e  dei
consumatori, rappresentato e difeso dagli avvocati Carlo Rienzi, Gino
Giuliano, con domicilio eletto presso il suo ufficio legale in  Roma,
viale Giuseppe Mazzini, n. 73; 
    Per l'annullamento: 
        della  nota  del  Segretario  generale  del  Garante  per  la
protezione dei dati personali n. 34260/96505  del  14  novembre  2016
ricevuta dai ricorrenti il 15 novembre 2016; 
        delle  note  del  Segretario  generale  del  Garante  per  la
protezione  dei   dati   personali   n.   37894/96505,   37897/96505,
37899/96505, 37892/96505, 37893/96505, 37898/96505, del  15  dicembre
2016, 
        eventualmente, previa eventuale disapplicazione dell'art. 14,
comma 1-bis, decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in
cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblichino  i  dati  di
cui all'art. 14 comma 1, lettere  c)  ed  f),  dello  stesso  decreto
legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, 
    ovvero per la rimessione  alla  Corte  di  giustizia  dell'Unione
europea o alla Corte costituzionale della questione  in  ordine  alla
compatibilita' delle  disposizioni  sopra  citate  con  la  normativa
europea e costituzionale. 
    Visto il ricorso; 
    Visto l'atto di costituzione  in  giudizio  del  Garante  per  la
protezione dei dati personali e della Presidenza  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Visto l'atto di intervento ad opponendum di Codacons; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nell'udienza pubblica del 13 giugno 2017 il  cons.  Anna
Bottiglieri e uditi  per  le  parti  i  difensori  come  da  relativo
verbale. 
    1. Con l'odierno gravame i ricorrenti,  dirigenti  di  ruolo  del
Garante per  la  protezione  dei  dati  personali,  hanno  interposto
impugnativa avverso la nota del Segretario generale  del  Garante  n.
34260/96505 del 14 novembre 2016, che,  al  fine  di  adempiere  alle
prescrizioni  di  cui   all'art.   14,   comma   1-bis,   del decreto
legislativo 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede  che  le
pubbliche amministrazioni pubblichino nel proprio sito web i dati dei
titolari di incarichi  dirigenziali  di  cui  all'art.  14  comma  1,
lettera c) e f) dello stesso decreto legislativo, ed evidenziato  che
la  violazione   dell'obbligo   e'   sanzionata   amministrativamente
dall'art. 47, comma 1, del decreto legislativo n. 33/2013,  a  carico
del singolo dirigente responsabile della mancata comunicazione, ed e'
parimenti soggetta  a  pubblicazione,  ha  invitato  i  ricorrenti  a
inviare  entro  un  dato  termine  la  relativa   documentazione,   e
precisamente: 
        copia  dell'ultima  dichiarazione  dei  redditi   presentata,
oscurando i dati eccedenti,  come  previsto  dalla  Linee  guida  del
Garante; 
        dichiarazione, aggiornata alla data di sottoscrizione, per la
pubblicita' della situazione patrimoniale,  da  rendersi  secondo  lo
schema allegato alla richiesta; 
        dichiarazione di negato consenso per il coniuge non  separato
e i parenti entro il secondo grado,  ovvero,  pel  caso  di  avvenuta
prestazione del consenso, copia delle dichiarazioni dei  redditi  dei
suddetti soggetti e dichiarazioni aggiornate per la pubblicita' delle
rispettive  situazioni  patrimoniali,  sempre  secondo   il   modello
allegato; 
        dichiarazione dei dati relativi ad  eventuali  altre  cariche
presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri  a  carico
della finanza pubblica assunte dagli interessati. 
    L'impugnativa  e'  stata  estesa  agli  ulteriori   provvedimenti
indicati in epigrafe, con i quali il Garante ha restituito a ciascuno
dei ricorrenti, intonsa, la documentazione trasmessa dai medesimi  in
riscontro alla predetta  richiesta,  significando  che  quanto  fatto
pervenire, ovvero una busta sigillata  contenente  la  documentazione
sopra  elencata,  con  contestuale  istanza  di  non  dar  corso   al
trattamento  dei  relativi  dati,   onde   evitare   un   illegittimo
pregiudizio nelle more della tutela giudiziale in via di attivazione,
non  integrasse  adempimento   dell'obbligo.   I   ricorrenti   hanno
rappresentato di aver successivamente trasmesso alla casella di posta
elettronica  indicata  dall'amministrazione  la   documentazione   in
parola, al solo fine di adempiere a  quanto  richiesto  e  mantenendo
assolutamente ferma la propria opposizione al trattamento dei dati in
questione e alla loro successiva pubblicazione. 
    A  sostegno  dell'impugnativa,   i   ricorrenti   descrivono   il
precedente quadro normativo, illustrando come  l'art.  21,  comma  1,
della legge 18 giugno 2009,  n.  69,  abbia  introdotto  l'obbligo  a
carico delle pubbliche amministrazioni di cui all'art.  1,  comma  2,
del decreto legislativo 30 marzo 2001,  n.  165,  di  pubblicare  sui
propri siti internet i curricula vitae dei dirigenti, i dati relativi
agli emolumenti da questi percepiti e i relativi recapiti  d'ufficio,
oltre che le informazioni inerenti i tassi di assenza e  di  presenza
del personale di ciascun ufficio dirigenziale, e  come  tale  obbligo
sia  poi  rifluito  nella  formulazione  dell'art.  15  del   decreto
legislativo  14  marzo  2013,  n.  33,  «Riordino  della   disciplina
riguardante  il  diritto  di  accesso  civico  e  gli   obblighi   di
pubblicita', trasparenza e diffusione di informazioni da parte  delle
pubbliche amministrazioni», il cui ambito di  applicazione  e'  stato
esteso, con l'art. 24-bis del decreto-legge 24 giugno  2014,  n.  90,
convertito dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, anche  alle  autorita'
amministrative indipendenti, tra cui il Garante per la protezione dei
dati  personali,  mentre,  allo  stato,  l'ambito   di   applicazione
soggettiva della disciplina sulla trasparenza e'  definito  nell'art.
2-bis del decreto legislativo n. 33/2013. 
    Proseguono i ricorrenti evidenziando che il quadro degli obblighi
di  trasparenza  applicabili  ai  dirigenti   e'   stato   modificato
radicalmente dal decreto legislativo 25 maggio 2016, n.  97,  recante
revisione  e  semplificazione  delle  disposizioni  in   materia   di
prevenzione  della  corruzione,   pubblicita'   e   trasparenza,   in
attuazione dell'art. 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, che  li  ha
equiparati  integralmente  a  quelli  stabiliti  per  i  titolari  di
incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo. 
    In particolare, il decreto legislativo n. 97/2016  ha  introdotto
il comma 1-bis dell'art.  14  del  decreto  legislativo  n.  33/2013,
prevedente che «le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui
al comma 1 per i titolari di incarichi o cariche di  amministrazione,
di direzione o  di  governo  comunque  denominati,  salvo  che  siano
attribuiti  a  titolo  gratuito,  e  per  i  titolari  di   incarichi
dirigenziali,  a  qualsiasi  titolo  conferiti,  ivi  inclusi  quelli
conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo  politico  senza
procedure pubbliche di selezione». 
    I dati in parola sono elencati al comma 1 dello stesso art. 14, e
sono i seguenti,  tra  cui  quelli  in  contestazione,  riportati  in
corsivo: 
        a) l'atto di nomina o  di  proclamazione,  con  l'indicazione
della durata dell'incarico o del mandato elettivo; 
        b) il curriculum; 
        c) «i compensi di qualsiasi  natura  connessi  all'assunzione
della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con
fondi pubblici»; 
        d) i dati relativi all'assunzione di  altre  cariche,  presso
enti pubblici o privati, ed i relativi compensi  a  qualsiasi  titolo
corrisposti; 
        e) gli altri eventuali incarichi con  oneri  a  carico  della
finanza pubblica e l'indicazione dei compensi spettanti; 
        f) «le dichiarazioni di cui all'art. 2, della legge 5  luglio
1982, n. 441, nonche' le attestazioni e  dichiarazioni  di  cui  agli
articoli 3 e 4  della  medesima  legge  (dichiarazione  dei  redditi,
dichiarazione dello stato patrimoniale come possesso di beni immobili
o mobili registrati, azioni, obbligazioni o  quote  societarie  etc.,
n.d.r.,) come  modificata  dal  presente  decreto,  limitatamente  al
soggetto, al coniuge non separato  e  ai  parenti  entro  il  secondo
grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza
al mancato consenso. [...]». 
    Cio' posto, i ricorrenti lamentano, in  linea  generale,  che  il
livello di  trasparenza  richiesto  dalla  novella  normativa  appena
descritta, che determina il trattamento  giuridico  limitativo  della
riservatezza individuale costituito dalla  pubblicazione  online  dei
dati in parola a  carico  di  un  notevolissimo  numero  di  soggetti
(secondo le elaborazioni  dell'Aran,  oltre  140.000,  senza  contare
coniugi ne' parenti fino al secondo grado), non trovi rispondenza  in
alcun altro ordinamento  nazionale,  contrasti  frontalmente  con  il
principio di proporzionalita' di  derivazione  europea,  sia  fondato
sull'erronea assimilazione di condizioni non  equiparabili  fra  loro
(dirigenti delle amministrazioni pubbliche e degli altri soggetti cui
il decreto si applica e titolari di incarichi politici), e  prescinda
dall'effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta,  come
del resto evidenziato dallo stesso Garante per la protezione dei dati
personali anche nell'ambito  del  parere  reso  alla  Presidenza  del
Consiglio dei  ministri  sullo  schema  del  decreto  legislativo  n.
97/2016. 
    Di  talche'  i  ricorrenti,   rilevato   che   le   Linee   guida
sull'attuazione dell'art.  14  del  decreto  legislativo  n.  33/2013
dell'Autorita'  nazionale  anticorruzione   (Anac),   in   corso   di
predisposizione, indicano al punto 6 che gli obblighi di  trasparenza
riferiti ai dirigenti si applicano a partire dall'1° gennaio  2017  e
che i dati dovranno essere pubblicati dal 31 marzo 2017  (esclusa  la
dichiarazione dei redditi, la quale andra' pubblicata entro  un  mese
dalla sua presentazione), hanno domandato l'annullamento  degli  atti
gravati, previa eventuale disapplicazione dell'art. 14, comma  1-bis,
del decreto legislativo n. 33/2013, nella parte in cui prevede che le
pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui all'art. 14 comma
1, lettere c) ed f) dello stesso  decreto  legislativo  anche  per  i
titolari di incarichi dirigenziali,  ovvero,  in  subordine,  che  il
Tribunale  adito  sollevi  in  via  pregiudiziale  la  questione   di
legittimita' dell'art. 14, comma 1-bis in combinato disposto  con  il
comma 1, lettere c) ed f), decreto legislativo  n.  33/2013,  innanzi
alla Corte di giustizia  dell'Unione  europea  o  avanti  alla  Corte
costituzionale, per violazione in tale ultima ipotesi degli  articoli
2, 3, 11, 13 e 117, comma 1, della Costituzione. 
    Le predette conclusioni  sono  affidate  ai  seguenti  motivi  di
diritto. 
    1) Violazione di legge  per  violazione  del  diritto  alla  vita
privata,  del  diritto  alla  protezione  dei  dati  personali,   del
principio di proporzionalita' e del principio  di  finalita'  sanciti
dagli articoli 7,  8  e  52  della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea, dall'art. 6 del Trattato UE, dall'art.  8  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, dall'art. 6, par.  1,  lettera  c),  direttiva
95/46/CE e dall'art. 5, par. 1, lettera c), del regolamento  2016/679
del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016. 
    Con il primo motivo in  parola  i  ricorrenti  affermano  che  il
contrasto degli atti gravati con  il  diritto  europeo  emerge  dalla
sentenza della Corte di giustizia 20 maggio 2003 (C-465/00,  C-138/01
e C-139/01, Österreichischer Rundfunk), che, in  analoga  fattispecie
di legislazione nazionale che prevedeva la raccolta e divulgazione di
dati concernenti il reddito di dipendenti di  un  ente  pubblico,  ha
dichiarato la diretta invocabilita'  innanzi  al  giudice  nazionale,
avverso norme di  diritto  interno  contrarie  a  tali  disposizioni,
dell'art. 6, par. 1, lettera c),  della  direttiva  95/46/CE  del  24
ottobre 1995, direttiva del Parlamento europeo del Consiglio relativa
alla tutela delle persone fisiche con  riguardo  al  trattamento  dei
dati personali, nonche' alla libera circolazione  di  tali  dati,  ai
sensi del quale «i  dati  personali  devono  essere  (...)  adeguati,
pertinenti e non eccedenti  rispetto  alle  finalita'  per  le  quali
vengono rilevati e/o per le quali vengono successivamente  trattati»,
nonche' dell'art. 7, lettere c) o e) della stessa direttiva,  secondo
cui il trattamento dei dati personali  puo'  essere  effettuato  solo
laddove esso sia necessario per adempiere  a  un  obbligo  legale  al
quale  e'  soggetto  il  responsabile  del  trattamento  ovvero   per
l'esecuzione  di  un  compito  di  interesse  pubblico   o   connesso
all'esercizio di pubblici poteri di cui e' investito il  responsabile
del trattamento a cui vengono comunicati i dati. 
    I ricorrenti richiamano ancora la sentenza n. 389 del 1989  della
Corte costituzionale e la sentenza della Corte di  giustizia  europea
22 giugno 1989, in C 103/1988, F.lli Costanzo v.  Comune  di  Milano,
che  hanno  riconosciuto  che  anche  gli   organi   della   pubblica
amministrazione,   nello   svolgimento   della   propria    attivita'
amministrativa, sono vincolati a non  dare  applicazione  alle  norme
interne confliggenti con quelle comunitarie direttamente applicabili. 
    Cio' posto, i ricorrenti concludono per  la  disapplicazione  nei
loro confronti dell'art. 14, comma 1-bis e comma 1, lettere c) e  f),
decreto legislativo n. 33/2013, disposizioni che ritengono  contrarie
alla predetta disciplina comunitaria,  direttamente  applicabile,  di
protezione dei dati personali, letta anche alla luce degli articoli 7
(Rispetto della vita privata e della vita familiare),  8  (Protezione
dei dati di carattere personale) e 52 (Portata e interpretazione  dei
diritti  e  dei  principi)  della  Carta  dei  diritti   fondamentali
dell'Unione europea. 
    I  ricorrenti  soggiungono  come  la  gravata  disposizione   sia
suscettibile di recare pregiudizio ai  diritti  fondamentali  oggetto
dell'art. 6 del Trattato UE (Diritto alla  sicurezza),  e  si  ponga,
come detto, in diretto contrasto con l'art. 6, par.  1,  lett  c),  e
l'art. 8, par. 1 e 4, della direttiva 95/46/CE, che, rispettivamente,
individuano rigorose modalita' di trattamento dei  dati  personali  e
vietano il trattamento di quelli rivelanti dati  sensibili,  principi
confermati dalla nuova normativa in materia di protezione dei dati di
cui  al  regolamento  n.  2016/679  del  Parlamento  europeo  e   del
Consiglio, del 27 aprile 2016, entrato  in  vigore  in  Italia  il  4
maggio 2016 e destinato ad avere piena efficacia il 25  maggio  2018,
con l'art. 8  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali  -  CEDU,  richiamata
all'art.  52  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'UE,  che
disciplina il diritto al rispetto della vita privata e familiare, del
domicilio  e  della  corrispondenza  della  persona,  vietando   ogni
ingerenza dell'autorita' pubblica nell'esercizio di tale diritto  che
non sia previsto dalla legge e costituisca una misura necessaria  per
la protezione dei beni ivi indicati, con la Convenzione  n.  108  del
Consiglio d'Europa, firmata a Strasburgo  il  28  gennaio  1981,  che
persegue la specifica finalita' di proteggere le persone rispetto  al
trattamento automatizzato di dati a carattere personale,  con  l'art.
117, primo comma, della Costituzione, che prevede  che  «la  potesta'
legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle  Regioni  nel  rispetto
della Costituzione, nonche' dei  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali.» 
    Piu' in dettaglio,  i  ricorrenti  sostengono  che  l'obbligo  di
trasmissione all'amministrazione e la  successiva  pubblicazione  dei
dati di cui all'art. 14, decreto legislativo n. 33/2013,  cosi'  come
novellato  dall'art.  13,  decreto  legislativo   n.   97/2016,   con
l'introduzione del comma 1-bis, e con specifico riferimento  ai  dati
di cui alle lettere c) e f), violi le richiamate  disposizioni  sotto
il profilo: 
    A - della  violazione  del  diritto  alla  vita  privata  e  alla
protezione dei dati,  comportando  un'ingerenza  nella  vita  privata
degli interessati, del coniuge e dei parenti di secondo grado; 
    B  -  della  violazione  dei  principi  di  proporzionalita',  di
pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, stante
la compressione pressoche'  integrale  di  diritti  fondamentali,  in
violazione  del  principio  di  proporzionalita',  il  cui   rispetto
comporterebbe  il  perseguimento   delle   legittime   finalita'   di
trasparenza  dell'amministrazione  e   non   dei   suoi   dipendenti,
contemperando in pari tempo i diritti fondamentali degli interessati. 
    In particolare, nel caso di specie, i ricorrenti  sostengono  che
nessuna  misura  di  contemperamento  sia  stata  posta  in   essere,
disattendendo,  peraltro,  i  pareri  espressi  dal  Garante  per  la
protezione dei dati (parere reso al Governo il 3 marzo 2016; nota  30
ottobre 2014, firmata con il Presidente dell'Anac  e  indirizzata  al
Ministro per la semplificazione e la pubblica  amministrazione),  che
hanno   evidenziato   le   criticita'   costituite   dal    carattere
indifferenziato  degli  obblighi  di  pubblicita',  con   conseguente
pregiudizio della  ragionevolezza  complessiva  della  disciplina  in
materia di  trasparenza,  essenziale  per  il  buon  andamento  e  la
democraticita'  dell'azione   amministrativa,   dalle   significative
limitazioni   della   riservatezza   comportate    dall'obbligo    di
pubblicita', suscettibile di irragionevolezza, stante la divulgazione
online di una quantita' spesso  ingestibile  di  dati,  riferiti  per
giunta non solo ai diretti interessati, ma  anche  al  coniuge  e  ai
parenti entro il secondo grado, ove questi acconsentano,  con  rischi
di alterazione, manipolazione, riproduzione  per  fini  diversi,  che
potrebbero frustrare le esigenze di informazione veritiera e, quindi,
di controllo, poste a base  della  disposizione,  dalla  sproporzione
delle  misure  di  pubblicita',   introdotte   mediante   la   totale
equiparazione, ovvero senza alcuna graduazione, di tutti i  dirigenti
delle pubbliche amministrazioni ai titolari di incarichi politici  di
amministrazione, di direzione e di governo. 
    Del resto, analoga sproporzione, rilevano i ricorrenti, e'  stata
stigmatizzata   nell'ordinamento   francese,   avendo   il    Conseil
constitutionnel, con decisione n. 2013-675 DC  del  9  ottobre  2013,
relativa alla «Loi organique relative a' la transparence  de  la  vie
publique» (Projet de loi adopte' le 17 septembre 2013 - T.A. n. 209),
giudicato sproporzionata la pubblicazione dello  stato  reddituale  e
patrimoniale di soggetti che non ricoprono cariche  elettive  ma  che
esercitano incarichi implicanti soltanto  responsabilita'  di  natura
amministrativa, per i quali e' stato ritenuto invece proporzionato il
solo deposito delle  relative  dichiarazioni  presso  l'Autorita'  di
controllo competente (punto 22). 
    I ricorrenti proseguono indicando i rischi insiti nel sistema  di
pubblicita' prescritto dalla norma,  sia  con  riguardo  al  tipo  di
documentazione richiesta, prettamente basata sui valori  immobiliari,
sia  con  riguardo  al  tipo  di  pubblicita'  prevista,  ovvero   la
diffusione mediante i siti internet istituzionali (tra cui  i  rischi
di furto di identita' o rischi di  natura  piu'  grave  da  parte  di
potenziali aggressori, anche in zone del territorio diverse da quelle
di abituale dimora, la divulgazione di  informazioni  sensibili),  ed
evidenziano modalita' alternative di pubblicita' idonee ad assicurare
le finalita' di  trasparenza  assunte  dalla  norma,  mentre,  quanto
all'erronea equiparazione fra titolari di incarichi dirigenziali e di
incarichi politici, sostengono la pervasivita' della misura, che  per
i secondi  costituisce  un  sacrificio  temporalmente  limitato  alla
durata dell'incarico politico, laddove per i dirigenti  si  trasforma
in una vera e propria condizione di vita, destinata ad  accompagnarli
per l'intera durata del rapporto di lavoro (art. 14, comma 2, decreto
legislativo n. 33/2013), tenuto anche conto del fatto che, una  volta
diffusi, anche se materialmente rimossi  dai  siti  istituzionali,  i
dati pubblicati possono continuare a circolare senza che  vi  sia  un
effettivo modo di impedirlo. 
    Il  sacrificio  imposto  ai  diritti  dei  singoli,  rilevano   i
ricorrenti, e' ulteriormente  aggravato  dalla  previsione  normativa
(art. 7-bis, comma 1, e 9, comma 1, decreto legislativo  n.  33/2013)
per  cui  nessun  filtro  o  artifizio  puo'  essere  adottato  dalle
amministrazioni  cui  compete  la  pubblicazione  online   dei   dati
affinche' l'accesso ai documenti venga, anche con l'uso di  strumenti
informatizzati, in qualunque modo discriminato e gli stessi documenti
siano resi non consultabili dai c.d. motori di ricerca, con l'effetto
di  rendere   immediatamente   e   automaticamente   indicizzate   le
informazioni  e  i  dati  personali  riferiti  ai   ricorrenti   (ed,
eventualmente, ai loro familiari), o comunque a  essi  riconducibili,
da parte dei motori di ricerca internet, quali Google, che  amplifica
a  dismisura  la  conoscibilita'  dei  documenti  pubblicati  online,
producendo un'irragionevole espansione del novero  dei  fruitori  dei
dati  al  di  la'  di  qualunque  criterio  limitativo  temporale   o
geografico,   e   prestandosi    alla    disseminazione    di    dati
decontestualizzati e  parziali,  idonei  a  fornire  rappresentazioni
erronee e fuorvianti della personalita'  degli  interessati  e  delle
informazioni a essi riferibili, anche nei confronti di  soggetti  non
interessati ai profili di  trasparenza  amministrativa,  che  possono
casualmente imbattersi, usando quale chiave di ricerca il  nominativo
personale, nell'insieme delle informazioni in parola. 
    In altre parole, per i ricorrenti, la sproporzione della misura e
la gravita' dell'interferenza nella vita  privata  degli  interessati
risiede anche nella sconfinata platea dei soggetti  che,  tramite  la
prevista diffusione in internet dei documenti e dei  dati  richiesti,
e'  in  condizione  di  accedere  alla  mole  di  informazioni  sopra
descritte, peraltro con estrema facilita', essendo  le  stesse,  come
detto,  a  portata  di  «click»  grazie  alla  mera  digitazione  dei
nominativi degli interessati nei comuni motori di ricerca. 
    I ricorrenti invocano altre determinazioni inerenti la necessita'
del rispetto, nella regolazione della trasparenza, del  principio  di
proporzionalita' di derivazione europea,  che,  negando  l'automatica
prevalenza dell'obiettivo di trasparenza sul diritto alla  protezione
dei dati personali, depongono per  la  sua  violazione  nel  caso  di
specie (Anac, Atto di segnalazione n. 1 del 2 marzo 2016, relativo al
decreto legislativo di cui all'art. 7 della legge n.  124  del  2015,
approvato dal Consiglio dei ministri il 20  gennaio  2016;  Corte  di
giustizia  dell'Unione  europea,  decisione  del  20   maggio   2003,
Österreichischer Rundfunk, C-465/00,  C-138/01  e  C-139/01  riunite;
Corte  di  giustizia  dell'U.E.,  Grande  Sezione,  decisione  del  9
novembre 2010, C-92/09 e 93/09 riunite). 
    Nel proprio percorso argomentativo  i  ricorrenti  richiamano  il
parere  del  Gruppo  delle  Autorita'  di  protezione  dati  europee,
previsto dall'art. 29 della direttiva 95/46/CE, organismo  consultivo
e  indipendente,  composto  dai  rappresentanti  delle  Autorita'  di
protezione dei dati di ciascuno Stato  membro,  dal  Garante  europeo
della protezione dei dati e da un  rappresentante  della  Commissione
europea, reso in relazione alla pubblicazione di dati  personali  per
scopi di trasparenza nel settore  pubblico,  Opinion  2/2016  on  the
publication of Personal Data for Transparency purposes in the  Public
Sector, WP 239. 
    Tale parere, in applicazione dei principi  sin  qui  riferiti  in
tema di misure relative  a  conflitti  di  interesse  e  trasparenza,
richiamata  l'attenzione  degli  Stati  membri  sulla  necessita'  di
definire criteri oggettivi e pertinenti nello stabilire quali dati di
quali soggetti debbano essere sottoposti  a  trattamento,  ovvero  di
adottare un approccio selettivo al trattamento di dati personali, nel
quale  rilevano  anche  le  distinzioni  basate  «sulla  collocazione
gerarchica e sul potere decisionale con  riguardo  a  politici,  alti
dirigenti o figure  pubbliche  che  occupino  posizioni  associate  a
responsabilita' di natura politica, rispetto a soggetti che rivestono
qualifiche gestionali nel settore pubblico, quali gli  amministratori
o i  dirigenti,  che  non  occupano  cariche  elettive  ma  rivestono
qualifiche  di  natura  gestionale-amministrativa,  e   ai   soggetti
operanti nel  settore  pubblico  privi  di  autonome  responsabilita'
decisionali», e sulla  necessita'  di  rispettare  il  principio  (di
minimizzazione) per  cui  «il  trattamento  di  dati  personali  deve
corrispondere al minimo necessario per il raggiungimento dello  scopo
perseguito (l'individuazione e la punizione di eventuali conflitti di
interesse)», ha concluso che nel caso di «norme nazionali in  materia
di  trasparenza»,  che  prevedano   «la   pubblicazione   online   di
informazioni relative ai redditi individuali e ai compensi  percepiti
da   soggetti   che   rivestono   qualifiche   di   livello   elevato
nell'amministrazione (ad esempio, dirigenti generali)»  sarebbe,  nel
rispetto del  principio  di  minimizzazione  «sufficiente  pubblicare
l'importo complessivo dei compensi relativi ai soggetti in questione.
Viceversa, sara' difficilmente proporzionata la pubblicazione di dati
quali il codice o identificativo fiscale, relazioni  finanziarie  per
esteso, informazioni dettagliate ricavate da denunce  dei  redditi  o
dai cedolini stipendiali, informazioni bancarie o indirizzi  privati,
numeri  di  telefono  personali  o   account   personali   di   posta
elettronica»; 
    C - della violazione del  principio  di  finalita'  di  cui  agli
articoli 8 della Carta e  6,  par.  1,  lettera  b),  dir.  95/46/CE,
cardine della disciplina di protezione dei dati, secondo il  quale  i
dati personali possono essere «rilevati  per  finalita'  determinate,
esplicite  e  legittime,  e  successivamente  trattati  in  modo  non
incompatibile  con  tali  finalita'»,  ritenendosi  in  ricorso   che
l'avversata    norma     pieghi     le     informazioni     personali
(obbligatoriamente) conferite dagli  interessati  all'amministrazione
finanziaria in adempimento dei  doveri  fiscali  (nella  forma  della
dichiarazione dei redditi) al perseguimento di una finalita'  diversa
e incompatibile rispetto a quella che ne ha giustificato l'originaria
raccolta. 
    Anche  per  tale  profilo,   sottolineata   l'estraneita'   delle
finalita'  fiscali  alle  finalita'  di  trasparenza,  i   ricorrenti
invocano  le  conclusioni  assunte  dal  Gruppo  delle  Autorita'  di
protezione dati europee, parere n. 03/2013, che evidenziano il  nesso
che deve  sussistere  tra  gli  scopi  per  cui  i  dati  sono  stati
originariamente raccolti e le  finalita'  dell'ulteriore  trattamento
previsto, il  contesto  in  cui  questi  sono  stati  raccolti  e  le
ragionevoli aspettative degli interessati per quanto riguarda il loro
ulteriore  utilizzo,  la  natura  dei  dati  trattati,  le  possibili
conseguenze dell'ulteriore trattamento sulle persone interessate,  le
eventuali garanzie previste per evitare un  impatto  eccessivo  sulle
persone interessate. 
    D - della violazione del principio di pertinenza e non  eccedenza
nel trattamento dei dati personali con riferimento  al  principio  di
ragionevolezza. 
    I ricorrenti sostengono che non vi sia alcuna ragionevolezza  nel
diffondere i compensi di un dirigente, cosi' come ritengono priva  di
qualunque logica la pubblicazione del numero di fabbricati  posseduti
senza ulteriore specificazione che non  la  citta'  in  cui  essi  si
trovano, elementi che ritengono suscettibili,  di  per  se,  di  dare
adito alle piu' varie congetture. 
    2) Violazione di legge per  violazione  dell'art.  117,  comma  1
della  Costituzione   e   violazione   del   rispetto   dei   vincoli
internazionali e comunitari. 
    Con il secondo  motivo  di  ricorso  i  ricorrenti  lamentano  la
violazione da parte delle norme in parola  dell'art.  117,  comma  1,
della Costituzione, sotto il profilo della violazione dei principi di
pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati,  degli  obblighi
di esattezza, di aggiornamento e di limitata conservazione dei  dati,
fissati dalla normativa internazionale e comunitaria sopra illustrata
e direttamente operanti nell'ordinamento nazionale,  con  conseguente
illegittimita' anche costituzionale delle stesse. 
    3)  Violazione  di  legge  per  violazione  dell'art.   3   della
Costituzione, del principio di uguaglianza, dell'art. 13 Costituzione
(liberta' personale). 
    Per  il  terzo  motivo,  l'art.  14,  comma  1-bis,  del  decreto
legislativo 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede  che  ai
dirigenti delle pubbliche amministrazioni si  applichino  gli  stessi
obblighi di pubblicita' e di trasparenza dei  titolari  di  incarichi
politici di cui di cui all'art. 14, comma  1,  lettere  c)  ed  f)  -
sancendo  il  medesimo  obbligo   di   pubblicazione   online   della
dichiarazione  dei  redditi  e  della   dichiarazione   dello   stato
patrimoniale (come possesso di beni  immobili  o  mobili  registrati,
azioni, obbligazioni o quote  societarie)  nonche'  dei  compensi  di
qualsiasi natura connessi all'assunzione della  carica  (ivi  inclusi
gli importi di  viaggi  di  servizio  e  missioni  pagati  con  fondi
pubblici) - si pone in contrasto  con  il  principio  di  eguaglianza
formale di cui all'art. 3, comma 1, Cost., avendo parificato in  modo
irragionevole, illogico, irrazionale e  arbitrario  situazioni  molto
diverse fra loro (trasparenza delle cariche politiche  e  trasparenza
degli incarichi amministrativi), senza distinguerne la portata  degli
obblighi di pubblicita' online in ragione, in particolare, del  grado
di esposizione  dell'incarico  pubblico  al  rischio  di  corruzione,
dell'ambito di  esercizio  della  relativa  azione  o  delle  risorse
pubbliche assegnate della cui gestione il soggetto interessato  debba
quindi  rispondere,  nonche'   delle   ragionevoli   aspettative   di
riservatezza dei dipendenti pubblici coinvolti. 
    I ricorrenti richiamano, al riguardo, la  gia'  citata  decisione
della Corte costituzionale francese (n. 2013-675  DC  del  9  ottobre
2013), che ha ritenuto sproporzionata la  pubblicazione  dello  stato
reddituale e patrimoniale  di  soggetti  che  non  ricoprono  cariche
elettive   ma   che   esercitano   incarichi   implicanti    soltanto
responsabilita' di natura amministrativa. 
    I  ricorrenti  denunziano  la   violazione   del   principio   di
eguaglianza anche  tramite  l'utilizzo  della  tecnica  del  «tertium
comparationis», ovvero in relazione al fatto che le contestate misure
siano state previste per i dirigenti pubblici e parapubblici,  e  non
per altre categorie  di  lavoratori  e  settori  aventi  le  medesime
caratteristiche,   nonche'    per    altre    figure    professionali
dell'amministrazione. 
    I ricorrenti ritengono le impugnate disposizioni  in  materia  di
trasparenza irragionevoli e  irrazionali,  dunque  viziate  sotto  il
profilo dell'eccesso di potere, per l'evidente sproporzione dei mezzi
utilizzati per raggiungere le finalita'  di  trasparenza  volute  dal
legislatore,  con  effetti  in  larga  parte  disfunzionali  rispetto
all'esigenza di consentire quelle  forme  diffuse  di  controllo  sul
perseguimento delle  funzioni  istituzionali  e  sull'utilizzo  delle
risorse pubbliche di cui al decreto legislativo n. 33/2013, finalita'
che assumono poter essere assicurata  dalla  mera  indicazione  delle
fasce stipendiali, eventualmente anche per  qualifiche  non  comprese
nella normativa di cui trattasi. 
    I  ricorrenti  sostengono  infine  che  detta  nuova   situazione
giuridica:  e'  stata  imposta  ai  dirigenti  per   legge,   mutando
unilateralmente le  condizioni  anche  contrattuali  previgenti,  con
effetti diretti e negativi su aspetti fondamentali della  vita  degli
interessati, legati al riconosciuto diritto alla riservatezza e  alla
dignita' personale; che lo strumento previsto  e'  irragionevole,  in
quanto  la  pubblicazione   della   dichiarazione   dei   redditi   o
l'indicazione  dei  beni  immobili   non   necessariamente   lasciano
trasparire condotte  illecite,  e  considerato  che  gli  episodi  di
corruzione vedono spesso coinvolte anche  figure  diverse  da  quelle
dirigenziali,  non  assoggettate  ai  menzionati  obblighi;  che  gli
obblighi in parola sono stati introdotti con riferimento ai congiunti
delle figure dirigenziali (coniuge non separato e  parenti  entro  il
secondo grado), che vengono assoggettati dalle disposizioni citate ai
medesimi obblighi di pubblicazione, e che  la  prevista  possibilita'
per il familiare di negare il consenso alla pubblicazione  e'  misura
insufficiente  a  impedire  un  implicito  giudizio  negativo   sulla
determinazione, atteso che si prevede che il  rifiuto  del  congiunto
sia pubblicato sul sito dell'amministrazione. 
    4) Violazione di legge per  violazione  degli  articoli  2  e  13
Costituzione, della liberta' e sicurezza personale, del principio  di
uguaglianza. 
    Con il quarto motivo i ricorrenti sostengono che le  disposizioni
in questione sono violative degli articoli 2 e 13 della  Costituzione
che garantiscono a chiunque di godere dei diritti  fondamentali,  ivi
compresi quelli alla sicurezza e alla liberta', beni che si ritengono
compromessi dalla conoscibilita' integrale e diffusa della situazione
reddituale e patrimoniale di una persona e della  sua  famiglia,  che
pone gli interessati in una posizione di sostanziale rischio  per  la
sicurezza individuale e perpetra ulteriormente  anche  la  violazione
del principio di uguaglianza. Tale rischio, soggiungono i ricorrenti,
e' stato evidenziato in analoghe fattispecie nel gia'  citato  parere
dell'8 giugno 2016 del Gruppo  delle  Autorita'  di  protezione  dati
europee nonche' nelle Linee guida recanti  indicazioni  operative  ai
fini della definizione delle  esclusioni  e  dei  limiti  all'accesso
civico di cui all'art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 33/2013
dell'ANAC (delibera n. 1309 del 28 dicembre 2016). 
    5) Con il quinto motivo, relativo alla  domanda  di  annullamento
delle  note  del  Segretario  generale  del  Garante,  i   ricorrenti
riconoscono che le stesse traggono  diretto  fondamento  dai  vigenti
obblighi normativi in materia di trasparenza  di  cui  si  chiede  la
disapplicazione, e che l'amministrazione ha  introdotto  temperamenti
alle  previsioni  normative,  ma   espongono   tuttavia   come   tali
temperamenti  non  elidano  il  grave  pregiudizio  discendente  agli
interessati dalla diffusione delle informazioni richieste. 
    Cio' in quanto la possibilita' di mascherare  gli  importi  delle
spese sanitarie del nucleo familiare  contenuti  nella  dichiarazione
dei redditi e posti in  detrazione  sarebbe  rimedio  vanificato  dal
confronto tra  l'importo  del  reddito  complessivo  con  il  reddito
imponibile (dati non mascherabili), per cui la presenza di spese  per
cure mediche, rivelatrice dello stato di salute degli  interessati  e
dei  familiari,  verrebbe  immediatamente  rilevata   anche   da   un
osservatore non specificamente interessato o,  circostanza  ben  piu'
preoccupante,  da  chi  avesse  interesse  e  sufficienti  mezzi  per
procedere al rilevamento automatizzato e massivo di  tali  situazioni
tramite la consultazione dei dati  diffusi  in  rete  anche  mediante
l'azione dei motori di ricerca. 
    6) Con il sesto motivo, dedicato alla  disapplicazione  dell'art.
14, comma 1-bis, in combinato disposto con il comma  1,  lettera  c),
decreto legislativo n. 33/2013, i ricorrenti assumono, oltre a quanto
rilevato in relazione all'art. 14, comma 1, lettera f), dello  stesso
decreto  legislativo,  che  l'indiscriminata  diffusione  presso   il
pubblico  dei  compensi,  con  le  modalita'  previste  dalla  legge,
peraltro indipendentemente da qualunque predefinizione di soglia,  e'
un'ingerenza nella vita privata  che  puo'  essere  giustificata,  ai
sensi dell'art. 8, n. 2, della CEDU (richiamata  dall'art.  52  della
Carta  dei  diritti  fondamentali),  solo   ove   tale   informazione
contribuisca  al  benessere  economico  del  paese  e  non  per  (pur
rilevanti) esigenze di trasparenza amministrativa. Nel caso di specie
si tratterebbe, invece, di un mero interesse del  pubblico  a  essere
informato, e la misura sarebbe, in ogni caso, sproporzionata rispetto
al diritto alla vita privata e  familiare  nonche'  al  diritto  alla
protezione dei dati personali degli interessati. 
    I ricorrenti ribadiscono  come,  del  resto,  in  conformita'  al
principio di proporzionalita', l'obiettivo perseguito dalle norme  in
esame ben  potrebbe  essere  realizzato  utilizzando  modalita'  meno
invasive  (quali,  a  esempio,  la   diffusione   di   dati   coperti
dall'anonimato,  la   pubblicazione   di   tabelle   reddituali,   la
pubblicazione in forma nominativa di informazioni secondo  scaglioni,
come previsto in taluni ordinamenti europei). 
    Infine, i ricorrenti ritengono  la  normativa  nazionale  de  qua
incompatibile con l'art. 6, n. 1, lettere b) e c), della direttiva n.
95/46 e non legittimata ai sensi dell'art. 7, lettere  c)  o  e),  di
quest'ultima, poiche' essa rappresenta un'ingerenza non  giustificata
alla luce dell'art. 8, n.  2,  della  CEDU,  nonche'  sproporzionata,
atteso che l'ordinario controllo contabile, integrato da un regime di
pubblicita' dei redditi rispettoso dei diritti dei  singoli,  sarebbe
sufficiente  per  garantire  l'impiego  parsimonioso  delle   finanze
pubbliche. 
    Esaurita l'illustrazione delle illegittimita' rilevate  a  carico
degli  atti  gravati,  i  ricorrenti,  come   detto,   domandano   la
disapplicazione delle menzionate disposizioni  di  cui  all'art.  14,
decreto legislativo n. 33/2013, con il conseguente annullamento degli
atti gravati, e, in subordine, che il Tribunale  adito  rimetta  alla
Corte di giustizia dell'Unione  europea  le  questioni  pregiudiziali
analiticamente formulate in ricorso,  ai  sensi  dell'art.  267  TUE,
ovvero sollevi innanzi alla  Corte  costituzionale  la  questione  di
legittimita' dell'art. 14, comma 1-bis in combinato disposto  con  il
comma 1, lettere c)  ed  f),  decreto  legislativo  n.  33/2013,  per
violazione degli articoli  2,  3,  11,  13  e  117,  comma  1,  della
Costituzione. 
    2. Si sono costituiti in resistenza il Garante per la  protezione
dei dati personali  e  la  Presidenza  del  Consiglio  dei  ministri,
eccependo in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione dell'adito
Tar in favore del giudice  ordinario,  ai  sensi  dell'art.  152  del
decreto legislativo 30 giugno  2003,  n.  196,  e  l'inammissibilita'
dell'impugnativa, rivolta avverso atti non costituenti  provvedimenti
amministrativi e in quanto tali privi di autonoma lesivita'. 
    Nel  merito,  la  difesa  erariale   sostiene   la   legittimita'
dell'azione  amministrativa  posta  in  essere  dal   Garante,   che,
esercitati i suoi compiti consultivi e non vincolanti  nei  confronti
del legislatore evidenziando alcune limitate criticita'  della  bozza
di disposizione di cui si discute, ed entrata in vigore la  norma  di
legge nella formulazione  in  parola,  non  poteva  che  adottare  le
iniziative finalizzate a darvi attuazione, e illustra l'insussistenza
nella  fattispecie  dei  peculiari  presupposti   individuati   dalla
giurisprudenza  che  legittimano  il   ricorso   al   rimedio   della
disapplicazione   della   normativa   nazionale:   difetterebbe,   in
particolare, l'elemento di assoluta certezza  del  contrasto  tra  la
norma interna e gli invocati principi del diritto UE. 
    L'amministrazione resistente evidenzia con  varie  argomentazioni
come l'applicazione delle contestate misure di trasparenza, in chiave
di  prevenzione  di  fenomeni  corruttivi,   appare   particolarmente
indicata e rispettosa del parere del Garante,  concludendo  pertanto,
in ogni caso, per la reiezione del gravame. 
    3. Con ordinanza 2 marzo 2017, n. 1030, la domanda di sospensione
interinale  dell'esecuzione  degli  atti   gravati,   incidentalmente
formulata in ricorso, e' stata accolta. 
    4. Si e' costituito in giudizio  ad  opponendum,  il  Codacons  -
Coordinamento  delle  associazioni   e   dei   comitati   di   tutela
dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori. 
    L'interveniente,  illustrati  la  sua  legittimazione  e  il  suo
interesse  a  spiegare  intervento  nel  giudizio  di  cui  trattasi,
sostiene la legittimita'  dei  gravati  provvedimenti,  attuativi  di
disposizioni  normative  a  tutela   della   trasparenza   dell'agire
amministrativo che ritiene parimenti legittime,  tenuto  conto  delle
facolta' dei cittadini in cui il  principio  della  trasparenza  deve
necessariamente declinarsi al fine del raggiungimento delle  connesse
finalita' pubblicistiche volte a favorire il  controllo  diffuso  sul
perseguimento delle  funzioni  istituzionali  e  sull'utilizzo  delle
risorse pubbliche. 
    Il Codacons rileva in particolare come l'estensione ai  dirigenti
pubblici degli obblighi di trasparenza prescritti inizialmente solo a
carico dei titolari di incarichi politici fosse gia'  stata  prevista
dall'Anac  (delibera  n.  144/2014)  mediante   una   interpretazione
costituzionalmente  orientata,  e  anzi  imposta,  dell'art.  14  del
decreto  legislativo  n.  33/2013,  alla  luce   del   principio   di
ragionevolezza  e  non  discriminazione  di  cui  all'art.  3  Cost.,
trattandosi in entrambi i casi di categorie titolari  di  poteri,  di
natura politica o amministrativa, di indirizzo o  di  gestione  e  di
amministrazione attiva, esposte piu' di altre al concreto  e  attuale
pericolo di corruzione, con la  conseguente  esigenza  di  garantire,
mediante la pubblicazione di dati anche reddituali e patrimoniali, la
trasparenza del loro esercizio, mediante una  prescrizione  normativa
che si inserisce, quale naturale evoluzione legislativa connessa alla
trasformazione e all'accrescimento del ruolo e della  responsabilita'
della dirigenza operatosi nel tempo,  in  un  coacervo  di  specifici
obblighi gia' incombenti sui  dirigenti  (art.  13  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 62/2013). 
    Per il Codacons, che  conclude  per  il  rigetto  del  gravame  e
richiama, quanto alla ragionevolezza e coerenza dell'attuale  assetto
normativo, le Linee guida Anac n. 241/2014, sarebbe, in sostanza,  la
sottrazione dei dirigenti all'obbligo di trasparenza di cui  all'art.
14, decreto legislativo n. 33/2013, a dar luogo a una irragionevole e
incostituzionale disparita' di trattamento. 
    5. Nel prosieguo, le parti costituite hanno affidato a memorie lo
sviluppo delle proprie tesi difensive. 
    5.1. La difesa erariale, ribadite le eccezioni pregiudiziali gia'
spiegate, e riferito  che,  l'Anac,  con  delibera  n.  382/2017,  ha
sospeso l'efficacia della  precedente  delibera  n.  241/2017,  Linee
guida per l'attuazione del ridetto art. 14, limitatamente alla  parte
inerente l'applicazione del relativo comma 1, lettere c) e f)  per  i
dirigenti  pubblici,  in  dichiarata  attesa  della  definizione  del
presente giudizio o di un intervento chiarificatore del  legislatore,
rileva  l'inconferenza  dell'assunto  secondo  cui  l'estensione   di
obblighi preesistenti e vigenti nell'ordinamento nazionale  da  oltre
tre anni a una nuova categoria di soggetti possa ridondare,  ora,  in
violazione di un apparato di norme europee e nazionali,  determinando
lesioni di diritti e liberta' individuali di valore assoluto. 
    La difesa erariale rileva, piu' in dettaglio,  l'insostenibilita'
della tesi,  cui  ritiene  informato  il  gravame,  secondo  cui  gli
obblighi di pubblicazione di  cui  all'art.  14,  lettere  c)  e  f),
decreto legislativo n. 33/2013, sarebbero legittimi  in  relazione  a
determinate categorie di soggetti (titolari di incarichi politici)  e
illegittimi in relazione ad altra categoria  (titolari  di  incarichi
dirigenziali), sia in quanto, evidentemente, il  vizio  non  concerne
l'obbligo di pubblicazione ex se, sia perche'  basata  esclusivamente
su orientamenti giurisprudenziali formatisi in base a valutazioni  di
proporzionalita' e ragionevolezza di norme appartenenti a ordinamenti
stranieri,  cio'  che   implica   l'apprezzamento   delle   modalita'
complessive con cui  gli  stessi  hanno  regolato  la  materia  della
trasparenza  e  dell'accesso,  che   non   permette   di   effettuare
comparativamente   una   diretta   utilizzazione    delle    relative
conclusioni. 
    La  difesa  erariale  evidenzia  ancora  come  tutte   le   norme
sovranazionali richiamate dalla parte ricorrente rimettano sempre  al
legislatore nazionale, come e' naturale che sia, la ponderazione  dei
diversi  interessi  in  gioco  (interesse  pubblico   generale   alla
trasparenza, da una parte, e interesse  personale  alla  riservatezza
del singolo, dall'altra) e  come,  quindi,  i  principi  invocati  di
proporzionalita', pertinenza, non  eccedenza,  finalita',  non  siano
altro che strumenti in base ai quali effettuare una ponderazione, che
sconta i differenti caratteri e  la  diversa  portata  dell'interesse
pubblico generale che si intende tutelare  attraverso  il  regime  di
trasparenza, e che puo' avere una configurazione diversa,  a  seconda
del sistema nazionale considerato. 
    In altre parole, la difesa erariale evidenzia  la  necessita'  di
distinguere, nella valutazione di come i  predetti  principi  possano
essere  legittimamente  calati  nei  vari  ordinamenti,  tra  sistemi
nazionali in cui  l'accesso  agli  atti  dati  e  informazioni  delle
pubbliche amministrazioni (secondo il paradigma statunitense «Freedom
of information act - Foia»), e' sempre stato generalizzato, e'  ormai
cristallizzato e funziona bene, in cui il sistema di giustizia (o  di
rimedi stragiudiziali) opera in modo tempestivo ed efficiente, i casi
di conflitti di interessi e di corruzione non  sono  numerosi  (o  e'
comunque prevista una specifica disciplina normativa al riguardo),  e
sistemi in cui, diversamente, l'accesso e' sempre stato qualificato e
ristretto o magari non garantisce adeguati standard di  tempestivita'
ed efficienza, i casi di conflitti di interessi e di corruzione  sono
al di sopra della media  europea  e  internazionale  ovvero  esistono
discipline deboli sulla trasparenza e sul conflitto di interessi. 
    E, per l'amministrazione, collocandosi l'Italia in questa seconda
categoria, alla  luce  delle  specifiche  pubblicazioni  nazionali  e
internazionali richiamati nella  memoria,  e'  in  siffatto  contesto
(«relativita'  intrinseca»)  che  va  valutata  la  proporzionalita',
pertinenza,  non  eccedenza,  finalita'  della   contestata   misura,
operazione che dimostra che la relativa ampiezza  e'  giustificata  e
rispettosa dei predetti criteri, anche tenendo conto  degli  studi  e
dei dati dell'OCSE in tema di gestione del conflitto di  interessi  e
di «asset disclosure» per i  funzionari  pubblici  (Government  at  a
Glance 2015; Survey on Managing Conflict of Interest in the Executive
Branch, 2014), che evidenziano,  a  livello  internazionale,  che  il
livello  di  divulgazione  degli  interessi  privati  dei  funzionari
pubblici,  in  media,  e'  strettamente  correlato   alla   posizione
dirigenziale, e che, in Italia, il  livello  di  divulgazione  per  i
dirigenti e' al di sotto della media OCSE, la cui  Recommendation  on
Public Integrity, del gennaio 2017, raccomanda ai paesi  aderenti  di
rafforzare le misure finalizzate a prevenire e gestire  conflitti  di
interesse attuali e potenziali. 
    L'amministrazione, poi, sostiene che i ricorrenti non chiariscono
le ragioni giuridiche per le quali l'obbligo di cui alla  lettera  c)
dell'art. 14, comma 1, decreto  legislativo  n.  33/2013  costituisca
violazione della tutela dei dati personali,  e  rileva  la  manifesta
contraddizione in cui a suo avviso  ricadrebbero  i  ricorrenti,  non
chiarendo perche'  tutti  gli  obblighi  di  pubblicazione  in  esame
sarebbero legittimi per i titolari di cariche politiche e illegittimi
per i dirigenti, anche di nomina politica. 
    Infine, la difesa erariale, in relazione ai dati patrimoniali  di
cui alla ridetta lettera f), illustra alcuni aspetti della disciplina
in parola, illustrandone la funzione equilibratrice tra gli interessi
in gioco [oscuramento di tutti i dati  sensibili;  pubblicazione  del
solo quadro riassuntivo della dichiarazione dei redditi,  riassuntivo
del  dato  patrimoniale  generale,  senza   elementi   analitici   di
dettaglio; previsione del consenso del familiare per la pubblicazione
dei dati che lo riguardano; proporzionalita' della misura,  sotto  il
profilo della  prevista  contrazione  dei  dati  da  pubblicare,  non
comprendenti quelli di cui alla  lettera  f),  per  i  dirigenti  dei
comuni sotto i  15.000  abitanti,  art.  3,  comma  1-ter,  e  per  i
dirigenti scolastici, Linee guida ANAC, p.11]. 
    5.2. Il Codacons eccepisce il difetto di giurisdizione dell'adito
Tribunale e l'inammissibilita' del  ricorso,  stante  la  natura  non
provvedimentale degli atti gravati, sulla scorta di  motivazioni  non
dissimili di quelle a suo tempo svolte dalla  difesa  erariale  nelle
analoghe  eccezioni,  nonche'  l'improcedibilita'  del  ricorso   per
mancata impugnazione della delibera dell'Anac di  approvazione  delle
Linee  guida  attuative  dell'art.  14  del  decreto  legislativo  n.
33/2013, pubblicate in pendenza della controversia (24 marzo 2017). 
    Nel merito, il Codacons, premesso, come gia' la difesa  erariale,
che il ricorso e' contraddittorio, nella misura in cui  i  ricorrenti
contestano non la legittimita' dell'obbligo di pubblicazione  in  se,
bensi' esclusivamente  la  sua  applicazione  ai  dirigenti,  confuta
analiticamente, con  varie  argomentazioni,  le  censure  ricorsuali,
sostenendo la compatibilita' e, anzi,  la  necessita'  della  misura,
nonche' la sua  ragionevolezza  e  proporzionalita',  alla  luce  del
diritto dell'UE e della Costituzione. 
    5.3. I ricorrenti eccepiscono l'inammissibilita'  dell'intervento
del Codacons e confutano  le  questioni  pregiudiziali  e  di  merito
introdotte dalle parti resistenti. 
    5.4. La difesa erariale, in replica, fa  propria  l'eccezione  di
improcedibilita' del ricorso per mancata impugnazione della  delibera
dell'Anac  di   approvazione   delle   Linee   guida,   gia'   svolta
dall'interveniente ad opponendum. 
    5.5. La  controversia  e'  stata  trattenuta  in  decisione  alla
pubblica udienza del 13 giugno 2017. 
    6. Va prioritariamente affrontata,  com'e'  d'uopo,  la  disamina
delle questioni pregiudiziali. 
    7.  Viene  in  immediato  rilievo  la   questione   inerente   la
giurisdizione dell'adito Tribunale sulla controversia  in  esame.  Il
Collegio  la   ritiene   sussistente,   in   forza   delle   seguenti
considerazioni. 
    7.1. L'art. 152 del decreto legislativo 30 giugno 2003,  n.  196,
Codice in materia di protezione dei dati personali, dispone al  comma
1 che «Tutte le controversie che riguardano, comunque, l'applicazione
delle disposizioni del presente codice, comprese quelle  inerenti  ai
provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali
o alla  loro  mancata  adozione,  nonche'  le  controversie  previste
dall'art. 10, comma  5,  della  legge  1°  aprile  1981,  n.  121,  e
successive modificazioni, sono attribuite  all'autorita'  giudiziaria
ordinaria». 
    Il giudice amministrativo ha ritenuto  non  conforme  al  dettato
costituzionale  una  lettura  dell'art.   152,   comma   1,   decreto
legislativo  n.  196/2003,  nel  senso  della  introduzione  di   una
giurisdizione esclusiva nei riguardi  del  giudice  ordinario  estesa
agli interessi legittimi. Tale disposizione,  si  e'  sostenuto,  non
persegue  la  finalita'  di  fondare  la  giurisdizione  sulla   sola
individuazione del soggetto pubblico  coinvolto  nella  controversia,
bensi' quella di chiarire come i provvedimenti  del  Garante  per  la
protezione dei dati personali, riguardanti  la  protezione  di  detti
dati, in quanto incidenti su diritti  soggettivi  dei  privati,  sono
soggetti al sindacato dell'autorita' giudiziaria ordinaria secondo le
particolari  regole  di  procedura  dettate  dai   successivi   comma
contenuti    nel    medesimo    articolo,    con    la    conseguente
indispensabilita', ai fini dell'operativita' della  disposizione,  e,
indi, sulla individuazione del plesso giurisdizionale competente  per
la disamina di una controversia  afferente  la  protezione  dei  dati
personali, dell'apprezzamento della  concreta  situazione  soggettiva
azionata in giudizio, secondo  il  tradizionale  paradigma  interesse
legittimo/diritto soggettivo (C. Stato,  VI,  3  settembre  2009,  n.
5198, confermativa della sentenza del TAR Lazio, Roma, II, 23 gennaio
2009, n. 587). 
    La tesi non ha superato il vaglio  di  legittimita'  del  giudice
della  giurisdizione,  che,  nel  pronunziarsi  sulla  questione,  ha
rilevato, per un verso, la  piana  lettura  e  la  altrettanto  piana
interpretazione della disposizione, «la cui  cristallina  espressione
letterale (rara avis) non lascia margini  a  dubbi  circa  l'intentio
legis di attribuire l'intera materia alla cognizione dell'AGO,  senza
eccezioni di sorta» e, in particolare, senza che a  cio'  risulti  di
ostacolo, come ritenuto dal giudice amministrativo, l'art. 103 Cost.,
stante l'evoluzione interpretativa di cui la norma costituzionale  e'
stata oggetto a partire da Cass. SS.UU. 3521/1994. 
    Nel giungere alle predette conclusioni,  le  SS.UU.  hanno  anche
osservato come l'art.  152,  comma  1,  del  decreto  legislativo  n.
196/2003 risulti, nel merito, perfettamente ragionevole, «poiche'  la
materia dell'accesso ai dati personali e dei costi  di  esercizio  di
tale diritto presenta  una  indiscutibile,  reciproca,  inestricabile
interferenza di diritti e interessi legittimi, nella quale, peraltro,
netta appare la prevalenza dei primi  rispetto  ai  secondi»  (Cass.,
SS.UU. 14 aprile 2011, n. 8487). 
    Alla luce  della  appena  richiamata  giurisprudenza,  non  puo',
pertanto, porsi alcun dubbio sul fatto che: 
        a) tutte le  controversie  afferenti  alla  «intera  materia»
dell'accesso ai dati personali, per richiamare le parole della Corte,
sono soggette alla giurisdizione del giudice ordinario; 
        b) per esse, non e'  necessaria  alcuna  distinzione  fondata
sulla posizione soggettiva azionata in giudizio. 
    Cio' posto, occorre  osservare  che  nel  giudizio  in  esame  si
discute non dell'applicazione di norme del decreto legislativo n. 196
del 2003  -  i  cui  articoli  non  risultano  neanche  invocati  dai
ricorrenti quale parametro  di  legittimita'  violato  dalle  gravate
disposizioni  -  o  di  provvedimenti  del  Garante  in  materia   di
protezione dei dati personali o  loro  mancata  adozione,  bensi'  di
questioni e provvedimenti che afferiscono alle norme  in  materia  di
trasparenza, di cui al decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33. 
    Viene, pertanto, in rilievo l'art. 50  -  Tutela  giurisdizionale
del predetto decreto legislativo n.  33/2013,  che  dispone  che  «Le
controversie relative agli obblighi  di  trasparenza  previsti  dalla
normativa vigente sono disciplinate dal decreto legislativo 2  luglio
2010,  n.  104»,  e,  per   l'effetto,   il   codice   del   processo
amministrativo ivi richiamato e, nel  suo  ambito,  l'art.  133,  che
indica al comma 1, lettera a), n. 6, tra le materie di  giurisdizione
esclusiva  attribuite  al  giudice  amministrativo,  «il  diritto  di
accesso ai documenti amministrativi e violazione  degli  obblighi  di
trasparenza amministrativa». 
    Di  tali  ultime  norme  l'amministrazione  resistente  offre  la
seguente lettura. 
    In particolare, la  difesa  erariale  sostiene  che,  poiche'  il
legislatore,  nel  decreto  legislativo  n.  33/2013,  art.  50,   si
riferisce alle controversie «relative agli obblighi di  trasparenza»,
mentre il c.p.a., art. 133, comma 1, lettera a), n.  6,  menziona  la
«violazione  degli  obblighi  di  trasparenza  amministrativa»,  tema
asseritamente meno ampio del primo, il rimando operato  dall'art.  50
va inteso in senso letterale e siccome  riferito  all'intero  c.p.a.,
con la conseguenza che, per la controversia in esame,  devono  essere
applicate  le  norme  del  codice  del  processo  amministrativo  sul
generale riparto  di  giurisdizione  (art.  7:  «sono  devolute  alla
giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali  si  faccia
questione  di  interessi  legittimi  e,  nelle  particolari   materie
indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti  l'esercizio
o  il  mancato  esercizio  del  potere  amministrativo,   riguardanti
provvedimenti, atti,  accordi  o  comportamenti  riconducibili  anche
mediatamente  all'esercizio  di  tale  potere,  posti  in  essere  da
pubbliche amministrazioni»), e valutata,  per  l'effetto,  la  natura
della situazione soggettiva azionata in  giudizio,  secondo  la  gia'
citata ripartizione interessi legittimi/diritti  soggettivi,  con  la
conclusione dell'attribuzione al giudice ordinario  della  cognizione
del giudizio, nell'ambito del quale la difesa erariale  non  rinviene
posizioni di interesse legittimo. 
    La tesi e' suggestiva ma non convince. 
    E' innanzitutto debole, sotto il profilo della semantica frasale,
e, indi, dell'interpretazione letterale, la differenziazione -  unico
elemento posto a base dell'eccezione - tra le  espressioni  «relative
agli obblighi di trasparenza» di cui all'art. 50, decreto legislativo
n.   33/2013   e   «violazione   degli   obblighi   di    trasparenza
amministrativa» di cui all'art. 133, comma  1,  lettera  a),  n.  6),
c.p.a. 
    Le due locuzioni rimandano, invero, nella parte  qualificante,  a
un  unico  tema,  che  e'  quello  degli  «obblighi  di   trasparenza
amministrativa», inequivocabilmente contenuto in entrambe, mentre  la
differenza  in  parola   e'   confinata   nell'alveo   delle   parole
introduttive del tema stesso («relative agli»;  «violazione  degli»),
e, indi, in posizione tale  che,  nell'economia  generale  delle  due
norme, non permette quell'apprezzamento della sua rilevanza nei sensi
richiesti dalla difesa erariale. 
    Anche sotto il profilo sostanziale, la ricostruzione in  commento
manifesta gravi criticita': se e' vero  infatti  che  la  «violazione
degli  obblighi»  e'  solo  una  delle  possibili  fattispecie  delle
questioni «relative agli obblighi», e' altresi' vero  che  l'indagine
sulla  «violazione  degli  obblighi»  comporta   necessariamente   la
disamina  delle  questioni  «relative  agli  obblighi»  (sussistenza,
estensione, ambito soggettivo e oggettivo, etc.) , di talche' e'  ben
arduo ipotizzare che la disamina della violazione dell'obbligo  possa
costituire una categoria a se stante, diversa quella dell'obbligo  in
se, tale da richiedere, o permettere, l'intervento  di  due  distinte
cognizioni giudiziali. 
    Sotto il profilo dell'interpretazione  sistematica,  inoltre,  e'
difficile  comprendere  come  il  legislatore  possa  aver   affidato
l'elemento dirimente di una questione cosi' rilevante, qual e' quella
del  riparto  di  giurisdizione  della  materia   della   trasparenza
amministrativa, sulla base non dell'individuazione dell'oggetto della
disciplina   da   regolare,   in   se   considerata,    per    giunta
incontrovertibilmente    delineata    («obblighi    di    trasparenza
amministrativa»), bensi' sulle modalita' con cui la stessa  e'  stata
richiamata. 
    Sul punto, puo' anche osservarsi come, per le altre  disposizioni
dell'art. 133, comma 1, c.p.a.  (che  si  ritiene  di  non  riportare
integralmente  per  mere  ragioni   di   economia   espositiva),   la
delimitazione   della    giurisdizione    esclusiva    del    giudice
amministrativo avvenga mediante la enucleazione di specifiche materie
[lettera a),  1):  «risarcimento  del  danno  ingiusto  cagionato  in
conseguenza  dell'inosservanza  dolosa  o  colposa  del  termine   di
conclusione  del  procedimento  amministrativo»;  lettera   a),   2):
«formazione, conclusione ed esecuzione degli  accordi  integrativi  o
sostitutivi di  provvedimento  amministrativo  e  degli  accordi  fra
pubbliche amministrazioni»], e, laddove  tale  criterio  non  risulti
esaustivo, con il richiamo di  porzioni  di  materie,  a  loro  volta
espressamente delimitate tramite eccezioni [lettera b): «controversie
aventi ad  oggetto  atti  e  provvedimenti  relativi  a  rapporti  di
concessione  di  beni  pubblici,  ad  eccezione  delle   controversie
concernenti  indennita',  canoni  ed  altri  corrispettivi  e  quelle
attribuite  ai  tribunali  delle  acque  pubbliche  e  al   Tribunale
superiore  delle  acque  pubbliche»],  esclusioni   [   lettera   c):
«controversie aventi ad  oggetto  atti  e  provvedimenti  relativi  a
rapporti  di  concessione  di  beni  pubblici,  ad  eccezione   delle
controversie concernenti indennita', canoni ed altri corrispettivi  e
quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e  al  Tribunale
superiore delle acque  pubbliche»],  «fermi  restando»  [lettera  f):
«controversie aventi ad oggetto gli  atti  e  i  provvedimenti  delle
pubbliche  amministrazioni  in  materia   urbanistica   e   edilizia,
concernente tutti  gli  aspetti  dell'uso  del  territorio,  e  ferme
restando  le  giurisdizioni  del  Tribunale  superiore  delle   acque
pubbliche e del Commissario liquidatore per gli usi  civici,  nonche'
del  giudice   ordinario   per   le   controversie   riguardanti   la
determinazione e la corresponsione delle  indennita'  in  conseguenza
dell'adozione di atti di natura espropriativa  o  ablativa»],  ovvero
mediante l'indicazione del settore di intervento,  indicato  mediante
l'autorita'  procedente  ovvero  lo  specifico   oggetto   dell'agire
pubblico [lettera l): «le controversie  aventi  ad  oggetto  tutti  i
provvedimenti,  compresi  quelli  sanzionatori  ed   esclusi   quelli
inerenti ai rapporti di impiego privatizzati,  adottati  dalla  Banca
d'Italia...»]. 
    L'apprezzamento della estensione  della  giurisdizione  esclusiva
affidata al giudice  amministrativo  dall'art.  133  del  codice  del
processo amministrativo non richiede,  pertanto,  di  norma,  che  la
verifica  dell'appartenenza  della  controversia  a  una  determinata
materia, settore, parti di essi o amministrazione. In cio', il c.p.a.
si rivela da un lato coerente con la  ratio  dell'attribuzione  della
giurisdizione esclusiva, che  esclude,  in  nuce,  la  necessita'  di
un'analisi, caso per caso,  di  quale  sia  l'interesse  azionato  in
giudizio (scrutinio che puo' invece riguardare,  ove  necessario,  la
disamina del merito del ricorso), dall'altro attuativo del  principio
di chiarezza della legislazione, come del resto gia' dimostra  l'art.
7 dello stesso codice sulla giurisdizione amministrativa generale. 
    Del resto, uno dei criteri  informatori  del  codice,  alla  luce
della legge delega 18 giugno 2009, n. 69, art. 44, comma  2,  lettera
b), n. 2), e' il riordino delle norme vigenti sulla giurisdizione del
giudice amministrativo anche rispetto alle altre  giurisdizioni,  con
l'evidente finalita' di eliminare la necessita'  di  distinguere  tra
diritti e interessi legittimi in determinate materie, nei  quali  gli
stessi si presentano inestricabilmente interferenti. 
    A  ben  vedere,  pertanto,  la  tesi   della   difesa   erariale,
comportando la necessita' di distinguere tra diritti e  interessi  ai
fini  della  individuazione  della  giurisdizione  in   una   materia
menzionata in sede di  regolazione  di  giurisdizione  esclusiva  del
g.a.,  risulta  disarmonica  non  solo  con  l'art.  50  del  decreto
legislativo n. 33/2013 e con l'art. 133 del c.p.a., ma  con  l'intero
impianto codicistico di cui al decreto legislativo n. 104/2010. 
    E allora non puo' che concludersi che, anche per gli «obblighi di
trasparenza», la menzione della materia tra quelle elencate  all'art.
133  c.p.a.  comporti  la   giurisdizione   esclusiva   del   giudice
amministrativo. 
    A tale conclusione non e'  di  ostacolo  l'art.  50  del  decreto
legislativo n.  33/2013,  che  per  le  controversie  «relative  agli
obblighi di trasparenza» - diversamente da quanto fa, come visto,  il
Codice in materia di protezione  dei  dati  personali  a  favore  del
giudice ordinario per  le  questioni  che  riguardano  l'applicazione
delle  norme  del  codice  stesso,  comprese   quelle   inerenti   ai
provvedimenti del Garante in materia di protezione dei dati personali
- non introduce un espresso rinvio alla giurisdizione  esclusiva  del
giudice amministrativo ne' si riferisce  direttamente  all'art.  133,
comma 1, lettera a),  n.  6  del  c.p.a.,  bensi'  richiama  l'intera
disciplina del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (c.p.a.). 
    Ogni possibile dubbio sul punto puo' infatti essere superato  sol
che si osservi che l'attuale formulazione  dell'art.  133,  comma  1,
lettera a), n.  6  del  c.p.a.  («sono  devolute  alla  giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo ... le controversie  in  materia
di ... diritto di accesso ai documenti  amministrativi  e  violazione
degli obblighi di trasparenza amministrativa»),  che  precedentemente
richiamava solo le controversie in materia di  accesso  ai  documenti
amministrativi, e' stata introdotta proprio dal  decreto  legislativo
n. 33/2013 (art. 52, comma 4, lettera e),  e  che,  come  gia'  sopra
rilevato, tra i criteri  ispiratori  del  c.p.a.  introdotto  con  il
decreto legislativo n. 104/2010, a mente della legge delega 18 giugno
2009, n. 69, art. 44, comma 2,  lettera  b),  punto  1,  si  rinviene
quello  di  conferire  unitarieta'  di   fonte   alle   norme   sulla
giurisdizione del giudice amministrativo. Di talche'  deve  ritenersi
che, nel novellare il c.p.a. per la  materia  della  trasparenza,  il
decreto legislativo  n.  33/2013  abbia  opportunamente  ritenuto  di
attenersi  ai  criteri  ispiratori  dello  stesso  c.p.a.,   anziche'
introdurre una isolata norma  sulla  giurisdizione,  che  si  sarebbe
posta  in  contrasto  con  il  nuovo   impianto   regolatorio   della
giurisdizione amministrativa. 
    Inoltre,  la  conclusione  assunta  armonizza   l'interpretazione
letterale, sistematica e teleologica  delle  norme  considerate,  non
incorrendo nelle difficolta'  interpretative  sopra  citate,  in  cui
incappa invece la  lettura  offerta  dalla  difesa  erariale,  ed  e'
rafforzata dalla circostanza che  la  materia  della  trasparenza  e'
stata accomunata, nella regolazione  della  giurisdizione,  da  parte
dell'alinea di cui al comma 1, lettera  a),  n.  6,  con  la  materia
dell'accesso agli  atti,  rimessa,  quale  categoria  autonoma,  alla
cognizione del giudice amministrativo. 
    Deve  ancora  rilevarsi  come  la  proposta  interpretazione   si
manifesti  conforme  ai   principi   generali   della   giurisdizione
amministrativa. 
    Invero, come piu' volte chiarito dalla giurisprudenza, e come ora
definitivamente  sancito  anche  dall'art.  7,   comma   1,   decreto
legislativo  n.  104/2010,   c.p.a.,   la   giurisdizione   esclusiva
presuppone tradizionalmente che l'oggetto della controversia abbia un
collegamento, sia pure  indiretto  o  mediato,  con  l'esercizio  del
potere pubblico (sentenze della Corte costituzionale n. 204 del  2004
e n. 191 del 2006; C. Stato, V, 31 gennaio 2017, n. 382; vedasi anche
in tal senso Cass., SS. UU., 4 settembre 2015, n. 17586). 
    E un  siffatto  collegamento  emerge  con  tutta  evidenza  nella
materia in trattazione, sol che si consideri  che  le  argomentazioni
addotte dalla parte resistente pubblica  sottolineano  come  il  tema
della regolazione  della  trasparenza  dell'attivita'  amministrativa
costituisca uno  degli  imprescindibili  riflessi  degli  ordinamenti
democratici. 
    Infine,   il   riconoscimento   dell'attribuzione   al    giudice
amministrativo, in via esclusiva, della materia della trasparenza non
stride con la riserva al giudice ordinario della materia dell'accesso
ai dati personali (art. 152, decreto legislativo n. 196 del 2003). 
    La  materia  della  trasparenza  si  colloca  infatti  sul  piano
dell'interesse pubblico che si intende tutelare attraverso il  regime
della pubblicita' dei dati, che e' profondamente diverso dal piano in
cui opera il codice in materia di protezione dei  dati  personali,  e
che si pone, al  piu',  laddove  siano  possibili  interferenze,  sia
logicamente che cronologicamente, a valle di ogni questione  inerente
gli  specifici  diritti  e  obblighi  relativi  all'accesso  ai  dati
personali. 
    La diversita' dei piani di cui  sopra  emerge  ictu  oculi  anche
dall'oggetto delle rispettive regolazioni, costituite, per il decreto
legislativo 30  giugno  2003,  n.  196,  dalla  protezione  dei  dati
personali, e per il decreto legislativo 14 marzo  2013,  n.  33,  dal
diritto  di  accesso  civico  e  dagli   obblighi   di   pubblicita',
trasparenza e diffusione di informazioni  da  parte  delle  pubbliche
amministrazioni. 
    Alla luce di tali ultime notazioni, deve anzi rilevarsi  come  le
due giurisdizioni esclusive, ordinaria in materia di  protezione  dei
dati personali, amministrativa in materia di trasparenza, rispecchino
perfettamente,  completandosi,  il  profilo  privatistico  e   quello
pubblicistico del piu' ampio tema  complessivamente  evidenziato  dai
due considerati ordinamenti di settore. 
    7.2. L'eccezione di carenza di giurisdizione dell'adito Tribunale
va, per tutto quanto sopra, respinta. 
    8. Occorre a questo  punto  individuare  le  parti  del  presente
giudizio,  e,  segnatamente,  esaminare  l'eccezione,  sollevata  dai
ricorrenti, di inammissibilita'  dell'intervento  ad  opponendum  del
Codacons. 
    Sul punto, in linea generale, puo' rammentarsi che le  condizioni
legittimanti gli interventi volontari  nel  giudizio  amministrativo,
allo stato regolato dagli articoli 28 e  50  del  c.p.a.,  consistono
tradizionalmente, per gli interventori ad adiuvandum,  nella  carenza
di  una   posizione   sostanziale   di   interesse   legittimo,   cui
conseguirebbe, anziche' la assunta posizione adesiva, la proposizione
di autonomo ricorso nei prescritti termini di  decadenza  (C.  Stato,
IV, 29 febbraio  2016,  n.  853;  VI,  6  settembre  2010,  n.  6483;
C.G.A.R.S., 2 maggio 2017, n. 205; si veda, comunque, C. Stato, VI, 3
marzo 2016, n. 882, che ammette, ai sensi della lettera dell'art.  28
del c.p.a., anche dopo la  scadenza  del  termine  di  decadenza,  un
intervento adesivo dipendente del cointeressato, almeno laddove  egli
sia destinatario di atti ad effetti non  frazionabili),  e,  per  gli
interventori  ad  opponendum,  nella  titolarita'  di  un   interesse
contrario a quello azionato dai deducenti, il quale  potrebbe  subire
pregiudizio dall'annullamento dell'atto impugnato (Tar  Lazio,  Roma,
I, 4 giugno 2007, n. 5149). 
    L'interveniente, ai sensi dell'art. 50,  comma  1,  c.p.a.,  deve
esporre la titolarita' di una situazione qualificata, la  quale,  per
quanto attiene all'intervento ad opponendum, di rilevanza  in  questa
sede, presuppone necessariamente un oggettivo e concreto interesse in
capo al terzo a contrastare il ricorso e a  conseguirne  il  rigetto,
interesse  che   puo'   essere   sia   analogo   a   quello   esposto
dall'amministrazione  resistente   o   dal   controinteressato   gia'
costituito in giudizio sia autonomamente correlato al mantenimento in
vita dell'atto gravato. 
    In altre parole, l'intervento ad opponendum, ai  fini  della  sua
ammissibilita', non puo' prescindere dalla rappresentazione da  parte
dell'interveniente della titolarita' di  una  situazione  soggettiva,
idonea ad attestare la ricaduta di effetti negativi a  suo  danno  in
caso di positivo  riscontro  dell'azione  di  annullamento  proposta,
adeguatamente supportata da elementi  concreti  e  oggettivi  atti  a
comprovare la sussistenza di un interesse che, seppure di mero fatto,
deve  palesarsi  come  specifico  e   differenziato   rispetto   alla
collettivita' (da ultimo, Tar Lazio, Roma, II-bis, 4 maggio 2017,  n.
5201). 
    Tanto chiarito, deve concludersi  che,  contrariamente  a  quanto
rappresentato dai ricorrenti, che  dubitano  che  il  Codacons  abbia
dimostrato  l'interesse  a  intervenire  in  giudizio,   tutte   tali
condizioni, nel caso di specie, risultano sussistenti. 
    Come  chiarito  dall'atto  di   intervento,   il   Codacons   «e'
un'associazione  di  volontariato  di  cui  alla  legge  n.  266/1991
autonoma, senza fini di lucro a base democratica e partecipativa  che
persegue esclusivamente obiettivi di solidarieta'  sociale»  (art.  1
dello Statuto). L'Associazione, come da disposizioni statutarie,  «ha
quale sua esclusiva finalita'  quella  di  tutelare  con  ogni  mezzo
legittimo, ivi compreso il  ricorso  allo  strumento  giudiziario,  i
diritti  e  gli  interessi  dei  consumatori  ed  utenti,   categoria
socialmente debole» (art. 2.2 Statuto) e a tal fine  «interviene  nei
giudizi civili, penali e amministrativi» (art. 2.3 Statuto). 
    Con l'intervento  in  esame,  il  Codacons  ha  azionato  il  suo
interesse ad agire al fine di «tutelare  il  miglior  utilizzo  delle
risorse pubbliche» perseguendo «ogni attivita'  illecita  finalizzata
alla corruzione e comunque alla violazione delle norme e dei principi
che  devono  informare   il   corretto   andamento   della   pubblica
amministrazione, anche per evitare che i cittadini debbano subire  il
sovrapprezzo  necessariamente  generato  dalle  condotte  corruttive»
(art. 2.1 dello Statuto), e a tutelare «il diritto alla  trasparenza,
alla  corretta  gestione  e  al  buon   andamento   delle   pubbliche
amministrazioni» (art. 2.1 Statuto). 
    Atteso l'oggetto dell'odierno giudizio e gli  interessi  e  scopi
perseguiti e qui dichiarati dall'Associazione,  deve  indi  ritenersi
sussistente la legittimazione e l'interesse ad agire del  Codacons  a
sostegno delle parti resistenti. 
    8.1. Con l'occasione, deve rilevarsi,  d'ufficio,  la  tardivita'
della memoria difensiva depositata  dal  Codacons  l'8  giugno  2017,
ovvero quando erano ormai scaduti i termini di cui all'art. 73, comma
1, c.p.a., da calcolarsi tenendo conto  della  data  dell'udienza  di
discussione (13 giugno 2017). 
    9. Occorre ora occuparsi delle  eccezioni,  formulate  sia  dalla
difesa erariale che dal Codacons, di  inammissibilita'  del  ricorso,
stante la  natura  non  provvedimentale  degli  atti  gravati,  e  di
improcedibilita' dello stesso, non  avendo  i  ricorrenti  provveduto
all'impugnazione della delibera dell'Anac 8 marzo 2017,  n.  241,  di
approvazione delle Linee guida attuative  dell'art.  14  del  decreto
legislativo n. 33/2013, pubblicata in pendenza della controversia (24
marzo 2017). 
    Entrambe le eccezioni vanno respinte. 
    9.1. Quanto alla prima, di inammissibilita', si osserva  che  gli
atti in parola  attuano  una  prescrizione  introdotta  dalla  legge,
ovvero ne concretizzano gli effetti, introducendo  le  previsioni  di
dettaglio  e  richiamando  le   sanzioni   previste   pel   caso   di
inadempimento, cio' che  evidenzia  che  il  meccanismo  obbligatorio
previsto dalla norma, lungi dall'essere  auto-applicativo,  necessita
dell'intermediazione  costituita  dal  provvedimento  della  pubblica
amministrazione, che, collocandosi nella fase esecutiva dell'obbligo,
manifesta il suo contenuto autoritativo e la sua portata lesiva.  Del
resto,  non  consta  che   la   natura   applicativa   di   un   atto
dell'amministrazione  possa  tradursi   in   carenza   di   contenuto
provvedimentale:  se  cosi'  fosse  ben  pochi  atti   amministrativi
sarebbero impugnabili, atteso che essi,  per  la  piu'  parte,  danno
concreta attuazione a previsioni di legge. 
    9.2. Quanto  alla  seconda  eccezione,  di  improcedibilita',  si
rammenta che l'individuazione della sopravvenuta carenza di interesse
deve essere effettuata con criteri rigorosi e restrittivi per evitare
che la  preclusione  dell'esame  del  merito  della  controversia  si
trasformi in un'inammissibile elusione dell'obbligo  del  giudice  di
provvedere sulla domanda, dovendosi, in particolare, ritenere che  (a
prescindere dalle ipotesi di sopravvenienze costituite  da  modifiche
normative  o  accadimenti  di  fatto)  solo  laddove  vi  sia   stata
l'adozione di provvedimenti sopravvenuti  ormai  non  piu'  utilmente
impugnabili, il giudice possa dichiarare la sopravvenuta  carenza  di
interesse, essendo ormai definitiva l'inconfigurabilita' di qualsiasi
possibile  utilita'  discendente  dalla  favorevole  definizione  nel
merito della controversia (da ultimo, C. Stato, III, 3 novembre 2016,
n. 4615; V, 8 aprile 2014, n. 1663; IV, 17 settembre 2013, n. 4637). 
    Applicando tali coordinate ermeneutiche al  caso  di  specie,  la
favorevole valutazione dell'eccezione non potrebbe indi che  fondarsi
sull'accertamento della natura vincolante  delle  sopravvenute  Linee
guida Anac 8 marzo 2017,  n.  241:  solo  in  tal  caso,  infatti,  i
ricorrenti  potrebbero   ritenersi   sforniti   di   interesse   alla
coltivazione dell'impugnazione degli atti  gravati  con  il  ricorso,
atteso che, anche nel caso di una favorevole delibazione del gravame,
con conseguente annullamento  degli  stessi,  i  contestati  obblighi
troverebbero comunque fonte nelle predette  Linee  guida,  non  fatte
oggetto di impugnazione. 
    Ma un siffatto accertamento e' escluso dal parere  del  Consiglio
di Stato, Commissione speciale, n. 1257  del  29  maggio  2017,  reso
nell'adunanza del 20 aprile 2017, in ordine  a  uno  schema  di  atto
assunto dall'Anac sempre in materia di trasparenza,  la  delibera  di
«Aggiornamento delle Linee guida per l'attuazione della normativa  in
materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte  delle
societa' e degli enti di diritto privato  controllati  e  partecipati
dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici». 
    In tale parere e' stato osservato (punto 3) come le  linee  guida
in parola costituiscano, in esplicazione della potesta' di  vigilanza
affidata all'Anac dall'art. 1, comma 2, lettera  f),  della  legge  6
novembre 2012, n. 190, e s.m.i., un atto di natura non regolamentare,
che, nella misura in cui e' volto a chiarire la portata applicativa e
le ricadute organizzative degli adempimenti stabiliti dalla normativa
di cui trattasi (legge n. 190/2012 e decreto legislativo n.  33/2013,
come novellati dal decreto legislativo n. 97/2016), e'  riconducibile
al novero degli  atti  non  vincolanti,  ovvero  che  possono  essere
disattesi mediante  atti  che  contengano  una  adeguata  e  puntuale
motivazione, idonea a dar conto delle ragioni  della  diversa  scelta
amministrativa. 
    Al di fuori di tale  ultima  ipotesi,  ha  chiarito  il  predetto
parere, la violazione delle linee guida puo' essere  considerata,  in
sede  giurisdizionale,  come  elemento  sintomatico  dell'eccesso  di
potere,  sulla  falsariga  dell'elaborazione  che  si  e'  avuta  con
riguardo alla violazione delle circolari. 
    Ed e' noto che, per la giurisprudenza, le circolari non rivestono
un rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti che ne fanno
applicazione, per cui i soggetti destinatari  di  questi  ultimi  non
hanno alcun  onere  di  impugnare  la  circolare,  essendo  meramente
facoltizzati (e quindi non onerati), a  contestarne  la  legittimita'
(C. Stato, IV, 16 ottobre 2000, n. 5506; 20 settembre 1994, n. 720). 
    10. Esaurito l'esame delle eccezioni pregiudiziali, puo' passarsi
all'esame del merito del gravame. 
    11. Come ampiamente riferito in fatto, i ricorrenti contestano  i
gravati  provvedimenti  del  Garante  per  la  protezione  dei   dati
personali, che hanno dato applicazione nei loro confronti alla  norma
di cui all'art. 14, comma  1-bis,  decreto  legislativo  n.  33/2013,
laddove prevede, in analogia con quanto gia' previsto per i  titolari
di  incarichi  politici  di  cui  al  comma  1,  che   le   pubbliche
amministrazioni pubblichino nel proprio sito web, oltre che gli altri
dati elencati nel comma 1 dell'art. 14, anche i dati dei titolari  di
incarichi dirigenziali di cui all'art. 14 comma 1, lettere  c)  e  f)
dello stesso decreto legislativo, costituiti da: 
        «c) i compensi di qualsiasi  natura  connessi  all'assunzione
della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con
fondi pubblici;»; 
        «f) le dichiarazioni di cui all'art. 2, della legge 5  luglio
1982, n. 441, nonche' le attestazioni e  dichiarazioni  di  cui  agli
articoli 3 e 4 della medesima legge,  come  modificata  dal  presente
decreto, limitatamente al soggetto, al  coniuge  non  separato  e  ai
parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi  consentano.  Viene
in ogni caso data evidenza al mancato consenso.». 
    In particolare, in attuazione della predetta norma, il Garante ha
invitato i ricorrenti a inviare entro un  dato  termine  la  relativa
documentazione, e precisamente: 
        copia  dell'ultima  dichiarazione  dei  redditi   presentata,
oscurando i dati eccedenti,  come  previsto  dalla  Linee  guida  del
Garante; 
        dichiarazione, aggiornata alla data di sottoscrizione, per la
pubblicita' della situazione patrimoniale,  da  rendersi  secondo  lo
schema allegato alla richiesta; 
        dichiarazione di negato consenso per il coniuge non  separato
e i parenti entro il secondo grado,  ovvero,  pel  caso  si  avvenuta
prestazione del consenso, copia delle dichiarazioni dei  redditi  dei
suddetti soggetti e dichiarazioni aggiornate per la pubblicita' delle
rispettive  situazioni  patrimoniali,  sempre  secondo   il   modello
allegato; 
        dichiarazione dei dati relativi ad  eventuali  altre  cariche
presso enti pubblici o privati o altri incarichi con oneri  a  carico
della finanza pubblica assunte dagli interessati. 
    La disposizione normativa sulla  base  della  quale  la  predetta
richiesta e' stata avanzata  e'  ritenuta  dai  ricorrenti  violativa
degli articoli 7,  8  e  52  della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea, dell'art. 6 del Trattato UE, dell'art.  8  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali,  dell'art.  6   della   direttiva   95/46/CE,
dell'art. 5 del regolamento n. 2016/679 del Parlamento europeo e  del
Consiglio del 27 aprile 2016, da  applicarsi  negli  Stati  membri  a
decorrere dal 25 maggio 2018, nonche' degli articoli 117,  3,  13,  2
della Costituzione. 
    In particolare, secondo i  ricorrenti,  i  predetti  obblighi  di
pubblicazione comporterebbero una ingiustificata e pesante  ingerenza
nel diritto alla  vita  privata  e  alla  protezione  dei  dati,  con
riflessi anche  relativi  alla  diritto  di  sicurezza,  e  sarebbero
contrari ai principi di proporzionalita', pertinenza, non eccedenza e
finalita' nel trattamento dei dati personali, sia per la  natura  dei
dati richiesti che per le modalita' di  diffusione  in  internet,  in
quanto introdotti senza misure che impediscano l'indicizzazione delle
informazioni da parte dei comuni motori di ricerca. 
    12. Ritiene al riguardo il Collegio che  le  questioni  sollevate
dai ricorrenti meritino  favorevole  considerazione,  nei  limiti  di
seguito evidenziati. 
    13. Appare immediatamente opportuno chiarire che il Collegio  non
dubita della serieta' e della  fondatezza  delle  ragioni  illustrate
dalla  difesa  erariale  quando  evidenzia  la  necessita'  non  piu'
prorogabile di  adottare  un  sistema  rigido  di  prevenzione  della
corruzione, alla luce dei noti fatti di  cronaca  giudiziaria,  e  in
virtu' dei numerosi moniti provenienti  da  rilevanti  organizzazioni
internazionali (Onu, Greco, OCSE) e dalla stessa Unione europea,  che
hanno raccomandato piu' volte all'Italia l'adozione di misure  severe
e drastiche, ispirate a una logica di integrita' e trasparenza. 
    Del  resto,  una  siffatta   necessita'   consegue   anche   alle
classifiche stilate dall'organizzazione «Transparency  International»
citate dall'amministrazione, che collocano Italia tra i paesi in  cui
e' piu' elevata la percezione della corruzione, da  intendersi  anche
come carenza di trasparenza. 
    Meritevole  di  massima  considerazione  e'  anche  la  notazione
secondo  cui  l'Italia,  nella  generale  bipartizione  tra   sistemi
nazionali caratterizzati da un generalizzato e risalente  sistema  di
accesso   agli   atti,   dati   e   informazioni   delle    pubbliche
amministrazioni,  dalla  tempestivita'  ed  efficienza   dei   rimedi
giudiziali e stragiudiziali, dalla non rilevanza numerica dei casi di
conflitti di  interessi  e  di  corruzione,  o  comunque  dalla  loro
puntuale regolazione specifica,  e  sistemi  in  cui,  al  contrario,
l'accesso  e'  ristretto  e  non  garantisce  adeguati  standard   di
tempestivita' ed efficienza, i casi di conflitti di  interessi  e  di
corruzione sono al di sopra della media europea e  internazionale  ed
esistono discipline deboli  sulla  trasparenza  e  sul  conflitto  di
interessi, si colloca nella seconda categoria, per la  quale  l'unica
risposta possibile per realizzare  un  serio  regime  di  prevenzione
della corruzione e' una normativa sulla trasparenza che sia correlata
alla portata delle rilevate problematiche. 
    Pero',  sia  la  considerazione  della  rilevanza  del   contesto
delineato  da  tali  informazioni  e  da  tutti  gli  altri  elementi
evidenziati  dall'amministrazione  a  sostegno  dell'adozione  di  un
regime  di  trasparenza  «forte»,   sia   l'apprezzamento   ulteriore
dell'entita' della ricaduta negativa dei fenomeni corruttivi in tutti
i settori in cui essi si  manifestano  (amministrativo,  giudiziario,
economico, sociale ...), che conferma la priorita'  della  questione,
nulla dicono in ordine alla proporzionalita'  e  alla  ragionevolezza
delle misure qui in contestazione, posto  che,  com'e'  evidente,  va
escluso che la  risposta  normativa  a  qualsiasi  problematica,  per
quanto, in linea generale, di rilievo  assoluto,  opportuna,  se  non
necessitata,  motivata  da  idonei  presupposti  e  compulsata  dalla
comunita' internazionale, possa trasmodare  dagli  ambiti  che  nella
Costituzione e nella normativa  europea  delineano  i  diritti  della
persona. 
    14. Nell'individuare, conseguentemente a quanto sopra, gli ambiti
tutelati qui in evidenza, vengono in rilievo,  come  sostenuto  dagli
interessati: 
        la direttiva 24 ottobre  1995,  n.  95/46/CE,  direttiva  del
Parlamento europeo del Consiglio relativa alla tutela  delle  persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonche'  alla
libera circolazione di tali dati, che all'art. 6, par. 1, lettera c),
prevede che gli Stati membri dispongono che i  dati  personali  siano
«adeguati, pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalita' per  le
quali vengono rilevati  e/o  per  le  quali  vengono  successivamente
trattati»; 
        l'art. 7 della stessa direttiva  95/46/CE,  che  dispone  che
«Gli Stati membri dispongono che il  trattamento  di  dati  personali
puo' essere effettuato soltanto quando:  ...  c)  e'  necessario  per
adempiere un obbligo legale al quale e' soggetto il responsabile  del
trattamento ... oppure  e)  e'  necessario  per  l'esecuzione  di  un
compito di interesse pubblico o connesso  all'esercizio  di  pubblici
poteri di cui e' investito il responsabile del trattamento o il terzo
a cui vengono comunicati i dati...»; 
        l'art. 8 della ridetta direttiva 95/46/CE, paragrafi 1  e  4,
che  recitano  rispettivamente  che  «Gli  Stati  membri  vietano  il
trattamento di dati  personali  che  rivelano  l'origine  razziale  o
etnica,  le  opinioni   politiche,   le   convinzioni   religiose   o
filosofiche, l'appartenenza sindacale, nonche' il trattamento di dati
relativi alla salute e alla vita sessuale.»,  e  che  «Purche'  siano
previste le opportune garanzie, gli Stati membri possono, per  motivi
di interesse pubblico rilevante, stabilire ulteriori deroghe oltre  a
quelle  previste  dal  paragrafo  2  sulla  base  della  legislazione
nazionale o di una decisione dell'autorita' di controllo.». 
    In relazione alla predetta direttiva, si osserva che la Corte  di
giustizia delle comunita' europee (Sezioni riunite, 20  maggio  2003,
Rechnungshof e Neukomm e Lauermann  c.  Osterreichischer  Rundfunk  e
altri) ha ritenuto che gli art. 6, n. 1, lettera c), e 7, lettere  c)
ed e), della direttiva in parola sono direttamente  applicabili,  nel
senso che essi possono essere fatti valere da un singolo  dinanzi  ai
giudici nazionali per evitare l'applicazione delle norme  di  diritto
interno contrarie a tali disposizioni. 
    Inoltre, i  principi  da  essa  recati  e  sopramenzionati  hanno
trovato conferma nella nuova normativa in materia di  protezione  dei
dati personali di cui al regolamento (UE) n. 2016/679 del  Parlamento
europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016,  entrato  in  vigore  in
Italia il 4 maggio 2016 e destinato ad acquisire piena  efficacia  il
25 maggio 2018; 
        la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, art. 7
(«Ogni persona ha diritto al rispetto della propria  vita  privata  e
familiare, del proprio domicilio e  delle  proprie  comunicazioni.»),
art. 8 («1. Ogni persona ha  diritto  alla  protezione  dei  dati  di
carattere personale che la  riguardano.  2.Tali  dati  devono  essere
trattati secondo il principio di lealta', per finalita' determinate e
in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento
legittimo  previsto  dalla  legge  ...»),  art.  52  («1.   Eventuali
limitazioni all'esercizio dei diritti e delle  liberta'  riconosciuti
dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e  rispettare
il contenuto essenziale di detti diritti e liberta'. Nel rispetto del
principio di proporzionalita', possono essere  apportate  limitazioni
solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalita'
di interesse generale  riconosciute  dall'Unione  o  all'esigenza  di
proteggere i diritti e le liberta' altrui. 2. I diritti  riconosciuti
dalla presente Carta per i quali i trattati prevedono disposizioni si
esercitano alle condizioni e nei limiti dagli stessi definiti. 
    3. Laddove la presente Carta contenga  diritti  corrispondenti  a
quelli garantiti dalla Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
Diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, il significato e  la
portata degli stessi sono uguali a quelli  conferiti  dalla  suddetta
convenzione. La presente disposizione non  preclude  che  il  diritto
dell'Unione conceda una protezione piu' estesa...»; 
        l'art. 8 della Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,  che  dispone  che
«Ogni persona ha  diritto  al  rispetto  della  sua  vita  privata  e
familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.», e che «Non
puo' esservi ingerenza della  pubblica  autorita'  nell'esercizio  di
tale diritto a meno che tale ingerenza sia  prevista  dalla  legge  e
costituisca  una  misura  che,  in  una  societa'   democratica,   e'
necessaria  per  la  sicurezza  nazionale,  l'ordine   pubblico,   il
benessere  economico  del  paese,  la  prevenzione  dei   reati,   la
protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e
delle liberta' altrui.»; 
        l'art. 5 della Convenzione  n.  108  sulla  protezione  delle
persone rispetto al trattamento automatizzato di  dati  di  carattere
personale, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981,  ratificata  con
legge 21 febbraio 1989,  n.  98,  secondo  cui  i  dati  a  carattere
personale oggetto di un'elaborazione automatizzata sono: «a) ottenuti
e elaborati in modo  lecito  e  corretto;  b)  registrati  per  scopi
determinati e legittimi ed impiegati in una maniera non incompatibile
con detti fini; c) adeguati, pertinenti e non eccessivi  riguardo  ai
fini per i quali vengono registrati;  d)  esatti  e,  se  necessario,
aggiornati; e) conservati in una forma che consenta l'identificazione
delle persone interessate per  una  durata  non  superiore  a  quella
necessaria ai fini per i quali sono registrati.». 
    Le predette norme delineano chiaramente la necessita', fortemente
evidenziata dalla sopra citata  sentenza  della  Corte  di  giustizia
delle comunita' europee 20 maggio 2003 in relazione agli art.  6,  n.
1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva n.  1995/46/CE,
ma declinata anche  dalle  altre  decisioni  invocate  in  ricorso  e
riportate in fatto, secondo cui la tutela delle persone  fisiche  con
riguardo al trattamento  dei  dati  personali,  nonche'  alla  libera
circolazione di tali dati, non osta a  una  normativa  nazionale  che
imponga la raccolta e  la  divulgazione  dei  dati  sui  redditi  dei
dipendenti pubblici, a condizione, pero',  che  sia  provato  che  la
divulgazione, laddove puntuale, ovvero riferita anche  ai  nominativi
dei dipendenti, risulti necessaria e appropriata per  l'obiettivo  di
buona gestione delle risorse pubbliche. 
    In altre parole, i principi di proporzionalita', pertinenza e non
eccedenza   costituiscono   il   canone   complessivo   che   governa
l'equilibrio del rapporto tra esigenza, privata,  di  protezione  dei
dati personali, ed esigenza, pubblica, di trasparenza. 
    15.  In  applicazione  delle  predette  coordinate  normative  ed
ermeneutiche,  la  denunzia  di  incompatibilita'  con  la  normativa
europea e costituzionale formulata dai  ricorrenti  in  relazione  ai
contestati dati oggetto di divulgazione  risulta  non  manifestamente
infondata. 
    Il Collegio ritiene infatti che la divulgazione dei dati riferiti
ai dirigenti pubblici di cui alle lettere c) e f) dell'art. 14, comma
1, del decreto legislativo n. 33/2013, applicabile  ai  medesimi  per
effetto dell'estensione  operata  dal  successivo  comma  1-bis,  che
riguardano la situazione reddituale e patrimoniale degli interessati,
si presti ai seguenti rilievi. 
    A) Quanto alla integrale equiparazione dei dirigenti pubblici con
i  titolari  di  incarichi  politici,  originari  destinatari   della
prescrizione di cui all'art. 14,  comma  1,  decreto  legislativo  n.
33/2013, e alla assenza di qualsiasi differenziazione tra  le  figure
dirigenziali. Il Collegio osserva che la previsione in  contestazione
assimila condizioni che,  all'evidenza,  non  sono  equiparabili  fra
loro, stante l'enorme diversita' tra le condizioni giuridiche facenti
capo, nel vigente ordinamento nazionale, da un lato, ai  titolari  di
incarichi  politici  e,  dall'altro,   ai   titolari   di   incarichi
dirigenziali. 
    La differenza di status tra le considerate categorie per  genesi,
struttura, funzioni esercitate e poteri  statali  di  riferimento  e'
talmente marcata da non richiedere, per la sua  illustrazione,  molte
parole. 
    Basti al riguardo segnalare che i rapporti e  le  responsabilita'
che  correlano,  da  un  lato,  i  titolari  di  incarichi  politici,
dall'altro, i dirigenti pubblici, allo Stato e, indi,  ai  cittadini,
si collocano su piani non comunicanti, in un insieme  che  rende  del
tutto implausibile la loro riconduzione, agli  esclusivi  fini  della
trasparenza, nell'ambito di un identico regime. 
    I ricorrenti segnalano anche, condivisibilmente, come  la  comune
soggezione dei titolari di  incarichi  politici  e  dei  dirigenti  a
identici obblighi di pubblicita', stante la diversa durata  temporale
che, di norma, caratterizza lo svolgimento delle  relative  funzioni,
sia particolarmente pervasiva per i secondi, esposti,  ai  sensi  del
comma 2 dell'art. 14 in esame, all'assoggettamento alla disciplina in
contestazione per un periodo  corrispondente  all'intera  durata  del
rapporto di lavoro, che si atteggia  pertanto,  nei  loro  confronti,
diversamente che per i titolari di incarichi politici,  alla  stregua
di una «condizione della vita». 
    Anche la mancata differenziazione tra le  categorie  dirigenziali
soggette alla misura, in  base,  a  esempio,  all'amministrazione  di
appartenenza, alla qualifica, alle funzioni in concreto ricoperte, ai
compensi  percepiti,  e'  parimenti  indice  di  una   non   adeguata
calibrazione  della  disposizione  in  parola,  tenuto  conto   della
molteplicita'    delle     categorie     dirigenziali     rinvenibili
nell'ordinamento vigente, e della connessa varieta' ed estensione dei
segmenti di potere amministrativo esercitato. 
    Sul punto, deve rilevarsi  come  i  temperamenti  apportati  alla
norma in sede applicativa, siccome illustrati dalla difesa  erariale,
non sono idonei a sconfessare la linea, fatta propria  dall'art.  14,
comma 1-bis, decreto legislativo n. 33/2013, secondo cui il regime di
cui trattasi e'  destinato  a  vincolare  «i  titolari  di  incarichi
dirigenziali,  a  qualsiasi  titolo  conferiti,  ivi  inclusi  quelli
conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo  politico  senza
procedure pubbliche di selezione». 
    Del resto, i ricorrenti evidenziano che la disposizione,  secondo
quanto rilevato dallo stesso  Garante  per  la  protezione  dei  dati
personali nell'ambito del parere reso alla Presidenza  del  Consiglio
dei ministri sullo schema del decreto legislativo 25 maggio 2016,  n.
97, che ha inserito il ridetto art. 14-bis, concerne un notevolissimo
numero di soggetti, indicato, secondo le elaborazioni  dell'Aran,  in
oltre 140.000. 
    E lo stesso parere ha rilevato  come  una  siffatta  scelta,  cui
consegue  un  trattamento  giuridico  limitativo  della  riservatezza
individuale,  e'  stata  effettuata   senza   alcuna   considerazione
dell'effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta. 
    L'argomentazione in parola, insieme ad altre  considerazioni  che
militano a favore dell'irragionevolezza della misura, si trova  ancor
piu' esplicitata nella nota a firma del Presidente  dell'Anac  e  del
Garante per la protezione dei dati indirizzata  al  Ministro  per  la
semplificazione e la pubblica amministrazione del  30  ottobre  2014,
che riferisce, puo' aggiungersi autorevolmente, stante la particolare
competenza nella materia di cui trattasi dei due firmatari,  che  «le
criticita' -  segnalate  da  vari  soggetti  alle  Autorita'  da  noi
presiedute -attengono, essenzialmente, al  carattere  indifferenziato
degli obblighi di pubblicita'. Essi si applicano infatti, con analogo
contenuto, ad enti e realta' profondamente diversi  tra  loro,  senza
distinguerne  la  portata  in  ragione  del  grado   di   esposizione
dell'organo al rischio di corruzione; dell'ambito di esercizio  della
relativa azione o, comunque, delle risorse pubbliche assegnate, della
cui gestione l'ente debba quindi rispondere. Nel regolare  cosi',  in
modo  identico,  situazioni  diverse,   tali   norme   rischiano   di
pregiudicare  la  ragionevolezza  complessiva  della  disciplina   in
materia di trasparenza (essenziale invece per il buon andamento e  la
democraticita' dell'azione amministrativa). E questo, con effetti  in
larga parte disfunzionali rispetto alla stessa esigenza di consentire
'forme  diffuse  di  controllo  sul  perseguimento   delle   funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle  risorse  pubbliche',  perseguita
dallo stesso decreto n. 33. 
    Pertanto, le limitazioni (in  alcuni  casi  anche  significative)
della riservatezza, che  tali  obblighi  di  pubblicita'  comportano,
possono risultare irragionevoli e, come tali, meritevoli di revisione
[...]. La divulgazione on-line di una quantita' spesso ingestibile di
dati comporta  infatti  dei  rischi  di  alterazione,  manipolazione,
riproduzione  per  fini  diversi,  che  potrebbero  frustrare  quelle
esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo, che  sono
alla base del decreto». 
    Resta da aggiungere che la difesa  erariale  stigmatizza  che  la
contestazione  del  regime  di  pubblicita'  di  cui  trattasi,  gia'
pacificamente in vigore per i  titolari  di  cariche  politiche,  sia
formulata in ricorso solo in quanto applicabile ai dirigenti. 
    Il rilievo non e' conducente, atteso che la segnalata circostanza
e'  una  mera  conseguenza  delle  caratteristiche  di  personalita',
attualita' e concretezza che devono  permeare  l'interesse  giuridico
fatto valere nel giudizio amministrativo. 
    B) Quanto alla diffusione degli specifici dati  di  cui  all'art.
14, comma 1-bis, lettere c) e f) del decreto legislativo n. 33/2013. 
    Il Collegio dubita della legittimita' della prescrizione  imposta
ai dirigenti di pubblicare i dati in  contestazione,  invece  che,  a
tutela  della  proporzionalita'  della  misura,  una  loro  ragionata
elaborazione, atta a scongiurare incontrovertibilmente la  diffusione
di dati sensibili  o  di  dati,  per  un  verso,  superflui  ai  fini
perseguiti  dalla   norma,   per   altro   verso,   suscettibili   di
interpretazioni distorte. 
    In particolare, si e' gia'  visto  che  la  disposizione  di  cui
trattasi  comporta  la  divulgazione  online  di  dati  reddituali  e
patrimoniali relativi ai dirigenti, ai coniugi e ai parenti entro  il
secondo grado, ove essi acconsentano. E' prevista anche, pel caso  di
mancato consenso del coniuge o del parente entro il secondo grado, la
menzione dello stesso.  I  dati  in  parola,  essendo  desunti  dalla
dichiarazione dei redditi, si collocano  a  un  livello  di  notevole
dettaglio. 
    La rigorosita'  della  misura  e'  sottolineata  dalla  ulteriore
prescrizione secondo  cui  nessun  filtro  o  artifizio  puo'  essere
adottato dalle amministrazioni cui compete  la  pubblicazione  online
dei dati affinche' l'accesso ai documenti venga, anche con  l'uso  di
strumenti informatizzati, in qualunque modo discriminato e gli stessi
documenti siano resi non consultabili dai c.d. motori di ricerca. 
    L'art. 7-bis, comma 1, decreto legislativo  n.  33/2013,  dispone
infatti che «Gli obblighi di pubblicazione dei dati personali diversi
dai dati sensibili e dai dati giudiziari, di cui all'art. 4, comma 1,
lettere d) ed e), del decreto legislativo 30  giugno  2003,  n.  196,
comportano la  possibilita'  di  una  diffusione  dei  dati  medesimi
attraverso siti istituzionali, nonche' il  loro  trattamento  secondo
modalita' che ne consentono la indicizzazione e la  rintracciabilita'
tramite i motori di ricerca  web  ed  il  loro  riutilizzo  ai  sensi
dell'articolo 7 nel rispetto dei principi sul  trattamento  dei  dati
personali». 
    Le descritte caratteristiche di  una  siffatta  pubblicazione  la
rendono indubbiamente foriera  di  usi  da  parte  del  pubblico  che
possono trasmodare, come pure segnalato nella gia' citata nota del 30
ottobre 2014 indirizzata dal Presidente dell'Anac e dal  Garante  per
la protezione dei dati  al  Ministro  per  la  semplificazione  e  la
pubblica amministrazione, dalla finalita' della trasparenza,  sino  a
giungere alla messa a rischio della sicurezza degli interessati,  nei
sensi segnalati in ricorso e riportati in fatto. 
    Puo' aggiungersi  a  quanto  piu'  articolatamente  rappresentato
dagli  interessati  che  il  legislatore  delegato  ha  ritenuto   di
assicurare il regime di trasparenza mediante lo «sversamento» sic  et
simpliciter dei dati in parola, posto a carico degli interessati, con
i connessi rischi di cui sopra, ovvero, come detto, senza mitigare la
portata della divulgazione di questi ultimi  mediante  l'elaborazione
di una piattaforma di elementi effettivamente significativi  ai  fine
di  garantire  una  vera   e   propria   trasparenza   dell'attivita'
amministrativa. 
    Non vi e' dubbio che tale ultima  opzione,  pur  richiedendo  uno
sforzo preparatorio da parte del  legislatore  delegato  maggiore  di
quello esercitato nel mero trasferimento in capo ai dirigenti  di  un
regime gia' in corso  di  applicazione  per  i  titolari  di  cariche
politiche, sarebbe risultata - diversamente da quello in esame -  non
solo  conforme  ai  principi  comunitari   e   costituzionali   nella
coniugazione equilibrata degli interessi pubblici e privati in gioco,
ma anche piu' efficace ai  fini  dell'introduzione  di  un  effettivo
regime di trasparenza a carico dei dirigenti pubblici, atteso che, in
forza delle stesse considerazioni  poste  a  base  del  principio  di
«utilita'  marginale»  operante  in  economia,  non  consta  che   la
pubblicazione   di   massicce   quantita'   di   dati   si    traduca
automaticamente  nell'agevolazione  della  ricerca  di  quelli   piu'
significativi a determinati fini. 
    La questione va infatti posta al livello dei singoli cittadini  o
delle  loro  aggregazioni  semplici,  rispetto  ai  quali  e'  lecito
supporre, come dato notorio, in  caso  di  accesso  finalizzato  alla
trasparenza, la  mancata  disponibilita'  di  efficaci  strumenti  di
lettura e di elaborazione di  dati  sovrabbondanti  o  eccessivamente
diffusi. 
    Ed e'  a  tale  livello  che  va  necessariamente  ricondotta  la
problematica della trasparenza amministrativa e regolato il  relativo
interesse  pubblico,  pena  la  sostanziale  inutilita'  del   regime
«anti-corruttivo» disegnato per i dirigenti pubblici, che deve essere
finalizzato, per sua natura, a tutelare l'intera collettivita' e  non
solo i soggetti complessi a vario  titolo  operanti  nell'ordinamento
vigente, che, essendo in possesso di strumenti  idonei  a  decrittare
importanti masse di informazioni, risultano, a legislazione  vigente,
ossia al cospetto dell'attuale formulazione  del  combinato  disposto
dell'art. 14, comma 1, lettere c) e f), e dell'art. 1-bis, allo stato
i soli in grado di  trarre  dalle  stesse  conclusioni  coerenti  con
quanto complessivamente reso disponibile e con gli  obiettivi  propri
della legislazione di cui trattasi. 
    Come, del resto, segnala in sostanza la ridetta nota  30  ottobre
2014 del Presidente dell'Anac e del Garante  per  la  protezione  dei
dati, laddove evidenzia la disfunzionalita' della previsione in esame
rispetto all'esigenza di consentire le forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle  funzioni  istituzionali  e  sull'utilizzo  delle
risorse  pubbliche,  che  costituisce  la  finalita'  perseguita  dal
decreto legislativo n. 33/2013. 
    Deve ancora rilevarsi che i ricorrenti segnalano vari  esempi  di
come i dati utili ai fini del regime di trasparenza per  i  dirigenti
avrebbero  potuto  essere  selezionati.  Il  Collegio  si  limita   a
prenderne atto, non spettando a questa sede  giudiziale  entrare  nel
merito delle relative valutazioni. 
    16. A questo punto va evidenziato che la tutela  della  posizione
dei  ricorrenti,  che   consegue   alla   rilevata   serieta'   delle
contestazioni formulate, nei sensi di  cui  sopra,  non  puo'  essere
attuata mediante l'annullamento degli atti gravati, trattandosi, come
dianzi gia' osservato, di provvedimenti che danno mera  esecuzione  a
puntuali obblighi di legge,  di  talche'  va  escluso  in  radice  il
rimedio   della   demolizione   dell'atto    conseguente    all'esito
dell'ordinario scrutinio della sua legittimita' secondo il  paradigma
costituito dalla legislazione di riferimento. 
    17.  Ne'  pare  che  la  norma  contestata  dai  ricorrenti   sia
suscettibile di  essere  disapplicata  per  contrasto  con  normative
comunitarie, posto che, alla luce di tutti gli elementi emergenti dal
fascicolo   di   causa,   non   e'   individuabile   una   disciplina
self-executing  di  tale  matrice   direttamente   applicabile   alla
fattispecie oggetto di giudizio. 
    Sul punto, infatti, occorre concordare  con  la  difesa  erariale
quando segnala che i principi di proporzionalita', pertinenza, e  non
eccedenza di fonte comunitaria invocati dalla  parte  ricorrente  non
sono che criteri in base ai quali effettuare una  ponderazione  della
conformita' dell'art. 14, comma 1-bis, decreto legislativo  14  marzo
2013,  n.  33,  nella  parte  in  cui  prevede   che   le   pubbliche
amministrazioni pubblichino i  dati  di  cui  all'art.  14  comma  1,
lettere c) ed f),  dello  stesso  decreto  legislativo  anche  per  i
titolari  di  incarichi  dirigenziali,  operazione   che   sconta   i
differenti caratteri e la  diversa  portata  dell'interesse  pubblico
generale che si intende tutelare attraverso il regime di trasparenza,
e che puo' avere una configurazione diversa, a  seconda  del  sistema
nazionale considerato. 
    La sorte del ricorso non puo', pertanto, che essere affidata alla
disamina delle questioni pregiudiziali sollevate  dai  ricorrenti  da
parte della Corte di giustizia  dell'Unione  europea  o  della  Corte
costituzionale. 
    18. Nell'ambito dei predetti rimedi, il Collegio propende per  la
remissione alla Corte costituzionale dello scrutinio inerente la  non
manifesta infondatezza della questione di costituzionalita'  relativa
all'art. 14, comma 1-bis, decreto legislativo 14 marzo 2013,  n.  33,
nella  parte  in  cui  prevede  che  le   pubbliche   amministrazioni
pubblichino i dati di cui all'art. 14 comma  1,  lettere  c)  ed  f),
dello stesso decreto legislativo anche per i  titolari  di  incarichi
dirigenziali. 
    Cio' in quanto, come visto, nell'ambito  di  siffatto  scrutinio,
inerente  il  rispetto  da  parte  della  misura  dei   principi   di
proporzionalita', pertinenza, e non eccedenza di matrice comunitaria,
indispensabile ai fini della tutela  di  diritti  fondamentali  della
persona, un ruolo centrale e' assunto dalla questione inerente se uno
specifico ordinamento nazionale preservi il necessario equilibrio nel
rapporto tra protezione dei dati personali e esigenze di trasparenza,
calibrando anche in ragione  dei  primi  l'intensita'  dell'interesse
pubblico da assicurare mediante la divulgazione di dati personali. 
    E un tale giudizio appare proprio di una Corte nazionale. 
    Del  resto,  la  conclusione  e'  rafforzata  dalla  gia'  citata
sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea 20 maggio 2003,
che, nella analoga fattispecie sottoposta al suo giudizio, ha rimesso
tale valutazione al giudice a quo. 
    19.  In  punto  di  rilevanza  della  proponenda   questione   di
legittimita' costituzionale,  il  Collegio  ribadisce  che  gli  atti
impugnati con l'odierno ricorso  costituiscono  diretta  applicazione
della norma sospetta di  contrasto  con  la  Costituzione.  Pertanto,
discendendo  la  paventata  violazione  della  sfera  soggettiva  dei
ricorrenti direttamente dalla norma stessa, solo dalla  dichiarazione
della  sua  illegittimita'  costituzionale   potrebbe   derivare   il
richiesto accoglimento del ricorso per illegittimita' derivata  degli
atti impugnati. 
    20.  Quanto,  invece,  alla  non  manifesta  infondatezza   della
questione di costituzionalita' dell'art.  14,  comma  1-bis,  decreto
legislativo 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede  che  le
pubbliche amministrazioni pubblichino i  dati  di  cui  all'art.  14,
comma  1,  lettere  c)  ed  f),  dello  stesso  decreto  legislativo,
originariamente previsto per i titolari di incarichi politici,  anche
per i titolari di incarichi dirigenziali, sotto i  profili  segnalati
al precedente punto 15, essa si pone,  ad  avviso  del  Collegio,  in
relazione: 
        all'art. 117, comma 1, della  Costituzione,  che  vincola  la
potesta' legislativa  esercitata  dallo  Stato  e  dalle  Regioni  al
rispetto  della   Costituzione,   nonche'   dei   vincoli   derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, tra cui
si  collocano  i  principi  di  proporzionalita',  pertinenza  e  non
eccedenza nel trattamento dei dati personali; 
        all'art. 3 della Costituzione e al principio  di  uguaglianza
formale  e  sostanziale,  sia  per  la   irragionevole   parita'   di
trattamento che la disposizione  riserva  ai  titolari  di  incarichi
politici  e  titolari  di  incarichi  dirigenziali,   categorie   non
assimilabili in quanto soggette a regimi giuridici incomparabili, che
non giustificano ne' permettono l'integrale identita' di  regolazione
ai fini di trasparenza,  sia  per  l'irragionevole  parificazione  di
tutti  gli  incarichi  dirigenziali,  effettuata  senza  distinguere,
conformemente alla natura dell'interesse  pubblico  perseguito  dalla
norma, la portata degli obblighi di  pubblicita'  online  in  ragione
delle caratteristiche delle loro tipologie, ovvero in riferimento  al
grado di esposizione dell'incarico pubblico al rischio di  corruzione
e all'entita' delle risorse pubbliche assegnate all'ufficio della cui
gestione il soggetto interessato deve rispondere; 
        agli articoli 2 e 13 della Costituzione, relativi ai  diritti
inviolabili  dell'uomo  e  alla   liberta'   personale,   stante   la
suscettibilita'  della   prescrizione   imposta   ai   dirigenti   di
comunicare,  ai  fini   della   loro   pubblicazione,   i   dati   in
contestazione, desunti dalla dichiarazione dei  redditi,  invece  che
una loro  ragionata  elaborazione,  piu'  funzionale  alle  finalita'
perseguite dalla trasparenza  amministrativa  e  atta  a  scongiurare
incontrovertibilmente la diffusione di dati sensibili o di dati,  per
un verso, superflui ai fini perseguiti dalla norma, per altro  verso,
suscettibili di interpretazioni distorte. 
    21. Dalla rilevata non manifesta infondatezza della questione  di
costituzionalita' dell'art. 14, comma 1-bis, decreto  legislativo  14
marzo 2013, n. 33, nella  parte  in  cui  prevede  che  le  pubbliche
amministrazioni pubblichino i dati  di  cui  all'art.  14,  comma  1,
lettere c) ed f),  dello  stesso  decreto  legislativo  anche  per  i
titolari di incarichi dirigenziali,  discende  l'apprezzamento  della
non manifesta infondatezza  della  questione  di  incostituzionalita'
anche di parte del  correlato  comma  1-ter  dello  stesso  art.  14,
secondo cui: «Ciascun dirigente comunica  all'amministrazione  presso
la quale presta  servizio  gli  emolumenti  complessivi  percepiti  a
carico della finanza pubblica, anche in relazione a  quanto  previsto
dall'art. 13, comma 1, del  decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23  giugno  2014,  n.  89.
L'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare
complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente.». 
    Invero, l'oggetto della pubblicazione prevista all'ultimo periodo
dal predetto comma 1-ter costituisce un dato aggregato  che  contiene
quello di cui al comma 1, lettera c) dello  stesso  articolo  e  puo'
anzi corrispondere del tutto a quest'ultimo, laddove il dirigente non
percepisca  altro  emolumento  se  non  quello  corrispondente   alla
retribuzione per l'incarico assegnato. 
    Il Collegio ritiene, pertanto, di estendere, d'ufficio, ai  sensi
dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,  recante  norme  sulla
costituzione e  sul  funzionamento  della  Corte  costituzionale,  la
questione  di  legittimita'  costituzionale  anche  al  comma   1-ter
dell'art. 14 del decreto legislativo n. 33/2013,  limitatamente  alla
prescrizione   di   cui   all'ultimo   periodo,   che   dispone   che
«L'amministrazione   pubblica   sul   proprio   sito    istituzionale
l'ammontare  complessivo  dei   suddetti   emolumenti   per   ciascun
dirigente». 
    Quanto alla rilevanza e alla  non  manifesta  infondatezza  della
ulteriore questione sollevata, negli esclusivi  sensi  di  cui  sopra
(ovvero escludendo gli obblighi di comunicazione  all'amministrazione
di appartenenza), si richiamano integralmente le argomentazioni  gia'
esposte in ordine all'art. 14, comma 1-bis,  decreto  legislativo  14
marzo 2013, n. 33, nella  parte  in  cui  prevede  che  le  pubbliche
amministrazioni pubblichino i dati  di  cui  all'art.  14,  comma  1,
lettere c) ed f),  dello  stesso  decreto  legislativo  anche  per  i
titolari di incarichi dirigenziali. 
    22. In conclusione, sussistono dunque i presupposti di  rilevanza
e  di  non  manifesta  infondatezza  che  impongono  al  Collegio  di
sollevare questione di legittimita' costituzionale: 
        dell'art. 14, commi 1-bis e 1-ter del decreto legislativo  14
marzo 2013, n. 33 (inseriti dall'art. 13, comma 1,  lettera  c),  del
decreto legislativo 25 maggio  2016,  n.  97),  nella  parte  in  cui
prevedono che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di  cui
all'art.  14,  comma  1,  lettere  c)  ed  f)  dello  stesso  decreto
legislativo anche per  i  titolari  di  incarichi  dirigenziali,  per
contrasto  con  gli  articoli  117,  comma  1,  3,  2  e   13   della
Costituzione. 
        Restano  riservate  all'esito  del  giudizio  incidentale  le
determinazioni definitive sulle questioni preliminari, sul  merito  e
sulle spese.