Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona  del  presidente
della giunta regionale pro tempore Stefano Bonaccini, autorizzato con
deliberazione della giunta regionale 7 gennaio 2019, n. 16 (doc.  1),
rappresentata e difesa,  come  da  procura  speciale  a  margine  del
presente   atto,   dall'avv.   prof.   Giandomenico   Falcon    (c.f.
FLCGDM45C06L736E,    n.    fax     049-8776503,     indirizzo     PEC
giandomenico.falcon@ordineavvocatipadova.it) di  Padova  e  dall'avv.
Andrea Manzi (c.f. MNZNDR64T26I804V, n. fax 06-3211370, indirizzo PEC
andreamanzi@ordineavvocatiroma.org) di  Roma,  con  domicilio  eletto
nello studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri, n. 5; 
    Contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,   per   la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale: 
        dell'art. 1, comma 1, lettere a), b), d), f), n. 1, i) n.  1,
h), o), p), numeri 1 e 2, comma 2, lettera a), comma 6,  lettere  a),
b), c) e d), comma 7, lettere a) e b), comma 8,  comma  9;  dell'art.
12, comma 1, lettere a), a-bis), a-ter), b), c), d), comma 2, lettera
a), numeri 1 e 2, lettera b), c), d), numeri 1 e 2, f), numeri 1, 2 e
5, g), numeri 1 e 2, h), numeri 1 e  2,  h-bis),  l),  m),  comma  3,
lettera a), comma 4, comma 5, comma 6; dell'art. 13, comma 1, lettera
a), n. 2, lettera b), numeri 1 e 2, lettera c); dell'art.  21,  comma
1, lettera a); dell'art. 21-bis, commi 1 e  2,  decreto-legge  del  4
ottobre 2018, n. 113, recante «Disposizioni  urgenti  in  materia  di
protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonche'
misure  per   la   funzionalita'   del   Ministero   dell'interno   e
l'organizzazione  e  il  funzionamento  dell'Agenzia  nazionale   per
l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati
alla criminalita' organizzata», come convertito,  con  modificazioni,
nella legge 1° dicembre  2018,  n.  132,  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale 3 dicembre 2018, n. 281; 
    per violazione degli articoli 2; 3; 5; 10; 11; 32;  34;  35;  97;
114; 117, primo, terzo, quarto e quinto comma; 118; 119, primo comma,
e 120 della Costituzione, nonche' dei principi costituzionali che  da
essi derivano, quale il principio di leale collaborazione. 
 
                                Fatto 
 
    In data 4 ottobre 2018 veniva emanato il  decreto-legge  n.  113,
recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale
e  immigrazione,  sicurezza   pubblica,   nonche'   misure   per   la
funzionalita' del Ministero  dell'interno  e  l'organizzazione  e  il
funzionamento  dell'Agenzia  nazionale  per  l'amministrazione  e  la
destinazione dei beni  sequestrati  e  confiscati  alla  criminalita'
organizzata». 
    Il decreto e' stato poi convertito, in  data  1°  dicembre  2018,
nella legge n. 132. 
    La disciplina innova profondamente molteplici aspetti del diritto
dell'immigrazione e dell'accoglienza,  incidendo,  ai  fini  che  qui
interessano, sotto i seguenti profili: soppressione della  protezione
per motivi umanitari (art. 1);  accoglienza  di  livello  locale  nel
sistema SPRAR (art.  12);  iscrizione  anagrafica  (art.  13);  DASPO
urbano  (art.  21);  accordo  locali   per   la   prevenzione   della
criminalita' (art. 21-bis). 
    Data la complessita' e la specificita' dei  singoli  temi,  e  la
stretta  connessione  tra  contenuti  normativi  e   i   profili   di
illegittimita'  costituzionale,  l'illustrazione  delle  disposizioni
impugnate sara' fatta nella parte in diritto. 
    E' tuttavia impossibile non rilevare e segnalare  fin  d'ora  due
indirizzi  di  fondo  della  normativa  qui  impugnata:  da  un  lato
l'obiettivo,  perseguito  nell'art.  1,  di  ridurre  il  numero  dei
migranti legittimamente soggiornanti, attraverso l'eliminazione della
clausola generale di accoglienza a chi ne abbia titolo costituzionale
o internazionale  espressa  dal  permesso  di  soggiorno  per  motivi
umanitari;  dall'altro  l'obiettivo,  perseguito   dall'art.   13   e
dall'art. 12, di ridurre al  minimo  possibile  la  relazione  tra  i
migranti richiedenti asilo, il territorio nel quale essi si vengono a
trovare e le comunita' in esso insediate. 
    Questo secondo obiettivo e' perseguito in  primo  luogo  all'art.
13, scindendo il legame giuridico tra la persona e il luogo  espresso
dalla residenza, sostituita da una  mera  domiciliazione  di  singoli
atti concernenti la persona, in  secondo  luogo  privando  la  stessa
comunita' territoriale ove il richiedente asilo si trova del  compito
e della stessa possibilita' di intrattenere con i  richiedenti  asilo
effettivi rapporti di accoglienza: sicche' il  migrante,  privato  di
riferimenti territoriali, si trova confinato nella  non  certo  fitta
rete dei Centri di prima accoglienza quale mera pratica in attesa  di
definizione. 
    Ne risulta una sorta di deterritorializzazione della presenza dei
migranti, che inevitabilmente  si  ripercuote  sulle  funzioni  delle
regioni e degli enti locali in  diversi  ambiti,  quali  l'assistenza
sociale e sanitaria, l'istruzione e la formazione  professionale,  la
tutela  del   lavoro,   l'organizzazione   territoriale,   l'ordinato
svolgimento della vita cittadina. 
    La Regione Emilia-Romagna ritiene che alcuni elementi del disegno
cosi' perseguito attraverso le disposizioni indicate in epigrafe  del
decreto-legge n. 113 del 2018 contraddicano importanti indicazioni  e
prescrizioni della Costituzione, e per tale ragione, in  quanto  esse
ridondino sull'esercizio delle sue funzioni, essa propone il presente
ricorso, facendo valere i seguenti motivi di 
 
                               Diritto 
 
Sulla legittimazione  della  Regione,  a  tutela  delle  attribuzioni
proprie, anche unitamente a quelle degli enti  locali.  Interesse  al
ricorso. 
    La circostanza che molte disposizioni del decreto-legge 4 ottobre
2018, n. 113, recante «Disposizioni urgenti in materia di  protezione
internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonche' misure per
la funzionalita' del Ministero dell'interno e l'organizzazione  e  il
funzionamento  dell'Agenzia  nazionale  per  l'amministrazione  e  la
destinazione dei beni  sequestrati  e  confiscati  alla  criminalita'
organizzata» (convertito con modificazioni dalla  legge  1°  dicembre
2018, n. 132), e tra di esse talune delle disposizioni impugnate  nel
presente ricorso, siano ascrivibili a competenze  statali  esclusive,
quali il diritto di asilo e la condizione giuridica dei cittadini  di
Stati non appartenenti all'Unione europea (art. 117,  secondo  comma,
lettera a, Cost.), l'immigrazione (art. 117, secondo  comma,  lettera
b, Cost.), oltre che l'anagrafe (art. 117, secondo comma, lettera  i,
Cost.), e la sicurezza pubblica (art. 117, secondo comma, lettera  h,
Cost.), suggerisce di premettere ai singoli  motivi  di  censura  una
dimostrazione generale della legittimazione della Regione a ricorrere
a codesta Corte, ai sensi dell'art.  127,  secondo  comma,  Cost.,  a
tutela  delle  propria  sfera  di  competenza  e,  con  essa,   delle
attribuzioni degli enti locali incise delle norme qui contestate. 
    a. La Regione agisce, anzitutto, per salvaguardare l'esercizio di
proprie competenze residuali e concorrenti, tra cui quelle in materia
di assistenza sociale, di formazione professionale (art. 117,  quarto
comma, Cost.), di tutela della salute, di  tutela  del  lavoro  (art.
117, terzo  comma,  Cost.).  Con  riferimento  alle  norme  contenute
nell'art. 1 del decreto-legge, che eliminano il permesso di soggiorno
per motivi umanitari e privano  i  soggetti  gia'  titolari  di  tale
status dei  diritti  sociali  legati  ad  esso,  la  Regione  ben  e'
consapevole, naturalmente, della competenza dello  Stato  a  regolare
l'immigrazione e l'ingresso e il soggiorno dei cittadini di Stati non
appartenenti  all'Unione   europea,   nonche',   specificamente,   la
condizione giuridica dello straniero e il diritto di asilo. 
    Ugualmente, con riguardo alle norme in materia di anagrafe  (art.
13 del decreto-legge), la Regione ovviamente riconosce pienamente  la
competenza statale a disciplinare le iscrizioni anagrafiche. 
    Tali  competenze,  infatti,  sono  puntualmente  attribuite  allo
Stato-persona dall'art. 117, secondo comma, lettere a) e b), ed i), e
quindi certamente la fonte normativa  chiamata  a  disciplinare  tali
materie e' la legge dello Stato. 
    Ma e' proprio in forza di tali competenze esclusive dello  Stato,
che la legge regionale nella disciplina dei diversi settori materiali
- quali la tutela della salute, la assistenza sociale, l'istruzione -
si trova condizionata, in questi e  negli  altri  ambiti  di  propria
competenza, a rispettare  e  sviluppare  le  scelte  contenute  nella
legislazione  statale.  La  quale  legislazione  statale,   contenuta
principalmente nel decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, «Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina  dell'immigrazione
e  norme  sulla  condizione  dello  straniero»,  che  costituisce  il
compendio  normativa   sul   quale   principalmente   interviene   il
decreto-legge,  e'  espressamente  qualificata  come  normazione   di
principio per le regioni dall'art. 1, comma 4, dello  stesso  decreto
legislativo n. 286  del  1998.  Tale  disposizione  del  testo  unico
sull'immigrazione, infatti, sancisce che «nelle materie di competenza
legislativa delle regioni, le disposizioni del presente  testo  unico
costituiscono principi fondamentali  ai  sensi  dell'art.  117  della
Costituzione» e che «per le materie di  competenza  delle  regioni  a
statuto speciale e delle province autonome, esse hanno il  valore  di
norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica». 
    In forza di  tale  clausola  le  disposizioni  del  decreto-legge
immesse nel testo unico con  la  tecnica  della  novella  partecipano
della stessa qualificazione. 
    Inoltre, proprio guardando alla vigente disciplina  del  fenomeno
migratorio, codesta ecc.ma Corte ha osservato che  «la  stessa  legge
statale disciplina  la  materia  dell'immigrazione  e  la  condizione
giuridica  degli  stranieri  proprio  prevedendo  che  una  serie  di
attivita' pertinenti la disciplina del fenomeno  migratorio  e  degli
effetti sociali di quest'ultimo vengano  esercitate  dallo  Stato  in
stretto coordinamento con le regioni,  ed  affida  alcune  competenze
direttamente a  queste  ultime;  cio'  secondo  criteri  che  tengono
ragionevolmente conto del fatto  che  l'intervento  pubblico  non  si
limita al doveroso controllo  dell'ingresso  e  del  soggiorno  degli
stranieri sul territorio nazionale, ma riguarda necessariamente altri
ambiti, dall'assistenza all'istruzione, dalla salute  all'abitazione,
materie che intersecano ex Costituzione, competenze dello  Stato  con
altre regionali, in forma esclusiva o concorrente». 
    Non a  caso,  gia'  sul  piano  del  riparto  costituzionale,  la
presenza di interessi e di  competenze  regionali  anche  all'interno
della competenza esclusiva sulla immigrazione e' oggetto di  espresso
riconoscimento nell'art. 118, terzo comma, Cost., a mente  del  quale
«la legge statale disciplina  forme  di  coordinamento  fra  Stato  e
Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del  secondo  comma
dell'art. 117». 
    La Regione lamenta quindi che, nel regolare  oggetti  di  propria
competenza, lo Stato abbia dettato norme che a suo avviso sono, nelle
parti  contestate,  incostituzionali  per  le  ragioni  che   saranno
illustrate nei singoli motivi di censura, e  rileva  che  tali  norme
costringono l'azione regionale in una cornice normativa  illegittima,
condizionando e viziando conseguentemente gli stessi atti legislativi
ed amministrativi adottati dall'ente regionale nel rispetto di quella
cornice. Tale lesione e' ad avviso della Regione  evidente  -  e  non
richiederebbe dunque specifica illustrazione - con  riferimento  alle
disposizioni dell'art. 1 del decreto-legge  che  privano  i  soggetti
oggi titolari di  permesso  di  soggiorno  per  motivi  umanitari  di
specifici diritti, quali il godimento  dell'assistenza  sanitaria  in
condizione di parita' con  i  cittadini  italiani,  il  diritto  allo
studio, il diritto al lavoro e alla formazione professionale (sezione
I, motivo 1.3). 
    Appare chiara, infatti,  l'interferenza  di  queste  norme  sulle
funzioni in atto svolte dalla Regioni -  in  punto  di  tutela  della
salute, di istruzione e di diritto allo studio, di  avviamento  e  di
formazione professionale e di tutela del lavoro - e quindi la lesione
indiretta ovvero la ridondanza, in  quanto  le  posizioni  soggettive
eliminate in capo alle persone titolari di permesso di soggiorno  per
motivi umanitari hanno natura di diritti o  di  interessi  pretensivi
conformati dalla legislazione regionale e azionabili, sulla  base  di
tale  legislazione,  nei  confronti   della   Regione,   degli   enti
strumentali della Regione o degli enti locali. 
    Ugualmente,  risulta  evidente  la   lesione   delle   competenze
regionali  in  relazione  alle  norme  contenute  nell'art.  12   del
decreto-legge relative alla  assistenza  ai  richiedenti  asilo,  che
investe la materia regionale della assistenza sociale e che incide su
competenze  amministrative  oggi  esercitate  dai  comuni  ai   sensi
dell'art. 118, primo comma, Cost. 
    Ma se  l'interferenza  sussiste  chiaramente  con  riferimento  a
singoli  diritti   o   prestazioni   nominalmente   individuati   dal
legislatore del decreto-legge, a maggior ragione tale interferenza e'
determinata (i) dalle norme generali che pretendono di eliminare  pro
futuro, e in ipotesi anche con  valenza  retroattiva,  lo  status  di
soggiornante legale dello straniero che sia  accolto  sul  territorio
nazionale in esecuzione di obblighi costituzionali o  internazionali,
al di fuori dei casi speciali previsti dal decreto-legge (sezione I);
(ii) dalle norme che impediscono la registrazione della residenza dei
richiedenti asilo (sezione III). 
    Con riferimento alla prima ipotesi, l'apparente privazione  dello
status di straniero regolarmente soggiornante -  cioe'  di  straniero
munito di quella particolare autorizzazione  di  polizia  che  e'  il
permesso di soggiorno - con riferimento a persone  aventi  diritto  a
protezione umanitaria per obbligo costituzionale o internazionale, fa
si' che tali soggetti, comunque presenti nel territorio regionale, si
trovino privati di una serie indeterminata  di  diritti  civili,  dei
quali invece,  ai  sensi  dell'art.  1,  comma  2,  del  testo  unico
sull'immigrazione gode lo straniero autorizzato al soggiorno. 
    Tale   disposizione,   infatti,   prevede   che   «lo   straniero
regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti
in materia civile attribuiti al  cittadino  italiano,  salvo  che  le
convenzioni internazionali in vigore per l'Italia e il presente testo
unico  dispongano  diversamente»,  dove   i   diritti   civili   sono
comprensivi anche dei diritti di prestazione, taluni del  quali  sono
poi specificati nelle disposizioni contenute nel titolo III e  V  del
testo unico sull'immigrazione. Norme siffatte, in ragione del rilievo
generale e sistematico che rivestono, hanno anche l'attitudine,  come
codesta Corte ha precisato nella sentenza n. 432 del 2005, a  fungere
da «paradigma sulla cui falsariga calibrare  l[o]  ...  scrutinio  di
ragionevolezza» per le scelte del legislatore regionale. 
    Quanto alla seconda ipotesi, concernente la residenza anagrafica,
la preclusione, o  comunque  la  limitazione  della  possibilita'  di
ottenerla per i richiedenti asilo fa  si'  che  questa  categoria  di
persone, egualmente presenti sul territorio della Regione e dei  suoi
Comuni, si trovino impedite nel godimento di quei servizi per i quali
proprio la residenza costituisce presupposto essenziale, in tutte  le
ipotesi cioe' nelle quali, secondo l'insegnamento di  codesta  ecc.ma
Corte essa rappresenta il criterio non irragionevole di  attribuzione
del beneficio, e  in  particolare  di  alcune  provvidenze  regionali
(sentenza n. 432 del  2005,  piu'  volte  ripresa,  da  ultimo  nella
sentenza n. 107 del 2018). 
    b. La Regione agisce altresi' a tutela delle  attribuzioni  degli
enti locali, e segnatamente dei comuni, che  esercitano  funzioni  in
materia di assistenza ai richiedenti asilo, ai sensi  dell'art.  118,
primo comma, Cost., oltre  ad  altre  funzioni  di  assistenza  e  di
integrazione  sociale  degli  stranieri,   attribuite   dalla   legge
regionale (l'art. 5, comma 5, della legge regionale 4 marzo 2004,  n.
5,  «Norme  per  l'integrazione  sociale  dei   cittadini   stranieri
immigrati», sancisce che «in attuazione dei principi di cui al  comma
primo dell'art. 118 della Costituzione, compete ai comuni l'esercizio
di ogni ulteriore funzione  concernente  l'integrazione  sociale  dei
cittadini stranieri  immigrati»),  e  alle  funzioni  in  materia  di
anagrafe, conferite dalla legge statale. 
    In  ordine  a  tale  legittimazione  della  Regione  a   proporre
impugnazioni anche a tutela della autonomia comunale, si osserva  che
la giurisprudenza costituzionale l'ha  riconosciuta,  a  partire  dal
2004, sul rilievo che «la stretta connessione ... tra le attribuzioni
regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la
lesione  delle  competenze  locali  sia   potenzialmente   idonea   a
determinare una vulnerazione delle competenze regionali» (sentenza n.
196 del 2004). 
    Successivamente, con la sentenza n. 298 del 2009,  codesta  Corte
costituzionale ha ulteriormente confermato  la  legittimazione  delle
Regione a far valere competenze degli enti locali, con l'affermazione
netta per cui queste «sono legittimate a denunciare la legge  statale
anche  per  la  lesione  delle  attribuzioni   degli   enti   locali,
indipendentemente  dalla  prospettazione   della   violazione   della
competenza legislativa regionale». Richiamato il principio per cui la
suddetta legittimazione sussiste in capo alle regioni, in quanto  «la
stretta connessione, in particolare [..] in tema di finanza regionale
e locale, tra le attribuzioni  regionali  e  quelle  delle  autonomie
locali consente di ritenere che la lesione  delle  competenze  locali
sia  potenzialmente  idonea  a  determinare  una  vulnerazione  delle
competenze regionali», la Corte ha precisato  che  l'affermazione  si
riferisce, «in modo evidente, a tutte le attribuzioni  costituzionali
delle regioni e degli enti locali e prescinde, percio', dal titolo di
competenza   legislativa   esclusivo,   concorrente    o    residuale
eventualmente invocabile nella fattispecie» e  che  «in  particolare,
non richiede, quale condizione necessaria per la  denuncia  da  parte
della regione di un vulnus delle competenze locali, che  sia  dedotta
la violazione delle attribuzioni legislative regionali». 
    Tali affermazioni sono state da ultimo riprese e  ribadite  dalla
sentenza n. 220 del 2013, in cui codesta ecc.ma Corte ripete che  «la
giurisprudenza costituzionale  ha  ripetutamente  affermato  che  "le
regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche  per  la
lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla
prospettazione  della   violazione   della   competenza   legislativa
regionale" (ex plurimis, sentenze n. 311 del 2012, n. 298  del  2009,
n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004)». 
    Sul piano ordinamentale, tale legittimazione straordinaria  della
Regione e' nota al legislatore statale, visto che l'art. 32,  secondo
comma, della legge n. 87 del 1953, novellato dall'art.  9,  comma  2,
della legge n. 131 del 2003, prevede  appunto  che  la  questione  di
legittimita' costituzionale in via principale possa  essere  promossa
dal  presidente  della  giunta,  previa  deliberazione  della  giunta
regionale, «anche su proposta del Consiglio delle autonomie  locali»,
proposta che logicamente ha ad oggetto la reazione  contro  possibili
lesioni della autonomia degli enti locali. 
    Nel presente caso, le norme che incidono sulle attribuzioni degli
enti locali sono principalmente quelle in materia di accoglienza  dei
richiedenti  asilo  (contenute  nell'art.  12  del  decreto-legge  ed
illustrate nella sezione II del  ricorso)  e  quelle  in  materia  di
anagrafe (art. 13 del decreto-legge, oggetto della  sezione  III  del
ricorso), le quali, per quanto  attribuite  dalla  legge  statale  al
sindaco e all'apparato amministrativo del  comune,  sono  pur  sempre
funzioni che spettano ai comuni ai sensi dell'art. 118, primo  comma,
Cost., in connessione  con  l'art.  5  Cost.,  in  forza  della  loro
funzione di comunita' amministrativa di base. 
    Evidente e' dunque l'interesse dei  comuni  ad  ottenere  che  le
funzioni da essi esercitate per  effetto  di  vincoli  costituzionali
(articoli 118,  primo  comma,  e  5  Cost.)  concretizzati  da  leggi
regionali e statali, non siano guidate da leggi illegittime. 
    Tale  interesse,  innanzi  a  codesta  Corte  costituzionale,  e'
tutelato attraverso il potere di  azione  riconosciuto  alla  regione
dall'art. 127, secondo comma, Cost., tanto piu' se  le  stesse  norme
contestate comportano lesioni indirette  di  attribuzioni  regionali,
come sopra illustrato. 
    c. La  Regione  Emilia-Romagna  ritiene  di  avere  un  interesse
immediato e concreto alla  presente  impugnazione  giacche'  essa  ha
dettato, fin dalla legge regionale  24  marzo  2004,  n.  5,  recante
«Norme per l'integrazione sociale dei cittadini stranieri  immigrati.
Modifiche alle leggi regionali 21 febbraio 1990, n.  14  e  12  marzo
2003, n. 2»,  specifiche  norme  a  favore  delle  persone  straniere
presenti nella regione e funzionali alla effettiva garanzia dei  loro
diritti  sociali,  norme  che  hanno   superato   il   controllo   di
costituzionalita' (sollecitato dal Governo sull'intera legge) con  la
sentenza n. 300 del 2005. 
    L'art. 1 di tale legge impegna la regione,  nell'esercizio  delle
proprie competenze, a concorrere «alla tutela dei cittadini di  Stati
non appartenenti all'Unione europea e  degli  apolidi,  presenti  nel
proprio territorio, riconoscendo loro i  diritti  fondamentali  della
persona  umana  previsti  dalle  norme  di  diritto  interno,   dalle
convenzioni internazionali  in  vigore  e  dai  principi  di  diritto
internazionale generalmente riconosciuti» (comma 1); dichiara che «la
legislazione  regionale  si   ispira   alla   garanzia   della   pari
opportunita'  di  accesso  ai  servizi,  al  riconoscimento  ed  alla
valorizzazione della parita' di genere ed al principio di indirizzare
l'azione amministrativa, nel territorio della  regione,  al  fine  di
rendere effettivo l'esercizio dei diritti» (comma  3);  finalizza  le
politiche della regione e degli  enti  locali  alla  rimozione  degli
ostacoli al pieno inserimento sociale, culturale  e  politico  (comma
4); a tale scopo, indirizza la regione a strutturare  il  sistema  di
tutela e promozione  sociale  degli  immigrati  alle  finalita',  tra
l'altro, della rimozione degli ostacoli di ordine economico,  sociale
e culturale, allo  scopo  di  garantire  per  i  cittadini  stranieri
immigrati pari opportunita' di  accesso  all'abitazione,  al  lavoro,
all'istruzione ed  alla  formazione  professionale,  alla  conoscenza
delle  opportunita'  connesse  all'avvio  di  attivita'  autonome  ed
imprenditoriali, alle prestazioni sanitarie ed assistenziali, e della
rimozione delle eventuali condizioni di marginalita'  sociale  (comma
5). 
    Tali norme sono a loro volta la proiezione giuridico-normativa di
principi programmatici contenuti nello  Statuto  regionale  approvato
con legge regionale 31 marzo 2005,  n.  13,  «Statuto  della  Regione
Emilia-Romagna», il quale, all'art. 2, comma 1,  lettera  f),  indica
tra  gli  obiettivi  che  debbono  ispirare  l'azione  regionale  «il
godimento  dei  diritti  sociali  degli  immigrati,  degli  stranieri
profughi  rifugiati  ed  apolidi,  assicurando,   nell'ambito   delle
facolta' che le sono costituzionalmente riconosciute, il  diritto  di
voto degli immigrati residenti». 
    Per quanto proprio tale disposizione non sia stata  intesa  -  al
pari di altri enunciati  programmatici  degli  statuti  regionali  di
seconda generazione, considerati dalle sentenze numeri 372 e 378  del
2004 - come espressione di una vera e propria norma  giuridica,  essa
risulta pur sempre rilevante nel qualificare la  regione  come  «ente
esponenziale  della  collettivita'  regionale  e  del  complesso  dei
relativi  interessi  ed  aspettative»,  in  quanto   espressiva   dei
convincimenti «delle diverse sensibilita'  politiche  presenti  nella
comunita' regionale al momento dell'approvazione dello statuto». 
    E una volta che tali convincimenti si  siano  tradotti  in  norme
giuridiche,  quali  sono  certamente  quelle  contenute  nella  legge
regionale n. 5 del 2004, diviene certo l'interesse  della  regione  a
contestare una  serie  di  norme  che  impediscono  o  ostacolano  il
perseguimento delle finalita' che l'ente si e' dato. 
I. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 1,  DECRETO-LEGGE  N.  113
DEL 2018. 
    La presente sezione comprende i  motivi  di  ricorso  in  cui  la
Regione: a) censura le norme, contenute nell'art. 1 del decreto-legge
n. 113 del 2018, che sopprimono il permesso di soggiorno  per  motivi
umanitari, sostituendolo con  il  permesso  di  soggiorno  per  «casi
speciali» che non comprendono tutte le ipotesi risultanti da obblighi
costituzionali o internazionali  dello  Stato  (motivo  1.1);  b)  in
subordine  alla  censura  precedente,  censura  la  disposizione  che
tipizza in modo eccessivamente restrittivo il caso  speciale  di  cui
all'art.  20-bis,  riferito  all'ipotesi  in  cui  il  rientro  e  il
soggiorno dello straniero nel paese di origine non  possano  avvenire
in ogni caso (motivo 1.2), e le disposizioni che escludono  dai  casi
speciali della violenza domestica e dello sfruttamento lavorativo  la
menzione dei motivi umanitari; c) censura  le  norme  che  privano  i
titolari del permesso di soggiorno per motivi umanitari di una  serie
di diritti di cui essi  godono  (I.3.e  1.4);  d)  censura  le  norme
contenute nei commi 8 e 9, e nella parte  in  cui  siano  intese  nel
senso di impedire il rinnovo o il rilascio del titolo a soggetti  cui
l'esigenza di protezione umanitaria sia gia' stata riconosciuta (I.5)
e comunque ove interpretate nel senso che determinino  l'applicazione
retroattiva delle nuove norme recate dal decreto-legge  alle  domande
di protezione umanitaria  presentate  da  soggetti  che  hanno  fatto
ingresso nel territorio dello Stato prima del 5 ottobre 2018, data di
entrata in vigore del decreto-legge (motivo 1.6). 
I.1. Illegittimita' costituzionale  delle  norme  che  sopprimono  la
menzione del permesso di soggiorno per motivi  umanitari,  risultanti
da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, per
violazione dell'art. 117, primo comma, 10, 3 e 97, secondo comma, 2 e
3 Cost., ridondante in lesione delle competenze regionali e comunali,
garantite dall'art. 117, terzo e quarto comma, 118, primo  e  secondo
comma, Cost. 
    La  Regione  impugna,   anzitutto,   le   norme   contenute   nel
decreto-legge n. 113 del 2018, nel testo risultante  dalla  legge  di
conversione  n.  132  del  2018,  che  sopprimono  nel  Testo   unico
dell'immigrazione e nel relativo regolamento di  attuazione,  nonche'
in altri atti  normativi  (d.lgs.  n.  25  del  2008  e  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 21  del  2015),  tutti  i  riferimenti
relativi al permesso di soggiorno per motivi umanitari, rilasciato in
presenza di obblighi costituzionali o internazionali: protezione  che
era ricostruita come la «forma di tutela a carattere residuale  posta
a chiusura del  sistema  complessivo  che  disciplina  la  protezione
internazionale  degli  stranieri  in  Italia»  (Cassazione,  sez.  I,
sentenza n. 4455 del 2018). 
    A  seguito  delle  modifiche  apportate  dal  decreto-legge   qui
impugnato, la menzione di tale titolo di soggiorno gia' contenuta nel
Testo unico della immigrazione e' sostituita con il riferimento  alle
diverse ipotesi di permesso di  soggiorno  in  «casi  speciali»,  che
tuttavia, essendo circoscritti e tassativi, non sono suscettibili  di
assicurare   la   copertura   dell'intero   campo   degli    obblighi
internazionali e costituzionali. 
    La sostituzione che qui si censura risulta, in particolare: 
        dall'art.  1,  comma  1,  lettera  b),  nella  parte  in  cui
sostituisce l'art. 5, comma 6,  del  testo  unico  sull'immigrazione,
sopprimendo  le  parole  «salvo  che  ricorrano   seri   motivi,   in
particolare  di  carattere  umanitario  o  risultanti   da   obblighi
costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso  di
soggiorno per motivi umanitari e' rilasciato dal questore secondo  le
modalita' previste nel regolamento di attuazione»; 
        dall'art. 1, comma 2, nella parte in cui,  alla  lettera  a),
modifica il decreto legislativo 28 gennaio 2008,  n.  25,  eliminando
nell'art. 32, comma 3, la previsione generale per cui nei casi in cui
la commissione territoriale non  accolga  la  domanda  di  protezione
internazionale ma ritenga che  possano  sussistere  gravi  motivi  di
carattere  umanitario,  essa  trasmette  gli  atti  al  questore  per
l'eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell'art.  5,
comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286,  previsione
ora sostituita da  altra  che  consente  tale  possibilita'  solo  se
ricorrono i presupposti di cui all'art. 19, commi 1 e 1.1  del  testo
unico sull'immigrazione; 
        dall'art. 1, comma 6, nella parte in cui - lettere a) e b)  -
abroga le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 31
agosto 1999, n. 394, recante il regolamento di attuazione  del  testo
unico sull'immigrazione, che attribuivano al questore la competenza a
rilasciare (art. 11, comma 1, lettera c-ter,  del  regolamento)  o  a
rinnovare  (art.  13,  comma  1,  del  regolamento)  il  permesso  di
soggiorno per motivi umanitari; 
        dall'art. 1, comma 7, lettere a) e  b)  nella  parte  in  cui
modifica il decreto del Presidente della Repubblica 12 gennaio  2015,
n. 21, abrogandone l'art. 6, comma  2  e  sopprimendo  nell'art.  14,
comma 4, le parole da «, ovvero se ritiene che sussistono» fino  alla
fine del comma, con cio' eliminando  la  previsione  per  cui  se  la
Commissione   territoriale   rigetta   la   domanda   di   protezione
internazionale ma ritiene che sussistano gravi  motivi  di  carattere
umanitario essa trasmette gli atti al questore per  il  rilascio  del
permesso di soggiorno di durata biennale ai sensi dell'art. 32, comma
3, del decreto, e la previsione per cui la commissione nazionale,  se
sussistono condizioni previste dal decreto  legislativo  19  novembre
2007, n. 251,  riconosce  uno  status  di  protezione  internazionale
diverso da quello di cui dichiara la cessazione o la  revoca,  ovvero
se ritiene  che  sussistono  gravi  motivi  di  carattere  umanitario
trasmette gli atti al  questore  per  il  rilascio  del  permesso  di
soggiorno di durata biennale ai sensi  dell'art.  32,  comma  3,  del
decreto. 
    I «casi speciali» divenuti ora rilevanti  e  tassativi  in  forza
delle disposizioni sopra indicati sono previsti nell'art. 18 del t.u.
imm., per motivi di protezione  sociale;  nell'art.  18-bis,  per  le
vittime di violenza domestica; nell'art.  22,  comma  12-quater,  per
particolare sfruttamento lavorativo; all'art. 19,  comma  2,  lettera
d-bis), per cure mediche di particolare gravita'; nell'art. 32, comma
3, del decreto legislativo n. 25 del 2008, per  protezione  speciale,
nei limiti stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 1.1, del t.u.  imm.,  in
applicazione  del  principio  di  non  refoulement  per  rischio   di
persecuzione e di  tortura;  nell'art.  20-bis  del  t.u.  imm.,  per
contingente ed eccezionale calamita' naturale. 
    Tali casi danno luogo a specifiche problematiche, su parte  delle
quali ci si soffermera' in quanto diano luogo a particolari questioni
di legittimita' costituzionale. In primo luogo, tuttavia,  ad  avviso
della ricorrente Regione l'abrogazione della clausola generale  e  la
sua sostituzione con i predetti casi speciali risulta in  se'  stessa
costituzionalmente illegittima in quanto  una  clausola  elastica  ed
aperta,   che   rinvia   appunto   alla   sussistenza   di   obblighi
costituzionali  o  internazionali,  non  e'   sostituibile   con   la
previsione di casi tassativi, i quali comunque, in ragione della loro
stessa struttura e conformazione, non sono in grado di  garantire  la
copertura dell'intera area di accoglienza dovuta  in  esecuzione  dei
predetti obblighi. 
    Che  tali  impegni  internazionali  e  costituzionali  continuino
giuridicamente ad esistere, in ogni caso, non puo' esser dubbio, come
del resto e' stato evidenziato anche dal Presidente della  Repubblica
nella  nota  formale  con  cui  ha  accompagnato   l'emanazione   del
decreto-legge, nella quale si e' rilevato  che  «restano  "fermi  gli
obblighi costituzionali e internazionali dello  Stato",  pur  se  non
espressamente richiamati  nel  testo  normativo  e,  in  particolare,
quanto direttamente disposto dall'art. 10 della Costituzione e quanto
discende dagli impegni internazionali assunti dall'Italia». 
    Del resto, ne' il decreto-legge, ne' la sua legge di  conversione
avrebbero la forza di eliminare obblighi costituzionali o anche  solo
internazionali,  imposti  all'osservanza  del  legislatore  ordinario
dall'art. 117, primo comma, Cost. 
    Se dunque non e' in discussione la perdurante  sussistenza  degli
obblighi costituzionali e  internazionali  in  materia  di  soggiorno
dello straniero, e' altresi' vero che l'abrogazione del  permesso  di
soggiorno per  motivi  umanitari,  gia'  previsto  dal  testo  unico,
determina la violazione di quegli stessi obblighi, in quanto cancella
proprio le norme che davano attuazione, sul piano amministrativo,  ai
doveri  di  accoglienza  gravanti  sullo   Stato   in   forza   della
Costituzione, di consuetudini internazionali o di trattati. 
    Dunque, la violazione costituzionale - e in particolare dell'art.
117, primo comma,  Cost.,  che  enuncia  come  limite  alla  funzione
legislativa dello Stato (e delle regioni) la Costituzione e i vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali - e' patente. 
    Si  noti  che  non  varrebbe  obiettare  che   tale   abrogazione
ripristina la situazione normativa  in  atto  prima  dell'entrata  in
vigore della legge 6 marzo 1998, n. 40, «Disciplina dell'immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero»,  poi  rifusa  nel  decreto
legislativo n. 286 del 1998, legge cui si deve la introduzione  della
disciplina in materia di permesso di soggiorno per motivi umanitari. 
    Invero, prima della legge n. 40 del 1998, la giurisprudenza della
Corte di  cassazione  era  pervenuta  ad  affermare  l'applicabilita'
diretta dell'art. 10, terzo comma,  Cost.,  pur  in  assenza  di  una
disciplina attuativa. 
    Tuttavia, in seguito alla entrata in vigore della legge n. 40 del
1998 e delle norme  nazionali  di  recepimento  della  direttiva  cd.
«qualifiche» 2004/83/CE del  Consiglio,  modificata  dalla  direttiva
2011/95/UE del Parlamento europeo  e  del  Consiglio  (contenute  nel
decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, modificato dal  decreto
legislativo 21 febbraio 2014, n. 18) e  della  direttiva  «procedure»
2005/85/CE  del  Consiglio  (contenute  nel  decreto  legislativo  28
gennaio 2008, n. 25, poi modificato dal decreto legislativo 18 agosto
2015, n. 142, in attuazione delle successive direttive 2013/33/UE del
Parlamento europeo e  del  Consiglio,  e  2013/32/UE  del  Parlamento
europeo e  del  Consiglio),  la  giurisprudenza  di  legittimita'  ha
ritenuto il sistema esaustivo in termini di disciplina positiva,  sul
rilievo che tali discipline apprestavano  una  tutela  completa  alle
persone straniere che nel nostro Paese richiedevano asilo, protezione
sussidiaria  ovvero  protezione  umanitaria   imposta   da   obblighi
costituzionali o internazionali: tale ultima forma di protezione,  se
aveva  fondamento  direttamente  negli  obblighi   costituzionali   o
internazionali, trovava la strumentazione amministrativa nelle norme,
ora  abrogate,  sul  permesso  di  soggiorno  per  motivi   umanitari
contenute nel testo  unico  sull'immigrazione  e  quella  processuale
nelle norme, parimenti abrogate, dei decreti legislativi n.  251  del
2007 e n. 142 del 2015, che prevedevano il potere  delle  commissioni
territoriali di rilasciare tale  titolo  ed  il  potere  del  giudice
civile, e per esso delle sezioni specializzate per l'immigrazione dei
tribunali, di trasmettere gli atti a tali  organi  amministrativi  se
ravvisava i presupposti per la protezione umanitaria. 
    Ora,  sembra  evidente  che  l'espressa  volonta'  legislativa  -
manifestata dalla sistematica abrogazione della menzione del permesso
di soggiorno per motivi  umanitari  nei  testi  normativi  -  di  non
consentire piu' il rilascio  di  tale  titolo  di  soggiorno  pur  in
presenza   di   obblighi   costituzionali   od   internazionali   sia
suscettibile  di  impedire  l'applicazione  in  via   diretta   delle
disposizioni  costituzionali,  e  segnatamente  dell'art.  10,  terzo
comma, Cost. 
    Infatti, se prima non vi era una specifica disciplina legislativa
della materia oggetto della  disposizione  costituzionale,  la  quale
risultava quindi aperta all'applicazione diretta  secondo  le  regole
generali,   ora   l'interposizione   di   un   legislatore   che   ha
dichiaratamente tipizzato, in modo che esso prospetta come esaustivo,
le ipotesi di permesso di soggiorno  in  caso  speciale,  appare  non
consentire il superamento di tale limitazione in via amministrativa e
giurisprudenziale. 
    Cosi',  per  quanto  -  come  ha  ammonito  il  Presidente  della
Repubblica - gli obblighi costituzionali e internazionali non possano
essere scalfiti da una decisione del legislatore ordinario  e  quindi
permangono,  e'  anche  vero  che  a  fronte   della   volonta'   del
legislatore, obiettivata in una fonte  primaria,  di  non  consentire
piu' il rilascio di un titolo di soggiorno in esecuzione di  obblighi
costituzionali ed internazionali amministrazione e giudice si trovano
ostacolati nella diretta applicazione della norma costituzionale,  in
forza della soggezione dell'amministrazione (art. 97, secondo  comma,
Cost.) e del giudice (art. 101, primo comma, Cost.) alla legge, senza
il previo intervento demolitorio di codesta Corte costituzionale. 
    In ogni caso,  ad  avviso  della  Regione,  il  regresso  ad  una
situazione di applicazione diretta delle norme costituzionali,  e  in
particolare  dell'art.  10,  terzo  comma,  Cost.,  in  luogo   della
disciplina attuativa esplicitamente richiesta  da  tale  disposizione
(«secondo  le  condizioni  stabilite  dalla  legge»),   comporterebbe
comunque un vulnus  della  Costituzione,  in  quanto  una  disciplina
costituzionalmente necessaria, qual e' quella di attuazione dell'art.
10, secondo e terzo comma, Cost.,  non  puo'  essere  abrogata  senza
contestuale  sostituzione  con   altra   disciplina   equivalente   e
succedanea. 
    Nel presente caso, invece,  non  vi  e'  stata  tale  contestuale
abrogazione e sostituzione, giacche' i nuovi casi speciali -  che  in
parte specificano quelli gia' previsti dal testo unico  -  certamente
non coprono l'intera area di obbligo costituzionale e  internazionale
prima protetta dalla previsione del permesso di soggiorno per  motivi
umanitari. 
    L'unica fattispecie veramente nuova, quella relativo al  permesso
di soggiorno per «contingente  ed  eccezionale  calamita'»  naturale,
prevista dal nuovo art. 20-bis del decreto  legislativo  n.  286  del
1998, e' formulata in modo  estremamente  limitativo  e  percio'  non
idoneo a dare copertura giuridica a tutti i casi in cui la protezione
e' richiesta da obblighi internazionali o costituzionali (su cio'  si
veda anche la censura sviluppata, in subordine, ai punti  1.2  e  1.3
del presente ricorso). 
    Per contro, come ha osservato la giurisprudenza di  legittimita',
e'  connaturata  alla  protezione  umanitaria,  proprio  per  il  suo
carattere residuale  rispetto  alla  protezione  internazionale  e  a
quella sussidiaria, il suo  dispiegarsi  attraverso  una  fattispecie
aperta. 
    In proposito, la recente sentenza della Corte di cassazione, sez.
I, n. 4455 del 2018, dopo  aver  osservato  -  con  riferimento  alla
disciplina allora vigente -  che  i  motivi  umanitari  «non  vengono
tipizzati o  predeterminati,  neppure  in  via  esemplificativa,  dal
legislatore, cosicche' costituiscono un  catalogo  aperto  (Cass.  n.
26566/2013), pur  essendo  tutti  accomunati  dal  fine  di  tutelare
situazioni  di  vulnerabilita'  attuali  o  accertate,  con  giudizio
prognostico,  come  conseguenza  discendente  dal   rimpatrio   dello
straniero, in presenza di un'esigenza qualificabile come  umanitaria,
cioe' concernente  diritti  umani  fondamentali  protetti  a  livello
costituzionale  e  internazionale  (cfr.  Cassazione,  sez.   un.   ,
19393/2009, par.  3),  ha  chiarito  che  tale  mancata  tipizzazione
corrisponde  alla  logica  della  tutela  residuale:  «la  protezione
umanitaria costituisce  una  delle  forme  di  attuazione  dell'asilo
costituzionale  (art.  10  Cost.,  comma  3),  secondo  il   costante
orientamento di questa Corte (Cass. 10686 del 2012; 16362 del  2016),
unitamente  al  rifugio  politico  ed  alla  protezione  sussidiaria,
evidenziandosi anche in questa funzione il  carattere  aperto  e  non
integralmente tipizzabile delle condizioni per il suo riconoscimento,
coerentemente  con  la  configurazione  ampia  del  diritto   d'asilo
contenuto  nella   norma   costituzionale,   espressamente   riferita
all'impedimento nell'esercizio delle liberta' democratiche, ovvero ad
una formula dai contorni non agevolmente definiti e tutt'ora  oggetto
di ampio dibattito». 
    Per tali motivi la Regione ritiene che  le  norme  impugnate  nel
presente motivo contrastino, anzitutto, con l'art. 117, primo  comma,
Cost., in quanto dichiarano - in modo che sembra persino intenzionale
-  la  volonta'  del   legislatore   di   non   ritenersi   vincolato
all'adempimento di  obblighi  costituzionali  ed  internazionali  per
quanto riguarda gli stranieri bisognosi di protezione umanitaria. 
    Appare poi specificamente leso l'art. 10 della Costituzione,  nel
secondo  comma,  con  riferimento  agli  obblighi  internazionali  di
protezione dello straniero sanciti da convenzioni  internazionali,  e
nel terzo comma, con riferimento agli obblighi di protezione in  capo
alla Repubblica nei confronti dello straniero al quale  sia  impedito
nel suo paese  «l'effettivo  esercizio  delle  liberta'  democratiche
garantite dalla Costituzione italiana». 
    Tali obblighi, infatti, sono «disattivati» dalle norme impugnate. 
    Violato e' altresi' il principio  di  ragionevolezza  e  di  buon
andamento della amministrazione  (con  quest'ultima  lesione  che  si
verifica anche in capo alla amministrazione regionale  e  degli  enti
locali), perche' il rifiuto di considerare autorizzato  il  soggiorno
di persona che abbia comunque titolo  per  permanere  sul  territorio
nazionale in forza di  un  obbligo  costituzionale  o  internazionale
dello   Stato   comporta   una   intrinseca   contraddizione    delle
qualificazioni giuridiche, generatrice di irregolarita' e di  cattiva
azione amministrativa. 
    Si noti infatti che,  oltre  alla  proiezione  nel  futuro  degli
effetti delle disposizioni in questione, gia' oggi le norme impugnate
pongono in posizione di irregolarita' una serie  di  persone  che  si
trovano gia' sul territorio nazionale - e quindi, per quanto  qui  di
interesse, sul territorio regionale e dei comuni della Regione - e in
relazione   ai   quali   sussiste   un   obbligo   costituzionale   o
internazionale che ne impedisce l'allontanamento. 
    Cio' crea nella popolazione regionale  un  gruppo  di  persone  a
condizione giuridica irrimediabilmente degradata,  che  lo  Stato  ha
l'obbligo di non allontanare, ma che tuttavia non sono autorizzate  a
soggiornare e sono pertanto menomati anche nella loro possibilita' di
accesso ai servizi essenziali, anche e in gran parte regionali. 
    Tale situazione appare  contrastante  anche  con  i  principi  di
inviolabilita' della persona umana, nei suoi diritti  fondamentali  e
nella sua dignita', principio radicati negli articoli 2  e  3,  primo
comma, della Costituzione. 
    Infatti, forse allo scopo di esercitare una  pressione  di  fatto
verso l'allontanamento, in ipotesi nelle  quali  lo  Stato  non  puo'
legittimamente  disporlo  a  causa  dei  vincoli   costituzionali   o
internazionali, le norme impugnate privano persone che  hanno  titolo
alla protezione dei loro diritti fondamentali, a partire dallo stesso
diritto alla protezione  umanitaria  che,  secondo  la  ricostruzione
operata dalla giurisprudenza di legittimita', ha  natura  di  diritto
soggettivo perfetto, radicato negli articoli 2  e  10,  terzo  comma,
Cost. 
    Vale anche la pena di ricordare che la  Corte  di  cassazione,  a
partire dalla sentenza delle Sezioni unite n. 4674 del 1997 ha sempre
riconosciuto che la situazione giuridica soggettiva  dello  straniero
richiedente  asilo  ha  consistenza  di  diritto  soggettivo  e  tale
conclusione e' stata estesa dalla sentenza  delle  Sezioni  unite  n.
19393 del 2009 alla pretesa al rilascio di permesso di soggiorno  per
motivi umanitari ai sensi dell'art.  5,  comma  6,  del  testo  unico
sull'immigrazione, «in ragione dell'identita' di natura giuridica del
diritto alla  protezione  umanitaria,  del  diritto  allo  status  di
rifugiato e del diritto costituzionale di asilo, in quanto situazioni
tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali, la
cui giurisdizione spetta, in  mancanza  di  una  norma  espressa  che
disponga  diversamente,  all'autorita'   giurisdizionale   ordinaria»
(cosi' Sezioni unite, sentenza 30 marzo 2018,  n.  8044,  con  rinvio
alla sentenza n. 19393 del 2009; tra le piu' recenti, si  vedano  poi
le sentenze delle Sezioni unite 29 gennaio 2019, n. 2442; 12 dicembre
2018, n. 3217; 11 dicembre 2018,  n.  32044;  28  novembre  2018,  n.
30758). 
    La Regione ritiene di aver dimostrato la  propria  legittimazione
nella  premessa  al  presente  ricorso,  alla  quale  rinvia  per  le
considerazioni piu' generali. 
    In relazione al presente motivo essa aggiunge che l'effetto delle
norme impugnate, descritto sopra, si  riflette  sull'esercizio  delle
competenze regionali (e comunali) in una pluralita' di materie. 
    Le persone che hanno un diritto  costituzionale  o  convenzionale
alla protezione  umanitaria  ma  che  le  norme  impugnate  mirano  a
lasciare  prive  di  formale  autorizzazione  al  soggiorno   vengono
conseguentemente  private  anche  di  ogni  forma   di   cittadinanza
amministrativa e quindi entrano  in  contatto  con  l'amministrazione
regionale soltanto nella forma della emergenza assistenziale e non in
quella, scelta dalla legislazione regionale (v. la legge regionale n.
5 del 2004), della integrazione sociale. Si  ponga  mente,  per  fare
soltanto qualche esempio,  alla  tutela  della  salute,  che  a  tali
persone puo' essere  assicurata  soltanto  attraverso  i  presidi  di
pronto soccorso e non nelle forme di tutela  integrata  (medicina  di
base,  prevenzione)  che  corrispondono  anche  all'interesse   della
collettivita', ai sensi dell'art. 32, primo comma, Cost.; oppure alla
esclusione dall'attivita'  lavorativa  e  dalla  relativa  formazione
professionale,  che  trasforma  tali   persone   in   individui   non
auto-sufficienti, che necessariamente si trovano a  fare  affidamento
per  la  propria  sopravvivenza  alla  solidarieta'  della  comunita'
regionale, nelle forme private o attraverso  quelle  pubbliche  della
assistenza sociale. 
I.2. In subordine. Illegittimita' costituzionale dell'art.  1,  comma
1, lettera h), del  decreto-legge,  nella  parte  in  cui  limita  la
possibilita' di rilascio del permesso di soggiorno per i casi in  cui
il rientro e la permanenza dello straniero nel Paese  di  origine  in
condizioni di sicurezza non possano avvenire  per  calamita'  in  cui
versa  il  Paese,  alle  ipotesi   di   calamita'   «contingente   ed
eccezionale», in quanto tale limitazione esclude ipotesi  in  cui  e'
doverosa per obbligo costituzionale o  internazionale  la  protezione
umanitaria, per violazione dell'art. 117, primo  comma,  10,  2  e  3
Cost., ridondante in lesione delle competenze regionali  e  comunali,
garantite dall'art. 117, terzo e quarto comma, 118, primo  e  secondo
comma,  Cost.   Illegittimita'   costituzionale   per   irragionevole
disparita' di trattamento. 
    Nella non creduta ipotesi  che  la  sostituzione  della  clausola
generale di protezione umanitaria con un  elenco  esaustivo  di  casi
speciali dovesse essere ritenuta conforme a Costituzione, le  ragioni
che  fondano  la  precedente  censura  potrebbero  comunque   trovare
parziale  soddisfacimento  mediante  l'accoglimento  di  una  diversa
censura, relativa alla formulazione normativa del  caso  speciale  di
cui al neointrodotto art. 20-bis del testo  unico  sull'immigrazione.
L'art. 1, comma 1,  lettera  h),  del  decreto-legge  inserisce  dopo
l'art. 20 del d.lgs n. 286 del 1998 il seguente art. 20-bis (Permesso
di soggiorno per calamita'), che al comma 1 prevede che «fermo quanto
previsto dall'art. 20, quando il Paese verso il  quale  lo  straniero
dovrebbe fare ritorno versa  in  una  situazione  di  contingente  ed
eccezionale calamita' che non consente il rientro e la permanenza  in
condizioni  di  sicurezza,  il  questore  rilascia  un  permesso   di
soggiorno per calamita'», e al comma 2, stabilisce che  «il  permesso
di soggiorno rilasciato a norma del presente articolo ha la durata di
sei mesi, ed e' rinnovabile per un periodo ulteriore di sei  mesi  se
permangono le condizioni di eccezionale calamita' di cui al comma  1;
il permesso e' valido solo nel territorio  nazionale  e  consente  di
svolgere attivita' lavorativa,  ma  non  puo'  essere  convertito  in
permesso di soggiorno per motivi di lavoro». 
    Non vi sarebbe ovviamente ragione di contestare  la  formulazione
limitativa di uno specifico caso di  protezione  umanitaria,  qualora
permanesse la previsione  residuale  e  a  fattispecie  aperta  della
protezione  umanitaria  richiesta  da   obblighi   costituzionali   o
internazionali dello Stato. 
    In assenza di tale previsione, il nuovo  art.  20-bis  del  testo
unico sull'immigrazione potrebbe fungere esso stesso da appoggio  per
la concessione della protezione umanitaria. 
    Tuttavia, nei termini in cui la disposizione e' redatta, mediante
il  riferimento  alla  situazione  «di  contingente  ed   eccezionale
calamita'», essa esclude l'ipotesi in  cui  la  situazione  «che  non
consente il rientro e la permanenza in condizioni di  sicurezza»  sia
dovuta a ragioni diverse da una calamita' contingente ed  eccezionale
(ad esempio perche' la situazione calamitosa e' strutturale). 
    Tale esclusione, in  relazione  ai  casi  in  cui  la  protezione
umanitaria sia dovuta in  osservanza  di  obblighi  costituzionali  o
internazionale, e' illegittima in riferimento agli articoli 2, 3, 10,
secondo e terzo comma, e 117, primo  comma,  Cost.,  per  le  ragioni
esposte al motivo precedente, mediante le  quali  si  e'  argomentata
l'illegittimita' delle norme legislative che negano protezione quando
questa  e'  dovuta  in  ragioni  di  un   dovere   costituzionale   e
internazionale (vincolante, sul piano interno, per effetto  dell'art.
117, primo comma, e 10, secondo comma, Cost.). 
    Si fa inoltre rinvio alle considerazioni svolte  nel  motivo  che
precede anche per la dimostrazione della ridondanza sulle  competenze
regionali e degli enti locali. 
    Nel presente motivo la Regione deduce  anche  la  violazione  del
principio di eguaglianza e di  ragionevolezza,  perche'  la  separata
menzione  della  «contingente   ed   eccezionale   calamita'»   quale
necessario presupposto legittimante che autorizza il rilascio  di  un
titolo di soggiorno in favore  di  persona  che  comunque  non  possa
rientrare e permanere nel suo paese in  condizione  di  sicurezza  si
traduce in una limitazione arbitraria di una esigenza  di  protezione
che la norma stessa riconosce e dichiara. Ne' tale  restrizione  puo'
essere giustificata in nome dell'intento di  limitare  il  numero  di
persone ammesse a soggiornare, perche' tale limitazione deve comunque
avvenire nel rispetto dei vincoli costituzionali e internazionali. 
    Si  aggiunga,  per  completezza,  che  una  pronuncia  diretta  a
rimuovere nell'art. 20-bis, commi 1 e 2, la predetta limitazione  non
puo' ritenersi  preclusa  dal  rispetto  della  discrezionalita'  del
legislatore, in quando  ricomprendere  nell'ambito  della  protezione
prevista dalla norma impugnata soggetti che comunque hanno un  titolo
«opponibile»  al  legislatore,  in   quanto   fondato   su   obblighi
costituzionali  o  internazionali  dello  Stato,   costituisce   atto
legalmente dovuto, in relazione al quale non vi  puo'  essere  dunque
«discrezionalita'». 
I.3. Illegittimita' costituzionale dell'art 1, comma 1,  lettera  f),
n. 1), e comma 1, lettera i), n. 1), nella parte in cui eliminano  il
riferimento gia' in essi contenuto all'art. 5,  comma  6,  del  testo
unico,  nel  testo  vigente  prima   dell'entrata   in   vigore   del
decreto-legge n. 113 del  2018,  e  cioe'  ai  «motivi  di  carattere
umanitario o risultanti da obblighi costituzionali  o  internazionali
dello Stato italiano», ove tale soppressione sia intesa nel senso  di
precludere il rilascio  del  permesso  di  soggiorno  in  favore  dei
soggetti comunque meritevoli del permesso di soggiorno in  esecuzione
di obblighi internazionali e costituzionali, anche se non  rientranti
nelle  circostanze  specificamente  previste  dalle  norme  sul  caso
speciale, ma comunque collegati alla medesima area di protezione, per
violazione degli articoli 3, 10, secondo e terzo comma, e 117,  primo
comma, Cost. 
    In collegamento con le censure svolte  al  punto  precedente,  la
ricorrente    Regione    ritiene    costituzionalmente    illegittima
l'eliminazione  del  riferimento  ai   «motivi   umanitari»   operata
dall'art. 1, comma 1, lettera f) n. 1)  e  lettera  i),  n.  1),  con
riguardo, rispettivamente, ai  due  casi  speciali  del  permesso  di
soggiorno per le vittime di violenza domestica (art.  18-bis)  e  per
particolare sfruttamento lavorativo (art. 22,  comma  12-quater),  in
relazione a due specifici ed autonomi profili. 
    I.3.1. In primo luogo,  le  norme  qui  impugnate  sopprimono  il
rinvio all'art.  5,  comma  6,  del  testo  unico,  che  prima  delle
modifiche  operate  dallo  stesso  decreto-legge  n.  113  del   2018
conteneva il riferimento alla possibilita' di rilascio del titolo  di
soggiorno per motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi
costituzionali o internazionali dello Stato italiano. 
    Una volta abrogata tale previsione gia'  contenuta  nell'art.  5,
comma 6, il rinvio alla  disposizione  novellata,  la  quale  ora  fa
parola solo di rifiuto e revoca di permesso di soggiorno e non di  un
rilascio, non avrebbe avuto piu' senso di essere. 
    Ciononostante, l'accoglimento  dell'impugnazione  proposta  dalla
Regione al punto I.1 avrebbe l'effetto di reintrodurre il permesso di
soggiorno per motivi umanitari, e in questa ipotesi l'abrogazione del
rinvio risulterebbe affetto da  invalidita'  consequenziale,  perche'
verrebbe a mancare il presupposto logico-giuridico che ha determinato
l'abrogazione di tale  rinvio,  che  tornerebbe  ora  necessario  per
coerenza sistematica, data la riconosciuta riconducibilita'  di  tali
permessi speciali allo stesso genus dei permessi umanitari. 
    I.3.2.  Qualora  invece  l'abrogazione  della  elastica  clausola
residuale relativa al permesso  per  motivi  umanitari  fosse  invece
reputata non incostituzionale, le esigenze di protezione  umanitaria,
imposte  dalla  Costituzione   o   dagli   obblighi   internazionali,
dovrebbero necessariamente passare tutte attraverso la previsione dei
casi speciali. 
    In tale evenienza, per le ragioni  che  si  sono  argomentate  al
precedente  punto  I.2,  la   loro   formulazione   dovrebbe   essere
sufficientemente elastica e aperta, e tale esito si impone anche  con
riferimento ai casi di cui all'art. 18-bis e 22, comma 12-quater. 
    Tale  riduzione  a  legittimita'  puo'  essere  ottenuta,   senza
operazioni creative o manipolative, semplicemente colpendo  la  norma
abrogatrice, nella parte in cui  eliminando  il  rinvio  all'art.  5,
comma 6, del testo unico, elimina in realta' il rinvio ai «motivi  di
carattere  umanitario  o  risultanti  da  obblighi  costituzionali  o
internazionali dello Stato italiano» e dunque  ripristinando  le  due
norme nel loro significato vigente prima delle modifiche portate  dal
decreto-legge  impugnato,  tramite  reintroduzione  del  rinvio   nei
termini sopra esplicitati (cioe' non come rinvio ai  sensi  dell'art.
5,  comma  6,  ma  con  rinvio  ai  motivi  di  carattere  umanitario
risultanti da obblighi costituzionali o internazionali). 
    Per  il  merito,  in  relazione  al  presente  motivo  si  rinvia
integralmente alle considerazioni svolte supra, al punto  I.2,  anche
in punto di ridondanza della lesione. 
    Si aggiunge che in relazione ai permessi speciali per particolare
sfruttamento lavorativo  e  per  le  vittime  di  violenza  domestica
esistono precisi obblighi internazionali di protezione  sanciti,  nel
primo caso, dalle Convenzioni OIL  sui  lavoratori  migranti,  e  nel
secondo dalla Convenzione di Istanbul del  Consiglio  d'Europa  sulla
prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e
la violenza domestica, dell'11 maggio del  2011,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge n. 77 del 2013, la quale al  Capitolo  VII  (art.
59-61),  intitolato  «Migrazione  ed  asilo»,  sancisce  specifici  e
puntuali obblighi di accoglienza, anche con riferimento al diritto di
asilo. 
    Tali obblighi internazionali possono essere violati - e con  essi
l'art. 10, secondo comma, e l'art.  117,  primo  comma,  Cost.  -  in
presenza di una formulazione delle norme relative ai questi  permessi
di soggiorno in casi speciali che nelle loro formulazioni  specifiche
siano limitative rispetto all'ambito di protezione previsto  in  tali
convenzioni, senza che sia piu'  possibile,  tramite  il  riferimento
aperto ai motivi umanitari  collegati  o  obblighi  internazionali  o
costituzionale,  il  rispetto  e  l'attuazione  degli   obblighi   di
protezione sanciti dalla richiamata convenzione. 
    Tale violazione, inoltre, condiziona le attivita'  della  Regione
in materia di integrazione sociale,  espressamente  indirizzate,  tra
l'altro, al contrasto ai fenomeni  che  comportano  per  i  cittadini
stranieri situazioni  di  violenza  o  di  grave  sfruttamento  e  in
particolare attenzione ai processi  di  inserimento  sociale  rivolti
alle donne (art. 1 della legge regionale n. 5 del 2004). 
I.4.  Illegittimita'  costituzionale  delle  norme  sui  permessi  di
soggiorno nei casi speciali tipizzati che, nel  prevedere  condizioni
favorevoli per  i  titolari  del  permesso,  non  comprendono  tra  i
beneficiari coloro ai quali il permesso di soggiorno  debba  comunque
essere  assegnato  in  forza  di  cogenti  ragioni  internazionali  o
costituzionali, e comunque i soggetti gia' titolari  di  permesso  di
soggiorno per motivi umanitari, per violazione dell'art. 3,  primo  e
secondo comma Cost. (primo e secondo profilo) e  per  violazione  del
principio dell'affidamento (secondo profilo). 
    La Regione denuncia altresi'  -  per  un  primo  profilo  in  via
consequenziale rispetto alla censura svolta nel motivo I.1 e  per  un
secondo  profilo  in  via  autonoma  -   tutte   quelle   norme   del
decreto-legge  che,   sopprimendo   all'interno   del   testo   unico
dell'immigrazione ogni  riferimento  al  permesso  di  soggiorno  per
motivi umanitari, hanno per conseguenza  di  privare  i  soggetti  in
possesso di permesso di soggiorno per motivi umanitario di una  serie
di diritti civili  o  sociali,  quali  ad  esempio  il  diritto  alla
formazione professionale, al  lavoro,  all'accesso  alle  prestazioni
sanitarie in condizione di parita' con i cittadini. 
    Si tratta, in particolare, delle seguenti disposizioni  contenute
nell'art. 1 del decreto-legge n. 113 del 2018, nel  testo  risultante
dalla legge di conversione n. 132 del 2018: 
        il comma 1, lettera a), secondo cui all'art. 4-bis, al  comma
2, terzo periodo, del decreto legislativo n. 286 del 1998, «le parole
«per richiesta di  asilo,  per  protezione  sussidiaria,  per  motivi
umanitari,»  sono  sostituite   dalle   seguenti:   «per   protezione
sussidiaria, per i motivi di cui all'art. 32, comma  3,  del  decreto
legislativo 28 gennaio 2008, n.  25,»»,  nella  parte  in  cui  -  in
relazione all'accordo di integrazione -  elimina  dall'eccezione  per
cui la perdita integrale dei crediti determina la revoca del permesso
di soggiorno e l'espulsione  dello  straniero  dal  territorio  dello
Stato la menzione del caso dello straniero titolare  di  permesso  di
soggiorno per motivi umanitari; 
        il comma 1, lettera b), n. 1), secondo cui all'art. 5,  comma
2-ter, al secondo periodo, decreto legislativo n. 286 del  1998,  «le
parole «per motivi umanitari» sono sostituite  dalle  seguenti:  «per
cure mediche nonche' dei permessi di soggiorno di cui  agli  articoli
18, 18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, e 42-bis, e del permesso  di
soggiorno rilasciato ai sensi dell'art.  32,  comma  3,  del  decreto
legislativo 28 gennaio 2008,  n.  25»»,  nella  parte  in  cui  -  in
relazione al contributo di 200 euro richiesto  per  il  rilascio  del
permesso di soggiorno - esclude dalla esenzione lo straniero titolare
di permesso di soggiorno per motivi umanitari; 
        il comma 1, lettera d), secondo cui all'art. 10-bis, comma 6,
del decreto legislativo n. 286 del 1998, «le parole "di cui  all'art.
5,  comma  6,  del  presente  testo  unico,"  sono  sostituite  dalle
seguenti: "di cui all'art. 32, comma 3, del  decreto  legislativo  28
gennaio 2008, n. 25, nonche' nelle ipotesi di cui agli  articoli  18,
18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, 42-bis del presente testo  unico
e nelle ipotesi di cui all'art. 10 della  legge  7  aprile  2017,  n.
47,", nella parte in cui  non  prevede  che  anche  il  rilascio  del
permesso di soggiorno per motivi umanitari determini la pronuncia  di
non luogo a procedere prevista per il caso in cui sia stata acquisita
"acquisita  la  comunicazione  del  riconoscimento  della  protezione
internazionale di cui al decreto legislativo  19  novembre  2007,  n.
251, ovvero del rilascio del permesso di soggiorno nelle  ipotesi  di
cui all'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n.
25, nonche' nelle ipotesi di cui agli articoli  18,  18-bis,  20-bis,
22, comma 12-quater, 42-bis del presente testo unico e nelle  ipotesi
di cui all'art. 10 della legge 7 aprile 2017, n. 47"»; 
        il comma 1, lettera o), secondo cui  all'art.  34,  comma  1,
lettera b), del decreto legislativo n. 286 del 1998, «le parole  "per
asilo  politico,  per  asilo  umanitario,"  sono   sostituite   dalle
seguenti: "per asilo, per protezione sussidiaria, per casi  speciali,
per protezione speciale, per cure  mediche  ai  sensi  dell'art.  19,
comma 2, lettera d-bis),"», nella parte in cui non  prevede  che  gli
stranieri regolarmente soggiornanti o che abbiano chiesto il  rinnovo
del titolo di soggiorno  per  asilo  umanitario  hanno  l'obbligo  di
iscrizione  al  servizio  sanitario  nazionale  e  hanno  parita'  di
trattamento e piena uguaglianza  di  diritti  e  doveri  rispetto  ai
cittadini  italiani  per  quanto  attiene  all'obbligo  contributivo,
all'assistenza erogata in Italia dal servizio sanitario  nazionale  e
alla sua validita' temporale; 
        il comma 1, lettera p) [indicata  nella  delibera  di  giunta
come lettera «l»), per errore materiale riconoscibile  in  quanto  e'
stato riportato il contenuto della disposizione],  n.  1)  e  n.  2),
secondo cui all'art. 39 del decreto legislativo n. 286 del 1998,  «1)
al comma 5, le parole "per motivi umanitari, o per motivi  religiosi"
sono sostituite dalle seguenti: "per motivi religiosi, per  i  motivi
di cui agli articoli 18,  18-bis,  20-bis,  22,  comma  12-quater,  e
42-bis, nonche' ai titolari del permesso di soggiorno  rilasciato  ai
sensi dell'art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008,
n. 25;"; 2) al comma 5-quinquies, lettera a), le parole "o per motivi
umanitari" sono sostituite dalle seguenti: ", per cure mediche ovvero
sono titolari dei permessi di soggiorno  di  cui  agli  articoli  18,
18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, e 42-bis, nonche'  del  permesso
di soggiorno rilasciato ai sensi dell'art. 32, comma 3,  del  decreto
legislativo 28 gennaio 2008, n. 25", nelle parte in cui: 
          al numero 1), non include  gli  stranieri  in  possesso  di
permesso di soggiorno per motivi umanitari tra gli stranieri  cui  e'
comunque  consentito  l'accesso  ai  corsi  di   istruzione   tecnica
superiore o di formazione superiore e alle scuole di specializzazione
delle universita', a parita' di condizioni con gli studenti italiani,
ai sensi dell'art. 39, comma 5, del testo unico; 
          al numero 2), non prevede piu'  l'inapplicabilita'  a  tali
soggetti  del  comma  5-quater   dell'art.   39   del   testo   unico
sull'immigrazione, in materia di revoca del permesso di soggiorno; 
        il comma 6, lettera c), [indicato nella  delibera  di  Giunta
come comma 5, lettera  c),  per  errore  materiale  riconoscibile  in
quanto e' stato  riportato  il  contenuto  della  disposizione],  che
abroga nell'art. 14, comma 1, lettera c), del decreto del  Presidente
della Repubblica n 394 del 1999, Regolamento di attuazione del  testo
unico sull'immigrazione parole «, per motivi  umanitari»,  in  quanto
tale disposizione sia intesa nel senso di non consentire  l'attivita'
lavorativa a titolare a  coloro  che  siano  comunque  meritevoli  di
permesso di soggiorno in  esecuzione  di  obblighi  internazionali  e
costituzionali e di non consentire la conversione di tale  titolo  di
soggiorno in permesso di lavoro. 
    I.4.1. Ove fosse accolta la questione prospettata nel motivo  I.1
di ricorso, il permesso di soggiorno per motivi umanitari, rilasciato
in esecuzione di obblighi costituzionali o internazionali, tornerebbe
ad  essere  un  titolo   di   soggiorno   previsto   dall'ordinamento
legislativo, per effetto  della  reviviscenza  delle  norme  abrogate
dalle norme denunciate come  incostituzionali  proprio  per  il  loro
effetto abrogativo in  relazione  a  disposizione  costituzionalmente
necessaria. 
    In tale ipotesi sarebbe  del  tutto  irragionevole  e  arbitrario
escludere, in  violazione  dell'art.  3,  primo  comma,  Cost.,  tali
stranieri  regolarmente  soggiornanti  dai  diritti  e  benefici  cui
godono, in linea generale, gli stranieri cui e' riconosciuta  ora  la
protezione nei casi speciali, i  quali  altro  non  sono  -  in  tale
prospettiva - che casi particolari di protezione umanitaria (in  tali
termini i casi speciali gia' previsti dal testo unico sono  descritti
dalla giurisprudenza di legittimita'). 
    Di qui la violazione del principio generale di eguaglianza di cui
al primo comma dell'art. 3 Cost., che  impone  di  trattare  in  modo
eguale situazioni eguali, ma anche la  violazione  del  principio  di
eguaglianza sostanziale, sancito dall'art. 3, secondo  comma,  Cost.,
in quando tali diritti vengono negati  proprio  in  capo  a  soggetti
bisognosi di protezione e nei  fatti  ostacolati  nell'esercizio  dei
propri diritti e delle proprie liberta'. 
    Tali violazioni  ridondano  sulle  funzioni  regionali,  come  ad
esempio le funzioni in materia di tutela della salute (art. 1,  comma
2, lettera o), di istruzione o di formazione professionale  (art.  1,
comma 1, lettera p), di tutela del lavoro (art. 1, comma  6,  lettera
c), e piu' in generale sui compiti di integrazione  sociale  dei  non
cittadini che la Regione Emilia-Romagna, nell'esercizio delle proprie
competenze residuali ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost.,  ha
esercitato con la legge regionale n. 5  del  2004,  incentrando  tali
interventi sulla valorizzazione e sul godimento effettivo dei diritti
sociali, in linea con il programma di cui all'art. 3, secondo  comma,
Cost. 
    I.4.2. Per un diverso  profilo,  e  qui  indipendentemente  dalla
questione relativa alla legittimita' della  eliminazione  pro  futuro
del permesso per motivi umanitari, talune delle predette modifiche al
testo unico sull'immigrazione,  essendo  immediatamente  applicabili,
possono avere l'effetto di eliminare,  in  capo  a  coloro  che  sono
titolari di un permesso di soggiorno per motivi umanitari  ancora  in
corso di validita', i diritti di status di cui godevano in ragione di
tale autorizzazione al soggiorno. 
    Ad avviso della Regione ricorrente, tale aberrante conseguenza va
esclusa  gia'  in  via  interpretativa  in  forza  del  canone  della
interpretazione adeguatrice, in quanto la privazione di  diritti  non
si giustifica ne' sul piano della eguaglianza, trattandosi di persone
che godono di un titolo di soggiorno dello stesso  genere  di  quello
rilasciato nei casi speciali;  ne'  sul  piano  dell'affidamento,  in
quanto soggetti che attualmente sono  regolarmente  residenti  e  che
fino  all'entrata  in  vigore  delle  norme   contestate   svolgevano
determinate  attivita'  o  godevano   di   determinati   diritti   si
troverebbero  improvvisamente  impediti  nello  svolgimento  di  tali
attivita' e privati della titolarita' di quei diritti. 
    Tuttavia, per  completezza  di  difesa  deve  essere  prospettata
l'ipotesi che esse debbano essere interpretate  nel  senso  che  loro
applicazione immediata ha l'effetto di sottrarre a tali persone  -che
sono membri legittimi  della  comunita'  regionale  -  una  serie  di
facolta' e di diritti a prestazioni erogate  dalla  Regione  o  degli
enti locali, quali le prestazioni in materia di tutela del lavoro, di
istruzione,  di  formazione  e  di  avviamento  professionale  e   le
prestazioni sanitarie, ecc. 
    In questo caso, ad avviso della Regione tali norme risulterebbero
illegittime per violazione  dell'art.  3  e  dell'art.  2  Cost.,  in
ragione della privazione di uno status legittimamente acquisito - con
violazione della tutela dell'affidamento - e con incisione di diritti
fondamentali della  persona,  quali  il  diritto  al  lavoro  e  alla
formazione  professionale  di  cui  all'art.  35  Cost.,  il  diritto
all'istruzione, garantito dall'art. 34 Cost. a tutti, il diritto alla
salute, protetto dall'art. 32 Cost. 
I.5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 1,  commi  8  e  9,  per
violazione degli articoli 2 e 10, terzo  comma,  dell'art.  3  Cost.,
sotto il profilo della tutela dell'affidamento e  per  disparita'  di
trattamento, nonche' dell'alt 117, primo comma, Cost.,  in  relazione
ai principi di certezza del  diritto  e  di  tutela  dell'affidamento
sanciti dal diritto europeo. 
    L'art. 1 contiene, ai commi 8 e 9 del decreto-legge, disposizioni
dirette a regolare il passaggio tra la  precedente  disciplina  e  il
nuovo regime. 
    In particolare, il comma 8 stabilisce che «fermo restando i  casi
di conversione, ai titolari  di  permesso  di  soggiorno  per  motivi
umanitari gia' riconosciuto ai  sensi  dell'art.  32,  comma  3,  del
decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25,  in  corso  di  validita'
alla data di entrata in vigore del presente decreto,  e'  rilasciato,
alla scadenza, un permesso di soggiorno ai sensi dell'art. 32,  comma
3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n.  25,  come  modificato
dal presente decreto, previa valutazione della competente Commissione
territoriale sulla sussistenza dei presupposti di  cui  all'art.  19,
commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286». 
    Il comma 9 per parte sua prevede che «nei procedimenti in  corso,
alla data di entrata in vigore del presente decreto, per i  quali  la
Commissione territoriale non ha  accolto  la  domanda  di  protezione
internazionale e ha ritenuto sussistenti gravi  motivi  di  carattere
umanitario allo straniero e'  rilasciato  un  permesso  di  soggiorno
recante la dicitura "casi speciali"  ai  sensi  del  presente  comma,
della durata di due anni, convertibile in permesso di  soggiorno  per
motivi di lavoro autonomo o subordinato. Alla scadenza  del  permesso
di soggiorno di cui al presente comma, si applicano  le  disposizioni
di cui al comma 8». 
    Ad avviso della ricorrente Regione il comma 8 e' illegittimo  ove
non  consenta  il  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno  per  motivi
umanitari,  in  costanza  delle  condizioni   che   lo   hanno   reso
giuridicamente dovuto. Il comma  9,  a  sua  volta,  potrebbe  essere
illegittimo ove si ritenesse dovuta una  interpretazione  restrittiva
del riferimento, che esso contiene, alla dicitura «casi speciali». 
    Di seguito sono meglio illustrate tali affermazioni. 
    I.5.1. Quanto al comma 8, che la Regione ritiene illegittimo  ove
non  consenta  il  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno  per  motivi
umanitari,  in  costanza  delle  condizioni   che   lo   hanno   reso
giuridicamente dovuto, va ricordato che nel motivo  svolto  al  punto
I.1 del presente ricorso la Regione ha contestato  l'abrogazione  pro
futuro delle norme del testo unico e del regolamento  di  attuazione,
nonche' quelle contenute in altri atti normativi, che consentivano il
rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. 
    Ove tale censura fosse accolta, la disposizione del comma 8,  che
presuppone la  scomparsa  di  quel  tipo  di  permesso,  risulterebbe
corrispondentemente modificata. 
    Nel presente motivo la Regione osserva che, anche nella  denegata
ipotesi che tale abrogazione sia ritenuta legittima, la  disposizione
del comma 8 ammette bensi', alla scadenza del permesso umanitario, il
rilascio  di  un  altro  permesso  di  soggiorno,  ma  soltanto   ove
sussistano «i presupposti di cui all'art. 19,  commi  1  e  1.1,  del
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286», cioe' ove  lo  straniero
possa  essere  oggetto,  nel  paese  di  origine,  di  tortura  o  di
persecuzione  per  motivi  di  razza,  di  sesso,   di   lingua,   di
cittadinanza, di religione,  di  opinioni  politiche,  di  condizioni
personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato  verso
un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. 
    Ne  risulterebbe  che  ove  tali  presupposti   non   sussistano,
l'interessato non potrebbe avere rinnovato il permesso di  soggiorno,
e dunque perderebbe la protezione umanitaria, pur sussistendo  ancora
gli obblighi costituzionali o internazionale che ne  avevano,  a  suo
tempo, giustificato il rilascio. 
    Se si considera che  la  protezione  umanitaria  e'  nel  diritto
vivente della Cassazione ricostruita come uno  status,  tutelato  dal
diritto di cui all'art. 10, terzo  comma,  Cost.  ed  oggetto  di  un
accertamento  (ad  opera  della  amministrazione  o,   in   caso   di
contestazione,  del  giudice  ordinario),  la  soppressione  di  tale
status, una volta che  questo  sia  stato  acquisito  ed  addirittura
accertato, non puo' correlarsi ad una mera  scelta  del  legislatore,
dipendente da una mutata valutazione  dei  presupposti  giuridici  in
relazione  ai  quali  tale  protezione,  in  futuro,  potra'   essere
concessa. 
    Per  questo  motivo   la   Regione   denuncia   la   legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 8, nella parte in cui non  consenta
il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari in presenza
di  obblighi  costituzionali  o  internazionali  di  protezione,  per
contrasto con gli articoli 2 e 10, terzo comma, Cost., con  l'art.  3
Cost., in relazione ai principi di  affidamento  e  di  certezza  del
diritto, ed anche con l'art. 117, primo comma, Cost.,  per  contrasto
con i principi di affidamento giuridico e  di  certezza  del  diritto
prescritti dal diritto europeo,  applicabile  alla  disciplina  della
protezione internazionale ed umanitaria. 
    I.5.2. Il comma  9  e'  censurato,  come  sopra  anticipato,  per
scrupolo di difesa. 
    Esso infatti dispone che, ove nel corso di  un  procedimento  non
ancora concluso la Commissione  territoriale  non  abbia  accolto  la
domanda di protezione internazionale ma  abbia  ritenuto  sussistenti
gravi motivi di carattere umanitario, allo straniero sia  «rilasciato
un permesso di soggiorno recante la dicitura "casi speciali" ai sensi
del presente  comma,  della  durata  di  due  anni,  convertibile  in
permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato». 
    Ad avviso della Regione, tale disposizione va  intesa  nel  senso
che, nell'ipotesi considerata, il permesso denominato «casi speciali»
vada rilasciato e prescindere dalla circostanza che sia in effetti ed
in concreto riscontrabile che ricorrono i presupposti definiti  nella
specifica descrizione di uno dei casi  speciali  previsti  nel  testo
unico sull'immigrazione. 
    In altre parole, la Regione ritiene che il  senso  proprio  della
disposizione sia quello di consentire comunque il rilascio del titolo
di  soggiorno  e  che  la  menzione  dei  «casi  speciali»  sia  solo
nominalistica, attenendo alla mera dicitura che compare sul permesso. 
    Tuttavia,   qualora   la    disposizione    fosse    interpretata
diversamente, come diretta a permettere il rilascio del  titolo  solo
ove il questore verifichi la presenza dei requisiti oggi previsti per
i casi speciali, essa sarebbe illegittima, in un certo  senso,  nella
sua stessa definizione, perche' vieterebbe il rilascio  del  permesso
di soggiorno in casi nei quali  la  stessa  Commissione  ha  ritenuto
sussistenti gravi motivi di carattere umanitario. 
    A  tale  illegittimita'  per  intrinseca   contraddittorieta'   e
irragionevolezza e quindi per violazione dell'art.  3,  primo  comma,
Cost., si sommano le  ragioni  di  incostituzionalita'  descritte  al
precedente punto n. I.5.1 con riferimento alla  soppressione  di  uno
status gia' sussistente e gia' accertato. 
    Anche in relazione  alle  censure  qui  svolte  si  riscontra  la
ridondanza sulle  competenze  regionali  e  degli  enti  locali,  dal
momento che le norme incidono su soggetti che sono gia' presenti  sul
territorio regionale e che sono inseriti nei programmi di  protezione
e  di  assistenza  previsti  dalla   legislazione   regionale   sulla
accoglienza e  sulla  integrazione  degli  stranieri,  gestiti  dalla
Regione e dagli enti locali. 
I.6. Illegittimita' costituzionale dell'art. 1,  commi  8  e  9,  ove
interpretati nel senso di  determinare  la  applicazione  retroattiva
delle nuove norme recate dal decreto-legge alle domande di protezione
umanitaria presentate da soggetti  che  avevano  fatto  ingresso  nel
territorio dello Stato prima del 5 ottobre 2018, per violazione degli
articoli 2 e 10, terzo comma, dell'art. 3  Cost.,  sotto  il  profilo
della  tutela  dell'affidamento  e  per  disparita'  di  trattamento,
nonche' dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione  ai  principi
di certezza del diritto e  di  tutela  dell'affidamento  sanciti  dal
diritto europeo. 
    Infine, la Regione contesta  l'art.  1,  commi  8  e  9,  il  cui
contenuto e' stato descritto sopra, ove  intesi  (in  particolare  il
comma 9) nel senso di determinare la applicazione  retroattiva  delle
nuove norme recate  dal  decreto-legge  alle  domande  di  protezione
umanitaria presentate da soggetti  che  avevano  fatto  ingresso  nel
territorio dello Stato prima del 5 ottobre 2018, data di  entrata  in
vigore del decreto-legge. 
    Tale censura  e'  proposta  in  via  subordinata  e  tuzioristica
rispetto alla questione prospettata al punto I.1. 
    Subordinata, in quanto l'accoglimento della questione proposta in
principalita' nel punto I.1 renderebbe ultronea le presente  censura,
o meglio travolgerebbe in via consequenziale  o  renderebbe  comunque
inapplicabili le due disposizioni,  che  hanno  senso  soltanto  come
norme sul passaggio  dalla  previsione  del  permesso  umanitario  ai
permessi speciali. 
    Tuzioristica, perche' la  Regione  ritiene  -  in  linea  con  la
giurisprudenza di merito, con  la  posizione  assunta  dalla  Procura
generale della Cassazione nelle conclusioni scritte  del  15  gennaio
2019 e con  la  dottrina  prevalente  intervenuta  a  commento  della
novella - in primo luogo che tali norme non riguardino  espressamente
la questione della disciplina applicabile alle  domande  proposte  da
persone presenti sul territorio nazionale gia' prima della entrata in
vigore e, in secondo luogo, che  ragioni  sia  sistematiche,  sia  di
ordine costituzionale, impediscano comunque di considerare  la  nuova
disciplina come retroattiva, cioe'  applicabile  all'accertamento  di
una status gia' acquisito al momento di ingresso sul territorio della
Repubblica. 
    Infatti, una volta ricostruita - secondo lo stabile  orientamento
della Corte di cassazione - la  protezione  umanitaria  come  status,
protetto dal diritto di  cui  all'art.  10,  terzo  comma,  Cost.  ed
oggetto di un accertamento, la applicazione della disciplina  vigente
al momento di  acquisizione  dello  status  con  la  maturazione  del
relativo diritto,  cioe'  al  momento  dell'ingresso  sul  territorio
nazionale corrisponde  da  un  lato  alle  regole  generali  scolpite
nell'art. 11 disp. prel. c.c., dall'altro all'esigenza di evitare una
esegesi incostituzionali della disposizione. 
    Per l'ipotesi  in  cui  si  dovesse  ritenere  invece  che  dalle
disposizioni impugnate debba  trarsi  una  volonta'  legislativa  nel
senso  della  applicazione  retroattiva,  la  Regione   contesta   la
legittimita' costituzionale di tale  norma,  per  contrasto  con  gli
articoli 2 e 10, terzo comma, Cost., con l'art. 3 Cost., in relazione
ai principi di affidamento e di certezza  del  diritto,  nonche'  con
l'art. 117, primo comma, Cost., per violazione degli stessi  principi
di affidamento e di certezza del diritto sanciti dal diritto europeo,
vertendosi in un campo regolato anche  dal  diritto  dell'Unione,  in
quanto la nuova norma avrebbe una efficacia radicalmente estintiva di
un diritto gia' sorto,  diritto  per  di  piu'  dotato  di  copertura
costituzionale negli articoli 2 e 10, terzo comma, Cost. 
    Si  evidenzia,  altresi',  la   violazione   del   principio   di
eguaglianza e quindi la violazione dell'art. 3, primo  comma,  Cost.,
per la disparita' di trattamento tra coloro che, entrati prima del  5
ottobre 2018, abbiano gia'  visto  la  propria  domanda  esaminata  e
trattata dalla Commissione con il  riconoscimento  della  sussistenza
dei motivi umanitari e coloro  che  tale  esame  non  abbiano  ancora
avuto, non esistendo ragione per una differente disciplina  correlata
a fattori casuali, del tutto indipendenti dal soggetto che ne subisce
gli  effetti   sfavorevoli   e   dipendenti,   invece,   dalla   mera
organizzazione amministrativa. 
    Anche in relazione a questa censura, la Regione evidenzia come la
lesione denunciata ridondi sull'esercizio delle proprie competenze  e
di quelle degli enti locali, trattandosi di persone gia' presenti sul
territorio regionale e quindi integrate nel sistema di  assistenza  e
di protezione sociale apprestato dalla rete regionale,  i  quali  per
effetto della interpretazione qui contestata come incostituzionale ne
verrebbero esclusi. 
II. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 12, DECRETO-LEGGE 113 DEL
2018. 
II.1. Il quadro dell'accoglienza e le modifiche introdotte  dall'art.
12 del cd. decreto sicurezza. 
    L'art. 12 del cd. decreto sicurezza  (decreto-legge  n.  113  del
2018, come convertito con la legge  n.  132  del  2018)  contiene  un
insieme di disposizioni rivolte ad eliminare il sistema  SPRAR  quale
circuito di accoglienza aperto ai richiedenti asilo privi di mezzi di
sussistenza  (assieme  ai  loro  familiari,   nonche'   ai   soggetti
particolarmente vulnerabili e ai titolari di protezione umanitaria). 
    Questo risultato e' ottenuto in via  generalizzata  trasformando,
mediante l'art. 12,  comma  4,  decreto-legge  n.  113  del  2018,  i
riferimenti  al  «Sistema  di  protezione  per  richiedenti  asilo  e
rifugiati» ovvero  «Sistema  di  protezione  per  richiedenti  asilo,
rifugiati e  minori  stranieri  non  accompagnati»  di  cui  all'art.
1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito,  con
modificazioni, dalla  legge  28  febbraio  1990,  n.  39,  abbreviato
appunto in SPRAR,  in  riferimenti  al  «Sistema  di  protezione  per
titolari di protezione internazionale  e  per  minori  stranieri  non
accompagnati» (successivamente abbreviato in SIPROIMI dalla circolare
ministeriale del 18  dicembre  2018,  n.  83774),  privato  di  parte
essenziale  delle  competenze  gia'  assegnate  agli  SPRAR,   e   in
particolare dell'assistenza ai richiedenti asilo in generale. 
    In altre parole,  il  sistema  strutturato  attraverso  l'apporto
degli enti locali, che in precedenza accoglieva i soggetti in  attesa
di una decisione sulla loro richiesta di protezione internazionale  o
di asilo (appunto i richiedenti protezione o asilo) viene convertito,
tramite la modifica degli atti normativi che lo prevedevano (ossia il
decreto-legge n. 416 del 1989 e la legge n. 142 del  2015,  attuativo
della cd. «direttiva accoglienza» 2013/33/UE)  in  un  sistema  volto
invece all'accoglienza dei soli titolari di protezione  -  quindi  di
soggetti che hanno gia' visto riconosciuto il proprio diritto - e dei
minori stranieri non accompagnati, i quali, com'e' ovvio,  godono  di
un trattamento piu'  favorevole  in  virtu'  della  loro  particolare
protezione. 
    Le altre persone che precedentemente usufruivano dell'accoglienza
- fatti salvi i rifugiati, gia'  prima  astrattamente  ammessi  negli
SPRAR, ma non i titolari della protezione umanitaria,  che  e'  stata
semplicemente soppressa - vengono invece ora concentrate nei centri a
gestione governativa, ossia i Centri di prima accoglienza - CPA,  che
in  precedenza  erano  deputati,  come  prima  ancora  i  Centri   di
accoglienza per i richiedenti asilo -  CARA,  alla  sola  accoglienza
necessaria a definire la domanda di protezione e gli esami medici) e,
ove  questi  siano   insufficienti,   nei   Centri   di   accoglienza
straordinari - CAS. 
    Questa sezione del presente ricorso e' rivolta  a  contestare  la
legittimita' costituzionale della sottrazione agli enti  territoriali
dell'accoglienza ai richiedenti asilo e delle  risorse  destinate  ad
essa, in quanto tale sottrazione priva le Regioni e gli  enti  locali
di una parte delle funzioni che ad essi spettano. 
    In questa prospettiva, si procede di  seguito  ad  illustrare  il
regime precedente e le modifiche apportate dal decreto-legge  n.  113
del 2018, le quali singolarmente e nel loro  insieme  -  comprese  le
modifiche dipendenti dall'abolizione del regime dello SPRAR  in  se',
che vengono altresi' impugnate - realizzano  la  sottrazione  la  cui
legittimita' costituzionale si contesta, e che  costituiscono  dunque
oggetto della presente impugnazione. 
    Alla  costruzione  del  sistema  SPRAR  per   l'accoglienza   dei
richiedenti protezione si e' addivenuti formalizzando un sistema che,
per lungo tempo, si e' basato sulle organizzazioni del terzo settore,
appoggiate il piu' delle volte proprio dagli  enti  locali  (cfr.  A.
Annoni, Autonomie e obblighi di accoglienza dei richiedenti asilo, in
Diritti e autonomie territoriali, a cura di A. Morelli e  L.  Trucco,
Torino, 2014, 200). 
    Sennonche' i limiti di tale sistema divennero presto evidenti nei
momenti di  crisi  migratoria,  e  si  evidenzio'  la  necessita'  di
costituire una migliore rete di assistenza per i soggetti richiedenti
protezione o asilo, verso il quale spingevano alcune decisioni  prese
in sede europea. 
    Il Consiglio dell'Unione europea, infatti, ha istituito,  con  la
decisione 2000/596/CE, il Fondo europeo per i  rifugiati,  attraverso
il quale finanziare le  azioni  degli  Stati  membri  in  materia  di
accoglienza,  che  ha  portato,  a  livello  interno,  al   Programma
nazionale asilo - PNA (v. ancora A. Annoni, Autonomie, cit., 201). 
    Dalla consolidazione di tale sistema e' nato lo SPRAR,  istituito
con la legge n. 189 del 2002 (che ha introdotto, tra gli  altri,  gli
articoli 1-sexies e 1-septies all'interno del  decreto-legge  n.  416
del 1989), il cui servizio centrale e' affidato all'ANCI,  e  il  cui
fulcro, pertanto, e' pacificamente l'apparato comunale italiano,  che
viene finanziato ancora oggi dal fondo statale parte dei cui introiti
sono dovuti al contributo dei fondi europei: infatti  alla  decisione
del 2002 aveva fatto seguito nel 2004 l'analoga decisione 2004/904/CE
per gli anni 2005-2010, seguita dalla decisione 573/2007/CE  per  gli
anni 2008-2013, cui si e'  infine  sostituito,  nel  2014,  il  Fondo
asilo, migrazione  e  integrazione,  istituito  dal  Regolamento  del
Parlamento europeo 2014/516/UE  per  il  periodo  2014-2020,  tuttora
operativo. 
    Anche  al  livello  nazionale  l'assetto  originario   e'   stato
confermato attraverso i vari atti normativi che  si  sono  succeduti,
sostanzialmente   aggiornando   il   sistema   SPRAR   versato    nel
decreto-legge n. 416 del 1989, fino al decreto legislativo n. 142 del
2015,  attuativo  della  direttiva  2013/33/UE   e   sistematicamente
connesso al decreto n. 416. 
    Nel sistema previgente al decreto-legge n. 113 del  2018  si  era
riconosciuto che «gli enti locali che  prestano  servizi  finalizzati
all'accoglienza dei richiedenti asilo e alla tutela dei  rifugiati  e
degli stranieri destinatari di altre forme di  protezione  umanitaria
possono accogliere nell'ambito dei servizi  medesimi  il  richiedente
asilo privo di mezzi di sussistenza» (come disponeva l'art.  1-sexies
della legge n. 416 del 1989) e si era previsto  che  «il  richiedente
che  ha  formalizzato  la  domanda  e  che  risulta  privo  di  mezzi
sufficienti  a  garantire  una  qualita'  di  vita  adeguata  per  il
sostentamento proprio e dei  propri  familiari,  ha  accesso,  con  i
familiari, alle misure di accoglienza del Sistema di  protezione  per
richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) predisposte dagli  enti  locali
ai sensi dell'art. 1-sexies del decreto-legge 30  dicembre  1989,  n.
416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990,  n.
39, e finanziate dal Fondo di cui  all'art.  1-septies  del  medesimo
decreto anche in deroga al limite dell'80 per cento di cui al comma 2
del medesimo art. 1-sexies» (art. 14, comma 1, decreto legislativo n.
142 del 2015, che veniva cosi' a completare il sistema). 
    In tale prospettiva, quindi, gli enti  locali  predisponevano  un
sistema di accoglienza generalizzato, entro il quale i richiedenti in
generale, ma evidentemente tra essi soprattutto i soggetti  bisognosi
(indigenti,  soggetti  vulnerabili  e   minori),   potevano   trovare
ospitalita'. 
    Tale  era  la  cd.  «seconda  accoglienza»,  che  costituiva   il
passaggio  successivo  rispetto  alla  cd.  «prima   accoglienza»   -
articolata  essenzialmente  nei  CPA  -  che  avveniva  subito   dopo
l'espletamento delle  operazioni  di  cd.  «primissima  accoglienza»,
ossia quella espletata nell'immediatezza dell'arrivo  (principalmente
dopo il soccorso in mare o lo sbarco)  con  le  prime  operazioni  di
riconoscimento e  identificazione  e  allo  svolgimento  degli  esami
medici di prima necessita', finalizzate a distinguere  i  richiedenti
protezione o asilo dai cd.  «migranti  economici»,  i  quali  ultimi,
anche oggi, non sono ammessi sul territorio nazionale. 
    Gia' nella «prima fase», presso i CPA, il  richiedente  diventava
appunto tale presentando la propria istanza di protezione, e con cio'
acquistava uno status maggiormente definito, che gli consentiva - nel
sistema previgente -  di  accedere  alla  cd.  «seconda  accoglienza»
presso gli SPRAR, cioe' al  Sistema  di  protezione  per  richiedenti
asilo,  rifugiati  e  minori  stranieri  non  accompagnati,  che   si
inquadrava nel piu' ampio contesto europeo, entro il quale adempiva a
quanto prescritto dalla direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e
del Consiglio, attuata proprio attraverso il decreto  legislativo  n.
142 del 2015 in materia di protezione dei richiedenti. 
    Dopo le modifiche apportate dall'art. 12, comma 1, lettera  a)  e
dal comma 2, lettera f), n. 2, decreto-legge n. 113 del 2018, invece,
i due articoli sopra citati - che costituivano il fulcro del  sistema
SPRAR - nelle parti rilevanti, risultano cosi' formulati: 
        Art. 1-sexies, comma 1, legge n.  416  del  1989:  «Gli  enti
locali  che  prestano  servizi  di  accoglienza  per  i  titolari  di
protezione internazionale e per i minori stranieri non  accompagnati,
che beneficiano del sostegno finanziario di cui al comma  2,  possono
accogliere nell'ambito dei medesimi  servizi  anche  i  titolari  dei
permessi di soggiorno di cui  agli  articoli  19,  comma  2,  lettera
d-bis), 18, 18-bis, 20-bis, 22, comma 12-quater, e 42-bis del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, qualora non accedano a sistemi di
protezione specificamente dedicati». 
        Art. 14, comma 1, decreto legislativo n. 142  del  2015:  «Il
richiedente che ha formalizzato la domanda e  che  risulta  privo  di
mezzi sufficienti a garantire una qualita' di vita  adeguata  per  il
sostentamento proprio e dei  propri  familiari,  ha  accesso,  con  i
familiari, alle misure di accoglienza del presente decreto». 
    In conseguenza di cio', quindi, mentre il sistema ex SPRAR,  oggi
rinominato SIPROIMI, viene riservato ai  titolari  di  una  forma  di
protezione - comprese quelle  ricadenti  nella  protezione  speciale,
sostituitasi in parte a quella umanitaria precedentemente esistente -
e ai minori stranieri non accompagnati, l'accoglienza dei richiedenti
protezione internazionale o speciale  e  delle  loro  famiglie  viene
interamente fatta rifluire nei centri a gestione statale,  ossia  nei
CPA e, ove questi non siano in grado di rispondere alle esigenze  che
si pongono nella pratica -  e  cioe'  ove  siano  sovraffollati  come
capita costantemente nell'esperienza pratica -, nei  CAS  (Centri  di
accoglienza straordinaria). 
    In altre parole, il sistema di cd. «seconda  accoglienza»  per  i
richiedenti asilo viene integralmente (e anche letteralmente, a opera
dell'art. 12, comma 2, lettera b del decreto, che incide sull'art. 8,
comma 1, del decreto legislativo n. 142 del 2015) soppresso, e  tutto
il carico che veniva gestito attraverso di esso risulta riversato sul
sistema di «prima accoglienza», deputato ora a svolgere sia  funzioni
di prima identificazione e assistenza, sia  funzioni  di  accoglienza
vera  e  propria  accollandosi  anche  l'accoglienza  ai  richiedenti
precedentemente svolta presso gli SPRAR. 
    Posto questo quadro  di  insieme,  relativo  all'impostazione  di
fondo del sistema  dell'accoglienza,  il  cd.  decreto  sicurezza  fa
seguire una serie di modifiche - al di la' di quelle, che qui pure si
impugnano consequenzialmente, che operano al solo fine di armonizzare
le disposizioni che facevano richiamo al sistema  SPRAR,  completando
cosi' il sistema della riforma - rivolte all'eliminazione del sistema
SPRAR in quanto tale, ossia all'eliminazione dell'accoglienza  locale
dei richiedenti, riservando detta accoglienza  locale  esclusivamente
ai titolari. 
    In  primo  luogo,  premesso  che   nel   sistema   novellato   il
finanziamento delle  funzioni  locali  risulta  destinato,  in  forza
dell'art. 12, comma 1, lettera a-bis),  al  nuovo  sistema  SIPROIMI,
risulta in ogni caso  ridotto  il  ruolo  spettante  alla  Conferenza
unificata. 
    Mentre infatti  in  precedenza  «il  Ministro  dell'interno,  con
proprio  decreto»  provvedeva  a  ripartire  i  fondi   «sentita   la
Conferenza unificata»- e quindi la  partecipazione  della  Conferenza
verteva proprio e direttamente sulla loro distribuzione - secondo  la
formulazione  attuale  la  Conferenza  concorre   solo   al   decreto
ministeriale con cui «sono definiti i criteri e le modalita'  per  la
presentazione da parte degli enti locali delle domande di  contributo
per la realizzazione  e  la  prosecuzione  dei  progetti  finalizzati
all'accoglienza dei soggetti di cui al comma 1», mentre e'  solo  «il
Ministro  dell'interno,   con   proprio   decreto»,   che   «provvede
all'ammissione al finanziamento dei progetti  presentati  dagli  enti
locali» (cosi' art. 1-sexies, decreto-legge n. 416  del  1989,  nuova
formulazione). 
    Con cio', l'apporto della  Conferenza  unificata  viene  spostato
dalla concreta decisione sullo stanziamento dei  fondi  al  ben  piu'
limitato compito di  concorrere  alla  determinazione  di  criteri  e
modalita' per la presentazione delle domande. 
    Una   ulteriore   modifica   di   grande    rilievo,    derivante
dall'eliminazione dell'accoglienza SPRAR  per  i  richiedenti  asilo,
viene apportata all'art. 14, decreto legislativo n. 142 del 2015,  il
quale  assicurava  ai  richiedenti  privi  di   mezzi   l'accoglienza
all'interno delle strutture dello SPRAR, e che ora (in ragione  della
modifica apportata dall'art. 12, comma 2,  lettera  f)  all'art.  14,
decreto legislativo n. 142 del 2015) si riferisce invece «alle misure
di accoglienza del presente decreto», e cioe' a quelle previste dagli
articoli 9 e 11, relativi ai CPA e  ai  CAS,  ossia  a  quella  prima
accoglienza  che  si  contrapponeva,  nel  sistema  precedente,  alla
seconda accoglienza SPRAR. 
    A cio' si aggiunge la modifica operata  dall'art.  12,  comma  2,
lettera h), numeri 1 e 2, all'art. 17, decreto legislativo n. 142 del
2015,  rubricato  «Accoglienza  di  persone  portatrici  di  esigenze
particolari». 
    Nel   sistema    previgente,    all'accoglienza    di    soggetti
particolarmente problematici e  vulnerabili  -  quali  vittime  della
tratta di esseri umani, malati o che  hanno  subito  forme  di  grave
violenza - accedevano al sistema di  accoglienza  predisposto  presso
gli SPRAR, quale sistema «protetto» e  certamente  piu'  idoneo  alla
collocazione di tali soggetti. 
    Venuto meno il sistema  SPRAR,  anche  le  persone  con  esigenze
particolari vengono collocate presso i CPA -  sia  pure,  secondo  la
norma, appositamente  attrezzati  -,  dove  prima  sarebbero  rimasti
solamente in «prima accoglienza», o presso i CAS. 
    In sintesi, mentre nell'articolazione precedente il decreto-legge
n. 416 del 1989 e il decreto legislativo n. 142 del 2015  ammettevano
nel sistema SPRAR, a gestione degli enti locali, tutti i richiedenti,
e tra questi anche quelli indigenti con le loro famiglie, quelli  con
esigenze particolari e ovviamente i minori non accompagnati,  nonche'
i rifugiati e i titolari di protezione umanitaria il sistema previsto
dal  decreto-legge  n.   113   del   2018   configura   la   seguente
distribuzione: 
        il  sistema  SIPROIMI,  ancora  gestito  dagli  enti  locali,
accoglie i titolari di  protezione  internazionale  o  speciale  e  i
minori non accompagnati (anche richiedenti); 
        il sistema statale, basato su CPA e CAS,  accoglie  invece  i
richiedenti  protezione  indigenti  di  cui  all'art.   14,   decreto
legislativo n. 142 del 2015, nonche'  quelli  portatori  di  esigenze
particolari di cui all'art. 17 (che godono di non perspicui  «servizi
speciali  di  accoglienza»,  peraltro  indeterminati   temporalmente,
laddove il  comma  4,  oggi  abrogato,  prevedeva  l'accoglienza  nel
sistema SPRAR, assicurata anche  dal  decreto  ministeriale  previsto
dall'art. 14, comma 2, ora abrogato, presso le strutture  predisposte
secondo l'art. 9, comma  5,  decreto  legislativo  n.  142  del  2015
previgente), raggruppandoli  assieme  ai  soggetti  che  usufruiscono
delle misure di prima accoglienza, delineate dall'art. 9, comma 1,  e
dall'art. 11, decreto legislativo n. 142 del 2015. 
    Alla  soppressione  generale  dell'accoglienza  locale  di  lungo
termine si affianca  l'eliminazione  dei  servizi  connessi,  che  in
precedenza venivano erogati da parte degli enti locali. 
    In primo luogo, si evidenzia che all'art. 19,  comma  3,  decreto
legislativo n. 142 del 2015, attraverso l'art. 12, comma  2,  lettera
h-bis), decreto-legge  n.  113  del  2018,  e'  stata  apportata  una
modifica riguardante la copertura delle spese per  l'accoglienza  dei
minori non accompagnati che, per quanto  rivolta  in  primo  luogo  a
tenere indenni i comuni, potrebbe essere intesa come limitativa della
loro liberta' di spesa nel campo dell'assistenza. 
    I minori non accompagnati, infatti, dovrebbero essere accolti, in
linea di principio, da «strutture governative di prima accoglienza  a
loro destinate» (cosi' art. 19, comma 1, decreto legislativo  n.  142
del 2015) per il tempo necessario all'identificazione  (comunque  non
oltre 30 giorni), per poi transitare nel nuovo sistema SIPROIMI, dove
dovrebbero ricevere accoglienza stabile. 
    Ove tali strutture non siano disponibili, tuttavia,  il  comma  3
prevede, oggi come nella versione  previgente,  che  «l'assistenza  e
l'accoglienza  del  minore  sono  temporaneamente  assicurate   dalla
pubblica autorita' del comune in cui il minore si trova». 
    Nella  versione  novellata,  tuttavia,  e'  stata  aggiunta   una
clausola di salvaguardia finanziaria, che recita  «e  comunque  senza
alcuna spesa o onere a carico del comune interessato  all'accoglienza
dei minori stranieri non accompagnati»: clausola, questa, che  -  nel
contesto restrittivo della nuova normativa - potrebbe  essere  intesa
come preclusiva  di  un'autonoma  capacita'  di  spesa  comunale  per
politiche di integrazione di tali minori. 
    Inoltre, l'art. 12, comma 2, lettera  l),  abrogando  l'art.  22,
comma 3, del decreto legislativo n. 142 del 2015, il quale  disponeva
che «i richiedenti, che  usufruiscono  delle  misure  di  accoglienza
erogate  ai  sensi  dell'art.  14,  possono  frequentare   corsi   di
formazione  professionale,  eventualmente  previsti   dal   programma
dell'ente locale dedicato all'accoglienza  del  richiedente»,  appare
escludere - o per lo meno la modifica puo' essere letta nel senso che
sia escluso - che gli enti  locali  o  le  regioni  possano  comunque
attivare (anche non disponendo piu'  dell'accoglienza)  attivita'  di
formazione a favore dei richiedenti. 
    Analogamente, la modifica apportata ad opera dell'art. 12,  comma
2, lettera m), all'art. 22-bis, commi 1 e 3, del decreto  legislativo
n. 142 del 2015 ha l'effetto potenziale di escludere la possibilita',
per gli enti locali, le regioni e le province  autonome,  di  attuare
progetti volti all'implementazione dell'impiego,  da  finanziare  con
risorse europee. 
    Sono  anche  qui  rilevanti,  ancorche'  consequenziali  rispetto
all'abolizione dell'accoglienza per i  richiedenti  asilo  presso  il
sistema SPRAR e alle  situazioni  transitorie  che  ne  derivano,  le
modifiche introdotte dall'art. 12, commi 3, 5 e 6,  decreto-legge  n.
113 del 2018. 
    Il comma 3, infatti, intervenendo sull'art. 4, comma  5,  decreto
legislativo  n.  25  del  2008  (attuativo   della   c.d.   direttiva
procedure), elimina il legame tra  la  competenza  della  Commissione
territoriale deputata alla valutazione della  domanda  di  protezione
internazionale e la residenza del  richiedente  presso  le  strutture
dello SPRAR, per l'evidente motivo che tale sistema non  esiste  piu'
se non per chi e' gia' titolare della protezione, che ovviamente  non
deve piu' adire la Commissione. 
    Il comma 5, per parte  sua,  provvede  a  regolare  il  tempo  di
permanenza residuo dei richiedenti asilo nel sistema  di  protezione,
dal momento che essi  devono  essere  ospitati,  nel  nuovo  impianto
normativo, non piu' presso gli SPRAR, dai quali pertanto  escono,  ma
presso  le   strutture   governative:   secondo   il   tenore   della
disposizione, «i richiedenti asilo presenti nel Sistema di protezione
di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n.  416,
convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990,  n.  39,
alla data di entrata in vigore del  presente  decreto,  rimangono  in
accoglienza  fino  alla  scadenza  del  progetto   in   corso,   gia'
finanziato», di fatto espellendoli dal tipo  di  accoglienza  di  cui
hanno precedentemente goduto. Il comma 6,  che  si  ricollega  invece
all'abolizione della protezione umanitaria gia'  trattata  in  ordine
all'art. 1 del decreto oggetto della presente impugnazione,  sancisce
che «i titolari di protezione  umanitaria  presenti  nel  Sistema  di
protezione di cui all'art. 1-sexies  del  decreto-legge  30  dicembre
1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28  febbraio
1990, n. 39, alla data di entrata in  vigore  del  presente  decreto,
rimangono in accoglienza fino alla  scadenza  del  periodo  temporale
previsto dalle  disposizioni  di  attuazione  sul  funzionamento  del
medesimo Sistema di protezione e comunque non oltre la  scadenza  del
progetto di accoglienza», praticamente espellendo i  soggetti  muniti
di protezione umanitaria dai centri  dello  (ex)  SPRAR  mediante  la
delimitazione del tempo di loro ulteriore permanenza presso i  centri
malgrado l'eventuale perdurare del permesso per motivi umanitari. 
    Alle disposizioni sin qui elencate si affiancano - e sono oggetto
anch'esse della presente impugnazione - tutte  quelle  modifiche  che
sono consequenziali rispetto all'eliminazione del sistema SPRAR cosi'
come  vigente  sino  all'entrata  in  vigore  della   normativa   qui
impugnata, ossia: 
        1. Le modifiche ulteriori rispetto a quelle  gia'  illustrate
apportate dall'art. 12,  comma  1,  decreto-legge  n.  113  del  2018
all'art.  1-sexies  del  decreto-legge  30  dicembre  1989,  n.  416,
convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, e
segnatamente: 
          la disposizione della lettera a-ter), con  la  quale  viene
abrogato il comma 3 dell'art. 1-sexies, che  stabiliva  il  contenuto
del  decreto  ministeriale  di  cui  al  comma  2  previgente,  sulla
destinazione dei finanziamenti per il  sistema  dell'accoglienza  dei
richiedenti asilo e dei minori non accompagnati; 
          le disposizioni delle  lettere  b)  e  c),  con  le  quali,
rispettivamente: al comma 4  del  predetto  art.  1-sexies  (relativo
all'attivazione da parte del Ministero dell'interno di  «un  servizio
centrale di  informazione,  promozione,  consulenza,  monitoraggio  e
supporto  tecnico  agli  enti  locali  che  prestano  i  servizi   di
accoglienza  di  cui  al  comma  1»,  servizio  gestito   attualmente
dall'ANCI, ormai dedicato ai servizi per i titolari e non piu' per  i
richiedenti) le parole da «del richiedente asilo» fino a «di  cui  al
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286,» sono sostituite da  «dei
soggetti di cui al comma 1» (escludendo cosi' dai servizi  supportati
a  favore  degli  enti  locali  da   parte   del   sistema   centrale
l'accoglienza ai richiedenti  asilo  e  la  tutela  dei  titolari  di
protezione umanitaria);  al  comma  5  del  predetto  articolo,  alla
lettera a), le parole «dei richiedenti asilo, dei rifugiati  e  degli
stranieri con permesso umanitario» sono sostituite da  «dei  soggetti
di cui al comma 1» (cancellando cosi' il riferimento al  monitoraggio
della presenza nel  territorio  di  richiedenti  asilo,  rifugiati  e
titolari di protezione umanitaria, sostituendolo con il  monitoraggio
della presenza dei soli titolari di protezione); 
          la disposizione della lettera d), con la quale  la  rubrica
del predetto articolo e' sostituita dalla seguente:  «Art.  1-sexies.
Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per
minori  stranieri  non  accompagnati»,  eliminando   il   riferimento
all'accoglienza  di  richiedenti,  ai  rifugiati  e  ai  titolari  di
protezione umanitaria. 
    2. Le modifiche apportate dall'art. 12, comma 2, modificative del
decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, e precisamente: 
        la lettera a), numeri 1 e 2 nella parte in  cui  eliminano  i
riferimenti  all'accoglienza  SPRAR  di  cui  all'art.  14,   decreto
legislativo n. 142 del 2015 previgente dall'art. 5, commi 2 e 5,  del
medesimo  decreto  n.  142  del   2015,   sopprimendo   altresi'   la
domiciliazione del richiedente presso i centri di cui all'art. 14  ai
fini del procedimento  di  esame  della  domanda  di  protezione,  ed
eliminando i poteri prefettizi connessi alle strutture dello SPRAR; 
        la lettera c), con la quale si abroga l'art. 9, comma 5,  del
decreto legislativo n. 142 del 2015, che disponeva il trasferimento a
richiesta dei richiedenti che avessero  i  requisiti  di  assenza  di
mezzi  di  sussistenza  presso  le  strutture  di  cui  all'art.   14
previgente (SPRAR), con una scelta  legata  anche  alla  presenza  di
particolari esigenze ex art. 17; 
        la lettera d), numeri 1 e 2,  con  i  quali,  in  conseguenza
dell'eliminazione del sistema  SPRAR  precedentemente  in  vigore,  i
riferimenti alle strutture  di  cui  all'art.  14  vengono  eliminati
dall'art. 11, commi 1 e 3,  decreto  legislativo  n.  142  del  2015,
dedicati alle regole di permanenza presso  i  Centri  di  accoglienza
straordinari; 
        la lettera f),  numeri  1  e  5,  con  i  quali:  si  elimina
dall'art. 14, comma  1,  decreto  legislativo  n.  142  del  2015  il
riferimento al sistema SPRAR come precedentemente vigente, destinando
i richiedenti che formalizzano la propria domanda  di  protezione,  e
che risultino privi di mezzi, all'accoglienza di cui agli articoli  9
e  11  del  decreto  e  si  modifica  la  rubrica  dell'articolo  per
espungerne il riferimento al previgente sistema SPRAR; 
        la lettera g), numeri 1 e 2, nella parte in  cui  abrogano  i
commi 1 e 2 dell'art. 15, decreto legislativo n. 142  del  2015,  che
prevedevano la procedura di  accesso  all'accoglienza  SPRAR  per  il
richiedente e  per  i  propri  familiari  in  stato  di  indigenza  e
modificano la rubrica dell'art. 15 per espungerne il  riferimento  al
sistema SPRAR; 
        la lettera  h),  numeri  1  e  2,  i  quali  rispettivamente:
abrogano l'art. 17, comma 4, decreto legislativo  n.  142  del  2015,
eliminando il riferimento alle  strutture  di  cui  all'art.  14  del
medesimo   decreto   e   sopprimendo    pertanto    il    riferimento
all'attivazione  presso  tali  strutture  dei  «servizi  speciali  di
accoglienza per i  richiedenti  portatori  di  esigenze  particolari,
individuati con il decreto del Ministro dell'interno di cui  all'art.
14,  comma  2,  che  tengono  conto  delle  misure  assistenziali  da
garantire alla persona in relazione alle  sue  specifiche  esigenze»;
sostituiscono, al comma 6, le parole «ai sensi dei commi 3 e  4»  con
«ai sensi del comma 3»  per  espungerne  il  riferimento  al  sistema
SPRAR; 
    3. Le modifiche apportate  dall'art.  12,  comma  4,  al  decreto
legislativo n. 142 del 2015, secondo cui «Le definizioni di  "Sistema
di protezione per richiedenti asilo e rifugiati" ovvero  di  "Sistema
di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e minori stranieri non
accompagnati" di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30  dicembre
1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28  febbraio
1990, n.  39,  ovunque  presenti,  in  disposizioni  di  legge  o  di
regolamento, si intendono  sostituite  dalla  seguente:  "Sistema  di
protezione per titolari di protezione  internazionale  e  per  minori
stranieri  non   accompagnati"   di   cui   all'art.   1-sexies   del
decreto-legge   30   dicembre   1989,   n.   416,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 28 febbraio  1990,  n.  39,  e  successive
modificazioni», eliminando il sistema SPRAR dall'ordinamento per come
precedentemente configurato, escludendone segnatamente i  richiedenti
asilo. 
II.2. Le competenze regionali e le  funzioni  locali  in  materia  di
immigrazione. 
    Si sono gia' esposte nella premessa generale le ragioni in  forza
delle quali la ricorrente Regione Emilia-Romagna  ritiene  di  essere
legittimata a prospettare tale illegittimita' a codesta ecc.ma  Corte
costituzionale,  in  ragione  della  sua  ridondanza  sulle  funzioni
proprie e degli  enti  locali  le  cui  ragioni  essa  e'  ugualmente
legittimata a rappresentare. 
    Sia  tuttavia  consentito  aggiungere  qualche   piu'   specifica
considerazione, in relazione  alle  funzioni  assistenziali  connesse
alla materia dell'immigrazione, in quanto esse sono centrali  per  la
valutazione  della  legittimita'  costituzionale  delle   restrizioni
introdotte dall'art. 12. 
    E' noto  infatti  che,  mentre  la  materia  dell'immigrazione  e
dell'asilo e' di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2,
lettere a e b), le attivita' di assistenza sono invece  riconducibili
a  una  competenza  di  carattere  regionale,  la  quale  emerge   da
molteplici riferimenti normativi (e la partecipazione emerge in  modo
specifico  dall'art.  118,  terzo  comma,  Cost.,  che   prevede   un
coordinamento con le regioni proprio nella materia  di  cui  all'art.
117, comma secondo, lettera b). In primo luogo, infatti,  il  decreto
legislativo  n.  286  del  1998  (T.U.  immigrazione)  riconosce   in
molteplici punti le competenze regionali e degli enti locali, ponendo
principi  fondamentali  (art.  1,  comma  4),  prevedendo  forme   di
coordinamento con le regioni (art. 2-bis) anche a fini  programmatici
(art. 3), nonche' specifiche competenze in materia di  istruzione  ed
educazione interculturale (art. 38), centri di accoglienza (art. 40),
integrazione sociale (art. 42). 
    Come e' stato riconosciuto  da  codesta  Corte,  il  testo  unico
opera, in sintesi, «prevedendo che una serie di attivita'  pertinenti
la disciplina del fenomeno migratorio  e  degli  effetti  sociali  di
quest'ultimo vengano esercitate dallo Stato in stretto  coordinamento
con le Regioni, ed affida alcune  competenze  direttamente  a  queste
ultime». Cio' perche' tale articolato  tiene  «ragionevolmente  conto
del fatto  che  l'intervento  pubblico  non  si  limita  al  doveroso
controllo  dell'ingresso  e  del  soggiorno   degli   stranieri   sul
territorio  nazionale,  ma  riguarda  necessariamente  altri  ambiti,
dall'assistenza all'istruzione, dalla salute all'abitazione,  materie
che intersecano ex Costituzione, competenze  dello  Stato  con  altre
regionali, in forma esclusiva o concorrente»  (sentenza  n.  300  del
2005, punto 5 in diritto). 
    Del resto, la competenza regionale in materia di immigrazione - e
la  correlativa  competenza  degli  enti  locali  che  nella  regione
ricadono - e' stata poi nuovamente riconosciuta con  la  sentenza  n.
156 del 2006. 
    Una volta delineato il quadro emergente dal testo unico,  codesta
Corte ha riconosciuto la legittimita' costituzionale della disciplina
contestata, emanata in quell'occasione dalla  Regione  Friuli-Venezia
Giulia: regione a statuto speciale le cui competenze  sono  tuttavia,
per il profilo che  qui  interessa,  corrispondenti  a  quelle  delle
regioni a statuto ordinario, qual e' la Regione ricorrente. 
    Particolarmente rilevante e' la questione che si poneva  rispetto
all'art. 16, comma 3, legge della Regione Friuli-Venezia Giulia del 4
marzo 2005, n. 5, il quale prevedeva la prosecuzione  dell'assistenza
ai minori non accompagnati anche  successivamente  al  raggiungimento
della maggiore eta'. In quell'occasione codesta  Corte  ha  stabilito
che «l'art. 16 della legge impugnata, quale risulta dalla sua  stessa
rubrica recante "Interventi per minori stranieri  non  accompagnati",
si pone l'obiettivo di prevedere delle forme di sostegno  finalizzate
all'inserimento dei minori non accompagnati e, proprio  al  fine  del
completo raggiungimento di tali scopi, al comma 3, dispone  che  tali
interventi possono proseguire anche dopo che  i  beneficiari  abbiano
raggiunto la maggiore eta'»,  precisando  che  «la  norma  impugnata,
quindi, va interpretata nel senso che  essa  si  limita  a  prevedere
l'esercizio di attivita' di assistenza  rientranti  nelle  competenze
regionali, senza incidere in alcun modo  sulla  competenza  esclusiva
dello Stato in materia di immigrazione» (sentenza n.  156  del  2006,
punto 4 in diritto). Ribadendo questo indirizzo,  nella  sentenza  n.
134 del 2010 si e' affermato nuovamente che «deve essere riconosciuta
la possibilita' di interventi legislativi delle regioni con  riguardo
al fenomeno dell'immigrazione, per come previsto dall'art.  1,  comma
4, del decreto legislativo n. 286  del  1998  -  secondo  cui  "Nelle
materie di competenza legislativa delle regioni, le disposizioni  del
presente testo unico costituiscono  principi  fondamentali  ai  sensi
dell'art.  117  della  Costituzione"  -   tuttavia,   tale   potesta'
legislativa non puo' riguardare aspetti che attengono alle  politiche
di  programmazione  dei  flussi  di  ingresso  e  di  soggiorno   nel
territorio nazionale, ma altri ambiti, come il diritto allo studio  o
all'assistenza sociale,  attribuiti  alla  competenza  concorrente  e
residuale delle regioni (sentenze n. 50 del 2008 e n. 156 del  2006)»
(sent. n. 134 del 2010, punto 2 in diritto, il cui tenore e' ribadito
in toto dalla sentenza n. 61 del 2011, punto 2.1 in diritto). 
    Anche nella  disciplina  successiva  al  testo  unico,  peraltro,
affiorano  richiami  alla  leale  collaborazione  e  in  generale  al
coinvolgimento  regionale  e  locale  (articoli  8   e   16   decreto
legislativo n. 142 del 2015). 
    In sostanza, quindi, codesta Corte ha riconosciuto che esiste una
distinzione tra quanto attiene ad asilo e  immigrazione,  ambito  nel
quale si esplicano le competenze statali di cui all'art. 117, secondo
comma, lettere a) e b), Cost.,  e  tutto  cio'  che  riguarda  invece
l'assistenza lato sensu intesa,  ossia  quanto  accade  dopo  che  lo
straniero e' stato inquadrato  dai  competenti  organi  statali  come
soggetto che a qualunque titolo permane nel territorio  nazionale,  e
in relazione al quale gli  enti  territoriali  competenti  possono  e
debbono esercitare i propri compiti. E' su questa situazione  che  si
esercita la competenza regionale in  materia  di  accoglienza  -  ben
consacrata,  tra  gli  altri,  all'art.  40,  comma  1,  del  decreto
legislativo n. 286  del  1998,  secondo  il  quale  «le  regioni,  in
collaborazione con le province e con i comuni e con le associazioni e
le organizzazioni di volontariato predispongono centri di accoglienza
destinati  ad  ospitare,  anche  in  strutture  ospitanti   cittadini
italiani o cittadini di altri Paesi  dell'Unione  europea,  stranieri
regolarmente soggiornanti per motivi diversi dal turismo,  che  siano
temporaneamente  impossibilitati  a  provvedere  autonomamente   alle
proprie esigenze alloggiative e di sussistenza»; e tale competenza si
ritiene qui lesa dalle disposizioni del decreto-legge n. 113 del 2018
che incidono sul sistema SPRAR, e quindi  in  particolare  da  quelle
recate dall'art. 12. 
    Come sopra esposto, infatti, tale articolo rimodula completamente
il sistema dell'accoglienza, precludendo - in  relazione  a  soggetti
che, in attesa di ulteriori decisioni, legittimamente permangono  nel
territorio nazionale -  l'esercizio  delle  funzioni  assegnate  alle
regioni, in violazione dell'art. 117, commi terzo e quarto, Cost.  Lo
stravolgimento della disciplina SPRAR, inoltre, viola  le  specifiche
funzioni attribuite ai comuni (come si e' visto pienamente tutelabili
da parte delle regioni), che sono sempre stati  i  soggetti  deputati
all'accoglienza diffusa sul territorio, e storicamente  hanno  sempre
svolto tale funzione: l'incisione della funzione di  accoglienza  dei
richiedenti  asilo  costituisce,  pertanto,  una   violazione   degli
articoli 5, 114 e 118 Cost. 
    A tale ampia modifica, peraltro, si accompagna l'esclusione degli
enti locali dai finanziamenti del Fondo nazionale per le politiche  e
i servizi dell'asilo, costituito parzialmente da fondi europei  (art.
1-septies, decreto-legge n.  416  del  1989)  volti  a  finanziare  i
progetti inerenti all'accoglienza, in violazione dell'art. 117, primo
comma, 118 e 120 Cost. e della leale collaborazione. 
    In sintesi, quindi, la modifica della disciplina dell'accoglienza
ridonda rispetto alle competenze regionali,  ostacolando  o  rendendo
piu'  complesso  e   piu'   dispendioso   l'operato   della   Regione
Emilia-Romagna nell'esercizio delle proprie competenze. 
II.3. Ragioni e profili di illegittimita' costituzionale. 
II.3.1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 1,  lettere
a), a-ter), b), c) e d), modificativo del decreto-legge  n.  416  del
1989; dell'art. 12 comma 2, lettera a), numeri l e  2,  b),  c),  d),
numeri 1 e 2, f), numeri 1 e 5, g), numeri 1 e 2, h), numeri 1  e  2,
modificativo del decreto legislativo n. 142 del 2015;  dell'art.  12,
comma 3, lettera a), modificativo del decreto legislativo n.  25  del
2008; dell'art. 12, comma 4. 
    Come illustrato al punto II.1, l'art. 12, commi  1,  2,  3  e  4,
decreto-legge n. 113 del 2018 interviene sul decreto-legge n. 416 del
1989,  sul  decreto  legislativo  n.  142  del  2015  e  sul  decreto
legislativo  n.  25  del  2008,  eliminando  il   sistema   SPRAR   e
trasformandolo  in  SIPROIMI,  dedicato  non  piu'   ai   richiedenti
protezione bensi' ai titolari di tale protezione. 
    In  linea  con  questa  scelta,  e  come   sopra   analiticamente
illustrato, ogni riferimento al sistema SPRAR e'  ovunque  sostituito
con quello al SIPROIMI dall'art. 12, comma 4, e  tutte  le  forme  di
accoglienza che erano destinate ai centri SPRAR  secondo  il  decreto
legislativo n. 142 del 2015  (segnatamente,  quella  dei  richiedenti
privi di mezzi sufficienti di cui all'art. 14 e quella  dei  soggetti
vulnerabili di cui all'art. 17), e i finanziamenti vengono  dirottati
sul nuovo sistema,  a  esclusione  evidentemente  di  ogni  forma  di
accoglienza territoriale dei richiedenti, eliminando inoltre tutte le
forme di monitoraggio e di coordinamento prima esistenti. 
    Con tutte  le  norme  impugnate,  inoltre,  vengono  eliminati  i
riferimenti all'accoglienza dei richiedenti nel sistema SPRAR e,  per
quanto riguarda i soggetti indigenti nonche'  quelli  particolarmente
vulnerabili, vengono sostituiti con riferimenti  all'accoglienza  nei
centri  governativi  CPA  o  nei  CAS,  anche  per  quanto   riguarda
l'incardinamento della competenza della Commissione territoriale  che
decide sulla domanda di protezione. 
    Le modifiche apportate dal cd. decreto sicurezza risultano -  sia
per quanto riguarda le disposizioni modificative  e  soppressive  del
sistema  SPRAR,  sia  per  quanto  riguarda  quelle  che   modificano
consequenzialmente le disposizioni di richiamo, tutte indicate  nella
rubrica della presente sezione e tutte impugnate -, ad  avviso  della
ricorrente Regione, costituzionalmente illegittime  per  le  seguenti
ragioni. 
    Conviene precisare, innanzi tutto, che  sino  a  quando  la  loro
domanda non sia stata accolta o respinta,  i  richiedenti  asilo  non
solo legittimamente permangono nel territorio nazionale, ma non  sono
soggetti a misure limitative della liberta' personale. Trattandosi di
persone normalmente in condizioni di indigenza essi sono  accolti  in
strutture a cio' riservate, e naturalmente sono tenuti  a  rispettare
le  regole  di  accoglienza  di  tali  strutture,  il  che   comporta
fisiologicamente  talune  limitazioni,  ma  nulla  che   escluda   il
godimento  di  quelle  liberta'  e  di  quelle  opportunita'  che  la
Costituzione riserva ad ogni persona, nel momento in cui  essa  entri
nel raggio di azione dell'ordinamento italiano. Capovolgendo il punto
di vista, i richiedenti asilo fanno parte  come  ogni  altra  persona
legittimamente presente nel territorio della comunita'  in  relazione
alla quale la Regione e gli enti locali della regione  sono  chiamati
ad esercitare i propri compiti e le proprie funzioni costituzionali. 
    In questa prospettiva, l'accentramento  in  sedi  ed  istituzioni
statali  delle  funzioni  di  accoglienza   dei   richiedenti   asilo
inevitabilmente compromette la facolta' delle regioni di disciplinare
le  forme  dell'assistenza  ai  richiedenti   asilo,   ivi   compresa
l'istituzione di strutture idonee e l'individuazione  delle  funzioni
degli enti locali nella materia,  ulteriori  a  quelle  eventualmente
individuate dallo Stato come funzioni fondamentali. 
    Si  noti  che  la  competenza  della  Regione  nella  materia,  a
completamento ed integrazione  della  disciplina  statale,  e'  stata
esercitata con la legge regionale n. 5 del 2004,  come  si  e'  sopra
compiutamente esposto. 
    Inoltre, le disposizioni statali qui impugnate  sottraggono  agli
enti locali della Regione Emilia-Romagna e in generale  una  funzione
loro propria  inerente  a  una  competenza  pacificamente  regionale,
quella in materia di  assistenza  ad  una  particolare  categoria  di
persone, bisognose di accoglienza. 
    Gli enti locali, come si e' evidenziato, hanno sempre  avuto  una
funzione  primaria  nell'accoglienza   dei   richiedenti   protezione
internazionale: funzione che e' stata  finalmente  istituzionalizzata
con la legge n. 189 del 2002. 
    In particolare, oltre  alla  ripartizione  di  competenze  tra  i
differenti   livelli   di   governo   sancita   dal    testo    unico
sull'immigrazione che la giurisprudenza  di  codesta  Corte  ha  piu'
volte posto in evidenza, anche  altre  disposizioni  prevedono  forme
intense di coordinamento, quali il Tavolo di coordinamento  nazionale
e i Tavoli regionali (cfr. art. 8, decreto  legislativo  n.  142  del
2015 e art. 29, comma 3, decreto legislativo n.  281  del  2007,  che
prevede che il Tavolo sia «composto da rappresentanti  del  Ministero
dell'interno,  dell'Ufficio  del  Ministro  per  l'integrazione,  del
Ministero del  lavoro  e  delle  politiche  sociali,  delle  regioni,
dell'Unione  delle  province  d'Italia  (UPI)   e   dell'Associazione
nazionale dei comuni italiani (ANCI), ed e'  integrato,  in  sede  di
programmazione delle misure di cui alla presente disposizione, con un
rappresentante del  Ministro  delegato  alle  pari  opportunita',  un
rappresentante dell'Alto Commissariato  delle  Nazioni  Unite  per  i
Rifugiati (UNHCR), un rappresentante, della Commissione nazionale per
il diritto  di  asilo  e,  a  seconda  delle  materie  trattate,  con
rappresentanti  delle  altre   amministrazioni   o   altri   soggetti
interessati»). L'integrazione,  peraltro,  e'  incoraggiata  anche  a
livello di normativa europea, la' dove si sottolinea, nella direttiva
2013/33/UE,   che   «e'   opportuno   incoraggiare   un   appropriato
coordinamento  tra  le  autorita'  competenti  per  quanto   riguarda
l'accoglienza  dei  richiedenti,  e  pertanto  promuovere   relazioni
armoniose tra le comunita' locali e i centri di accoglienza». 
    Del  resto,  tutte  le  funzioni  amministrative  relative   alla
presenza delle persone sul proprio territorio spettano  pacificamente
ai comuni, in particolare  per  quel  che  concerne  i  servizi  alla
persona.  E'  evidente  pertanto  che  la  funzione  della   «seconda
accoglienza» era correttamente allocata a  livello  comunale  secondo
l'art. 118, primo comma, Cost., fermo restando che i comuni, in  ogni
caso, secondo l'art. 14, comma 27, lettera g),  decreto-legge  n.  78
del 2010, hanno tra le loro funzioni fondamentali la «progettazione e
gestione del sistema locale dei servizi sociali». 
    La funzione essenziale dei comuni nel  sistema  SPRAR  e'  infine
attestata dall'art. 1-sexies, comma 4, decreto-legge n. 416 del 1989,
che -  anche  nella  versione  innovata  dal  cd.  decreto  sicurezza
-prevede l'affidamento all'ANCI del servizio centrale prima  SPRAR  e
oggi SIPROIMI. 
    La violazione della sussidiarieta' e la  privazione  di  funzioni
fondamentali dei comuni risultano dunque evidenti, come  evidente  e'
la violazione delle competenze regionali in materia di accoglienza. 
    Ne' varrebbe obiettare che, come risulta da quanto esposto,  fino
ad ora le funzioni comunali in materia di accoglienza dei richiedenti
asilo erano in gran parte disciplinate dalla legge dello  Stato,  che
sarebbe dunque perfettamente legittimata a togliere funzioni  che  da
essa dipendono. Un conto, infatti, e' ammettere la competenza statale
a dettare una disciplina  di  funzioni  storicamente  comunali,  come
quelle di assistenza, in forza della connessione con una  materia  di
competenza statale,  quale  l'immigrazione;  e  un  conto  del  tutto
diverso e' che lo Stato possa accentrare a se' stesso tali  funzioni,
privandone  sia  la  Regione  che  gli  enti  locali,  che  ne   sono
costituzionalmente titolari. 
    Si noti peraltro  che,  per  quanto  riguarda  specificamente  la
Regione Emilia-Romagna, la competenza costituzionalmente  garantitale
e' stata esercitata con la gia' ricordata legge regionale  n.  5  del
2004, che  attribuisce  appunto  ai  comuni  emiliani  rilevantissime
funzioni (art. 5), e in particolare una competenza  generale  secondo
cui, «in attuazione dei principi di cui al comma primo dell'art.  118
della Costituzione Sito esterno, compete  ai  comuni  l'esercizio  di
ogni  ulteriore  funzione  concernente  l'integrazione  sociale   dei
cittadini stranieri immigrati» (art. 5, comma 2). 
    La soppressione del sistema SPRAR  in  relazione  ai  richiedenti
asilo, che ridonda sulle competenze regionali nei  termini  indicati,
inoltre, risulta del tutto irragionevole, in violazione  dell'art.  3
Cost., nonche' del principio di sussidiarieta',  mettendo  inoltre  a
repentaglio basilari diritti riconosciuti a tutti dall'art. 2 Cost. 
    Sotto il primo  profilo,  l'eliminazione  della  distinzione  tra
misure  di  prima  e  di  seconda  accoglienza  ha   introdotto   una
contraddizione radicale all'interno del decreto  legislativo  n.  142
del 2015, che rende irrazionale l'intera organizzazione  del  sistema
dell'accoglienza. 
    Come si e' accennato, infatti, i richiedenti asilo  o  protezione
internazionale privi di adeguati mezzi di sussistenza  sono  accolti,
nella versione novellata del citato decreto, presso  i  CPA,  secondo
l'art.  14  nella  nuova  formulazione:  «il   richiedente   che   ha
formalizzato la domanda e che risulta privo di  mezzi  sufficienti  a
garantire una qualita' di vita adeguata per il sostentamento  proprio
e dei propri familiari, ha accesso, con i familiari, alle  misure  di
accoglienza del presente decreto», ossia quella presso i CPA  e,  ove
questi non siano in grado di assicurare posti liberi, presso i CAS. 
    Di  conseguenza,  in  corrispondenza  con   l'abrogazione   della
distinzione  tra  prima  e  seconda  accoglienza,  i  CPA   divengono
strutture di accoglienza di lungo termine  per  i  richiedenti  asilo
privi di mezzi. 
    Ora,  nel  decreto  legislativo  n.  142  del   2015,   tuttavia,
permangono le disposizioni che connotavano il sistema  dei  CPA  come
prima accoglienza (a partire dall'art. 9, comma 1, che li  identifica
idonei  «per  le  esigenze  di  prima  accoglienza»)   di   carattere
provvisorio, disponendo, ad esempio, all'art. 9,  comma  4,  che  «il
richiedente e' accolto  per  il  tempo  necessario,  all'espletamento
delle   operazioni   di   identificazione,   ove    non    completate
precedentemente, alla  verbalizzazione  della  domanda  ed  all'avvio
della  procedura   di   esame   della   medesima   domanda,   nonche'
all'accertamento  delle  condizioni  di  salute   diretto   anche   a
verificare,  fin  dal  momento  dell'ingresso  nelle   strutture   di
accoglienza, la sussistenza di situazioni di vulnerabilita'  ai  fini
di cui all'art. 17, comma 3». 
    Risulta dunque dalla stessa testuale formulazione della normativa
di riferimento che le strutture denominate CPA erano e sono del tutto
impreparate a offrire un'accoglienza di lungo termine, essendo  state
viceversa ed essendo tuttora previste come strutture che si  limitano
alla prima (e breve) accoglienza. 
    Per  tali  motivi,  l'innovazione  normativa  risulta  del  tutto
irragionevole nell'affidare a  centri  deputati  esclusivamente  alla
prima accoglienza, e come  tali  attrezzati,  anche  l'assistenza  ai
richiedenti indigenti e alle loro famiglie per la  durata  dell'esame
della domanda. 
    Inoltre, la  soppressione  del  sistema  SPRAR  e'  ulteriormente
irragionevole  in  quanto  sopprime   un   sistema   di   accoglienza
notoriamente   ben   funzionante   in   favore   di    un'irrazionale
concentrazione di tutti i  richiedenti  protezione  presso  strutture
governative (CPA o CAS),  con  palese  violazione  del  principio  di
sussidiarieta' e con la prospettiva di sicure violazioni dei  diritti
umani dei soggetti ospitati, anche essendo notorio  che,  nei  centri
statali,  «le  condizioni  di  accoglienza  non  soltanto   risultano
peggiori rispetto a quelle assicurate nelle strutture SPRAR, ma sotto
diversi profili si pongono addirittura al  di  sotto  degli  standard
imposti dalle norme europee» (cosi' A. Annoni, Autonomie, cit., 203),
ragion per cui l'Italia ha subito anche una procedura  di  infrazione
in sede europea ex art. 258 Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione
europea (n. 2012/2189). 
    Per la stessa ragione e' violato il principio di  sussidiarieta',
dal momento che l'assodato buon funzionamento degli SPRAR toglie ogni
giustificazione alla concentrazione  dell'assistenza  ai  richiedenti
asilo presso rarefatte strutture statali. 
    Per le stesse ragioni e' violato altresi' il  principio  di  buon
andamento di cui all'art. 97 Cost. 
II.3.2. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 1,  lettera
a-bis), modificativo del decreto-legge n. 416 del 1989,  e  dell'art.
12, comma 2, lettera f), n. 2, modificativo del  decreto  legislativo
n. 142 del 2015. 
    Con l'art. 12, comma 2, lettera a-bis), e comma 2, lettera f), n.
2, decreto-legge n. 113 del 2018, viene riformulata la disciplina dei
finanziamenti ai progetti  di  accoglienza  nel  sistema  SPRAR,  ora
SIPROIMI. 
    Quanto all'ultima disposizione (lettera f), n. 2), essa  provvede
semplicemente  ad  abrogare  il  comma  2   dell'art.   14,   decreto
legislativo n. 142 del 2015, in conseguenza  con  la  sparizione  dal
sistema dei progetti volti all'accoglienza dei richiedenti  privi  di
mezzi sufficienti di sostentamento presso  le  strutture  degli  enti
locali, cosi' escludendo  l'accoglienza  dei  richiedenti  asilo  dal
finanziamento pubblico del sistema locale. 
    Questa disposizione appare illegittima, in primo luogo,  per  una
sorta  di  invalidita'  derivata:  se,  come  la  ricorrente  Regione
ritiene, e' illegittima la  sottrazione  della  funzione  al  sistema
SPRAR,  risulta  di  conseguenza  illegittima  la  soppressione   del
finanziamento necessario ad esercitare la funzione. 
    Essa, inoltre, e' illegittima anche in assoluto:  se  pure  fosse
legittimo concentrare  l'offerta  di  strutture  di  accoglienza  nel
sistema dei CPA e  CAS,  cio'  non  significherebbe  affatto  che  la
Regione e  gli  enti  locali  possano  essere  privati  di  qualunque
finanziamento inerente a funzioni di  assistenza,  delle  quali  esse
rimarrebbero  comunque  responsabili  per  tutto   quanto   non   sia
intrinsecamente collegato alla presenza fisica  nelle  strutture  (si
pensi, ad esempio, alle  strutture  di  formazione,  di  insegnamento
della  lingua  italiana  e  in  generale  alle  diverse  funzioni  di
integrazione sociale)  e  comunque  anche  competenti  per  quel  che
riguarda la creazione di  strutture  diverse  dagli  ex  SPRAR,  oggi
SIPROIMI, e aperte ai  richiedenti,  che  sono  pur  sempre  soggetti
legittimamente soggiornanti. 
    In altre parole, si contesta il fatto che, eliminando il  sistema
SPRAR, si preclude l'accesso degli enti locali al Fondo nazionale per
le politiche e i servizi dell'asilo,  composto  da:  «a)  le  risorse
iscritte  nell'unita'  previsionale  di  base   4.1.2.5   "Immigrati,
profughi e rifugiati" - capitolo 2359 - dello stato di previsione del
Ministero  dell'interno  per  l'anno  2002,   gia'   destinate   agli
interventi di cui all'art. 1-sexies e corrispondenti a  5,16  milioni
di  euro;  b)  le  assegnazioni  annuali  del  Fondo  europeo  per  i
rifugiati, ivi comprese quelle gia'  attribuite  all'Italia  per  gli
anni 2000, 2001 e 2002 ed  in  via  di  accreditamento  al  Fondo  di
rotazione  del  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze;   c)   i
contributi e le donazioni eventualmente disposti da privati,  enti  o
organizzazioni,  anche   internazionali,   e   da   altri   organismi
dell'Unione europea» (cosi' l'art. l-septies, comma 1,  decreto-legge
n. 416 del 1989). 
    Di conseguenza, eliminando il  canale  di  finanziamento  per  lo
SPRAR relativamente all'accoglienza dei richiedenti, gli enti  locali
appaiono privati di qualunque via per accedere ai  finanziamenti  per
tale tipologia di servizio, che pure  sono  competenti  assieme  alla
Regione, a svolgere.  La  disposizione  e'  dunque  illegittima,  per
violazione degli articoli 117 e 119 Cost., nella parte in  cui  priva
il sistema regionale e locale di qualunque finanziamento in relazione
all'assistenza ai richiedenti asilo e,  di  conseguenza,  con  l'art.
117, primo comma, Cost., e con l'art. 11 Cost., dal momento  che  non
permette l'accesso  degli  enti  locali  nemmeno  ai  fondi  europei,
«diluiti» in quelli nazionali, previsti dal  regolamento  2014/516/UE
anche per i richiedenti protezione (art. 5, comma 1,  lettera  b  del
regolamento). 
    Inoltre, la lettera a-bis),  nella  sua  nuova  formulazione  del
ruolo della Conferenza unificata all'interno  del  finanziamento  del
SIPROIMI, e' altresi' lesiva delle prerogative regionali  in  materia
di accoglienza. 
    Innanzi tutto, e' anch'essa collegata al venir meno del ruolo del
sistema locale di accoglienza, ed e' dunque illegittima per le stesse
ragioni. 
    In subordine, essa sarebbe illegittima anche nel  diverso  quadro
ora disposto, nella parte in cui limita  il  ruolo  della  Conferenza
unificata. 
    Nella versione previgente dell'art 1-sexies, decreto-legge n. 416
del 1989, infatti, la Conferenza si pronunciava  -  senza  limiti  di
tempo - direttamente sulle modalita' di spesa disposte  dall'apposito
decreto ministeriale, mentre nella versione novellata  puo'  incidere
soltanto sulle modalita' e  sui  criteri  della  presentazione  delle
domande di finanziamento, rimanendo invece integralmente al Ministero
la scelta sulla concreta allocazione dei fondi. 
    Tale sottrazione e' del tutto irragionevole e ingiustificata,  in
quanto  la  funzione   di   assistenza   rimane,   per   assegnazione
costituzionale,  una  funzione  regionale  e  locale,  anche   se   i
richiedenti che  ne  sono  destinatari  sono  ospitati  in  strutture
statali. La riduzione del ruolo della Conferenza viola in primo luogo
il principio di leale  collaborazione,  riconducibile  all'art.  120,
secondo comma, Cost., in secondo luogo il principio di ragionevolezza
e il principio di buon andamento, in quanto  priva  l'amministrazione
del fondo di una sede di coordinamento tra  l'autorita'  responsabile
dei Centri e le  autorita'  regionali  e  locali  responsabili  delle
funzioni di benessere. 
II.3.3. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 1,  lettera
h-bis), modificativo del decreto legislativo n. 142 del 2015. 
    Come gia' accennato nella descrizione delle  modifiche  apportate
dal cd. decreto sicurezza all'art. 19, comma 3,  decreto  legislativo
n. 142 del 2015, i minori non  accompagnati,  di  regola,  dovrebbero
essere accolti, nel sistema attuale,  da  «strutture  governative  di
prima accoglienza a loro destinate» (cosi' art. 19, comma 1,  decreto
legislativo   n.   142   del   2015)   per   il   tempo    necessario
all'identificazione  (comunque  non  oltre  30   giorni),   per   poi
transitare nel nuovo sistema SIPROIMI,  presso  il  quale  dovrebbero
ricevere accoglienza stabile. 
    Ove tali strutture non siano disponibili, tuttavia,  il  comma  3
prevede, oggi come nella versione  previgente,  che  «l'assistenza  e
l'accoglienza  del  minore  sono  temporaneamente  assicurate   dalla
pubblica autorita' del comune in cui il minore si trova». 
    Nella  versione  novellata,  tuttavia,  e'  stata  aggiunta   una
clausola di salvaguardia finanziaria, che recita  «e  comunque  senza
alcuna spesa o onere a carico del comune interessato  all'accoglienza
dei minori stranieri non accompagnati». 
    Tale aggiunta e' impugnata, con il  presente  motivo,  non  nella
parte in cui prevede che gli enti locali non siano  gravati  da  tali
spese, ma per la sola ipotesi che essa  dovesse  essere  intesa  come
limitazione della possibilita' dei comuni emiliani, nell'esercizio di
funzioni proprie, di finanziare liberamente le proprie attivita'. Ove
dovesse essere intesa come  includente  un  profilo  restrittivo,  la
disposizione   risulterebbe    gravemente    lesiva    dell'autonomia
finanziaria degli enti locali, in spregio agli  articoli  118  e  119
Cost.,   oltreche'   essere   di   ostacolo   al    buon    andamento
dell'amministrazione prescritto dall'art. 97 Cost. 
II.3.4. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 2,  lettera
l), modificativo del decreto legislativo n. 142 del 2015. 
    La lettera l) dell'art. 12, comma 2,  decreto-legge  n.  113  del
2018 cancella l'art. 22, comma 3, dal decreto legislativo n. 142  del
2015. 
    Secondo   tale   comma   nella   sua   versione   vigente   prima
dell'abrogazione, «i richiedenti, che usufruiscono  delle  misure  di
accoglienza erogate ai sensi dell'art. 14, possono frequentare  corsi
di formazione professionale,  eventualmente  previsti  dal  programma
dell'ente locale dedicato all'accoglienza del richiedente». 
    Tale  disposizione  e'  anch'essa  evidentemente  collegata  alla
sottrazione al sistema locale dell'assistenza ai  richiedenti  asilo,
ed e' illegittima per le  stesse  ragioni,  come  e'  illegittima  la
corrispondente eliminazione della partecipazione ai  fondi  destinati
all'accoglienza, nei termini sopra esposti. 
    Ulteriormente, l'abrogazione potrebbe essere  intesa  addirittura
come rivolta ad istituire un divieto posto alla regione e  agli  enti
locali di organizzare attivita' di formazione professionale ai  quali
i richiedenti asilo possano partecipare. 
    Se   dovesse   essere   cosi'   interpretata,   la   disposizione
risulterebbe  ulteriormente  illegittima,  trattandosi   di   compiti
rientranti nella competenza piena della regione ex art. 117, terzo  e
quarto comma, Cost. (rispettivamente, tutela del lavoro e  formazione
professionale), compiti che la Regione ha il dovere  di  svolgere  in
relazione a tutti coloro che legittimamente si trovino nel territorio
nazionale, in connessione con l'art. 35 Cost. 
II.3.5. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 2,  lettera
m), modificativo del decreto legislativo n. 142 del 2015. 
    Nella stessa  prospettiva  di  quanto  da  ultimo  osservato,  la
Regione Emilia-Romagna impugna in via cautelativa  anche  l'art.  12,
comma 2, lettera m) del cd. decreto sicurezza,  nella  parte  in  cui
elimina il riferimento ai richiedenti, sostituendolo con i  titolari,
rispetto alle  attivita'  previste  dal  comma  1  dell'art.  22-bis,
decreto legislativo n. 142 del 2015, secondo  il  quale  «i  prefetti
promuovono, d'intesa con i comuni e con  le  regioni  e  le  province
autonome, anche nell'ambito dell'attivita' dei Consigli  territoriali
per  l'immigrazione  di  cui  all'art.  3,  comma  6,   del   decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni,  ogni
iniziativa utile  all'implementazione  dell'impiego  di  titolari  di
[precedentemente: richiedenti]  protezione  internazionale,  su  base
volontaria,  in  attivita'  di  utilita'  sociale  in  favore   delle
collettivita'  locali,  nel  quadro  delle   disposizioni   normative
vigenti». 
    Anche  questa  disposizione,  infatti,   si   presta   a   essere
interpretata come un divieto rispetto alla possibilita'  per  comuni,
regioni e province autonome  di  organizzare  iniziative  utili  alla
«implementazione  dell'impiego»,  per  di  piu'   in   favore   delle
collettivita' locali, in relazione  ai  richiedenti  asilo:  e  cosi'
intesa sarebbe illegittima di nuovo per violazione  delle  competenze
regionali in materia di formazione  professionale  e  di  tutela  del
lavoro (117, quarto e terzo comma, Cost.),  in  connessione  con  gli
articoli 4 e 35 Cost. 
    Inoltre, la modifica  introdotta  al  comma  3  dell'art.  22-bis
elimina altresi' i finanziamenti destinati  alla  predisposizione  di
iniziative utili alla «implementazione  dell'impiego»  a  favore  dei
richiedenti,  ragion  per  cui  anche   a   voler   interpretare   la
disposizione  diversamente  rispetto  a  un   secco   divieto,   essa
corrisponde  in  ogni  caso  alla  sottrazione  dei   fondi   europei
specificamente  destinati  anche  alle  iniziative  in   favore   dei
richiedenti asilo, e viola pertanto, oltre agli articoli 4 e 35 Cost.
gia' richiamati, anche il principio di  sussidiarieta'  ex  art.  118
Cost., l'art. 119 Cost., il principio di leale  collaborazione  e  lo
stesso regolamento europeo in materia di finanziamenti alle politiche
relative all'immigrazione (2014/516/UE) attraverso l'art. 117,  primo
comma, Cost. 
II.3.6. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 5. 
    Da quanto sin qui argomentato discende altresi'  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 12, comma 5, decreto legislativo n. 113  del
2018, secondo il quale «i richiedenti asilo presenti nel  Sistema  di
protezione di cui all'art. 1-sexies  del  decreto-legge  30  dicembre
1989, n. 416, convertito, con modificazioni, dalla legge 28  febbraio
1990, n. 39, alla data di entrata in  vigore  del  presente  decreto,
rimangono in accoglienza fino alla scadenza del  progetto  in  corso,
gia' finanziato». 
    La disposizione, ponendo la scadenza del  progetto  quale  limite
alla permanenza in accoglienza, espelle in realta' i richiedenti  dal
sistema dell'accoglienza, aggravandone senza ragione le condizioni di
permanenza temporanea nel territorio. 
    Essa  risulta   pertanto   illegittima   non   soltanto   perche'
costituisce la  materiale  conseguenza  dell'abolizione  del  sistema
SPRAR dedicato ai richiedenti, ma altresi' perche' si pone in diretta
violazione dei diritti dei soggetti in accoglienza,  i  quali  da  un
giorno all'altro si ritrovano privi di qualunque tipo di sostegno  ed
espulsi dal contesto di vita nel quale erano inseriti. 
    Risultano violati, oltre alle competenze regionali in materia  di
assistenza, anche ed in particolare, l'art.  3  Cost.  per  manifesta
irragionevolezza e violazione dei diritti quesiti dei richiedenti,  i
quali si vedono privati dell'accoglienza senza che la loro condizione
giuridica o materiale si sia in alcun modo modificata; dell'art. 117,
primo comma, e dell'art. 11 Cost., in quanto risulta violato altresi'
l'art. 8 della Convenzione europea per la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali in materia  di  tutela  della
vita   privata   e   familiare,   messe   entrambe   a    repentaglio
dall'espulsione  dai  centri  in  cui  prima  si  era  legittimamente
accolti. 
    L'irragionevolezza, peraltro, e'  palese  anche  all'interno  del
sistema del cd. decreto sicurezza, poiche'  i  soggetti  che  vengono
allontanati dai centri SPRAR dovrebbero  essere  trasferiti  nei  CPA
governativi, cosa che non viene in alcun modo prevista. 
    Sussiste,  inoltre,  un  ulteriore  profilo  di   illegittimita',
relativo  alle  funzioni  regionali  e   comunali   in   materia   di
accoglienza. 
    L'art. 12, comma 5,  decreto-legge  n.  113  del  2018,  infatti,
costringe gli enti locali a espellere i richiedenti asilo dai  propri
centri, quand'anche le risorse  economiche  dell'ente  oppure  quelle
fornite  dalla   Regione   nell'ambito   delle   proprie   competenze
risultassero perfettamente sufficienti. 
    Sotto  questo  profilo,  pertanto,  risultano  invase  competenze
regionali in materia di accoglienza di  cui  all'art.  117,  terzo  e
quarto comma, nonche' il principio  di  sussidiarieta'  di  cui  agli
articoli 5, 114 e 118 Cost., anche al comma terzo che  prevede  forme
di coordinamento proprio in materia  di  immigrazione,  e  ancora  il
principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost. 
II.3.7. Illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 6. 
    L'art. 12, comma 6, decreto-legge n. 113 del 2018 dispone che  «i
titolari di protezione umanitaria presenti nel Sistema di  protezione
di cui all'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n.  416,
convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990,  n.  39,
alla data di entrata in vigore del  presente  decreto,  rimangono  in
accoglienza fino alla scadenza del periodo temporale  previsto  dalle
disposizioni di attuazione sul funzionamento del medesimo Sistema  di
protezione  e  comunque  non  oltre  la  scadenza  del  progetto   di
accoglienza». 
    La disposizione, ponendo la scadenza del  progetto  quale  limite
alla permanenza in accoglienza, espelle  in  realta'  i  titolari  di
protezione  umanitaria  dal  sistema  dell'accoglienza,  aggravandone
senza ragione le condizioni di permanenza temporanea nel territorio. 
    Essa  risulta   pertanto   illegittima   non   soltanto   perche'
costituisce la  materiale  conseguenza  dell'abolizione  del  sistema
SPRAR  dedicato  ai  richiedenti  e  ai  titolari  della   protezione
umanitaria, ma altresi' perche' si pone  in  diretta  violazione  dei
diritti dei soggetti in accoglienza, i quali da un  giorno  all'altro
si ritrovano privi di qualunque  tipo  di  sostegno  ed  espulsi  dal
contesto di vita nel quale erano inseriti. 
    Oltre alle competenze regionali in materia di assistenza, risulta
violato anche  ed  in  particolare,  l'art.  3  Cost.  per  manifesta
irragionevolezza e violazione dei diritti quesiti dei richiedenti,  i
quali si vedono privati dell'accoglienza senza che la loro condizione
giuridica o materiale si sia in alcun modo modificata,  e  oltretutto
vedono ricondotta tale mutazione al momento terminale del progetto di
accoglienza, non invece a  quello  della  scadenza  del  permesso  di
soggiorno. 
    Tale scelta e' evidentemente priva di  qualsiasi  ragione,  posto
che fino alla scadenza del permesso essi sono titolari e hanno quindi
diritto  -   fatta   salva   la   gia'   argomentata   illegittimita'
dell'abolizione della protezione umanitaria - all'accoglienza  presso
il SIPROIMI esattamente come i titolari  delle  forme  di  protezione
sopravvissute al cd. decreto sicurezza. 
    A tale irragionevolezza si aggiunge  il  fatto  che  non  risulta
emanata alcuna disposizione di attuazione come quella menzionata  nel
comma impugnato. 
    Appare evidente, inoltre, la contrarieta'  di  tale  disposizione
all'art. 117, primo comma, e dell'art. 11 Cost.,  in  quanto  risulta
violato  altresi'  l'art.  8  della  Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  in
materia di tutela della vita privata e familiare,  messe  entrambe  a
repentaglio  dall'espulsione  dai  centri  in  cui   prima   si   era
legittimamente accolti. 
III. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 13, COMMA 1, LETTERA A),
N. 2, COMMA 1, LETTERA B), NUMERI 1 E  2,  E  COMMA  1,  LETTERA  C),
DECRETO-LEGGE N. 113 DEL 2018 
III.1.  La  disciplina  dell'iscrizione  anagrafica  e  le  modifiche
operate dal decreto. 
    Si contesta in  questa  sezione  la  legittimita'  costituzionale
dell'intervento posto in essere  attraverso  l'art.  13  del  decreto
legislativo n. 113 del 2018. 
    Fino all'emanazione di tale decreto,  il  permesso  di  soggiorno
rilasciato al soggetto richiedente aveva funzione sia di documento di
riconoscimento, sia di titolo per l'iscrizione  anagrafica  presso  i
comuni. 
    Tale secondo aspetto e' stato radicalmente  modificato  dall'art.
13, comma 1,  lettera  a),  n.  2,  mediante  il  nuovo  comma  1-bis
dell'art.  4,  decreto  legislativo  n.  142  del  2015.   L'articolo
modificato risulta pertanto ora cosi' formulato nei  suoi  primi  due
commi: 
        1. Al richiedente e' rilasciato un permesso di soggiorno  per
richiesta  asilo  valido  nel  territorio  nazionale  per  sei  mesi,
rinnovabile fino alla decisione della domanda o comunque per il tempo
in cui e' autorizzato a rimanere nel territorio  nazionale  ai  sensi
dell'art. 35-bis, commi 3 e 4, del  decreto  legislativo  28  gennaio
2008, n. 25.  Il  permesso  di  soggiorno  costituisce  documento  di
riconoscimento ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera c), del decreto
del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. (3) 
        1-bis. Il permesso  di  soggiorno  di  cui  al  comma  1  non
costituisce titolo per l'iscrizione anagrafica ai sensi  del  decreto
del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223,  e  dell'art.
6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. 
    In altri termini, viene dimezzata la funzione del documento,  che
vale ai fini del riconoscimento,  ma  non  (piu'),  invece,  ai  fini
dell'iscrizione anagrafica presso il Comune. 
    Alla modifica menzionata si coordina la novella recata  dall'art.
13, comma 1, lettera b), numeri 1 e 2, che modificano l'art. 5, commi
3 e 4, decreto legislativo n. 142 del 2015, come segue: 
        3. L'accesso ai servizi previsti dal  presente  decreto  e  a
quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle  norme  vigenti
e' assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1
e 2. 
        4. Il prefetto competente in base al luogo  di  presentazione
della domanda ovvero alla sede della struttura  di  accoglienza  puo'
stabilire, con atto scritto e motivato, comunicato al richiedente con
le modalita' di cui all'art. 6, comma 5,  un  luogo  di  domicilio  o
un'area geografica ove il richiedente puo' circolare. 
    I primi due commi prevedono che: 
        1. Salvo quanto previsto al comma 2, l'obbligo di  comunicare
alla questura  il  proprio  domicilio  o  residenza  e'  assolto  dal
richiedente tramite  dichiarazione  da  riportare  nella  domanda  di
protezione internazionale. Ogni eventuale  successivo  mutamento  del
domicilio o residenza e' comunicato  dal  richiedente  alla  medesima
questura  e  alla  questura  competente  per  il  nuovo  domicilio  o
residenza ai fini del  rinnovo  del  permesso  di  soggiorno  di  cui
all'art. 4, comma 1. 
        2. Per il richiedente  trattenuto  o  accolto  nei  centri  o
strutture di cui agli articoli 6, 9  e  11,  l'indirizzo  del  centro
costituisce  il  luogo  di  domicilio  valevole  agli  effetti  della
notifica e delle comunicazioni degli atti relativi al procedimento di
esame della  domanda,  nonche'  di  ogni  altro  atto  relativo  alle
procedure di trattenimento  o  di  accoglienza  di  cui  al  presente
decreto. L'indirizzo del centro ovvero il diverso domicilio di cui al
comma 1 e' comunicato dalla questura alla Commissione territoriale. 
    In sintesi, i soggetti richiedenti vengono muniti di un documento
che, tuttavia, non e' valevole ai fini dell'iscrizione anagrafica,  e
pertanto non permette di  ottenere  la  residenza,  lasciando  spazio
soltanto per una mera domiciliazione. 
    Di conseguenza, il richiedente puo' dichiarare  un  domicilio  (o
una residenza, specifica la norma, che  pero'  non  potra'  avvenire,
evidentemente, se il suo unico  titolo  e'  proprio  il  permesso  di
soggiorno per richiesta di asilo) al  momento  della  formalizzazione
della domanda di protezione, o - come recita il comma 2  -  l'obbligo
di comunicazione e' assolto direttamente dall'accoglienza  presso  un
centro  di  espulsione  o   di   accoglienza,   luogo   che   diviene
automaticamente il domicilio del richiedente. 
    Infine, l'art. 13, comma 1, lettera c), abroga l'art.  5-bis  del
decreto legislativo n. 142 del 2015. Tale articolo recitava: 
        Art. 5-bis  (Iscrizione  anagrafica).  -  1.  Il  richiedente
protezione internazionale ospitato nei centri di cui agli articoli 9,
11 e 14 e' iscritto  nell'anagrafe  della  popolazione  residente  ai
sensi dell'art. 5 del regolamento di cui al  decreto  del  Presidente
della  Repubblica  30  maggio  1989,  n.  223,   ove   non   iscritto
individualmente. 
    2. E' fatto obbligo al  responsabile  della  convivenza  di  dare
comunicazione della variazione della convivenza al competente ufficio
di anagrafe entro venti giorni dalla data in cui si sono verificati i
fatti. 
    3. La comunicazione, da parte del responsabile  della  convivenza
anagrafica,   della   revoca   delle   misure   di   accoglienza    o
dell'allontanamento  non  giustificato  del  richiedente   protezione
internazionale costituisce motivo  di  cancellazione  anagrafica  con
effetto immediato, fermo restando il  diritto  di  essere  nuovamente
iscritto ai sensi del comma 1. 
    La   disposizione   istituiva   un   collegamento   diretto   tra
l'accoglienza nel sistema SPRAR e l'ufficializzazione di un luogo  di
residenza, istituendo  una  procedura  semplificata  e  affidando  al
responsabile del contro di  accoglienza  la  cura  degli  adempimenti
conseguenti.   L'abrogazione   sembra   confermare   che   le   nuove
disposizioni  intendono  privare  i  richiedenti  del  diritto   alla
residenza. 
III.2. Profili di illegittimita' costituzionale. 
III.2.1. Illegittimita' costituzionale delle  disposizioni  impugnate
in quanto privano i richiedenti asilo del diritto  al  riconoscimento
del loro luogo di residenza e le autorita'  pubbliche,  ivi  comprese
quelle regionali e comunali, di accertare e  stabilire  la  residenza
delle persone. In subordine, loro illegittimita'  costituzionale  per
irragionevolezza e violazione del principio di buon andamento. 
    Secondo l'art. 43, comma secondo, del codice civile «la residenza
e' nel luogo in cui la persona  ha  la  dimora  abituale».  Il  comma
primo, invece, definisce il domicilio di una persona come  il  «luogo
in cui essa ha  stabilito  la  sede  principale  dei  suoi  affari  e
interessi». 
    Si tratta di nozioni di carattere generale, che formano una parte
della grammatica del diritto civile. Esse sono valide  per  tutti,  e
sono insuscettibili di applicazione differenziata  per  persone,  per
luoghi o per situazioni particolari. 
    La  residenza,  inoltre,   pacificamente   corrisponde   ad   una
situazione di fatto:  una  persona  potra'  determinarsi  a  dimorare
abitualmente in un luogo o in un altro, ma il luogo ove di fatto egli
dimora abitualmente e' il luogo della sua residenza, e la  competente
autorita' comunale ha il potere ed  il  dovere  di  accertarlo  anche
indipendentemente dall'iniziativa dell'interessato, e persino  contro
il suo desiderio. 
    Peraltro,  la  giurisprudenza  di  legittimita'  da  molti   anni
riconosce  che  quello  all'iscrizione  anagrafica  e'   un   diritto
soggettivo perfetto, affermando  che  «l'ordinamento  delle  anagrafi
della popolazione residente  (legge  24  dicembre  1954,  n.  1228  e
relativo  regolamento  di  esecuzione  approvato  con   decreto   del
Presidente  della  Repubblica  31  gennaio  1958,  n.  136,   vigente
all'epoca dei fatti, e poi  sostituito  dal  decreto  del  Presidente
della Repubblica 30 maggio 1989,  n.  223)  configura  uno  strumento
giuridico - amministrativo di documentazione e di conoscenza, che  e'
predisposto nell'interesse sia della  pubblica  amministrazione,  sia
dei singoli individui», cosicche'  «sussiste,  invero,  non  soltanto
l'interesse dell'amministrazione ad avere una relativa certezza circa
la composizione ed  i  movimenti  della  popolazione  ...,  ma  anche
l'interesse dei privati ad ottenere le certificazioni anagrafiche  ad
essi necessarie per l'esercizio dei diritti civili e politici  e,  in
generale, per provare la residenza e lo stato di famiglia». 
    Dal momento che «tutta l'attivita' dell'ufficiale  d'anagrafe  e'
disciplinata dalle norme sopra richiamate in  modo  vincolato,  senza
che trovi spazio alcun  momento  di  discrezionalita'»,  prosegue  la
Corte di cassazione, «la regolamentazione  qui  considerata,  per  la
natura vincolata dell'attivita' amministrativa da essa disciplinata e
perche'  e'  dettata   nell'interesse   diretto   della   popolazione
residente, non  contiene  norme  sull'azione  amministrativa,  ma  e'
composta  da   norme   di   relazione   che   disciplinano   rapporti
intersoggettivi»,   per   cui   «tali   norme    non    attribuiscono
all'amministrazione  alcun  potere  idoneo  a  degradare  i   diritti
soggettivi attribuiti ai singoli individui»  (cosi'  Cassazione  Sez.
Unite, 19 giugno 2000, n. 449). 
    In  questo  indiscutibile  contesto   deve   essere   inteso   il
significato  delle  nuove  disposizioni,  secondo  le  quali:  a)  il
permesso  di  soggiorno  non  costituisce  (piu')  documento   idoneo
all'iscrizione anagrafica; b) il «luogo di domicilio» acquista  nuovo
rilievo giuridico a determinati  effetti,  e  viene  comunicato  alla
Commissione  territoriale;  e'  abrogata  la  norma   che   prevedeva
l'automatica iscrizione dei richiedenti  asilo  accolti  in  uno  dei
centri del sistema SPRAR. 
    Secondo  un'interpretazione  radicale,  le   nuove   disposizioni
potrebbero  essere  rivolte  non  meramente  a   disciplinare   quali
documenti debba presentare il richiedente all'anagrafe,  escludendone
il permesso di soggiorno, o ad eliminare l'obbligo  del  responsabile
del centro di  comunicare  i  nomi  delle  persone  accolte  ai  fini
dell'iscrizione  all'anagrafe  dei  residenti,  ma   addirittura   ad
impedire l'identificazione e la qualificazione dei richiedenti  asilo
come residenti. In altre parole, per essi non varrebbe l'art. 43  del
codice civile, ne' conseguentemente il potere e il dovere dei  comuni
in quanto  responsabile  dell'anagrafe  di  accertarne  il  luogo  di
residenza. I richiedenti asilo  sarebbero,  in  parole  ulteriormente
diverse, soggetti privi di residenza, privi di ubicazione fissa e non
identificati come tali nella comunita' territoriale  nella  quale  si
trovano. Essi avrebbero un domicilio, cioe', a  termini  del  codice,
una sede di affari e interessi, ma non un luogo nel quale essi,  come
persone, siano riconosciuti trovarsi abitualmente. 
    Non sembra occorrano molte parole per dimostrare l'illegittimita'
costituzionale delle disposizioni  interessate,  ove  esse  dovessero
essere intese nel senso indicato. 
    Dal   lato   soggettivo,   esse   creerebbero    delle    persone
istituzionalmente di serie B, veri fantasmi  sociali,  privi  persino
del diritto di essere ufficialmente considerate come residenti in  un
luogo,  con  evidente  violazione  ad  un  tempo  sia  dei   «diritti
inviolabili dell'uomo» (art. 2 Cost.) - primo tra essi il diritto  ad
essere riconosciuto come esistente in un determinato luogo - sia  del
principio  generale  di  uguaglianza  nel  senso  piu'   classico   e
primordiale  del  termine,  con  riferimento,  in  questo  caso  alla
discriminazione in base alle «condizioni personali  e  sociali».  Dal
lato oggettivo, la creazione di una categoria di persone prive  della
residenza come identificazione della loro  collocazione  territoriale
priva le comunita' interessate della possibilita' di riconoscere  chi
ne e' di fatto parte stabile e conseguentemente della possibilita' di
utilizzare il luogo di  residenza  quale  presupposto  dell'esercizio
delle loro funzioni sia normative che ancor piu'  amministrative.  E'
chiaro, infatti, che qualunque funzione pubblica, di vantaggio  o  di
svantaggio, promozionale o repressiva, richiede  in  primo  luogo  la
precisazione  del  luogo  della  residenza  delle  persone,   ed   il
riconoscimento del loro diritto-dovere  di  essere  qualificate  come
residenti. 
    Questa considerazione,  si  noti,  risolve  in  radice  anche  il
problema della ridondanza della questione di legittimita'  qui  posta
sulle funzioni regionali, essendo - come detto  -  la  determinazione
della residenza il primum di qualunque  attivita'  di  governo  delle
persone. Evidente e' dunque la violazione di  tutte  le  disposizioni
costituzionali che consentono e impongono tali attivita' di governo e
di amministrazione, e in particolare degli articoli 5, 97  (principio
di buon andamento), 117 e 118 della Costituzione, come anche, e prima
ancora,  dell'art.  3  inteso  quale  fondamento  del  principio   di
ragionevolezza. 
    Ferma e - ad avviso della  Regione  Emilia-Romagna  -  certissima
l'illegittimita' costituzionale delle disposizioni sopra indicate ove
intese nel senso indicato, rimane da verificare  la  possibilita'  di
attribuire ad esse il piu' ridotto  ambito  gia'  sopra  prospettato.
Esse non sarebbero dunque rivolte a privare alcuno del  diritto  alla
residenza (che,  si  badi,  e'  anche  il  dovere  di  sottostare  al
riconoscimento della propria residenza in un determinato  luogo),  ma
comporterebbero «soltanto» l'impossibilita' di utilizzare il permesso
di soggiorno quale documento utile a determinare la  residenza  e  il
venir meno del dovere del responsabile della convivenza di comunicare
il nome delle persona accolte  nel  centro  ai  fini  dell'iscrizione
anagrafica, mentre continuerebbe ad esserci, anche per i  richiedenti
asilo,  la  possibilita'  e  il  diritto  di  ottenere   l'iscrizione
anagrafica in base ad  altri  documenti  o  documentazione  idonea  a
dimostrare il fatto della residenza come  dimora  abituale,  e  fermo
ugualmente il dovere delle autorita' comunali di accertare,  in  base
ad ogni elemento disponibile, ivi compresi i sopralluoghi dei  propri
vigili, lo stesso fatto della residenza,  iscrivendo  ogni  residente
nei registri dell'anagrafe. 
    Questa diversa interpretazione eviterebbe la creazione gia' nelle
norme di una categoria di esseri umani privi del diritto e del dovere
di essere riconosciuti quali residenti in  un  luogo  ma,  ad  avviso
della ricorrente Regione, non salverebbe le norme in questione  dalla
censura di illegittimita' costituzionale. 
    Infatti, posto come esistente il diritto dei richiedenti asilo di
ottenere - come tutti - la certificazione della residenza  nel  luogo
di dimora abituale, e il diritto/dovere delle autorita'  comunali  di
accertare tale residenza,  le  disposizioni  in  questione  risultano
completamente  irragionevoli,  venendo  ad  ostacolare,  invece   che
favorire, il processo di accertamento della residenza:  ostacolo  che
nel caso dei richiedenti  asilo  e'  spesso  insormontabile,  essendo
fatto notorio che tali persone, proprio per la loro condizione,  sono
spesso sprovviste di altri documenti di identita'. 
    Non si vede infatti, in questo caso, la ragione per negare che  a
questo fine possa essere utilizzato un documento quale il permesso di
soggiorno,   rilasciato    dal    Ministero    dell'interno,    cioe'
dall'autorita'  statale  piu'  idonea  ad  assicurare   il   corretto
riconoscimento delle persone e della loro collocazione. Ne' si vede -
con violazione ulteriore del principio di  uguaglianza  -  per  quale
ragione un soggetto munito di un documento diverso dal solo  permesso
di  soggiorno  (come,  ad  esempio,  un  passaporto),  ma  egualmente
richiedente, otterrebbe la residenza, e il titolare del solo permesso
di soggiorno invece no. 
    E  risulta  altresi'  completamente   irrazionale   l'abrogazione
dell'obbligo dei responsabili dei centri di comunicare  i  nominativi
delle  persone  accolte  in  essi,  ai   fini   dell'accertamento   e
dell'attestazione della loro residenti. 
    Di qui la violazione del principio di ragionevolezza, collegabile
anch'esso all'art. 3 della Costituzione,  e  del  principio  di  buon
andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97. 
III.2.2.  Rilevanza  specifica  della  residenza  per  le   autorita'
pubbliche della Regione. 
    Sia  consentito,  ad  integrazione  delle  considerazioni  svolte
subito  sopra,  di  rilevare  come   l'eliminazione   dell'iscrizione
anagrafica comporti conseguenze rilevanti rispetto all'attivita'  dei
comuni emiliani nell'ambito  delle  funzioni  loro  proprie  e  delle
competenze in materia di accoglienza che sono state  attribuite  alle
regioni. 
    Come gia' ricordato, il comune riveste un ruolo primario rispetto
ai servizi e  alle  prestazioni  discendenti  dalla  presenza  di  un
soggetto nel suo territorio: in tale  prospettiva,  e'  evidente  che
l'iscrizione  anagrafica  rappresenta  uno  snodo  cruciale,  atto  a
fungere  da  presupposto  per  l'erogazione  di  molteplici   servizi
assistenziali. 
    In  particolare,   e'   tramite   l'iscrizione   anagrafica   che
l'amministrazione regionale e comunale  possono  organizzare  servizi
inerenti  alla  sanita'  o  all'istruzione   o   ancora   all'accesso
all'impiego, e in generale mirare la propria azione  nella  direzione
che persegua al meglio l'interesse della sua popolazione. 
    Tale programmazione - e la relativa partecipazione da parte degli
enti locali - e' pacificamente contemplata all'art. 1, comma 3, legge
n.  328  del  2000,   secondo   il   quale   «la   programmazione   e
l'organizzazione  del  sistema  integrato  di  interventi  e  servizi
sociali compete agli enti locali, alle regioni ed allo Stato ai sensi
del decreto legislativo 31 marzo  1998,  n.  112,  e  della  presente
legge, secondo i principi di sussidiarieta', cooperazione, efficacia,
efficienza ed  economicita',  omogeneita',  copertura  finanziaria  e
patrimoniale,  responsabilita'  ed   unicita'   dell'amministrazione,
autonomia  organizzativa  e   regolamentare   degli   enti   locali»,
contemplando le funzioni rispettive di  comuni,  province  e  regioni
agli articoli 6, 7 e 8 della medesima legge. 
    Il divieto di iscrizione  anagrafica,  ad  ogni  evidenza,  rende
impossibile procedere ad  una  seria  programmazione  in  materia  di
erogazione di servizi sociali, in particolare per quanto  riguarda  i
servizi scolastici  e  quelli  sanitari,  la  cui  pianificazione  e'
evidentemente essenziale alla buona amministrazione dell'ente locale,
il che dimostra la palese irragionevolezza della disciplina posta dal
decreto-legge n. 113 del 2018, la quale rende piu' oneroso  -  quando
non impossibile - alle regioni  e  agli  enti  territoriali  in  esse
inclusi  adempiere  ai  propri  compiti,  senza   alcuna   plausibile
giustificazione. 
    Anzi, proprio il fatto  che  la  disciplina  riconduca  -  in  un
maldestro    tentativo    di    evitare    la    comunque    evidente
incostituzionalita'  della  novella  -  al  differente  concetto   di
domicilio l'«accesso ai servizi» previsti dal  decreto  «e  a  quelli
comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme  vigenti»  rende
sia l'erogazione, sia  la  pianificazione  dei  servizi  estremamente
complesse, dal momento che, contrariamente a quanto dispone l'art. 2,
primo comma, legge n. 1228 del 1954 per la residenza (secondo cui «e'
fatto obbligo ad ognuno di chiedere per se' e per  le  persone  sulle
quali  esercita  la  patria  podesta'  o  la  tutela,  la  iscrizione
nell'anagrafe del comune di dimora  abituale  e  di  dichiarare  alla
stessa i fatti determinanti mutazione  di  posizioni  anagrafiche,  a
norma del regolamento, fermo restando, agli effetti dell'art. 44  del
Codice  civile,  l'obbligo  di  denuncia  del   trasferimento   anche
all'anagrafe del Comune di precedente residenza»), non  vi  e'  alcun
obbligo  di  comunicare  le  modifiche  del  proprio  domicilio,  con
ulteriore incontrollata  possibilita'  di  incremento  o  diminuzione
della popolazione effettiva senza il minimo segnale ufficiale. 
    Oltre a impedire le funzioni di programmazione e quindi,  in  fin
dei conti, di erogazione dei servizi, vengono altresi' complicate  le
funzioni di monitoraggio della popolazione e della  sicurezza  locale
che pure sono demandate agli enti comunali: per questo vale, tra  gli
altri,  l'art.  1,  legge  n.  1228  del  1954,  secondo   il   quale
«l'iscrizione e la richiesta di  variazione  anagrafica  possono  dar
luogo alla verifica, da parte dei competenti uffici  comunali,  delle
condizioni igienico-sanitarie dell'immobile  in  cui  il  richiedente
intende fissare la propria residenza, ai sensi  delle  vigenti  norme
sanitarie».  Ne'  si  puo'  ignorare   quali   disfunzioni   provochi
l'ignoranza circa il numero della popolazione effettiva  riguardo  ai
servizi statistici. 
    Infine, non puo' essere dimenticata la lesione  che  la  mancanza
dell'iscrizione   anagrafica   arreca   relativamente   a    funzioni
legislative gia' esercitate nella pienezza delle  sue  competenze  da
parte della Regione Emilia-Romagna. 
    La menzionata legge regionale n. 5 del  2004,  infatti,  appresta
numerose   iniziative   a   favore   della   popolazione   straniera,
specificando che gli interventi sono destinati anche  ai  richiedenti
asilo (art. 2, comma 1), come anche la legge regionale 12 marzo 2003,
n. 2, la quale all'art. 4, comma 1, lettera  c,  prevede  il  diritto
anche  per  gli  stranieri  regolarmente  soggiornanti   -   come   i
richiedenti  appunto  -  il  diritto  pieno  di  accesso  al  Sistema
integrato di interventi e servizi sociali. 
    Tuttavia, e' evidente che la Regione, per le stesse ragioni sopra
viste  rispetto  alle  possibilita'  di  programmazione,   non   puo'
assicurare alcunche' a soggetti  che  non  sa  essere  stanziati  nel
proprio territorio, ed e' palese che l'unico modo per ottenere questo
dato e' proprio la consultazione dei registri anagrafici. 
    Al di la' di tali aspetti articolati dal  punto  di  vista  degli
enti, il complesso della disciplina emergente dall'impugnato art. 13,
decreto  legislativo  n.   113   del   2018   risulta   completamente
irragionevole anche se guardato dalla prospettiva del richiedente. 
    Prima di tutto va rammentato che, come riconosciuto costantemente
da codesta Corte, se e' vero che «la regolamentazione dell'ingresso e
del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale  e'  collegata
alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad  esempio,
la sicurezza e la sanita' pubblica, l'ordine pubblico, i  vincoli  di
carattere  internazionale  e  la  politica  nazionale  in   tema   di
immigrazione  e  tale  ponderazione  spetta  in   via   primaria   al
legislatore  ordinario,  il  quale  possiede  in   materia   un'ampia
discrezionalita'», d'altra parte quest'ultima e' «limitata, sotto  il
profilo della conformita' a Costituzione, soltanto dal vincolo che le
sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli». 
    In ogni caso, «lo straniero e' anche titolare di tutti i  diritti
fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona (si
vedano, per tutte, le sentenze n. 203 del 1997, n. 252 del  2001,  n.
432 del 2005 e n. 324 del 2006)» (v. sentenza n. 148 del 2008). 
    Tra questi, certamente, figura il  diritto  alla  salute  di  cui
all'art. 32 Cost. (sul punto cfr. sentenza n. 309 del  1999,  secondo
la quale un «nucleo irriducibile del  diritto  alla  salute  protetto
dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignita'  umana»  va
sicuramente riconosciuto, e al suo ambito «appartiene il diritto  dei
cittadini in disagiate condizioni economiche, o indigenti secondo  la
terminologia dell'art.  32  della  Costituzione,  a  che  siano  loro
assicurate cure gratuite»), o ancora il diritto all'istruzione di cui
all'art. 34 Cost. e quello al lavoro contemplato dall'art. 35  Cost.,
ma in generale tutti quei diritti sociali tutelati dall'art. 2 Cost. 
    Tutte queste norme  risultano  violate  dalla  restrizione  della
possibilita' di iscrizione ai  registri  anagrafici  a  carico  degli
stranieri, che impedisce,  come  ha  affermato  la  Cassazione  sopra
citata, persino di accedere alle «certificazioni anagrafiche ad  essi
necessarie per l'esercizio dei diritti civili e politici». 
    Difatti, anche soltanto l'individuazione del  medico  di  base  o
l'accesso alle prestazioni sanitarie che richiedono la residenza  (si
pensi agli elenchi degli utenti del SSN  di  cui  all'art.  19  della
legge n. 833 del 1978, i quali sono  «iscritti  in  appositi  elenchi
periodicamente aggiornati presso l'unita' sanitaria  locale  nel  cui
territorio hanno la residenza») divengono  difficili,  in  violazione
dell'art.  32  Cost.,  come  del  resto  diviene  complesso,  se  non
impossibile,  l'accesso  ai  servizi  scolastici  obbligatori  e  non
obbligatori, come anche agli asili, campi nei quali la residenza e la
prossimita' costituiscono criteri consolidati. 
    Anche nel  campo  dell'accesso  al  lavoro  -  che  anche  per  i
richiedenti, secondo l'art. 22, decreto legislativo n. 142 del  2015,
e' garantito almeno nel diritto di  accedervi  dopo  sessanta  giorni
dalla  domanda  di  asilo  -,  peraltro,  si  creano  situazioni   di
incertezza (basti pensare al fatto che, nel  decreto  legislativo  14
settembre 2015, n. 150, recante «Disposizioni per il  riordino  della
normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche  attive,
ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183»,
si prevede come principio la «disponibilita' di servizi e  misure  di
politica attiva  del  lavoro  a  tutti  i  residenti  sul  territorio
italiano,  a  prescindere  dalla  regione  o  provincia  autonoma  di
residenza») per l'uso che comunemente viene fatto  della  nozione  di
residenza. 
    In  generale,  quindi,   l'accesso   ai   servizi   verra'   reso
notevolmente piu' difficoltoso in assenza di alcuna plausibile ratio,
il che aggiunge un profilo alla gia' illustrata illegittimita'  della
disciplina in questione. 
    La novella risulta peraltro anche  totalmente  contraddittoria  e
generativa di  disparita'  di  trattamento  alla  luce  del  disposto
dell'art. 6, comma 7, legge n. 286 del 1998, che recita: 
        «Le  iscrizioni  e  variazioni  anagrafiche  dello  straniero
regolarmente soggiornante sono effettuate  alle  medesime  condizioni
dei cittadini italiani con le modalita' previste dal  regolamento  di
attuazione. In ogni caso  la  dimora  dello  straniero  si  considera
abituale anche in caso di documentata ospitalita' da piu' di tre mesi
presso  un  centro  di  accoglienza.   Dell'avvenuta   iscrizione   o
variazione l'ufficio da' comunicazione alla questura territorialmente
competente». 
    Nella disposizione viene fissato il principio  di  interrelazione
tra la regolarita'  del  soggiorno  e  la  possibilita'  di  ottenere
«iscrizioni e variazioni anagrafiche», ed e' pacifico - anche nel cd.
decreto sicurezza - che il richiedente sia pur sempre  uno  straniero
regolarmente soggiornante, che rimane nel  territorio  nazionale  con
pieno diritto. 
    Il funzionamento del permesso di  soggiorno  nel  solo  caso  dei
richiedenti asilo o protezione configura una significativa disparita'
di trattamento: per un  verso,  infatti,  il  permesso  di  soggiorno
attribuito  ai  richiedenti   e'   l'unico   a   non   dare   accesso
all'iscrizione anagrafica; per  un  altro,  correlativo,  verso,  tra
tutti gli  stranieri  regolarmente  soggiornanti  il  richiedente  e'
l'unico che non puo' ottenere l'iscrizione  anagrafica,  non  potendo
pertanto usufruire - o potendo usufruire assai piu'  difficilmente  -
dei servizi connessi, e maturando,  tra  l'altro,  anche  in  maniera
differente i requisiti per l'ottenimento della cittadinanza. 
    Questo risulta ancor piu' irragionevole  a  porre  attenzione  al
fatto che il permesso di soggiorno - in  generale  -  e'  finalizzato
proprio alle iscrizioni, come lascia trasparire l'art.  6,  comma  2,
testo  unico  immigrazione:  «Fatta  eccezione  per  i  provvedimenti
riguardanti attivita' sportive e ricreative a  carattere  temporaneo,
per quelli inerenti all'accesso alle  prestazioni  sanitarie  di  cui
all'art. 35 e  per  quelli  attinenti  alle  prestazioni  scolastiche
obbligatorie, i documenti inerenti al soggiorno di  cui  all'art.  5,
comma  8,  devono  essere  esibiti   agli   uffici   della   pubblica
amministrazione ai fini  del  rilascio  di  licenze,  autorizzazioni,
iscrizioni  ed  altri  provvedimenti  di  interesse  dello  straniero
comunque denominati». 
    Relativamente  alla  menzionata  disposizione  sussistono   anche
profili di disparita' ulteriore. 
    Il citato art. 6, comma 7,  testo  unico  immigrazione,  infatti,
sancisce infatti che «in ogni  caso  la  dimora  dello  straniero  si
considera abituale anche in caso di documentata ospitalita'  da  piu'
di tre mesi presso un centro di accoglienza», ma  e'  contestualmente
eccettuato dalla disposizione di cui all'art. 13,  comma  1,  lettera
a), n. 2 del decreto-legge n. 113 del 2018. 
    In altre parole, all'interno del  sistema  dell'attribuzione  del
permesso di  soggiorno  e  dell'iscrizione  anagrafica,  nel  vigente
sistema per come novellato dal cd. decreto sicurezza i titolari della
protezione  internazionale  (che  avrebbero  diritto   all'iscrizione
anagrafica in base al loro permesso  di  soggiorno,  proprio  per  il
fatto che esso non e'  un  permesso  di  soggiorno  per  richiedenti)
avranno la  loro  dimora  abituale,  ex  art.  6,  comma  7,  decreto
legislativo n. 286 del 1998, presso il centro di accoglienza: ad es.,
un titolare potra' averla presso una struttura del SIPROIMI. 
    Viceversa,  il  medesimo  dato  di  fatto  riguardante  pero'  un
richiedente - per esempio l'accoglienza  presso  un  CPA,  nel  nuovo
sistema - non potra'  rilevare,  tantomeno  ai  fini  dell'iscrizione
anagrafica,  con  evidente  e  illogica  disparita'  rispetto  a  una
medesima situazione fattuale. 
IV. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 21, COMMA 1, LETTERA  A),
DECRETO-LEGGE N. 113 DEL 2018. 
    L'art. 21, comma 1, lettera a), decreto-legge n. 113 del 2018, ha
inserito all'interno dell'art. 9, comma 3, decreto-legge 20  febbraio
2017,  n.  14,  le  parole  «presidi  sanitari»,  facendo   risultare
l'attuale formulazione come segue: 
        3. Fermo il disposto dell'art. 52, comma 1-ter,  del  decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42,  e  dell'art.  1,  comma  4,  del
decreto legislativo 25  novembre  2016,  n.  222,  i  regolamenti  di
polizia urbana possono  individuare  aree  urbane  su  cui  insistono
presidi sanitari, scuole,  plessi  scolastici  e  siti  universitari,
musei, aree e parchi  archeologici,  complessi  monumentali  o  altri
istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti
flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere,  mercati,
pubblici spettacoli, ovvero adibite a verde pubblico, alle  quali  si
applicano le disposizioni  di  cui  ai  commi  1  e  2  del  presente
articolo. 
    L'articolo tiene ferma la disciplina in materia di  commercio  in
siti di particolare rilievo storico o culturale, e ferma  apre,  dopo
la novella, all'individuazione  di  aree  su  cui  insistono  presidi
sanitari alle quali si possono applicare i seguenti commi: 
        1. Fatto salvo quanto  previsto  dalla  vigente  normativa  a
tutela delle aree  interne  delle  infrastrutture,  fisse  e  mobili,
ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico  locale,
urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze, chiunque ponga in
essere condotte che impediscono l'accessibilita' e la fruizione delle
predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o
di occupazione di spazi  ivi  previsti,  e'  soggetto  alla  sanzione
amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da  euro  100  a
euro 300. Contestualmente all'accertamento della  condotta  illecita,
al trasgressore viene ordinato, nelle forme e con le modalita' di cui
all'art. 10, l'allontanamento dal luogo in cui e' stato  commesso  il
fatto. 
        2.   Ferma    restando    l'applicazione    delle    sanzioni
amministrative previste dagli articoli 688 e 726 del Codice penale  e
dall'art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.  114,  nonche'
dall'art. 7, comma 15-bis, del codice della strada, di cui al decreto
legislativo  30  aprile   1992,   n.   285,   il   provvedimento   di
allontanamento di cui al comma l del presente  articolo  e'  disposto
altresi' nei confronti di chi commette le violazioni  previste  dalle
predette disposizioni nelle aree di cui al medesimo comma. 
    In sintesi, puo' essere applicata una  sanzione  tra  100  e  300
euro, nonche' l'allontanamento dal luogo in cui e' stato commesso  il
fatto, a chi impedisce l'accessibilita' ai luoghi di cui al comma  1,
nonche' a chi sia ivi colto in stato di ubriachezza in pubblico (art.
688 c.p.), a chi ivi commetta atti  contrari  alla  pubblica  decenza
(art. 726 c.p.), a chi eserciti il commercio senza  o  in  violazione
dell'autorizzazione prescritta (art. 29, decreto legislativo  n.  114
del 1998), a chi eserciti l'attivita' di parcheggiatore abusivo (art.
7, comma 15-bis, decreto legislativo n. 285 del 1992). 
    Conviene  notare  che  non  si  tratta  qui  del  mero  ed  ovvio
allontanamento istantaneo di  chi  in  qualunque  modo  impedisca  il
corretto  e  regolare  funzionamento   del   servizio   pubblico,   e
dell'applicazione delle conseguenti ordinarie sanzioni amministrative
o in ipotesi penali, ma dell'inserimento dei presidi sanitari  tra  i
luoghi ai quali, in forza delle disposizioni dell'art. 10, si applica
un regime speciale che prevede l'interdizione all'accesso per periodi
prolungati  e  l'assegnazione  al  responsabile  di  uno   stato   di
«precriminalizzazione», nel senso che la  trasgressione  dei  divieti
amministrativi prelude all'incriminazione penale. 
    Ad avviso della ricorrente  Regione,  l'inserimento  dei  presidi
sanitari tra i luoghi presso o in  difesa  dei  quali  i  quali,  con
apposito regolamento di polizia  urbana,  si  applica  i  complessivo
regime speciale sopra descritto, appare irragionevole,  contrario  ad
un criterio di proporzionalita' e violativo del diritto  alla  salute
presidiato dall'art. 32 Cost. 
    La reazione dell'ordinamento rispetto alla condotta, infatti,  si
rivela del tutto irragionevole e sproporzionata nel  momento  in  cui
comprime gravemente il diritto alla salute  di  determinati  soggetti
che, oltretutto, in una  parte  dei  casi  previsti,  possono  essere
particolarmente bisognosi di cure (come chi sia  colto  in  stato  di
ubriachezza, magari in ragione di un'abitualita' in tale condotta)  e
in un'altra parte non hanno tenuto alcuna condotta che suggerisca una
misura grave come l'allontanamento dalle strutture ospedaliere. 
    Peraltro, un allontanamento cosi' radicale e duraturo come quello
prescritto  dalla  disposizione  si  puo'   tradurre,   in   ambienti
particolarmente carenti di strutture sanitarie, in una vera e propria
privazione delle cure, che si pone in contrasto,  oltretutto,  con  i
doveri che incombono sul personale medico-sanitario operativo  presso
gli ospedali. 
    In subordine alla radicale eliminazione, la  disposizione  appare
comunque illegittima  nella  parte  in  cui  non  esclude  dalla  sua
applicazione i soggetti che tengano i comportamenti sanzionabili come
conseguenza o come effetto della patologia dalla quale sono afflitti,
nonche' i soggetti  per  i  quali  l'applicazione  della  misura  sia
suscettibile di compromettere la cura  delle  patologie  dalle  quali
sono affetti. 
V. ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE  DELL'ART.  21-BIS,  COMMI  1  E  2,
DECRETO-LEGGE N. 113 DEL 2018. 
    Con l'art. 21-bis, commi 1 e 2, decreto-legge n.  113  del  2018,
vengono dettate disposizioni rivolte a  rafforzare  la  tutela  della
sicurezza pubblica nelle vicinanze di esercizi pubblici, in un regime
di collaborazione e coordinamento tra autorita' di pubblica sicurezza
e le organizzazioni  degli  esercenti,  nel  quadro  di  linee  guida
ministeriali. 
    La Regione Emilia-Romagna non contesta il fine o il contenuto  di
tali  disposizioni,   ma   ritiene   costituzionalmente   illegittima
l'esclusione delle regioni e degli enti locali  dalla  partecipazione
all'elaborazione di tali meccanismi di rafforzamento della  sicurezza
pubblica. 
    Nello specifico si dispone quanto segue: 
        1. Ai fini di una piu' efficace prevenzione di atti  illegali
o di situazioni di pericolo per  l'ordine  e  la  sicurezza  pubblica
all'interno e nelle  immediate  vicinanze  degli  esercizi  pubblici,
individuati a norma dell'art. 86  del  testo  unico  delle  leggi  di
pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931,  n.  773,
con appositi accordi sottoscritti tra il prefetto e le organizzazioni
maggiormente   rappresentative   degli   esercenti   possono   essere
individuate  specifiche   misure   di   prevenzione,   basate   sulla
cooperazione tra i gestori degli esercizi e le Forze di polizia,  cui
i gestori medesimi si assoggettano, con le modalita'  previste  dagli
stessi accordi. 
        2. Gli accordi di cui al comma 1 sono adottati localmente nel
rispetto delle linee  guida  nazionali  approvate,  su  proposta  del
Ministro dell'interno, d'intesa con  le  organizzazioni  maggiormente
rappresentative degli esercenti, sentita la  Conferenza  Stato-citta'
ed autonomie locali. 
    L'articolo  prevede  che,  al  fine  della  prevenzione  di  atti
illegali o situazioni  di  pericolo  che  possano  verificarsi  nelle
vicinanze degli esercizi pubblici previsti dall'art. 86 TULPS  (ossia
«alberghi, compresi  quelli  diurni,  locande,  pensioni,  trattorie,
osterie, caffe' o altri esercizi in cui si vendono  al  minuto  o  si
consumano  vino,  birra,  liquori  od   altre   bevande   anche   non
alcooliche», e ancora «sale  pubbliche  per  bigliardi  o  per  altri
giuochi leciti o stabilimenti di bagni, ovvero locali di stallaggio e
simili») vengano sottoscritti accordi tra prefetto  e  organizzazioni
maggiormente rappresentative degli esercenti al fine  di  individuare
misure  specifiche  di  prevenzione  tramite  la   cooperazione   tra
esercenti e Forze di polizia, cui i gestori si  assoggettano  secondo
gli accordi. 
    Questi ultimi, a livello locale, vengono adottati seguendo  linee
guida approvate su proposta del Ministero dell'interno, con  l'intesa
delle organizzazioni maggiormente rappresentative degli  esercenti  e
sentita la Conferenza Stato-autonomie locali. 
    Le regioni hanno competenza residuale in materia di  commercio  -
chiaramente coinvolta nel momento in cui vengono chiamate in causa le
organizzazioni rappresentative degli  esercenti  e  i  gestori  degli
esercizi commerciali. 
    Anche in relazione ai profili di ordine pubblico,  e'  la  stessa
Costituzione, all'art.  118,  terzo  comma,  a  prevedere  «forme  di
coordinamento» tra lo Stato e le regioni. 
    La  disposizione  risulta  dunque  illegittima,  per   violazione
dell'art. 117, quarto comma, nonche' 118, terzo comma, nella parte in
cui essa prevede il solo coinvolgimento della Conferenza Stato-citta'
ed autonomie locali, anziche' quello della  Conferenza  unificata,  e
nella parte in cui non  prevede  la  possibile  partecipazione  delle
regioni e degli enti locali interessati agli accordi  locali  rivolti
al rafforzamento della sicurezza pubblica.