Ricorso ex art. 127 Costituzione per la Presidenza del  Consiglio
dei ministri (codice fiscale 80188230587), in persona del  Presidente
pro-tempore, rappresentata e difesa ex lege dall'avvocatura  generale
dello     Stato      (codice      fiscale      80224030587;      pec:
ags.rm@mailcert.avvocaturastato.it     - fax     06/96514000)      ed
elettivamente domiciliata presso i  suoi  uffici  in  Roma,  via  dei
Portoghesi, n. 12; ricorrente; 
    Contro Regione Molise in persona del Presidente pro tempore,  con
sede in Campobasso, via Genova, n. 11, c.a.p. 86100, resistente; 
    Per la dichiarazione di illegittimita'  costituzionale  dell'art.
10, art. 15 comma 2 lettera f), g) ed h) e comma 3 lettera  i),  art.
16, comma 1 lettera b), f) e g) e art. 32 della legge  della  regione
Molise 10 maggio 2019, n. 4, pubblicata  nel  B.U.R.  n.  17  del  13
maggio 2019, recante «Legge di stabilita' regionale 2019». 
    La legge della Regione Molise 10 maggio 2019, n. 4 recante «Legge
di stabilita' regionale 2019» , e' censurabile con  riferimento  alle
disposizioni contenute all'art. 10, all'art. 15 comma 2  lettera  f),
g) ed h) e comma 3 lettera i), all'art. 16, comma 1 lettera b), f)  e
g) ed all'art. 32, in quanto si pone in contrasto  con  gli  articoli
81, 97, 117, comma 2 lettera 1) e lettera s), con l'art. 117, comma 3
nella materia «coordinamento della finanza pubblica»,  e  con  l'art.
120 della Costituzione alla luce dei seguenti 
 
                               Motivi 
 
    1. La legge della Regione Molise 10 maggio  2019,  n.  4  recante
«Legge di stabilita' regionale 2019», contempla talune disposizioni -
meglio  indicate  in  epigrafe  -  che  appaiono   costituzionalmente
illegittime, ed i cui motivi di censura sono di seguito illustrati. 
    2. La legge regionale in esame, mediante l'art. 10,  da  un  lato
dispone  l'abrogazione  del  comma  4  dell'art.  3-bis  della  legge
regionale   n.   4/201.5    (che    stabiliva    la    corresponsione
all'Amministratore unico dell'ARSARP  di  un'indennita'  di  funzione
onnicomprensiva, determinata dalla Giunta regionale, non eccedente il
70 per cento della  retribuzione  dei  dirigenti  di  servizio  della
Regione  Molise),  dall'altro  introduce  il  principio  per  cui  il
trattamento economico di detto Amministratore si conforma ai principi
di cui all'art. 24 comma 3 decreto legislativo n.  165/2001  (che,  a
propria volta, rimanda alla retribuzione del personale con  qualifica
dirigenziale). 
    L'art. 10 della legge regionale rubricato «Modifiche  alla  legge
regionale 26 marzo 2015, n.  4»  testualmente  prevede:  «Alla  legge
regionale 26 marzo 2015, n. 4 (Istituzione dell'Agenzia regionale per
lo sviluppo  agricolo,  rurale  e  della  pesca  (ARSARP)  -  Giacomo
Sedati), sono apportate le seguenti modifiche: 
        a) il comma 1 dell'art. 3-bis e' sostituito dal seguente: «1.
L'Amministratore unico e' nominato, con decreto del Presidente  della
Regione, previa conforme deliberazione della Giunta regionale, tra  i
direttori di dipartimento della Giunta  regionale,  tra  i  dirigenti
regionali  ovvero  tra  i  direttori  di  servizio  dell'Agenzia,  in
possesso dei necessari requisiti di  professionalita'  ed  esperienza
nei settori di  competenza  dell'Agenzia.  Il  trattamento  economico
dell'incaricato si conforma ai principi di cui all'art. 24, comma  3,
del decreto legisaltivo n. 165/2001 e ss.mm.ii.»; 
        b) il comma 4 dell'art. 3-bis e' abrogato.» 
    Occorre  precisare  che,  come  si  e'  accennato,  l'importo  da
corrispondere all'Amministratore  unico  dell'ARSARP  precedentemente
alla modifica introdotta dal citato art. 10 legge regionale Molise n.
5/2019 era individuato  dall'art.  3-bis  della  legge  regionale  n.
4/2015 (introdotto dall'art. 2 della legge regionale 20 maggio  2017,
n. 5),  che  al  comma  4  disponeva:  «All'Amministratore  unico  e'
Corrisposta un'indennita' di  funzione  onnicomprensiva,  determinata
dalla  giunta  regionale,  non  eccedente  il  70  per  cento   della
retribuzione dei dirigenti di servizio della Regione Molise.» 
    Per effetto delle modifiche introdotte dall'art. 10 discende  che
il  trattamento  economico  dell'amministratore  unico   dell'ARSARP,
beneficia  - di fatto  - di un  incremento  (essendo  il  trattamento
economico di detto Amministratore conforme, a seguito della  modifica
normativa, ai principi di cui all'art. 24 comma 3 decreto legislativo
n. 165/2001) a riscontro del quale, invero, occorre che la previsione
regionale sia  contestualmente  accompagnata  da  una  corrispondente
norma di copertura finanziaria. 
    La previsione di una norma di accompagnamento che giustifichi  la
copertura finanziaria delle modifiche alle  disposizioni  previgenti,
non si rinviene pero' nel testo di legge. 
    Da cio' discende l'illegittimita' dell'art.  10  legge  regionale
Molise n. 4/2019, che, non prevedendo una copertura finanziaria  alla
innovazione normativa in  tema  di  retribuzione  dell'Amministratore
unico dell'ARSARP, viola l'art. 81, terzo comma, della Costituzione. 
    3. L'art. 15 della legge regionale n. 5/2019  (recante  «Riordino
dell'assetto organizzativo del sistema Regione Molise»), definisce un
articolato  progetto  di  riordino  dell'assetto  organizzativo   del
cosiddetto «Sistema Regione Molise», istituito  con  l'art.  7  della
legge regionale n. 16/2010, con particolare riferimento  all'utilizzo
delle risorse umane alle  dipendenze  degli  enti  e  delle  societa'
partecipate elencate nelle  tabelle  AI  e  A2  allegate  alla  legge
regionale n. 5/2016. 
    Il progetto  di  riordino  di  cui  trattasi  prevede  l'utilizzo
condiviso del  personale  dipendente  dagli  enti  e  dalle  societa'
appartenenti al gruppo «Sistema Regione Molise», per il perseguimento
di  fini  comuni,  tramite  l'istituto  giuridico  del  distacco   da
disciplinare con regolamento della Giunta regionale. 
    Il successivo  art.  16  disciplina,  poi,  fissando  i  relativi
principi l'istituto dell'utilizzazione in posizione di  distacco»  di
personale dagli  Enti  rientranti  nel  sistema  sanitario  regionale
(AsREM e ARPA) presso le strutture della Giunta. 
    3.1. Le due disposizioni appena citate, e  specificamente  l'art.
15, comma 2 alle lettera f) e g), l'art. 15 comma  3,  lettera  i)  e
l'art. 16, comma 1, lettera f)  e  g),  nel  disciplinare  l'utilizzo
delle risorse  umane  all'interno  del  c.d.  sistema  Molise  e  nel
richiamare l'istituto dell'«utilizzazione in posizione  di  distacco»
si pongono in contrasto con l'art. 117,  comma  2  lettera  l)  della
Costituzione, nonche' con l'art. 117, comma  3  della  Costituzionale
nella materia del «coordinamento della finanza pubblica». 
    Per comodita' di lettura si riporta di  seguito  il  testo  delle
disposizioni oggetto di censura: 
        art. 15, comma 2, lettera f) e g): «La disciplina di  cui  al
comma 1  inerente  l'utilizzazione  in  posizione  di  distacco   del
personale dipendente della Regione Molise e degli Enti inseriti nella
Tabella A1 allegata alla legge regionale 4 maggio 2016,  n.  5,  deve
essere improntata ai seguenti principi: [...] 
          f) gli oneri finanziari relativi  al  costo  ordinario  del
personale con qualifica non dirigenziale sono a  carico  dei  bilanci
dei rispettivi enti di appartenenza. Gli  oneri  finanziari  relativi
alla remunerazione  degli  istituti  del  lavoro  straordinario,  dei
rimborsi per  missione  fuori  sede,  degli  eventuali  incarichi  di
responsabilita' di unita' operative organiche, con  esclusione  della
produttivita' individuale o istituto equivalente che resta  a  carico
dell'ente di appartenenza, sono a carico dei bilanci degli  enti  che
utilizzano il personale attraverso l'istituto del distacco; 
          g) gli oneri finanziari relativi  al  costo  ordinario  del
personale  con  qualifica   dirigenziale   (stipendio   tabellare   e
retribuzione di posizione) sono a carico dei bilanci  dei  rispettivi
enti di appartenenza. A  seguito  della  valutazione  positiva  della
performance individuale, ai sensi delle vigenti discipline degli enti
che utilizzano il personale in distacco, ai dirigenti in posizione di
utilizzazione puo'  essere  riconosciuta,  qualora  ne  ricorrano  le
condizioni,  la  quota  differenziale  tra  la  misura  massima   del
risultato prevista presso l'ente di appartenenza e la misura  massima
di risultato prevista per i dirigenti dell'ente presso il quale si e'
utilizzati, con imputazione sul  relativo  fondo  per il  trattamento
accessorio, senza maggiore spesa;» 
        art. 15, comma 3, lettera i): «Al fine del raggiungimento  di
obiettivi comuni, nell'ottica della piu' ampia e leale collaborazione
fra gli enti del c.d. Sistema Regione Molise, la Giunta regionale  e'
autorizzata  altresi'  a  regolamentare   con   apposita   disciplina
l'utilizzo delle risorse umane all'interno del c.d.  Sistema  Regione
Molise, tenendo  conto  della  natura  giuridica  e  delle  fonti  di
finanziamento  degli  Enti  inseriti  nella  Tabella  A2  -  Societa'
partecipate, allegata alla legge regionale 4 maggio  2016,  n.  5,  e
ss.mm.ii., secondo i seguenti principi: [...] 
          i) gli oneri finanziari  relativi  al  costo  ordinario  ed
accessorio  del  personale  con  qualifica  non  dirigenziale   delle
societa' partecipate di cui alla Tabella A2, utilizzato in  posizione
di distacco, sono a totale carico dei bilanci dei rispettivi enti  di
appartenenza;» 
        art. 16, comma 1 lettera f) e g): «in armonia con  l'art.  15
della  legge  n.  241/1990  e  ss.mm.ii.  e  al  fine  di  promuovere
l'efficacia delle politiche per la salute attraverso la realizzazione
di specifici programmi e interventi nonche'  programmi  di  rilevanza
regionale, e' ammesso il ricorso all'istituto della utilizzazione  in
posizione di distacco di personale dagli Enti rientranti nel  sistema
sanitario regionale (ASREM e ARPA) verso le  strutture  della  Giunta
regionale e nel rispetto delle prerogative del  Commissario  ad  acta
per la prosecuzione del piano di  rientro  dal  disavanzo  sanitario,
secondo i seguenti principi: [...] 
          f) gli oneri finanziari relativi  al  costo  ordinario  del
personale con qualifica non dirigenziale sono a  carico  dei  bilanci
dei rispettivi enti di appartenenza. Gli  oneri  finanziari  relativi
alla remunerazione  degli  istituti  del  lavoro  straordinario,  dei
rimborsi per  missione  fuori  sede,  degli  eventuali  incarichi  di
responsabilita' di unita' operative organiche  con  esclusione  della
produttivita' individuale o istituto equivalente, sono a  carico  del
bilancio della Regione Molise; 
          g) gli oneri finanziari relativi  al  costo  ordinario  del
personale  con  qualifica   dirigenziale   (stipendio   tabellare   e
retribuzione di posizione) sono a carico dei bilanci  dei  rispettivi
enti di appartenenza. A  seguito  della  valutazione  positiva  della
performance individuale, ai sensi della vigente disciplina regionale,
ai dirigenti in posizione di utilizzazione puo' essere  riconosciuta,
qualora ne ricorrano le condizioni, la  quota  differenziale  tra  la
misura massima del risultato prevista presso l'ente di appartenenza e
la misura massima di risultato prevista per  i  dirigenti  regionali,
con imputazione sul relativo fondo  per  il  trattamento  accessorio,
senza maggiore spesa. 
    Tanto premesso, al fine di motivare le ragioni di  illegittimita'
delle disposizioni normative appena  richiamate,  occorre  effettuare
delle necessarie premesse sugli  istituti  giuridici  di  riferimento
rispetto agli articoli 15 e 16 cit., prendendo le mosse dall'istituto
del «comando» e dalla differenza con il c.d. «distacco». 
    E cio' in modo da di evidenziare - come si vedra' di  seguito   -
l'illegittimita' degli articoli 15, comma 1 lettera g) ed f), comma 3
lettera i) e 16, comma 1, lettera g)  ed  f)  che  nel  prevedere   -
sostanzialmente  - delle ipotesi di «comando»,  ledono  la  sfera  di
competenza statale nella materia «ordinamento civile» di cui all'art.
117, comma 2 lettera l), ed invadono la sfera di concorrente  di  cui
all'art. 117, comma 3 nella materia del «coordinamento della  finanza
pubblica». 
    Orbene, originariamente l'istituto del comando  era  disciplinato
dagli articoli 56 e 57 del decreto del Presidente della Repubblica n.
3 del 1957. 
    In   particolare,    l'art.    56    («Comando    presso    altra
amministrazione») prevede che: «L'impiegato puo' essere  comandato  a
prestare servizio presso altra amministrazione statale o presso  enti
pubblici,    esclusi     quelli     sottoposti     alla     vigilanza
dell'amministrazione cui l'impiegato stesso appartiene. Il comando e'
disposto,  per  tempo  determinato  e   in   via   eccezionale,   per
riconosciute esigenze di servizio o quando sia richiesta una speciale
competenza.  Al  comando  si  provvede  con  decreto   dei   ministri
competenti di  concerto  con  il  ministro  per  il  Tesoro,  sentiti
l'impiegato ed il Consiglio di amministrazione. Per  l'impiegato  con
qualifica non inferiore a direttore generale, si provvede con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il  Consiglio  dei
ministri, su proposta dei ministri competenti di concerto con  quello
per  il  Tesoro.  E'  vietata  l'assegnazione  anche  temporanea   di
impiegati ad uffici diversi da quelli per i quali  sono  istituiti  i
moli cui essi appartengono». 
    Inoltre, ai sensi dell'art. 57, commi 2 e 3, del medesimo decreto
del Presidente della Repubblica, «la spesa per il personale comandato
presso    altra    amministrazione    statale    resta    a    carico
dell'amministrazione  di  appartenenza.  Alla  spesa  del   personale
comandato presso enti pubblici provvede  direttamente  ed  a  proprio
carico l'ente presso cui detto  personale  va  a  prestare  servizio.
L'ente e', altresi', tenuto a versare all'amministrazione statale cui
il personale stesso  appartiene  l'importo  dei  contributi  e  delle
ritenute sul trattamento economico previsti dalla legge». 
    Accanto  all'istituto  del  comando,   nella   prassi   si   sono
riscontrate le differenti ipotesi  di  utilizzazione  temporanea  del
dipendente  pubblico  presso  un  ufficio  diverso  da   quello   che
costituisce la sua sede di servizio (c.d.  «distacco»)  e  quelle  di
utilizzazione delle strutture e degli uffici di altre amministrazioni
o enti (c.d. «avvalimento d'ufficio»). 
    In relazione alle  ipotesi  del  c.d.  «distacco»  (istituto  non
espressamente regolamentato), si osserva che, secondo  il  prevalente
insegnamento (cfr. Corte conti, Reg. Sicilia, Sez. Contr., delib.  26
ottobre 2017, n. 177), «il distacco e' l'utilizzazione temporanea del
dipendente  presso  un  ufficio,  che  e'  diverso  da   quello   che
costituisce la sua sede di servizio  e  che  rientra  comunque  nella
medesima amministrazione.» 
    Pertanto,  l'elemento  discretivo  tra  i  due  istituti   appena
richiamati sta nel fatto che il secondo (il c.d. «distacco») non puo'
ricorrere  quando  la  prestazione  viene   eseguita   presso   altra
amministrazione, in quanto in tal caso si configura  una  ipotesi  di
comando. 
    Difatti, in mancanza di una specifica definizione  normativa,  il
comando e' stato individuato dalla  giurisprudenza  in  tutte  quelle
ipotesi in  cui  il  dipendente  pubblico  e'  destinato  a  prestare
servizio presso una pubblica amministrazione  diversa  da  quella  di
appartenenza, senza che si abbia la costituzione di un nuovo rapporto
di impiego con l'ente destinatario della prestazione, il quale  sara'
tenuto soltanto a rimborsare all'amministrazione di  appartenenza  il
trattamento economico fondamentale. 
    Alla  posizione  di  comando  del  dipendente  presso  una  nuova
amministrazione non si accompagna, infatti, la soppressione del posto
in  organico  presso  l'amministrazione  di  provenienza,   venendosi
piuttosto a configurare una mobilita'  temporanea  presso  l'ente  di
destinazione,  grazie   ad   un   meccanismo   caratterizzato   dalla
reversibilita' (salvo provvedimento di immissione nei ruoli). 
    Da cio' consegue che il provvedimento di comando non comporta una
novazione soggettiva del rapporto  di  lavoro  ne',  tanto  meno,  la
costituzione di un  rapporto  di  impiego,  comunque  conformato  con
l'amministrazione  destinataria  delle  prestazioni,   ma   determina
esclusivamente una modificazione oggettiva del  rapporto  originario,
nel senso che sorge nell'impiegato  l'obbligo  di  prestare  servizio
nell'interesse immediato del diverso ente e di sottostare al relativo
potere  gerarchico  (direttivo  e  disciplinare),  mentre  lo   stato
giuridico ed economico del «comandato» resta  regolato  alla  stregua
dell'ordinamento proprio dell'ente «comandante». 
    Nella delibera della Corte dei Conti sopra richiamata, viene poi,
precisato che «La Sezione delle Autonomie nella deliberazione n.  12/
2017/QMIG  ha  evidenziato  che   le   caratteristiche   fondamentali
dell'istituto del comando  - disciplinato originariamente dagli artt.
56 e 57 del decreto del Presidente della Repubblica n. 3 del  1957  e
poi  dalla  contrattazione  collettiva  di  settore  e  dal   decreto
legislativo n. 267 del 2000, come da richiamo operato  dall'art.  70,
comma 3,  del  decreto  legislativo  n.  165  del  2001   -  sono  la
temporaneita'  e  l'interesse  dell'amministrazione   ricevente.   Il
dipendente comandato, autorizzato  dall'ente  «a  quo»  su  richiesta
motivata dalla necessita' dell'ente «ad quem», non  solo  non  svolge
piu' la sua prestazione presso l'ente  cedente,  bensi'  soggiace  al
potere direttivo e gestionale dell'ente beneficiario. Il  trattamento
economico fondamentale del personale comandato  - ai sensi  dell'art.
70, comma 3, del decreto legislativo n.  165  del  2001 -  rimane  di
competenza dell'amministrazione  cedente,  ancorche'  successivamente
rimborsato. [...] Sulla base di tale ricostruzione la  sezione  delle
Autonomie nella medesima  deliberazione  n.  12/2017/QMJG  ha  quindi
chiarito che: «Trattasi dunque di un'operazione di  finanza  neutrale
che non incide sulla  spesa  degli  enti  coinvolti,  purche'  quella
sostenuta dall'ente  cedente  sia  figurativamente  considerata  come
spesa di personale» che, come detto, si distingue dal comando proprio
perche'   l'impiegato   non   viene   assegnato   ad   una   pubblica
amministrazione  diversa   da   quella   di   appartenenza,   ma    -
temporaneamente  - ad un ufficio, diverso  da  quello  nel  quale  e'
formalmente incardinato, ma comunque dell'amministrazione datrice  di
lavoro.» (Corte conti, Reg. Sicilia, Sez. Contr., delib.  26  ottobre
2017, n. 177). 
    In sintesi, diversamente  da  quanto  avviene  nelle  ipotesi  di
«distacco», nei casi di  comando,  fermo  restando  il  cd.  rapporto
organico (che continua ad intercorrere tra il dipendente e l'ente  di
appartenenza), cio' che subisce una modifica e' il  cd.  rapporto  di
servizio, atteso che il dipendente e' inserito, sia sotto il  profilo
organizzativo-funzionale, sia sotto quello gerarchico e disciplinare,
nell'amministrazione di  destinazione,  a  favore  della  quale  egli
presta  esclusivamente  la  sua  opera  (cfr.  Cass.,  Sez.  Lav.,  8
settembre 2005 n. 17842, e, piu' recentemente, Cass., Sez.  Lav.,  29
maggio 2018, n. 13482, ove si legge testualmente: «nel comando  - che
determina una dissociazione fra titolarita' del  rapporto  d'ufficio,
che resta immutata,  ed  esercizio  dei  poteri  di  gestione   -  si
modifica il cd. rapporto di servizio, atteso  che  il  dipendente  e'
inserito, sia sotto il profilo organizzativo  funzionale,  sia  sotto
quello   gerarchico   e   disciplinare,    nell'amministrazione    di
destinazione, a favore della quale egli presta esclusivamente la  sua
opera»). 
    Relativamente alle ipotesi di c.d. «avvalimento dell'ufficio», si
evidenzia  che  esso  si  verifica   allorquando   l'amministrazione,
anziche' dotarsi di una struttura propria per  lo  svolgimento  della
funzione ad essa assegnata, si avvale, di solito a fini istruttori  o
di esecuzione, degli uffici di altro ente, al quale, pero', non viene
delegata  la  funzione  stessa,  che  resta  in  capo,  quanto   alla
titolarita'  ed  alla  responsabilita',  al  soggetto  pubblico   che
utilizza gli uffici altrui (cfr Cassazione S.U. 8 febbraio  2013,  n.
3043; Cassazione 16 dicembre 2013, n. 28006). 
    L'avvalimento,  quindi,  attiene  al  rapporto  fra  enti  e  non
determina alcuna modifica del rapporto di impiego  (contrariamente  a
quanto  accade  nel  comando  che  determina  una  dissociazione  tra
titolarita' del rapporto d'ufficio, che resta immutata, ed  esercizio
dei poteri di gestione), perche' il personale dell'ente che  fornisce
la  struttura  necessaria  allo   svolgimento   del   compito   resta
incardinato in quest'ultimo a tutti gli effetti  e  non  si  verifica
scissione fra rapporto di impiego e rapporto di servizio. 
    Per quanto concerne i  profili  dell'erogazione  del  trattamento
economico in favore del  personale  «comandato»  o  «distaccato»,  si
evidenzia che l'art. 70, comma 12, del decreto legislativo n. 165 del
2001 prevede che: «in tutti i casi, anche se  previsti  da  normative
speciali, nei quali enti pubblici  territoriali,  enti  pubblici  non
economici o altre  amministrazioni  pubbliche,  dotate  di  autonomia
finanziaria sono tenute ad autorizzare l'utilizzazione  da  parte  di
altre pubbliche amministrazioni di proprio personale, in posizione di
comando,  di   fuori   ruolo,   o   in   altra   analoga   posizione,
l'amministrazione    che    utilizza    il     personale     rimborsa
all'amministrazione di appartenenza l'onere relativo  al  trattamento
fondamentale (...)». Riassunto nei termini sopra descritti il  quadro
normativo e giurisprudenziale di riferimento,  si  evidenzia  che  le
previsioni regionali in esame, al di la' del nomen iuris  utilizzato,
sono  dirette  a  regolamentare  l'istituto   dell'utilizzazione   in
assegnazione  temporanea  del  dipendente  presso  un'amministrazione
diversa di appartenenza. 
    Orbene, considerato che, trattandosi  - come si e'  detto   -  di
casi di utilizzazione, le ipotesi in  questione  appaiono  pienamente
sovrapponibili, per le loro caratteristiche, al comando; deve  quindi
ritenersi non conforme al quadro normativo delineato la possibilita',
prevista dalle disposizioni della legge regionale in esame, che,  nel
caso di «comando»  del  dipendente  pubblico,  gli  oneri  finanziari
relativi al costo ordinario del personale con qualifica  dirigenziale
e non dirigenziale siano posti definitivamente a carico  dei  bilanci
dei rispettivi enti di appartenenza. 
    Per orientamento costante della giurisprudenza di codesta  ecc.ma
Corte, infatti, il «decreto legislativo n. 165 del 2001 ha  stabilito
che i rapporti di lavoro pubblici cosiddetti  contrattualizzati  sono
disciplinati dalle disposizioni del codice civile e sono  oggetto  di
contrattazione collettiva (...). 
    La costante giurisprudenza di questa Corte ha, poi, precisato che
la disciplina del rapporto di impiego alle dipendenze della regione e
i profili relativi al trattamento economico  del  personale  pubblico
privatizzato vengono ricondotti alla materia dell'ordinamento civile,
di competenza  esclusiva  del  legislatore  nazionale,  che  in  tale
materia fissa principi che «costituiscano tipici  limiti  di  diritto
privato, fondati sull'esigenza, connessa al  precetto  costituzionale
di eguaglianza, di garantire l'uniformita' nel  territorio  nazionale
delle regole fondamentali di diritto che disciplinano i rapporti  tra
privati e, come tali si impongono  anche  alle  Regioni  ...»  (Corte
costituzionale, sentenza n. 81 del 2019). 
    Ne deriva che la previsione di cui al comma 2 lettere f) e  g)  e
al comma 3, lettera i) dell'art. 15, nonche' al comma 1, lettere f) e
g)  dell'art.  16  della  legge  regionale   in   oggetto   risultano
suscettibili di impugnazione per violazione  dell'art.  117,  secondo
comma, lettera 1) della Costituzione. 
    Le disposizioni in esame risultano altresi' contrastanti  con  il
terzo comma del medesimo art. 117, essendo la previsione  del  citato
art. 70, comma 12, del decreto legislativo n. 165 del 2001  attinente
alla materia del «coordinamento della finanza pubblica», ed avendo il
legislatore regionale, di fatto, derogato  a  tale  disciplina  nella
parte in cui ha posto in modo definitivo (e non solo temporaneo)  gli
oneri finanziari a carico dell'ente di appartenenza. 
    3.2. Sempre in relazione alla previsione dell'art. 15 della legge
regionale in oggetto, si osserva che l'utilizzazione  temporanea  del
personale delle societa' partecipate presso altri enti regionali  non
e' compatibile con il decreto legislativo n. 175  del  2016  e  viola
l'art. 117, comma 2 lettera l) nonche', per il tramite del menzionato
parametro interposto, l'art. 117, comma 3 della Costituzione. 
    Come noto, l'art. 19 del prefato decreto  legislativo  disciplina
in modo puntuale il rapporto di lavoro alle dipendenze delle societa'
partecipate. 
    Orbene, in relazione alla possibilita' di utilizzare il personale
delle societa' c.d. pubbliche, per  il  tramite  del  comando  o  del
distacco, e' da escludere la possibilita' di applicare detti istituti
propri del c.d. pubblico  impiego  al  personale  delle  societa'  de
quibus,  non  rientrando  le  stesse  nel  novero   delle   pubbliche
amministrazioni, come individuate dall'art. 1, comma 2,  del  decreto
legislativo n. 165 del 2001 e non essendosi in presenza  di  rapporti
di pubblico impiego. Da cio' discende, inoltre,  l'impossibilita'  di
applicare  ai  dipendenti  delle  societa'  pubbliche  la   normativa
generale in tema di mobilita' nel pubblico impiego di cui all'art. 30
del decreto legislativo n. 165/2001. 
    La Corte dei Conti, nel confermare tale ipotesi di esclusione, ha
in particolare evidenziato che le societa' controllate dalla pubblica
amministrazione vengono incluse nel settore c.d.  pubblico  allargato
solo a determinati fini, cosi' motivando:  «[...]  cio'  avviene,  ad
esempio, nell'ambito dei contratti, per i quali e' stata elaborata la
nozione di organismo di diritto pubblico, oppure  per  l'applicazione
della disciplina sulla trasparenza prevista dal  decreto  legislativo
14  marzo  2013,  n.  33  o,  infine,  nella  definizione  del  conto
consolidato delle amministrazioni  pubbliche,  che  include,  accanto
agli organismi pubblici dello Stato e  degli  enti  territoriali,  le
unita' istituzionali che producono beni non destinabili alla  vendita
soggetti a controllo pubblico, a prescindere dalla forma giuridica da
esse rivestita. Alle  societa'  partecipate  non  possono  applicarsi
neppure gli altri istituti sulla mobilita' del pubblico  impiego.  Al
riguardo, si evidenzia che la mobilita' del personale delle  societa'
partecipate e' specificamente disciplinata dall'art. 19  del  decreto
legislativo 19 agosto 2016, n. 175, che contiene una regolamentazione
puntuale,  sicche'  non  e'  applicabile  l'art.   30   del   decreto
legislativo n. 165 del  2001,  che  si  occupa  della  mobilita'  nel
pubblico  impiego.   A   tal   proposito,   il   Collegio   condivide
l'orientamento espresso dalla Sezione regionale di controllo  per  la
Campania nella deliberazione n. 56/2017/PAR., che  ha  affermato  che
l'art. 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001 non e'  applicabile
in maniera generalizzata al settore del personale  delle  societa'  a
partecipazione pubblica, per il quale puo' operare solo nei ristretti
ambiti  soggettivi  e  oggettivi,  legislativamente  consentiti,   di
«reinternalizzazione di  funzioni  o  servizi  esternalizzati»  e  di
«riassorbimento delle unita' di personale  gia'  dipendenti  a  tempo
indeterminato  da  amministrazioni  pubbliche   e   transitate   alle
dipendenze   della   societa'    interessata    dal    processo    di
reintemalizzazione». Tale preclusione discende, oltre che dal  tenore
letterale delle disposizioni, anche dall'esigenza  di  rispettare  il
divieto di attuare processi di mobilita' fra la partecipata e l'Ente,
al fine di evitare l'elusione  dei  vincoli  alle  assunzioni  e  del
principio costituzionale del concorso pubblico.» (Corte  conti,  Reg.
Sicilia, Sez. Contr., delib. 26 ottobre 2017, n. 177). 
    Codesta  Ecc.ma  Corte  costituzionale,   nel   pronunciarsi   su
fattispecie sostanzialmente analoghe a  quella  oggetto  dell'odierna
impugnazione, chiamata a valutare della legittimita' di  simili  casi
di mobilita', ha ritenuto  in  piu'  occasioni  che  l'operazione  di
trasferimento  avrebbe  in  realta'   realizzato   una   ipotesi   di
«inquadramento riservato senza concorso» anche nei  casi  in  cui  il
personale dipendente da una societa' partecipata fosse stato  assunto
ab origine in seguito all'espletamento  di  una  procedura  selettiva
equiparabile ad un concorso pubblico (cfr. Corte  costituzionale,  1°
luglio 2013, n. 167, e 16 luglio 2013, n.  227,  nonche'  30  gennaio
2015, n. 37). 
    Difatti, non puo' essere trascurato il costante  orientamento  di
codesta Ecc.ma  Corte  costituzionale,  che  ha  censurato  le  leggi
regionali  che  consentivano  i  meccanismi  di   reinternalizzazione
attraverso il passaggio  automatico  dall'impiego  privato  (societa'
partecipata) a quello pubblico (Ente territoriale), aggirando in  tal
modo l'art. 97 Cost. e, in  particolare,  la  regola  che  condiziona
l'acquisizione  dello  status  di  dipendente  pubblico   al   previo
esperimento di un pubblico concorso. 
    Non e' da sottovalutare, poi, il potenziale riflesso negativo sul
rispetto, da parte degli enti territoriali, dei limiti alle  facolta'
assunzionali, delle norme sul patto di stabilita'  interno  (art.  1,
commi 557 e ss., legge 27 dicembre 2006, n.  296)  e  sul  saldo  non
negativo  - in termini di competenza  - tra le entrate  finali  e  le
spese finali ex art. 1, comma 710, della legge 28 dicembre  2015,  n.
208 (legge di stabilita' 2016), e, in generale, dei  vigenti  vincoli
di finanza pubblica (es. dell'art. 3, commi 5, del  decreto-legge  n.
90 del 2014; dell'art. 4, comma 3, del decreto-legge  n.  78  del  19
giugno 2015; dell'art. 1, comma 424, della legge n. 190 del 2014). 
    Conseguentemente, avendo il  legislatore  regionale  disciplinato
una forma di mobilita' del personale delle societa' pubbliche diversa
da quelle consentite dal decreto legislativo  n.  175  del  2016,  le
previsioni  di  cui  all'art.  15,  comma  3,  lettera  i)   appaiono
censurabili per violazione dell'art. 117, secondo comma,  lettera  l)
(trattandosi  chiaramente  di  ambito   riservato   alla   competenza
esclusiva statale in materia di «ordinamento civile») e  terzo  comma
della Costituzione. 
    Cio', a fortiori, in considerazione del fatto che il distacco del
personale delle societa' in  parola  avverrebbe  al  di  fuori  delle
ipotesi e senza l'osservanza dei limiti e  delle  procedure  previste
dall'art. 30 del decreto legislativo n. 276 del  2003,  disciplinante
le ipotesi di c.d. distacco. 
    Subordinatamente, pertanto, si censura il solo art. 15,  comma  3
lettera i) nella parte in cui. 
    3.3. L'art. 15, comma 2, lettera h) e l'art. 16, comma 1, lettera
b) prevedono rispettivamente, l'uno (art. 15, comma 2 lettera h)) che
«gli incarichi  di  funzione  dirigenziale,  nel  numero  massimo  di
complessivi  3,  conferiti  al   personale   inquadrato   nel   ruolo
dirigenziale dipendente dei rispettivi enti, conferiti  dalla  Giunta
regionale presso strutture regionali non sono computati ai  fini  del
calcolo della quota di cui all'art.  19,  comma  5-bis,  del  decreto
legislativo n. 165/2001 e ss.mm.ii..», l'altro che (art. 16, comma  1
lettera b)) che «gli incarichi di funzione dirigenziale,  nel  numero
massimo di complessivi 3, conferiti al personale inquadrato nel ruolo
dirigenziale dipendente dei rispettivi enti, conferiti  dalla  Giunta
regionale presso strutture competenti in  materia  di  programmazione
sanitaria,  tutela  della  salute,  tutela  dell'ambiente,  non  sono
computati ai fini del calcolo della quota di cui all'art.  19,  comma
5-bis, del decreto legislativo n. 165/2001 e ss.mm.ii..» 
    Come noto, l'art. 19 del decreto legislativo 30  marzo  2001,  n.
165 contiene la disciplina relativa al conferimento  degli  incarichi
dirigenziali, contemplando tra tipologie  di  funzioni  dirigenziali,
collocate in ordine decrescente di rilevanza e di  maggiore  coesione
con l'organo politico. 
    Innanzitutto, sono previsti «gli incarichi di segretario generale
di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture  articolate  al
loro interno in uffici dirigenziali  generali  e  quelli  di  livello
equivalente»: si tratta delle  attribuzioni  dirigenziali  «apicali»,
conferite  con  decreto  del  Presidente  della  Repubblica,   previa
deliberazione del Consiglio dei ministri, su  proposta  del  Ministro
competente (art. 19, comma 3). Sono poi disciplinati  «gli  incarichi
di funzione dirigenziale di livello generale», attribuiti con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta  del  Ministro
competente (comma 4). 
    Infine, sono previsti gli  incarichi  di  direzione  degli  altri
uffici di livello dirigenziale, conferiti «dal dirigente dell'ufficio
di livello dirigenziale generale». 
    I predetti incarichi possono poi essere conferiti a soggetti  che
si trovino in una particolare posizione rispetto  all'amministrazione
che attribuisce la relativa funzione. Difatti, l'incarico puo' essere
attribuito a personale inserito nel «ruolo dei dirigenti»,  istituito
presso ciascuna amministrazione statale e  articolato  in  due  fasce
(art. 23, del decreto legislativo n. 165 del 2001); in secondo luogo,
le funzioni  dirigenziali  possono  essere  conferite,  entro  limiti
percentuali predeterminati, «anche ai dirigenti non  appartenenti  ai
ruoli di cui al  medesimo  art.  23»,  purche'  dipendenti  da  altre
amministrazioni pubbliche, vale a dire da amministrazioni dello Stato
diverse da quelle nel cui ambito e' collocato il posto  da  conferire
(art. 19, comma 5-bis, del decreto  legislativo  n.  165  del  2001).
Infine, e' prevista la possibilita', sempre nel  rispetto  di  soglie
prefissate, che ciascuna amministrazione attribuisca  la  titolarita'
di uffici dirigenziali, a  tempo  determinato,  fornendone  esplicita
motivazione, a «persone di particolare  e  comprovata  qualificazione
professionale, non rinvenibile nei  ruoli  dell'amministrazione,  che
abbiano svolto attivita' in organismi  ed  enti  pubblici  o  privati
ovvero aziende pubbliche  o  private  con  esperienza  acquisita  per
almeno  un  quinquennio  in  funzioni  dirigenziali,  o  che  abbiano
conseguito una particolare specializzazione professionale,  culturale
e   scientifica   desumibile   dalla   formazione   universitaria   e
postuniversitaria,  da  pubblicazioni  scientifiche  e  da   concrete
esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso
amministrazioni statali, ivi comprese  quelle  che  conferiscono  gli
incarichi,  in  posizioni  funzionali  previste  per  l'accesso  alla
dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della  docenza
universitaria, delle  magistrature  e  dei  ruoli  degli  avvocati  e
procuratori dello Stato» (art. 19, comma 6, del  decreto  legislativo
n. 165 del 2001 in materia di ottimizzazione della produttivita'  del
lavoro  pubblico  e  di  efficienza  e  trasparenza  delle  pubbliche
amministrazioni»). 
    Orbene, nell'evidenziare che l'art.  27,  comma  1,  del  decreto
legislativo n. 165  del  2001  prevede  che  «le  regioni  a  statuto
ordinario,  nell'esercizio   della   propria   potesta'   statutaria,
legislativa e regolamentare, e le  altre  pubbliche  amministrazioni,
nell'esercizio della propria  potesta'  statutaria  e  regolamentare,
adeguano ai principi  dell'art.  4  e  del  presente  capo  i  propri
ordinamenti, tenendo conto  delle  relative  peculiarita'.  Gli  enti
pubblici non economici nazionali si adeguano, anche  in  deroga  alle
speciali  disposizioni  di  legge  che  li  disciplinano,   adottando
appositi  regolamenti  di   oganizzazione»,   si   osserva   che   la
giurisprudenza di Codesta Ecc.ma  Corte  costituzionale  e'  costante
nell'affermare  che gli  interventi  legislativi  che  (...)  dettano
misure relative a rapporti lavorativi gia'  in  essere  [...]  devono
essere ricondotti alla competenza esclusiva  statale  in  materia  di
ordinamento civile.» (ex multis: sentenze nn. 251 e 186 del 2016,  n.
180 del 2015 e n. 32 del 2017). 
    Inoltre, con specifico  riguardo  all'obbligo  delle  Regioni  di
rispettare le percentuali previste dal comma 5-bis dell'art.  19  del
decreto legislativo n. 165 del  2001,  si  evidenzia  che  e'  sempre
Codesta Ecc.ma Corte ad avere,  in  piu'  occasioni,  affermato  che:
«[...] la non computabilita'  di  tali  posizioni  nella  complessiva
dotazione organica di dirigenti dipinza fascia determina in ogni caso
effetti negativi, sia di ordine finanziario, in  relazione  ai  costi
derivanti dalla retribuzione dei dirigenti interessati, sia  riguardo
al  razionale  assetto  organizzativo  realmente   rispettoso   delle
previsioni normative in materia, e  non  soltanto  dell'art.  19  del
decreto legislativo n. 165 del 2001, e dunque produce, in definitiva,
effetti negativi sul reale contenimento complessivo della  spesa.  In
proposito, occorre  difatti  evidenziare  che  nelle  amministrazioni
pubbliche, ivi comprese le Regioni, la dotazione organica costituisce
elemento ad oggi essenziale per  l'assetto  organizzativo  e  per  la
determinazione dei costi del personale, e che la sua consistenza e le
sue variazioni  sono  pertanto  determinate,  previa  verifica  degli
effettivi fabbisogni, in funzione di un accrescimento dell'efficienza
delle amministrazioni, della realizzazione di  un  migliore  utilizzo
delle risorse umane, e appunto di una razionalizzazione del costo del
lavoro pubblico,  contenendo  la  spesa  complessiva  del  personale,
diretta e indiretta, entro i vincoli difinanza pubblica (in tal senso
gli arti. 1, commi 1 e 2, e 6, comma 1, del  decreto  legislativo  n.
165 del 2001). Proprio in direzione di un  contenimento  della  spesa
operano, del  resto,  gli  interventi,  anche  legislativi,  disposti
nell'ambito di misure di spending review (ad  esempio  l'art.  2  del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95,  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1 della legge 7 agosto 2012, n. 135), finalizzate a ridurre
le dotazioni organiche, ivi comprese quelle dirigenziali. Ne consegue
che una previsione, come quella in esame, intesa a non  ricomprendere
nelle dotazioni  organiche  una  serie  di  posti  dirigenziali  puo'
condurre ad un sostanziale aggiramento/  svuotamento  delle  predette
disposizioni» (Corte cost., 5 dicembre 2016, n. 257). 
    Conseguentemente, le disposizioni de quibus sono suscettibili  di
impugnazione  per  violazione  dei  principi  di  buon  andamento  ed
imparzialita' della pubblica  amministrazione  di  cui  all'art.  97,
primo e secondo comma, nonche' in violazione dell'art.  117,  secondo
comma, lettera l) e terzo comma  della  Costituzione  in  materia  di
coordinamento  della  finanza   pubblica   per   le   ragioni   sopra
evidenziate. 
    4. L'art. 32 della legge Regionale oggetto di  censura,  poi,  e'
censurabile per il contrasto con il parametro costituzionale  di  cui
al secondo comma, lettera s) dell'art.  117  della  Costituzione,  in
quanto  interviene  nella  materia  della  «tutela  dell'ambiente   e
dell'ecosistema» attribuita in via esclusiva alla competenza statale,
inserendo una disciplina contrastante con quelle dettata dalle  norme
primarie statali, nonche' con l'art. 120 della Costituzione. 
    L'art. 32 inserisce all'art. 1 della  legge  regionale  7  agosto
2003, n. 25 il comma 3-bis, che  testualmente  prevede:  «La  Regione
persegue  l'obiettivo  di  limitare   nel   proprio   territorio   lo
smaltimento di rifiuti speciali di provenienza extra  regionale,  nel
limite della percentuale del totale  dei  rifiuti,  speciali  e  non,
trattati nel territorio regionale, scelta dalla Giunta regionale dopo
relazione della struttura tecnica. Il competente  servizio  regionale
emana, a tal proposito, specifiche direttive.» 
    La modifica normativa introdotta con la  norma  che  si  contesta
prevede  la  possibilita'  che  la  regione,  tenendo   conto   della
potenzialita'  impiantistica  di  trattamento   disponibile,   limiti
l'ingresso nel proprio territorio ai rifiuti speciali di  provenienza
extraregionale destinati ad operazioni di smaltimento. 
    Tale previsione viola le disposizioni di cui  agli  articoli  182
(Smaltimento dei rifiuti) e 182-bis (Principi  di  autosufficienza  e
prossimita') del decreto legislativo  3  aprile  2006,  n.  152,  che
prevedono divieti e limitazioni sulla circolazione dei rifiuti  fuori
dal territorio regionale di produzione esclusivamente per  i  rifiuti
urbani e non gia' per i rifiuti  speciali,  per  i  quali  la  libera
circolazione sul territorio nazionale e' invece sempre concessa. 
    In particolare, la norma regionale  impugnata   -  prevedendo  un
divieto,  legato  a  limitazioni   territoriali,   allo   smaltimento
extraregionale dei rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi  - si
pone in contrasto con quanto stabilito dal comma 3  del  citato  art.
182 del decreto legislativo  n.  152  del  2006  (norma  riproducente
l'espressione precedentemente contenuta nel comma 3 dell'art.  5  del
decreto  legislativo  5  febbraio  1997,  n.  22),  che  non  prevede
specifici divieti, pur manifestando favore verso «una rete  integrata
ed adeguata di impianti» per permettere lo smaltimento dei rifiuti in
uno degli impianti appropriati piu' vicini ai luoghi di produzione  o
raccolta al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti stessi».  Laddove
nella disciplina statale l'utilizzazione dell'impianto di smaltimento
piu' vicino al luogo di  produzione  dei  rifiuti  speciali  viene  a
costituire la prima opzione  da  adottare,  ma  ne  «permette»  anche
altre, nella disciplina regionale impugnata costituisce la  soluzione
obbligata. 
    Tale  divieto  viene,  altresi',  a  contrastare  con  lo  stesso
concetto  di  «rete  integrata  di  impianti  di   smaltimento»   che
presuppone: a) una possibilita' di interconnessione tra i  vari  siti
che vengono a  costituire  il  sistema  integrato;  b)  l'assenza  di
ostruzioni determinate da blocchi che impediscano l'accesso ad alcune
sue parti. 
    Il divieto, pertanto, pur essendo legittimo, con  riferimento  ai
rifiuti urbani non pericolosi, in quanto e' la normativa statale  che
lo prevede, si pone in contrasto con la Costituzione nella  parte  in
cui  una  fonte  di  produzione  legislativa  regionale  lo  venga  a
contemplare nei confronti degli altri tipi di rifiuti di  provenienza
extraregionale (cfr. Corte Cost., sentenza n. 10/2009). 
    La norma regionale de qua, nella sua attuale formulazione, e'  da
ritenersi in contrasto anche  con  l'art.  120,  primo  comma,  delta
Costituzione, ai sensi  del  quale  la  Regione  non  puo'  «adottare
provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione
delle persone e delle cose tra le Regioni». 
    A tal riguardo e' infatti stato escluso che le  Regioni,  sia  ad
autonomia ordinaria, sia  ad  autonomia  speciale,  possano  adottare
misure volte ad ostacolare «in qualsiasi modo la libera  circolazione
delle persone e  delle  cose  fra  le  Regioni»  (cfr.  Corte  Cost.,
sentenze n. 10 del 2009 cit.; n. 164 del 2007; n. 247 del 2006; n. 62
del 2005 e n. 505 dei 2002) ed e' stato reiteratamente  ribadito  «il
vincolo generale imposto alle Regioni  dall'art.  120,  primo  comma,
della Costituzione, che vieta  ogni  misura  atta  ad  ostacolare  la
libera circolazione delle cose e delle persone fra le Regioni» (Corte
Cost., sentenza n. 161 del 2005). 
    Sulla base di tali rilievi, codesta Ecc.ma  Corte  costituzionale
ha ritenuto che numerose disposizioni regionali, le  quali  vietavano
lo smaltimento di rifiuti di provenienza  extraregionale  diversi  da
quelli urbani non pericolosi, fossero in  contrasto  con  l'art.  120
della Costituzione, sotto il profilo  dell'introduzione  di  ostacoli
alla libera circolazione di cose  tra  le  regioni,  oltre  che  coni
principi  fondamentali  delle  norme  di  riforma   economico-sociale
introdotti dal decreto legislativo n. 22 del 1997  e  riprodotti  dal
decreto legislativo n. 152 del 2006. 
    Anche se l'impugnata disposizione  regionale  pone  dunque,  allo
smaltimento di rifiuti di provenienza extraregionale un  divieto  non
assoluto, ma relativo  - in quanto limitato ai rifiuti speciali - non
viene  meno  l'illegittimita'   costituzionale   della   disposizione
impugnata. 
    Al riguardo, e' stata sempre codesta Ecc.ma  Corte,  difatti,  ad
aver gia' ritenuto che lo stabilire, da parte di una norma regionale,
un divieto sia pur relativo e non assoluto  - come quello del caso in
esame  - «non giustifica una valutazione diversa da quella  riservata
dalle citate sentenze alle norme allora scrutinate, che imponevano un
divieto assoluto» (sentenza n. 505 del 2002). 
    Alla luce di quanto fin qui rappresentato e del quadro  normativo
tanto eurounitario quanto statale, la legge regionale in argomento si
pone quindi in contrasto con il parametro costituzionale  di  cui  al
secondo comma, lettera  s),  dell'art.  117  Cost..  in  quanto  essa
interviene in una  materia,  quella  della  «tutela  dell'ambiente  e
dell'ecosistema», a cui fa capo la disciplina dei rifiuti, attribuita
in via esclusiva alla competenza legislativa dello Stato (ex  multis,
Corte Cost., sentenze, n. 244 e n. 33 del 2011, n. 331 e n.  278  del
2010, n. 61 e n. 10 del 2009),  nella  quale  rientra  la  disciplina
della gestione dei rifiuti (cfr. Corte Cost.,  sentenza  n.  249  del
2009), anche quando interferisca con altri interessi e competenze, di
modo che deve intendersi riservato allo Stato il  potere  di  fissare
livelli di tutela uniforme sull'intero  territorio  nazionale,  ferma
restando  la  competenza  delle  Regioni  alla  cura   di   interessi
funzionalmente  collegati  con  quelli  propriamente  ambientali  (ex
multis, Corte Cost., sentenze n. 67 del 2014, n. 285 del 2013, n.  54
del 2012, n. 244 del 2011, n. 225 e n. 164 del  2009  e  n.  437  del
2008). 
    Infatti, il carattere  trasversale  della  materia  della  tutela
dell'ambiente, se da un  lato  legittima  le  Regioni  «a  provvedere
attraverso  la  propria  legislazione  esclusiva  o  concorrente   in
relazione  a  temi  che  hanno  riflessi  sulla  materia  ambientale,
dall'altro non costituisce limite  alla  competenza  esclusiva  dello
Stato a  stabilire  regole  omogenee  nel  territorio  nazionale  per
procedimenti e competenze che attengono alla tutela  dell'ambiente  e
alla salvaguardia del territorio» (cfr. Corte Cost., sentenza n.  249
del 2009). 
    Tale disciplina, «in  quanto  appunto  rientrante  principalmente
nella tutela dell'ambiente, e dunque  in  una  materia  che,  per  la
molteplicita'  dei  settori  di  intervento,  assume  una   struttura
complessa, riveste un carattere di pervasivita' rispetto  anche  alle
attribuzioni regionali» (sentenza n. 249  del  2009,  cit.),  con  la
conseguenza che, avendo riguardo alle diverse  fasi  e  attivita'  di
gestione del ciclo dei  rifiuti  e  agli  ambiti  materiali  ad  esse
connessi, la disciplina statale  «costituisce,  anche  in  attuazione
degli obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e si  impone
sull'intero territorio nazionale, come un limite alla disciplina  che
le Regioni e le Province autonome dettano in altre  materie  di  loro
competenza, per evitare che  esse  deroghino  al  livello  di  tutela
ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino» (Corte Cost.,
sentenze n. 58 del 2015, n. 314 del 2009, n. 62 del 2008 e n. 378 del
2007). 
    Ne consegue che «non puo' riconoscersi una  competenza  regionale
in materia di tutela dell'ambiente»,  anche  se  le  Regioni  possono
stabilire  «per  il  raggiungimento  dei  fini  propri   delle   loro
competenze livelli di tutela piu' elevati», pur sempre  nel  rispetto
della normativa statale di tutela dell'ambiente (sentenza n.  61  del
2009)»(cfr. Corte Cost., sentenza n. 285 del 2013). 
    L'art. 32 della legge regionale  n.  4/2019,  nel  prevedere  poi
limitazioni, seppur relative, all'introduzione  di  rifiuti  speciali
nel territorio della  regione  -  viola,  quindi,  l'art.  120  della
Costituzione, il quale vieta alle Regioni di  adottare  provvedimenti
che siano di ostacolo alla libera circolazione delle cose. 
    Per  i  motivi  esposti,  sottopone  a  censura  l'art.  32,  per
violazione dell'art. 117, secondo comma,  lettera  s),  Cost.  e  120
Cost., in riferimento ai parametri statali interposti dianzi citati. 
    Tanto premesso, la Presidenza del Consiglio dei ministri, come in
epigrafe rappresentata, difesa e domiciliata,  chiede  l'accoglimento
delle seguenti conclusioni.