Il giudice, dott. Angelo Salerno, a seguito di rilievo d'ufficio della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47, «Disposizioni sulla stampa», all'udienza del 10 aprile 2019, con la presenza del Pubblico Ministero, avv. Francesco Numo, e con l'assistenza della cancelliera, Angela Colonna, ha pronunciato la seguente ordinanza ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale», nel giudizio n. 374/16 reg. dib. Tribunale Bari, e n. 2916/12 r.g.n.r. Tribunale di Bari, pendente nei confronti di: D.T. nato a..., il..., residente in..., alla via... assistito e difeso, di fiducia, dall'avv. Michele Laforgia; Imputato dei reati di cui agli articoli 595 commi 1-2-3 c.p. e art. 13 legge n. 47/48 perche', in qualita' di direttore pro-tempore del quotidiano «...» in merito all'articolo intitolato «Forni' la droga a P. la Cassazione l'ha assolto» pubblicato sul quotidiano...», mediante la pubblicazione dell'articolo anzidetto avvenuto l'11 novembre 2011, offendeva la reputazione del sig. C.F. accusandolo di aver fornito la sostanza stupefacente a P. e che la Cassazione lo avesse prosciolto. In Bari l'11 novembre 2011 Persona offesa: C.F., nato il... ivi residente, alla via... Ritenuto in fatto con atto depositato in data 4 novembre 2015, il G.U.P. in sede, disponeva il rinvio a giudizio di D. T.G.; innanzi a questo Tribunale, in composizione monocratica, per rispondere del delitto a lui scritto, di cui all'art. 595, commi 1, 2 e 3 codice penale e 13 legge n. 47/48, come descritto in epigrafe. All'udienza del 9 novembre 2016, celebrata dopo altre di mero rinvio, per difetto di notifica alle parti, in assenza di questioni preliminari, veniva dichiarato aperto il dibattimento e le parti articolavano le proprie richieste istruttorie, che il giudice accoglieva. All'udienza del 13 settembre 2017, si procedeva all'esame della persona offesa, C.F. nonche' all'acquisizione della documentazione prodotta dal Pubblico Ministero, consistente in copia dell'articolo di giornale oggetto del capo di imputazione e di copia della sentenza della Corte di Cassazione, n. 43106/11, intervenuta sulla vicenda e richiamata nel predetto articolo giornalistico. Quindi, il Pubblico Ministero rinunciava all'esame del teste B.P. nulla opponendo la difesa dell'imputato, il giudice ne revocava la relativa ordinanza ammissiva. All'udienza del 10 aprile 2019, celebrata dopo altre di mero rinvio, per inagibilita' della sede del Tribunale penale, rinnovata la dichiarazione di apertura del dibattimento innanzi a questo giudice, le parti si riportavano alle precedenti richieste istruttorie e il giudice le accoglieva. Quindi il giudice sollevava, d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47, «Disposizioni sulla stampa», riservandosi di pronunciare la presente ordinanza, fuori udienza. Considerato in diritto questo giudice ritiene di dover sollevare, d'ufficio, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47, nella parte in cui prevede l'irrogazione della pena detentiva della reclusione da uno a sei anni, cumulativamente rispetto alla pena pecuniaria della multa non inferiore a 256 euro, nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato, per violazione dell'art 117, comma primo Cost. e dell'art. 10 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma, il 4 novembre 1952 e ratificata dall'Italia. con legge 4 agosto 1955, n. 848 (di seguito CEDU), come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo (di seguito Corte EDU), con la sentenza 24 settembre 2013, della Seconda Sezione, in causa Belpietro c. Italia, ricorso n. 43612/10, nonche' con sentenza 8 ottobre 2013, della Seconda Sezione, in causa Ricci c. Italia, ricorso n. 30210/06, e da ultimo sentenza 7 marzo 2019, della Prima Sezione, in causa Sallusti c. Italia, ricorso n. 22350/13, per le considerazioni che seguono. 1. Il quadro normativo di riferimento La disposizione della cui legittimita' costituzionale si dubita e' dettata dalla legge n. 47 dell'8 febbraio 1948, rubricata «Disposizioni sulla stampa» la quale, all'art. 13, prevede che «Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire 500.000 (euro 256)» E' dunque prevista una circostanza aggravante, ad effetto speciale, autonoma e indipendente, rispetto alla fattispecie base di diffamazione, di cui all'art. 595 c.p. Risponde del delitto di diffamazione chiunque, fuori dei casi dell'abrogato delitto di ingiuria, comunicando con piu' persone, offenda l'altrui reputazione, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a curo 1.032 (cosi il comma primo), ovvero, se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, con la pena della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065 (cosi' il secondo comma). Le pene previste dai commi primo e secondo dell'art. 595 codice penale sono tra di esse alterative e comunque destinate, ai sensi dell'art. 52 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468», ad essere convertite nelle corrispondenti sanzioni irrogabili dal Giudice di Pace, cui spetta la competenza a giudicare per materia, ai sensi dell'art. 4, comma primo, del medesimo decreto. Il comma terzo dell'art. 595 codice penale prevede invece che «Se l'offesa e' recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicita', ovvero in atto pubblico, la pena e' della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516». La disposizione disciplina dunque una fattispecie aggravata di diffamazione, in quanto commessa con. il mezzo della stampa o qualsiasi altro mezzo di pubblicita', prevedendo la pena, anche in questo caso alternativa, della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa non inferiore a 516 euro. La competenza, in questo caso, spetta al Tribunale, in composizione monocratica, e non e' prevista l'udienza preliminare. Infine, il quarto comma dell'art. 595 c.p., prevede un'aggravante a effetto comune, «Se l'offesa e' recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorita' costituita in collegio». Il sistema sanzionatorio originariamente previsto dal Codice penale del 1930 e' dunque caratterizzato dall'alternativita' tra la pena detentiva e la pena pecuniaria, con un progressivo inasprimento delle pene predette, nel caso in cui ricorrano le circostanze aggravanti di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell'art. 595 c.p. Per quanto in questa sede rileva, la fattispecie aggravata di cui al comma terzo dell'art. 595 c.p., qualora la diffamazione sia consistita «nell'attribuzione di un fatto determinato», con il mezzo della stampa, e' punita, in applicazione dell'art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, con la pena detentiva della reclusione, da uno a sei anni, che in questo caso si cumula e con quella pecuniaria, che parte dalla multa di 256 euro. Tale trattamento sanzionatorio e' dunque riservato, tra le condotte astrattamente sussumibili nella fattispecie di diffamazione aggravata di cui al comma terzo dell'art. 595 c.p., alle sole ipotesi di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, che risulti consistente, nel contempo, nell'attribuzione di un fatto determinato. 2. La disposizione di legge dello Stato viziata da illegittimita' costituzionale (ai sensi dell'art. 23, comma primo, lettera a), legge 11 marzo 1953, n. 87). I termini della presente questione di legittimita' costituzionale devono essere pertanto individuati nel combinato disposto tra l'art. 595 codice penale e l'art. 13 legge 8 febbraio 1948, n. 47, nella parte in cui impone al giudice penale l'irrogazione, sempre e comunque, di una pena detentiva, in via cumulativa e non soltanto alternativa rispetto alla pena pecuniaria, per i fatti di diffamazione a mezzo stampa, consistenti nell'attribuzione di un fatto determinato. 3. Le disposizioni della Costituzione che si assumono violate (ai sensi dell'art. 23, comma primo, lettera b), legge 11 marzo 1953, n. 87). La norma della cui legittimita' costituzionale si dubita, frutto del combinato disposto tra le citate disposizioni, e' stata da questo giudice ritenuta violativa dell'art. 117, comma primo, Cost., in relazione all'art. 10 CEDU, quale norma interposta, come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nelle sentenze 24 settembre 2013, della Seconda Sezione, in causa Belpietro comma Italia, ricorso n. 43612/10; 8 ottobre 2013, della Seconda Sezione, in causa Ricci comma Italia, ricorso n. 30210/06 e 7 marzo 2019, della Prima Sezione, in causa Sallusti comma Italia, ricorso n. 22350/13. 3.1. Le disposizioni CEDU e delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo quali parametri interposti di legittimita' costituzionale (la giurisprudenza della Corte costituzionale). Gia' da tempo la giurisprudenza della Corte costituzionale ha chiarito la collocazione delle disposizioni della CEDU nella gerarchia delle fonti dell'ordinamento nazionale e il valore di norme interposte e quindi di parametri indiretti di legittimita' costituzionale che le stesse assumono in relazione alle norme nazionali (cosi', tra le altre, le sentenze nn. 348 e 349 del 3 luglio 2007, depositate il 22 ottobre 2007; nonche' la sentenza n. 80 del 7 marzo 2011, depositata l'11 marzo 2011). Nel contempo, e' stata riconosciuta alla Corte europea dei diritti dell'uomo una funzione di interpretazione autentica e vincolante delle disposizioni dell'omonima Convenzione, come di recente ribadito dalla Corte costituzionale, in sentenza n. 49 del 4 gennaio 2015, depositata il 26 marzo dello stesso anno, in cui si afferma «il carattere sub-costituzionale della CEDU» e, richiamando ulteriori e altrettanto rilevanti precedenti della stessa Corte costituzionale, si evidenzia Che la medesima «Corte ha gia' precisato, e qui ribadisce, che il giudice comune e' tenuto ad uniformarsi alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» (sentenze n. 236 del 2011 e 311 del 2009), «in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza» (sentenza n. 311 del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 303 del 2011», facendo tuttavia salvo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro (richiamando sul punto le sentenze n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009). La Corte costituzionale, nella sentenza del 2015, aggiunge inoltre che «Corrisponde infatti a una primaria esigenza di diritto costituzionale che sia raggiunto uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali, cui e' funzionale, quanto alla CEDU, il ruolo di ultima istanza riconosciuto alla Corte di Strasburgo», cosi' confermando la centralita' della Corte sovrannazionale e l'efficacia che le sentenze dalla stessa emesse, quando abbiano raggiunto un apprezzabile grado di consolidamento, sono destinate a produrre sull'ordinamento e sul giudice nazionale. 3.2. Il consolidato orientamento della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia. Cosi' ricostruito il quadro di riferimento della giurisprudenza della Corte costituzionale in merito alla rilevanza delle norme della CEDU e dell'interpretazione della Corte EDU, quali parametri interposti di legittimita' costituzionale, in relazione all'art. 117, comma primo Cost., occorre dunque procedere all'esame delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo alla luce delle quali si ritiene violato l'art. 10 CEDU, onde evidenziarne la portata precettiva e verificare la sussistenza del requisito di sufficiente consolidamento (considerato che non promanano dalla Grande Camera della Corte). 3.2.1. L'art. 10 CEDU e la libera manifestazione del pensiero La disposizione della Convenzione che si assume violata, unitamente all'art. 117, comma primo, Cost., che ne fa implicito richiamo, e' da individuarsi nell'art. 10 CEDU, rubricato «Liberta' di espressione», ai sensi del quale: «1. Ogni persona ha diritto alla liberta' d'espressione. Tale diritto include la liberta' d'opinione e la liberta' di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorita' pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive. 2. L'esercizio di queste liberta', poiche' comporta doveri e responsabilita', puo' essere sottoposto alle formalita', condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una societa' democratica, alla sicurezza nazionale, all'integrita' territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l'autorita' e l'imparzialita' del potere giudiziario». La disposizione citata deve essere interpretata alla luce delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo intervenute, in piu' occasioni, in relazione alla compatibilita' con essa della disciplina nazionale in materia di diffamazione aggravata a mezzo stampa, oggetto della presente questione di legittimita' costituzionale, nella parte in cui prevede l'irrogazione di una pena detentiva, nei termini che seguono. 3.2.2. La sentenza Belpietro c. Italia della Seconda Sezione Corte EDU, del 24 settembre 2013 La prima sentenza di condanna dell'Italia, in relazione all'applicazione delle norme che, con la presente ordinanza, si assumono violative dei sopra indicati parametri di legittimita' costituzionale, puo' essere individuata nella sentenza Belpietro comma Italia, del 2013, con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo si e' pronunciata su ricorso n. 43612/10, proposto contro la Repubblica italiana da Maurizio Belpietro, sul presupposto che la condanna inflittagli per diffamazione avesse violato il proprio diritto alla liberta' di espressione. Nel caso di specie, il ricorrente rispondeva del delitto di diffamazione in qualita' di direttore del giornale, ai sensi dell'art. 57 c.p., per aver omesso di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione fossero commessi reati, con conseguente applicazione, in caso di condanna, a titolo di colpa, della pena prevista per il reato commesso, diminuita in misura non eccedente un terzo. A seguito dell'assoluzione, in primo grado, il ricorrente veniva tuttavia condannato, in appello, alla pena di quattro mesi di reclusione, sospesa in via condizionale, e al pagamento delle spese processuali di primo e secondo grado, oltre che al risarcimento del danno e delle spese di costituzione delle parti civili. Condanna confermata a seguito di rigetto del ricorso proposto per Cassazione dall'imputato. Nel proporre ricorso innanzi alla Corte EDU, il ricorrente ha lamentato la violazione della propria liberta' di espressione, di cui all'art. 10 CEDU, con particolare riferimento al carattere necessario dell'ingerenza dello Stato italiano nel suo diritto di' liberta' di espressione, in una societa' democratica, senza contestare invece la base legale e il legittimo scopo di siffatta ingerenza. Sul punto, nella sentenza in esame, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha precisato che: «Un'ingerenza e' contraria alla Convenzione se non rispetta le esigenze previste al paragrafo 2 dell'art. 10. Si deve dunque determinare se essa fosse «prevista dalla legge», se perseguisse uno o piu' degli scopi legittimi indicati in tale paragrafo e se fosse «necessaria in una societa' democratica» per raggiungere tale o tali scopi (Pedersen e Baadsgaard c. Danimarca, n. 49017/99, § 67, CEDU 2004-XI)» (punto 44). I giudici di Strasburgo osservano quindi che non era in contestazione la base legale della predetta ingerenza, individuata nell'art. 57 c.p., ne' tantomeno lo scopo legittimo della tutela del potere giudiziario (essendo le persone offese in causa magistrati del Pubblico Ministero), e comunque la tutela della reputazione o dei diritti altrui. La Corte europea dei diritti dell'uomo si sofferma quindi sul requisito di legittimita' dell'ingerenza da parte dello Stato membro (nel caso di specie la condanna a pena detentiva, pur condizionalmente sospesa, dell'imputato), consistente nella «necessita' dell'ingerenza in una societa' democratica». Sul punto, si legge nelle motivazioni della sentenza che «La stampa svolge un ruolo importante in una societa' democratica: se non deve oltrepassare certi limiti, inerenti in particolare alla tutela della reputazione e ai diritti altrui, essa ha nondimeno il compito di comunicare, nel rispetto dei suoi doveri e delle sue responsabilita', informazioni e idee su tutte le questioni di interesse generale, ivi comprese quelle relative alla giustizia (De Haes e Gijsels c. Belgio, 24 febbraio 1997, § 37, Recueil des arrêts et decisions 1997-1). Alla sua funzione, che consiste nel diffondere tali informazioni e idee, si affianca il diritto, per il pubblico, di riceverle. Se cosi' non fosse, la stampa non potrebbe svolgere il suo ruolo indispensabile di «cane da guardia» (Thorgeir Thorgeirson c. Islanda, 25 giugno 1992, § 63, serie A n. 239, e Bladet Tromse e Stensaas comma Norvegia [GC], n. 21980/93, § 62, CEDU 1999-III). Oltre alla sostanza delle idee e delle informazioni espresse, l'art. 10 tutela le modalita' di espressione delle stesse (Oberschlick c. Austria (n. 1), 23 maggio 1991, § 57, serie A n. 204). La liberta' giornalistica comprende anche il possibile ricorso a una certa dose di esagerazione, se non addirittura di provocazione (Prager e Oberschlick c. Austria, 26 aprile 1995, § 38, serie A n. 313, c. Thoma comma Lussemburgo, n. 38432/97, §§ 45 e 46, CEDU 2001 III)» (punto 47). In merito alla contrapposta ingerenza da parte dello Stato, si evidenzia, ai punti 49-50, che «L'aggettivo «necessario», nel senso dell'art. 10 § 2, implica l'esistenza di un «bisogno sociale imperioso». Gli Stati contraenti godono di un certo margine di apprezzamento nel valutare se sussista o meno un tale bisogno, ma questo margine va di pari passo con un controllo europeo che verte a volte sulla legge e sulle decisioni che la applicano, anche quando esse provengono da un giudice indipendente. La Corte e' pertanto competente a decidere in ultima istanza sulla questione di stabilire se una «restrizione» sia compatibile con la liberta' di espressione tutelata dall'art. 10 (Janowski, sopra citata, § 30, e Association Ekin c.Francia, n. 39288/98, § 56, CEDU 2001-VIII). 50. In particolare, spetta alla Corte determinare se i motivi con cui le autorita' nazionali hanno giustificato l'ingerenza risultino «pertinenti e sufficienti» e se la misura contestata fosse «proporzionata agli scopi legittimi perseguiti» (Chauvy e altri c. Francia, n. 64915/01, § 70, CEDU 2004-VI). In questo modo, la Corte deve persuadersi che le autorita' nazionali, basandosi su una valutazione accettabile dei fatti di causa, hanno applicato norme conformi ai principi sanciti dall'art. 10 (si vedano, tra molte altre, Zana c. Turchia, 25 novembre 1997, § 51, Recueil 1997- VII; De Diego Nafria c. Spagna, n. 46833/99, § 34, 14 marzo 2002; Pedersen e Baadsgaard sopra citata, § 70)». In questo modo la Corte europea dei diritti dell'uomo si riserva il potere di sindacare se l'intervento degli stati membri che abbia inciso sulla liberta' di espressione dei cittadini sia o meno compatibile con il succitato art. 10 CEDU. In merito all'esercizio di tale sindacato, la Corte prosegue evidenziando che «Il diritto dei giornalisti di comunicare informazioni su questioni di interesse generale e' tutelato a condizione che essi agiscano in buona fede, sulla base di fatti esatti, e forniscano informazioni «affidabili e precise» nel rispetto dell'etica giornalistica (si vedano, ad esempio, le sentenze sopra citate Fressoz e Roire, § 54, Bladet Tromsø e Stensaas, § 58, e Prager e Oberschlick § 37). Il paragrafo 2 dell'art. 10 della Convenzione sottolinea che l'esercizio della liberta' di espressione comporta dei «doveri e responsabilita'» che valgono anche per i media quando si tratta di questioni di grande interesse generale. Inoltre, tali doveri e responsabilita' possono rivestire una certa importanza quando si rischia di pregiudicare la reputazione di una persona citata per nome e di nuocere ai «diritti altrui». Percio', devono esistere motivi specifici per esonerare i media dall'obbligo che essi hanno in linea di principio di verificare le dichiarazioni fattuali potenzialmente diffamatorie nei confronti di privati. Al riguardo, entrano in gioco soprattutto la natura e il livello della diffamazione in causa e la questione di stabilire fino a che punto il media possa ragionevolmente considerare le sue fonti attendibili per quanto riguarda le asserzioni contestate (si vedano, tra le altre, McVicar c. Regno Unito, n. 46311/99, § 84, CEDU 2002-111, e Standard Verlagsgesellschaft MBH (n. 2) c. Austria, n. 37464/02, § 38, 22 febbraio 2007)» (punto 52). Viene quindi rilevato che «Anche la natura e la severita' delle pene inflitte sono elementi da tenere in considerazione in sede di valutazione della proporzionalita' dell'ingerenza», richiamando i precedenti della Corte di Strasburgo, nelle sentenze Ceylan c. Turchia [GC], n. 23556/94, § 37, CEDU 1999-IV, e Tammer c. Estonia, n. 41205/98, § 69, CEDU 2001-D, nonche' nella causa Cumpăna e Mazăre c, Romania ([GC1, n. 33348/96, §§ 113-115, CEDU 2004-X1), in cui la Corte ha affermato i seguenti principi: «113. Se gli Stati contraenti hanno la facolta', se non il dovere, in virtu' dei loro obblighi positivi derivanti dall'art. 8 della Convenzione, di disciplinare l'esercizio della liberta' di espressione in modo da garantire che la legge tuteli adeguatamente la reputazione degli individui, essi devono evitare, facendolo, di adottare misure idonee a dissuadere i media dallo svolgere il loro compito di avvisare il pubblico in caso di apparenti o presunti abusi dei pubblici poteri, I giornalisti di inchiesta potrebbero mostrarsi reticenti a esprimersi su questioni di interesse generale (...) se corrono it rischio di essere condannati, quando la legislazione prevede sanzioni di questo tipo per gli attacchi ingiustificall contro la reputazione altrui, a pene detentive o che comportano il divieto di esercitare una professione.» Nella sentenza citata, in particolare, si osserva, al punto 114, che «L'effetto dissuasivo che il timore di sanzioni di questo tipo comporta per l'esercizio da parte di tali giornalisti della loro liberta' di espressione e' evidente Nocivo per la societa' nel suo complesso, fa anch'esso parte degli elementi da prendere in considerazione in sede di valutazione della proporzionalita' - e dunque della giustificazione - delle sanzioni inflitte (...)» La Corte europea dei diritti dell'uomo precisa quindi, al punto 115 della richiamata sentenza, che «Se la fissazione delle pene e', in linea di principio, appannaggio dei giudici nazionali, la Corte considera che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nell'ambito della stampa sia compatibile con la liberta' di espressione giornalistica sancita dall'art. 10 solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente lesi, come nel caso, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitazione alla violenza (..).». Cosi ricostruiti i principi che la stessa Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato in materia, nella sentenza Belpietro comma Italia, i giudici sovrannazionali hanno ritenuto, nel caso di specie, che la condarma nei confronti del ricorrente non fosse di per se' contraria all'art. 10 della Convenzione. Tuttavia, si evidenzia nuovamente, nella motivazione della sentenza, che anche la natura e la severita' delle pene inflitte sono elementi di cui tenere conto in sede di valutazione della proporzronalita' di un'ingerenza. Piu' nello specifico, si rileva, quindi che, oltre alla riparazione dei danni, il ricorrente era, stato condannato a quattro mesi di reclusione e, benche' fosse stata applicata la sospensione condizionale dell'esecuzione della pena, il solo fatto di infliggere una pena detentiva aveva, secondo il giudizio della Corte europea dei diritti dell'uomo potuto avere un effetto deterrente notevole. Nel contempo, e' stato ritenuto che il caso di specie, avendo ad oggetto un mancato controllo nell'ambito di una diffamazione, non era caratterizzato da alcuna circostanza eccezionale che giustificasse il ricorso a una sanzione cosi' severa. Al punto 62 della sentenza Belpietra comma Italia, la Corte ha quindi ritenuto che, a causa del quantum e della natura della sanzione imposta al ricorrente, l'ingerenza nel diritto alla liberta' di espressione di quest'ultimo non fosse proporzionata agli scopi legittimi perseguiti, con conseguente violazione dell'art. 10 della Convenzione. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha pertanto dichiarato che vi e' stata violazione dell'art. 10 della Convenzione, condannando lo Stato italiano a versare al ricorrente, le somme indicate in dispositivo per il danno morale, per le spese, con i relativi interessi moratori. In disparte, dunque, il merito della vicenda, si ritiene che con la sentenza in questione la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia affermato, nei confronti dello Stato italiano, i seguenti principi di diritto. Ferma la legittimita' di una condanna per reati commessi nell'esercizio dell'attivita' professionale da parte di un giornalista, quando quest'ultimo risulti violativo dei limiti cui tale attivita' professionale e' sottoposta, e la condanna risulta fondata su idonea base legale e finalizzata ad uno scopo legittimo (tra cui la tutela dell'altrui reputazione), l'effetto dissuasivo che il timore di sanzioni detentive comporta per l'esercizio da parte dei giornalisti della loro liberta' di espressione e' evidente (...). Nocivo per la societa' nel suo complesso, fa anch'esso parte degli elementi da prendere in considerazione in sede di valutazione della proporzionalita' - e dunque della giustificazione - delle sanzioni inflitte (...). Anche la natura e la severita' delle pene inflitte sono elementi di cui tenere conto in sede di valutazione della proporzionalita' di un'ingerenza e il sol fatto di infliggere una pena detentiva, quand'anche sospesa condizionalmente, puo' avere un effetto deterrente notevole, in violazione dell'art. 10 CEDU. 3.2.3. La sentenza Ricci c. Italia della Seconda Sezione Corte EDU, dell'8 ottobre 2013 Principi analoghi a quelli affermati e confermati con la sopra esaminata sentenza Belpietro c. Italia sono stati espressi dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella di poco successiva sentenza Ricci c. Italia, della Seconda Sezione, emessa in data 8 ottobre 2013, su ricorso n. 30210/06. La sentenza trae origine dalla condanna del ricorrente, per divulgazione al pubblico di comunicazioni interne al sistema telematico della RAI, ritenuta emessa in violazione del suo diritto alla liberta' di espressione. In specie, il ricorrente era ideatore e produttore di una nota trasmissione quotidiana di critica della televisione che ha lo scopo di rivelare, con ironia, casi di cattive prassi nel contesto della vita politica e della televisione. In fatto, la RAI, in occasione delle riprese di una trasmissione culturale, aveva registrato una conversazione tra gli ospiti sulle frequenze assegnate all'uso interno della RAI, al fine di selezionare successivamente le immagini utili alla trasmissione. Durante la registrazione, a seguito di un litigio tra i due invitati, la conduttrice aveva chiesto ai suoi collaboratori se uno dei due conversanti avesse firmato la liberatoria per trasmettere le immagini e, ricevuta una risposta negativa, aveva gridato «Non e' possibile! (...) L'avevamo fatto apposta a mettere insieme quei due!». Le registrazioni in questione erano state intercettate dagli apparecchi di Canale 5 nell'ambito del monitoraggio dell'attivita' degli altri canali, sicche' il ricorrente aveva deciso di diffonderle nel corso del proprio programma, al fine di mostrare la «vera natura della televisione» dove qualsiasi scontro e' costruito per fare spettacolo. A seguito di querela proposta dalla RAI contro il ricorrente, per diffusione di comunicazioni riservate interne al sistema telematica della RAI e per divulgazione del contenuto delle immagini al pubblico, in violazione dell'art. 617-quater c.p., nella forma aggravata, trattandosi di sistema utilizzato dalla televisione di Stato, il ricorrente, pur sostenendo che la divulgazione delle immagini al pubblico rientrava nell'esercizio del suo diritto di critica e del suo diritto di satira, era stato condannato in primo grado alla pena di quattro mesi e cinque giorni di reclusione con sospensione condizionale della stessa, nonche' al pagamento delle spese procedurali e alla riparazione dei danni subiti dalle parti civili, con provvisionale. La sentenza era stata confermata in appello, evidenziando che l'art. 617-quater codice penale doveva essere interpretato nel senso che la divulgazione di informazioni poteva essere punita anche se il reato descritto al primo comma non era costituito e anche se l'autore della divulgazione fosse venuto a conoscenza delle comunicazioni in maniera fortuita. In secondo grado di giudizio, inoltre, la Corte d'appello, nell'affrontare la questione del conflitto tra il diritto alla riservatezza delle comunicazioni (art. 15 della Costituzione) e la liberta' di espressione (art. 21 della Costituzione), aveva escluso, nel caso di specie, la sussistenza di un interesse sociale dell'informazione diffusa, che potesse annullare il carattere delittuoso della condotta del divulgatore. Anche all'esito del giudizio di legittimita' la condanna era stata confermata, sebbene limitatamente alle statuizioni civili e alle spese processuali, dal momento che, nelle more, il reato era giunto a prescrizione. Anche la Corte di Cassazione aveva affermato che i reati previsti dal primo e secondo comma dell'art. 671 quater del CP erano autonomi e distinti e potevano essere commessi da soggetti diversi e che la divulgazione di una comunicazione riservata era punibile anche se mancava il carattere fraudolento della sua intercettazione. Con riferimento al diritto di critica, al pari del diritto di cronaca e di satira, pur affermando, in astratto, la necessita' di riconoscimento degli stessi nella maniera piu' ampia possibile, i giudici di legittimita' avevano escluso, nel caso di specie, la scriminante ex art. 51 c.p., sul presupposto che trattavasi' di divulgazione di informazioni riservate, non diffamatorie, e che la riservatezza di queste comunicazioni era garantita dall'art. 15 della Costituzione, e l'esercizio del diritto di satira non poteva giustificarne la divulgazione. Al giudizio di rinvio era seguita, in sede civile, la liquidazione del danno subito dalle costituite parti civili e la condanna al pagamento delle somme in questione da parte dell'imputato, il quale aveva proposto quindi ricorso alla Corte di Strasburgo, deducendo la violazione dell'art. 10 della Convenzione, in danno della propria liberta' di espressione. Il Governo, costituitosi innanzi alla Corte EDU, ha invece sostenuto che la condanna del ricorrente non e' stata pronunciata in relazione con la liberta' di espressione dell'interessato, non potendosi ravvisare, nella condotta incriminata, l'espressione di una opinione, bensi' la deliberata diffusione di comunicazioni riservate, protette dall'art. 15 della Costituzione, la cui violazione non puo' pertanto essere giustificata. In aggiunta a tale considerazione, si e' rilevato inoltre che l'informazione divulgata dal ricorrente era in realta' priva di importanza, poiche' era di comune esperienza il fatto che i conduttori televisivi cerchino di creare degli «scoop». Nel pronunciarsi in merito alla vicenda, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha preliminarmente ritenuto che la condotta del ricorrente fosse retta dall'intento di comunicare informazioni o idee e che, pertanto, la sua condanna abbia costituito una ingerenza nel suo diritto alla liberta' di espressione, garantito dall'art. 10 § I della Convenzione. Sul punto, i giudici sovrannazionali hanno evidenziato che, per stabilire se un'ingerenza nel predetto diritto sia legittima, occorre stabilire se fosse «prevista dalla legge», se perseguisse uno o piu' scopi legittimi enunciati in questo paragrafo e se fosse «necessaria in una societa' democratica per raggiungere questi scopi. Nel caso di specie, tanto il requisito della riserva di legge, quanto quello teleologico sono stati ritenuti soddisfatti, dal momento che lo scopo della condanna inflitta era la tutela della reputazione e dei diritti altrui. Diverse le conclusioni della Corte in merito al terzo requisito, di necessita' dell'ingerenza. Nelle motivazioni si legge, al riguardo, che «la stampa svolge un ruolo eminente in una societa' democratica: se non deve oltrepassare certi limiti, guardando soprattutto alla tutela della reputazione e ai diritti altrui, le spetta tuttavia comunicare nel rispetto dei suoi doveri e delle sue responsabilita', informazioni e idee su tutte le questioni di interesse generale» (De Haes e Gijsels c. Belgio, 24 febbraio 1997, 5§ 37, Recueil 1997-I); la CEDU prosegue affermando che «Alla sua funzione che consiste nel diffonderle, si aggiunge il diritto, per il pubblico, di riceverle. Se cosi non fosse, la stampa nan potrebbe svolgere il suo ruolo indispensabile di «cane da guardia),» (Thorgeir Thorgeirson c. Islanda, 25 giugno 1992, § 63, serie A n. 239, e Bladet Tromso e Stensaas c. Norvegia [GC], n. 21980/93, § 62, CEDU 1999-111). In merito al carattere necessario che l'eventuale ingerenza in tale diritto deve presentare, i giudici di Strasburgo osservano che «L'aggettivo «necessario», nel senso dell'art. 10 § 2, implica l'esistenza di un «bisogno sociale imperioso»», rispetto al quale deve operare «un controllo europeo avente ad oggetto allo stesso tempo la legge e le decisioni che la applicano, anche quando emanano da un giudice indipendente», controllo che spetta alla Corte EDU. Si precisa, sul punto, che «la Corte non ha affatto compito di sostituirsi alle autorita' giudiziarie nazionali competenti, ma di verificare secondo il punto di vista dell'art. 10 le decisioni che queste hanno emesso in virtu' del loro potere di apprezzamento» e nell'assolvere a tale compito, essa «deve esaminare l'ingerenza in questione alla luce di tutti gli elementi della causa, compreso il tenore dei discorsi attribuiti al ricorrente e il contesto nel quale quest'ultimo li ha pronunciati».(News Verlags GmbH & c. KG c. Austria, n. 31457/96, § 52, CEDU 2000-D. Piu' nello specifico, nella sentenza in esame, si afferma che «Il diritto dei giornalisti di comunicare informazioni su questioni di interesse generale e' protetto a condizione che essi agiscano in buona fede, sulla base di fatti precisi, e forniscano informazioni «affidabili ed esatte» nel rispetto dell'etica giornalistica», precisando che «questi doveri e responsabilita' possono assumere importanza quando si rischia di offendere la reputazione di una persona citata per nome e di nuocere ai «diritti altrui»». Nel valutare la sussistenza della responsabilita' del giornalista «entrano in gioco soprattutto la natura e il grado della potenziale diffamazione e la questione di stabilire a quale punto i media possano ragionevolmente considerare le loro fonti attendibili». Tale valutazione va operata tenendo debitamente in conto che «la condanna di una giornalista per divulgazione di informazioni di questo tipo puo' dissuadere i professionisti dei media dall'informare il pubblico su questioni di interesse generale». Ne deriva che, in questi casi, «la stampa potrebbe non essere piu' in grado di svolgere il suo ruolo indispensabile di «cane da guardia» e la sua idoneita' a fornire informazioni precise e affidabili potrebbe essere indebolita». Sicche' «occorre esaminare piu' aspetti distinti: gli interessi in gioco, il controllo esercitato dai giudici nazionali, il comportamento del ricorrente nonche' la proporzionalita' della sanzione pronunciata». In merito a tale ultimo aspetto, al punto 52 della motivazione, citando il caso causa Cumpănă e Mazăre c. Romania, la Corte afferma che «anche la natura e la severita' delle pene inflitte sono elementi da prendere in considerazione quando si tratta di misurare la proporzionalita' dell'ingerenza», ribadendo i seguenti principi gia' sanciti nel precedente citato: «113. Se gli Stati contraenti hanno la facolta', addirittura il dovere, in virtu' dei loro obblighi positivi a titolo dell'art. 8 della Convenzione, di disciplinare l'esercizio della liberta' di espressione in modo tale da garantire che la legge protegga adeguatamente la reputazione degli individui, nel far questo essi devono evitare di adottare misure che possano dissuadere i media dallo svolgere il loro ruolo di allerta del pubblico in caso di abuso apparente o presunto del potere pubblico. I giornalisti investigativi rischiano di essere reticenti ad esprimersi su questioni che presentano un interesse generale (..) se corrono il pericolo di essere condannati, quando la legislazione prevede sanzioni di questo tipo per gli attacchi ingiustificati contro la reputazione, a pene detentive o interdizione dall'esercizio della professione. 114. L'effetto dissuasivo che il timore di tali sanzioni comporta per l'esercizio da parte di questi giornalisti della loro liberta' di espressione e' evidente (..). Totalmente nocivo per la societa', fa anch'esso parte degli elementi da prendere in considerazione nell'ambito della valutazione della proporzionalita' - e dunque della giustificazione - delle sanzioni inflitte (...). 115. Se la fissazione delle pene e' per principio appannaggio dei giudici nazionali, la Corte ritiene che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nel campo della stampa sia compatibile con la liberta' di espressione giornalistica garantita dall'art. 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, soprattutto quando sono stati gravemente violati altri diritti fondamentali, come nell'ipotesi, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di istigazione alla violenza. Infine, si rileva che, quando vengano in rilievo, come nel caso oggetto della sentenza, il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla liberta' di espressione, deve tenersi in considerazione che questi diritti meritano a priori pari rispetto. Pertanto, se il bilanciamento operato delle autorita' nazionali e' fatto nel rispetto dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza, della Corte, sopra indicati, la CEDU potra' sostituire la propria valutazione a quella dei giudizi nazionali solo quando vi siano serie ragioni. E' quanto avvenuto nel caso oggetto della sentenza Ricci comma Italia, dal momento che la Corte europea dei diritti dell'uomo non ha condiviso il principio di diritto affermato dall'autorita' giudiziaria nazionale, secondo cui Ia protezione delle comunicazioni relative a un sistema informatico o telematico esclude per principio ogni possibile bilanciamento con l'esercizio della liberta' di espressione. Si ribadisce, infatti, nella sentenza in esame, che «anche quando vengono diffuse informazioni riservate, occorre esaminare piu' aspetti distinti, ossia gli interessi in gioco, il controlla esercitato dai giudici nazionali, il comportamento del ricorrente e la proporzionalita' della sanzione comminata». Piu' nello specifico, la CEDU osserva che «il ruolo svolto dalla televisione pubblica in una societa' democratica e' un tema di interesse generale» e, dal momento che l'intento del ricorrente-condannato era quello di stigmatizzare e ridicolizzare un comportamento individuale, la Corte deve tenerne conto nel bilanciare il diritto del ricorrente alla liberta' di espressione rispetto agli scopi legittimi perseguiti dallo Stato. Applicando tali coordinate generali al caso di specie, la CEDU rileva che la condanna del ricorrente, il quale non aveva sicuramente agito nel rispetto dell'etica giornalistica, non era di per se' contraria all'art. 10 della Convenzione. Tuttavia, al punto 59 della decisione, si ribadisce che la natura e la severita' delle pene inflitte sono elementi da prendere ugualmente in considerazione quando si tratta di misurare la proporzionalita' dell'ingerenza. Sotto tale profilo, la CEDU ha quindi ritenuto che, nonostante la sospensione condizionate della pena e la dichiarata prescrizione, la condanna ad una pena detentiva ha potuto avere un effetto dissuasivo significativo, a fronte di un fatto che non era segnato da alcuna circostanza eccezionale tale da giustificare il ricorso ad una sanzione cosi' severa. In ragione della natura e del quantum della sanzione imposta al ricorrente, l'ingerenza nel diritto alla liberta' di espressione di quest'ultimo e' stata pertanto ritenuta non proporzionata agli scopi legittimi perseguiti, con conseguente violazione dell'art. 10 della Convenzione. La sentenza in questione, pur pronunciandosi in relazione al diverso delitto di cui all'art. 617-quater c.p., ribadisce il ruolo centrale, nell'ordinamento democratico, della stampa e del diritto di informazione, attiva e passiva, traendone la conclusione che il giudizio di bilanciamento cui sono chiamate, dapprima, le autorita' nazionali, e quindi la Corte EDU, deve essere operato nella piena consapevolezza della delicatezza di tale ruolo. La parte piu' incisiva della pronuncia esaminata, effetto diretto dell'impostazione garantista assunta dalla Corte, consiste nel giudizio di sproporzione della condanna a una pena detentiva - nonostante la sospensione condizionale della stessa e la dichiarata estinzione del reato per prescrizione - a fronte di' un fatto illecito e penalmente rilevante. Giudizio cui la Corte e' pervenuta, ravvisando pertanto una violazione della liberta' di espressione ex art. 10 CEDU, proprio in ragione della tutela che la giurisprudenza di Strasburgo accorda alla stampa e del pericolo che la mera possibilita' di incorrere in una pena detentiva produca un effetto dissuasivo in capo ai giornalisti. Si fa salva, tuttavia, l'ipotesi, espressamente definita «eccezionale», della grave e ingiustificata violazione dell'altrui reputazione o di altri diritti. Ne deriva, secondo l'impostazione della Corte, che il giudice nazionale, pur potendo addivenire, secondo i canoni tradizionali condivisi dalla giurisprudenza nazionale e sovrannazionale, ad una condanna, dovra' limitare alle ipotesi di eccezionale gravita' l'irrogazione della pena detentiva. Si tratta dunque di principi perfettamente calzanti nel caso di specie, con riferimento alla fattispecie aggravata di diffamazione, di cui agli articoli 595 codice penale e 13 legge 8 febbraio 1948, n. 47. 3.2.4. La sentenza Sallusti comma Italia della Prima Sezione Corte EDU, del 7 marzo 2019. Se la breve distanza temporale, pari a meno di un mese, e l'identita' della Sezione pronunciatasi, potrebbe indurre a dubitare del carattere consolidato della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo invocata, in questa sede, unitamente all'art. 10 CEDU e all'art. 117, comma primo, Cost., quale parametro di legittimita' costituzionale, la piu' recente sentenza Sallusti comma Italia, emessa invece dalla Prima Sezione della Corte e in epoca sufficientemente distante, consente di riconoscere la sussistenza di tale fondamentale requisito. La sentenza in questione e' stata pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo a seguito di ricorso proposto in data 18 marzo 2013 da un giornalista, a seguito della condanna in appello per i delitti di diffamazione a mezzo stampa e omesso controllo sul contenuto degli articoli pubblicati sul giornale dallo stesso diretto, per violazione del diritto alla liberta' di espressione, garantito dall'art. 10 della Convenzione. A seguito della pubblicazione, nel 2007, di due articoli a contenuto diffamatorio, ai danni di una minore, dei suoi genitori e del giudice tutelare, riguardo alla procedura di aborto cui la prima era stata autorizzata, il ricorrente e' stato condannato, in primo grado, alla pena pecuniaria della multa di 5.000,00 euro, oltre al risarcimento dei danni arrecati alle persone offese e al pagamento delle spese processuali. Detta pena e' stata ritenuta, in grado di appello, eccessivamente mite a fronte della ritenuta gravita' dei fatti commessi dall'imputato, e sostituita quindi con quella detentiva di un anno di reclusione, oltre a quella della multa di pari importo, confermata dalla Corte di Cassazione. Il Tribunale di Sorveglianza ha quindi disposto l'esecuzione della pena detentiva agli arresti domiciliari, prima che il Presidente della Repubblica, adito dal ricorrente, la commutasse in pena pecuniaria, a seguito tuttavia dell'espiazione di ventuno giorni di detenzione, ai sensi dell'art 87, comma 11, Cost. La pena detentiva irrogata nei confronti del ricorrente e parzialmente eseguita, sebbene in regime domiciliare, e' stata ritenuta violativa dell'art. 10 della Convenzione, nella parte in cui tutela il diritto di informazione e di libera manifestazione del pensiero e il ricorso e' stato ritenuto ricevibile dalla Corte di Strasburgo, in quanto non manifestamente infondato. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e' stata cosi' chiamata nuovamente a pronunciarsi in merito alla compatibilita' con la Convenzione dell'irrogazione, nei confronti di un giornalista, di una pena detentiva e ai limiti entro cui e' possibile ricorrere a tale forma di sanzione. Viene dunque in rilievo la tutela del diritto all'informazione, contrapposto agli interessi lesi dalla condotta criminosa, nonche' la necessaria verifica del carattere necessario e proporzionato di una pena detentiva nei confronti del giornalista che, nell'esercizio della propria attivita' professionale, violando le nonne etiche e penali che la regolano, sia incorso nella commissione di un rato. La questione su cui La Corte europea dei diritti dell'uomo e' stata chiamata valutare se l'ingerenza da parte dello Stato italiano, mediante irrogazione di una pena detentiva nei confronti del ricorrente, fosse «prevista dalla legge», se perseguisse uno o piu' fini legittimi previsti dallo stesso art. 10 CEDU, e se fosse «necessaria in una societa' democratica» per conseguire il fine o i fini pertinenti. Sul punto la Corte ha preliminarmente sottolineato che il criterio della «necessita' in una societa' democratica» impone di accertare se l'ingerenza lamentata corrispondesse a una «pressante esigenza sociale», se i motivi addotti dalle autorita' nazionali per giustificare l'ingerenza fossero «pertinenti e sufficienti» e se la sanzione inflitta fosse «proporzionata al fine legittimo perseguito». Nell'esaminare la questione, i giudici sovrannazionali osservano che pacificamente l'ingerenza da parte dello Stato italiano, lamentata dal ricorrente, e' dotata di sufficiente base legale, individuata negli articoli 57 e 595 c.p., nonche' nell'art. 13 della c.d. legge sulla Stampa, n. 47 del 1948. Nel contempo, la Corte ritiene sussistente un fine legittimo perseguito dallo Stato italiano, ravvisato nella protezione della reputazione e dei diritti delle persone offese dal reato. Viene quindi, nella sentenza in commento, presa in esame la questione principale, relativa al predetto requisito della necessita' e proporzione della sanzione applicata al ricorrente, in una societa' democratica, di cui al secondo paragrafo dell'art. 10 CEDU. La norma prevede infatti la possibilita' di limitare l'esercizio della liberta' di espressione, ivi comprese la liberta' d'opinione e la liberta' di ricevere o di comunicare informazioni, di cui al primo paragrafo, nei casi previsti dalla legge, mediante «formalita', condizioni, restrizioni o sanzioni», che «costituiscono misure necessarie, in una societa' democratica» a perseguire uno dei fini legittimi previsti dalla stessa disposizione (tra cui la prevenzione di reati e la protezione della reputazione o dei diritti altrui). Sul punto, la Corte fa richiamo dei propri precedenti, tra cui la sopra esaminata sentenza Belpietro c. Italia, del 2013, sottolineando che «il criterio della «necessita' in una societa' democratica» esige che essa determini se l'ingerenza lamentata corrispondesse a una «pressante esigenza sociale», se i motivi addotti dalle autorita' nazionali per giustificare l'ingerenza fossero «pertinenti e sufficienti» e se la sanzione inflitta fosse «proporzionata al fine legittimo perseguito». Tale principio di diritto, applicato al caso di specie, ha condotto a ritenere che le condotte del ricorrente, erano state correttamente ritenute integranti i delitti ascritti all'imputato, commessi in violazione dell'etica del giornalismo (avendo questi divulgato informazioni false senza controllarne prima la veridicita'), sicche' la repressione delle stesse soddisfaceva una «pressante esigenza sociale». In merito tuttavia al requisito di proporzione della sanzione inflitta rispetto all'illecito accertato, la Corte ha ritenuto che «l'irrogazione di una pena detentiva, ancorche' sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la liberta' di' espressione dei giornalisti garantita dall'art. 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza». Tali eccezionali ipotesi non sono state ritenute sussistenti in concreto, specie a fronte della pur parziale esecuzione, per ventuno giorni, della pena detentiva. Richiamando pertanto, i summenzionati precedenti, in sentenze Belpietro comma Italia e Ricci c. Italia, i giudici di Strasburgo hanno statuito che l'irrogazione di una sanzione detentiva non fosse giustificata, stante l'effetto dissuasivo che ne deriva, quand'anche se ne disponga la sospensione condizionale ovvero la commutatone in pena pecuniaria, dal momento che si tratta di scelte discrezionali. Ne consegue che sussiste, secondo l'impostazione accorta dalla Corte EDU, una manifesta sproporzione rispetto al fine legittimo perseguito, con conseguente eccesso del limite di necessarieta' della limitazione alla. liberta' di espressione del ricorrente e violazione dell'art. 10 della Convenzione, con condanna dell'Italia alla rimozione delle conseguenze derivatene ai sensi dell'art. 41 CEDU. La sentenza conferma, a distanza di oltre cinque anni dai precedenti registratisi in materia, con le citate sentenze, la violazione del diritto della Convenzione e, in specie, della liberta' di espressione di cui all'art. 10, mediante la irrogazione di pene detentive per reati commessi mediante mezzi di comunicazione, in specie da parte di giornalisti. Questi ultimi sono stati definiti dai giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo quali «watch dogs», ossia cani da guardia, della democrazia (sentenza Fatullayev contro Azerbaijan del 2010) e il secondo comma dell'art. 10 della Convenzione, oggetto della sentenza in commento, riserva al diritto di informazione una tutela rafforzata, richiedendo che ogni eventuale ingerenza da parte degli Stati membri, sotto forma di previsione di formalita', condizioni, restrizioni o sanzioni, debba trovare una base legale e costituire una misura necessaria, in termini di extrema ratio, nel contesto della societa' democratica, al perseguimento di finalita' specifiche. Tra queste rientrano la sicurezza nazionale, l'integrita' territoriale o la pubblica sicurezza, ovvero la difesa dell'ordine e la prevenzione dei reati, o ancora la protezione della salute o della morale, della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l'autorita' e l'imparzialita' del potere giudiziario. Come osservato, il requisito di necessarieta' implica quello di proporzione dell'ingerenza concretamente operata da parte dello Stato rispetto al fine perseguito e, proprio in relazione a tale profilo, la Corte ha ravvisato una violazione del citato art. 10 mediante l'irrogazione di una pena detentiva, precisando che a nulla rileva l'eventuale sospensione condizionale della stessa o la commutazione in pena pecuniaria. Secondo l'impostazione accolta dalla Corte EDU, infatti, tali esiti, solo eventuali e comunque frutto della discrezionalita' delle Istituzioni, non escludono l'effetto dissuasivo della previsione astratta di una pena detentiva e della possibilita' per il giudice di irrogarla, di per se' violativo della liberta' di espressione tutelata dalla Convenzione. 3.3. I principi di diritto consolidati nella giurisprudenza della Corte EDU Alla luce delle pronunce sopra esaminate, puo' dunque rilevarsi, quale principio affermato in maniera costante dalla Corte EDU, nell'arco di oltre cinque anni, dal settembre 2013 al marzo 2019, in ben tre occasioni specifiche nei confronti dello Stato italiano, che nei confronti dei giornalisti che rispondano di reati commessi nell'esercizio della propria attivita' professionale, quale il delitto di diffamazione aggravata, l'irrogazione di una pena detentiva e comunque la sola possibilita' di irrogazione della pena della reclusione, quand'anche soggetta in concreto a commutazione in pena pecuniaria o a sospensione condizionale della pena, costituisce un elemento idoneo a determinare un effetto dissuasivo rispetto all'esercizio della liberta' di manifestazione di pensiero, nonche' di informazione, tale da integrare una violazione dell'art. 10 CEDU, sotto il profilo della necessarieta' in una societa' democratica, in tutti i casi in cui non ricorrano circostanze eccezionali e, segnatamente qualora non siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza. 4. La violazione del parametro di legittimita' costituzionale Viola il principio di diritto enunciato, in piu' occasioni, dalla Corte EDU, in relazione all'art. 10 CEDU, la disposizione dell'art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, nella parte in cui, prevedendo, che «Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di' un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire 500.000», in via cumulativa, non consentendo al giudice penale di conformarsi al predetto principio di diritto di matrice sovrannaztonale. La disposizione oggetto della presente questione di' legittimita' costituzionale, impone infatti sempre e comunque l'irrogazione, quand'anche sospesa condizionalmente o commutata in pena pecuniaria, di un pena detentiva, senza alcuno spazio discrezionale per il giudice del merito, volto a differenziare i casi eccezionali, di grave violazione di diritti fondamentali o di esternazioni di odio, discriminazione, anche sessuale e razziale, o istigazione alla violenza (cosi come esemplificate dalla Corte EDU), dalle diverse ipotesi in cui, in mancanza di tali circostanze eccezionali, l'irrogazione di una pena detentiva o anche solo la sua previsione come pena e e' stata ritenuta sproporzionata e quindi non necessaria, in una societa' democratica, e pertanto violativa dell'art. 10 CEDU. La violazione integrata dalla irrogazione della pena detentiva fuori dai suddetti casi eccezionali e' preceduta da quella legata all'effetto dissuasivo che la sola previsione della pena detentiva quale inevitabile conseguenza della condanna determina. 5. La rilevanza della questione nei procedimento a quo La questione, cosi' come ricostruita, assume rilevanza nel procedimento in corso, dal momento che, all'imputato, e' stato contestato il delitto di cui all'art. 595, commi primo, secondo e terzo, c.p., aggravato ai sensi del predetto art. 13 legge 8 febbraio 1948, n. 47, perche' «in qualita' di Direttore pro tempore del quotidiano» in merito all'articolo intitolato «Forni' la droga a P. la Cassazione l'ha assolto» pubblicato sul quotidiano», mediante la pubblicazione dell'articolo anzidetto avvenuto l'11 novembre 2011, offendeva la reputazione del sig. C.F. accusandolo di aver fornito la sostanza stupefacente a P. e che la Cassazione lo avesse prosciolto». In assenza, allo stato, di cause di proscioglimento, non avendo l'imputato chiesto tempestivamente di accedere alla causa di estinzione delle condotte riparatorie, ne' risultando alcuna remissione di querela nei confronti del medesimo, e in assenza di qualsiasi altra causa di estinzione del reato, tantomeno per prescrizione o per difetto di condizioni di procedibilita' (la querela e' stata sporta in data 5 dicembre 2011), l'accoglimento della questione di legittimita' costituzionale sollevata nel presente procedimento e' destinata a incidere sulla tipologia della pena da irrogare, in caso di condanna, nei confronti dell'imputato. Dalla lettura del capo di imputazione emerge infatti che il fatto determinato attribuito alla persona offesa, da parte dell'imputato, nell'articolo oggetto del medesimo capo di imputazione, a mezzo stampa (trattandosi di pubblicazione su un quotidiano regolarmente registrato e diffuso tra il pubblico), consiste nella cessione di sostanza stupefacente al deceduto atleta Pantani. Pertanto, allo stato, e senza poter questo giudice sbilanciarsi in prospettazioni circa l'esito del giudizio, l'imputato risponde del delitto di diffamazione a mezzo stampa, nella forma aggravata di cui all'art. 13 cit., con conseguente concreta possibilita' che la pena irrogata, in caso di condanna, sia di natura detentiva, oltre che pecuniaria. Deve precisarsi che il capo di imputazione e' formulato in maniera tale da ascrivere direttamente all'imputato la condotta integrante il delitto di diffamazione aggravata pur facendo, nel contempo, riferimento al predetto in qualita' di direttore del giornale. Tale eventuale sviluppo nel merito del giudizio non priverebbe tuttavia di rilevanza la questione di legittimita' costituzionale, in quanto la responsabilita' del direttore del giornale, ai sensi dell'art. 57 c.p., comporta l' irrogazione, sebbene ridotta fino a un terzo, della medesima pena prevista per il reato commesso, in specie di diffamazione, e quindi di una pena comunque detentiva, unitamente a quella pecuniaria. Non si puo', conclusivamente, prescindere dall'applicazione della disposizione facciata di incostituzionalita' nel giudizio a qua, alla luce della formulazione del capo di imputazione, in merito al quale alcuna modifica e' stata richiesta dal Pubblico Ministero, e dell'incidenza che il citato art. 13 e' destinato a determinare sulla pena irroganda in caso di condanna, privando giudice dell'alternativa tra pena detentiva e pena, pecuniaria che invece l'art. 595 codice penale rimette alla sua discrezionalita'. Sul punto deve rilevarsi che, peraltro, l'intervento della Corte costituzionale, in caso di accoglimento della questione sollevata, produrrebbe effetti favorevoli per l'imputato e sarebbe destinato a operare retroattivamente nei confronti dello stesso, senz.a alcun limite di natura legislativa o costituzionale, operante invece nelle. ipotesi di interventi cc.dd. in malam partem. La norma oggetto della questione di legittimita' costituzionale e' dunque destinata a trovare concreta applicazione, in caso di condanna, nel giudizio a quo. 6. La non manifesta infondatezza della questione. Oltre che rilevante, nei termini sopra precisati, la questione appare non manifestamente infondata, alla luce della condotta ascritta all'imputato, tale da poter fin d'ora escludere - dalla sola lettura del capo di imputazione e comunque dal tenore dell'art. oggetto dello stesso, in atti - che si versi in un'ipotesi di eccezionale gravita' (tale essendo, secondo la ricostruita giurisprudenza della Corte EDU, quella di grave violazione di diritti fondamentali, ovvero di odio razziale o discriminatorio o di incitatone alla violenza). Esulando da tali ipotesi eccezionali, la fattispecie concreta sub iudice e' destinata ad essere assoggettata ad un trattamento sanzionatorio che, per la sua stessa previsione in astratto e finanche ipotesi di sospensione condizionale della pena ovvero di commutazione in pena pecuniaria, ove possibile ai sensi degli articoli 53 ss. della legge 24 novembre 1981, n. 689, «Modifiche al sistema penale» (o finanche in ipotesi di commutazione da parte del Presidente della Repubblica, come nel caso oggetto della sentenza sopra esaminata Sailusti c. Italia), costituisce una violazione dell'art. 10 CEDU, per carenza del requisito di necessarieta', in termini di proporzione, tra l'ingerenza dello Stato membro e la liberta' di espressione, in una societa' democratica. In merito a tale ultimo inciso, va evidenziato che, nel caso di specie, l'articolo incriminato aveva ad oggetto l'esercizio della funzione giurisdizionale e, in specie, l'assoluzione in grado di legittimita' della persona offesa, cui tuttavia, nel titolo, si afferma aver ceduto la sostanza stupefacente al noto atleta Pantani, nonostante la successiva assoluzione perche' i fatti non sussistono. Il tenore dell'articolo e la qualita' professionale dell'imputato, dunque, consentono di ritenere pienamente operanti i principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nelle sentenze sopra esaminate. 6.1. L'impossibilita' di operare una interpretazione conforme. Come costantemente affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, prima di procedere a sollevare una questione di legittimita' costituzionale, il giudice a quo e' tenuto a procedere ad interpretazione della disposizione della cui legittimita' costituzionale si dubita, in senso conforme ai parametri di legittimita' invocati. Nel caso di specie, occorrerebbe interpretare l'art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 in senso conforme, o convenzionalmente orientato, all'art. 10 CEDU - quale parametro interposto di legittimita' costituzionale rispetto all'art. 117, comma primo, Cost. - come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nelle sopra analizzate pronunce. Ebbene, tale soluzione non e' praticabile nel caso di specie, dal momento che la disposizione dell'art. 13 cit. non lascia margini interpretativi utili a scongiurare l'irrogazione di una pena detentiva, in specie della reclusione, nei confronti dell'imputato. Va infatti considerato che presupposti della aggravante in questione, della «diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell'attribuzione di un fatto determinato», non consentono di distinguere la casistica di riferimento, scindendo le ipotesi eccezionali che giustificherebbero, secondo la Corte di Strasburgo, l'irrogazione di una pena detentiva, da quelle invece rispetto alle quali risulterebbe carente il requisito di necessarieta' sopra indicato. L'uso del mezzo della stampa e' un dato neutro rispetto ai contenuti del delitto di diffamazione e, nel contempo, il fatto determinato cui fa riferimento l'art. 13 cit. ben puo' integrare fattispecie diffamatorie dotate di eccezionale gravita', quanto ipotesi in cui non e' ravvisabile alcuna grave violazione di diritti fondamentali, ne' tantomeno alcuna forma di imitazione all'odio, alla discriminazione o alla violenza. Procedere ad un'interpretazione, sotto l'etichetta dell'interpretazione convenzionalmente o costituzionalmente orientata, tale per cui l'aggravante in questione sarebbe applicabile alle sole attribuzioni di fatti determinati, a mezzo stampa, integranti le predette o analoghe ipotesi eccezionali costituirebbe una forzatura di sistema, violativa del principio di legalita', tanto in relazione all'art. 25, comma secondo, Cost., quanto con riferimento all'art. 101 Cost. Si sconfinerebbe infatti in un'interpretazione creativa e arbitraria, slegata dal dato letterale, ed esorbitante rispetto alla funzione giurisdizionale. Ne' tantomeno e' possibile scongiurare l'applicazione dell'aggravante mediante l'espediente del concorso apparente di norme, di cui all'art. 15 c.p., ritenendo che la stessa possa essere esclusa, applicando il luogo dell'art. 13 cit. le aggravanti di cui ai commi secondo e terzo dell'art. 595 c.p., che prevedono invece in via alternativa la pena detentiva (cosi' consentendo al giudice, nel giudizio di merito, di modulare la risposta sanzionatoria a seconda della gravita' della condotta e dell'offesa derivatane). Le circostanze aggravanti di cui ai citati contriti secondo e terzo sono infatti formulate come circostanze indipendenti, ad effetto speciale, e prendono in considerazione, in maniera autonoma e distinta, l'attribuzione di un fatto determinato (secondo comma) e l'uso del mezzo della stampa (terzo comma). Ne deriva che la disposizione dell'art . 13 c.p., che invece ancora l'inasprimento sanzionatorio e la diversa specie di pena (in quanto cumulativa della pena detentiva e di quella pecuniaria) alla concorrente condizione dell'attribuzione di un fatto determinato a mezzo stampa, si pone in rapporto di specialita' rispetto alla disciplina dell'art. 595 codice penale ed e pertanto destinata a trovare applicazione, come nel caso di specie. E' infine superfluo, alla luce delle chiare prese di posizione della Corte europea dei diritti dell'uomo sul punto, ipotizzare che l'eventuale sospensione condizionale della pena (di cui l'imputato, incensurato, potrebbe beneficiare), ovvero la commutazione della stessa, nei limiti di legge, in pena pecuniaria, possano, in caso di condanna, scongiurare la violazione dell'art. 10 CEDU. Non verrebbe infatti meno l'effetto dissuasivo che la sola previsione e, a artiori, l'irrogazione della pena detentiva e' idoneo a produrre, in violazione della Convenzione. Infine, deve evidenziarsi che, stante la natura di circostanza aggravante dell'istituto disciplinato dal citato art. 13, la stessa potrebbe essere oggetto di bilanciamento ex art. 69 c.p., con neutralizzazione della pena detentiva in caso di equivalenza o prevalenza delle circostanze attenuanti, finanche nell'ipotesi di attenuanti generiche, ex art. 62-bis c.p. Tanto non escluderebbe tuttavia il predetto effetto dissuasivo che la sola previsione, in astratto, di una pena detentiva certa (perche' non alternativa rispetto alla pena pecuniaria), determina in capo a chi eserciti attivita' professionale di giornalista, nell'esercizio della liberta' di espressione ex art. 10 CEDU. Non si rinvengono pertanto soluzioni interpretative volte a prevenire il contrasto tra l'art. 13 legge 8 febbraio 1948, n. 47, in combinato disposto con l'art. 595 c.p., e gli invocati parametri costituzionali, si da richiedersi l'intervento della Corte costituzionale, perche' valuti nel merito la questione sollevata. 6.2. L'assenza di una immediata risposta legislativa da parte del legislatore L'assenza di una soluzione in via interpretativa e' aggravata dalla stasi del Legislatore che, nonostante la duplice condanna, sebbene articolata con riferimento a due analoghe fattispecie, nel 2013 e la recente conferma della violazione dell'art. 10 CEDU, con la sentenza Sallusti comma Italia, non ha allo stato adottato prowedirnenti idonei a prevenire nuove violazioni da parte dello Stato italiano. Proprio nella sentenza citata del 2019, la Corte europea dei diritti dell'uomo da' atto la Corte da' preliminarmente atto del parere reso dall'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa del 2013, n. 1920, intitolata «Lo stato della liberta' dei mezzi di informazione in Europa», col quale la Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, c.d. Commissione di Venezia, e' stata incaricata di redigere un parere in merito alla compatibilita' della legislazione italiana in materia di diffamazione con l'art. 10 della Convenzione. Tale parere, n. 715/2013, reso il 9 novembre 2013, menzionava il progetto di riforma all'epoca presentato al Parlamento, volto ad eliminare la pena detentiva della reclusione, limitando la risposta sanzionatoria alla sola pena pecuniaria, ritenuta tuttavia, ove di importo elevato, una «minaccia avente un effetto dissuasivo quasi pari alla reclusione», pur rappresentando comunque un miglioramento della legislazione nazionale. Il predetto progetto di riforma non e' stato approvato nell'ultimo quinquennio e, a seguito di nuova condanna dell'Italia da parte della Corte EDU, per la medesima violazione, con il nuovo disegno di legge A.C. 416 e' stata proposta l'abolizione della pena detentiva, mediante riscrittura dell'art. 13 cit., elevando nel contempo la pena pecuniaria a quella di 10.000 euro nel massimo edittale, ove sia riconosciuta l'aggravante speciale prevista dalla norma citata. Allo stato non e' tuttavia stata programmata la discussione del progetto di riforma innanzi all'apposita commissione, con la conseguenza che non e' dato prevedere una pronta soluzione del conflitto tra l'art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 e l'art. 10 CEDU per via legislativa nell'immediato, rendendo cosi attuale e inevitabile il procrastinarsi di una situazione di contrasto e violazione della Convenzione, con nuove probabili condanne per lo Stato italiano. 7. Gli effetti dell'accoglimento della questione e l'ammissibilita' della stessa Tanto premesso in merito alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della questione, con la stessa si chiede alla Corte costituzionale di sindacare la legittimita' costituzionale dell'art. 13 legge 8 febbraio 1948, n. 37, in combinato disposto con l'art. 595 c.p., nella parte in cui prevede l'irrogazione cumulativa della pena detentiva della reclusione da uno a sei anni e della pena pecuniaria della multa non inferiore a 256 euro, in relazione all'art. 117, comma primo, Cost. e al parametro interposto di legittimita' costituzionale dell'art. 10 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nelle summenzionate sentenze, chiedendo una pronuncia manipolativa del testo dell'aggravante a rendere alternative le pene in questione. Tale soluzione risulterebbe infatti in linea con le disposizioni dell'art. 595 c.p., che, proprio in casi analoghi a quelli presi in considerazione dall'art. 13 cit., e in specie dell'uso al mezzo della stampa e dell'addebito di un fatto determinato, prevedono la pena della reclusione o della multa. Nel contempo, come anticipato, consentirebbe al giudice di verificare in concreto la sussistenza delle circostanze eccezionali in cui la gravita' della condotta e dell'offesa che ne deriva giustifica l'irrogazione di una pena detentiva, lasciando cosi' un adeguato spazio discrezionale utile per conformare la decisione giurisdizionale nazionale ai principi dell'ordinamento CEDU in materia. Tale soluzione inoltre scongiura il rischio di una indebita intromissione nelle scelte politiche del legislatore, perche' in linea con l'impianto normativo codicistico, al pari di quanto rilevato nella recente sentenza 23 gennaio 2019, n. 40, depositata in data 8 marzo 2019, («La misura della pena individuata dal rimettente, benche' non costituzionahnente obbligata, non e' tuttavia arbitraria: essa si ricava da previsioni gia' rinvenibili nell'ordinamento, specificamente nel settore della disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti, e si colloca in tale ambito in modo coerente alla logica perseguita dal legislatore»), per-altro in questo caso con riferimento a norme tutt'ora vigenti e applicabili al medesimo delitto. Inoltre, mediante la sostituzione della congiunzione «e» con quella disgiuntiva «o», nell'incis «la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa», si consentirebbe, in attesa di un piu' incisivo intervento legislativo, da parte dell'organo a cio' costituzionalmente deputato, di evitare nuove violazioni, in ossequio dei principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nell'interpretare l'art. 10 CEDU e del disposto della Convenzione stessa, quali parametri di legittimita' richiamati implicitamente dall'art. 117, comma primo, Cost. Mediante la soluzione sommessamente prospettata si manterrebbe l'astratta possibilita' di irrogazione di una pena detentiva, solo alternativa, riservata, in ossequio dei predetti principi, alle summenzionate ipotesi di eccezionale gravita', a tutela dei contrapposti interessi, anche costituzionalmente e convenzionalmente rilevanti, che la fattispecie penale presidia.