CORTE DI APPELLO DI PALERMO 
 
    La Corte di appello di Palermo - Sezione I  penale  composta  dai
signori: 
        1) dott.ssa Adriana Piras - Presidente rel. est.; 
        2) dott. Mario Conte - consigliere; 
        3) dott.ssa Luisa Anna Cattina - consigliere, 
riunita in  camera  di  consiglio,  sciogliendo  la  riserva  assunta
all'udienza del 23 maggio  2019,  sentite  le  parti,  ha  emesso  la
seguente ordinanza di  rimessione  alla  Corte  costituzionale  e  di
contestuale sospensione del procedimento. 
    Con richiesta, pervenuta in data 9 aprile 2019, il  difensore  di
D.N.A. in atto detenuto presso la Casa circondariale di  Trapani,  in
forza di ordine di esecuzione emesso dalla Procura generale presso la
Corte di appello di Palermo in data 26 marzo 2019, chiede dichiararsi
la temporanea inefficacia dell'ordine di esecuzione della pena per la
durata di giorni trenta al fine  di  formulare  richiesta  di  misura
alternativa alla detenzione e,  in  subordine,  chiede  di  sollevare
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis della  legge
n. 354/1975, come modificato dall'art. 1,  comma  6  della  legge  n.
3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019; 
    Letti gli atti; 
    Premesso che, con sentenza resa da questa Corte  territoriale  il
24 aprile 2018, in parziale riforma della sentenza del  Tribunale  di
Marsala in data 9 febbraio 2015, irrevocabile per il D.N. il 13 marzo
2019, il predetto imputato e' stato condannato alla pena di anni tre,
mesi quattro di reclusione per il reato di cui  all'art.  319-quater,
comma 1 del codice penale; 
    Ritenuto,   preliminarmente,   che   l'istanza   di   sospensione
dell'esecuzione cosi' come proposta risulta  ammissibile.  Invero,  a
mente dell'art. 656 del codice di procedura penale,  come  modificato
dalla legge n. 165/1998, il pubblico ministero, fermo  il  dovere  di
emettere l'ordine di carcerazione per le pene detentive brevi,  deve,
contestualmente, sospenderne l'esecuzione con separato provvedimento,
assegnando al condannato un termine di trenta  giorni  per  formulare
richiesta di  misure  alternative.  Ne  consegue  che,  ove  non  sia
adottato il provvedimento di sospensione,  non  essendo  prevista  la
facolta' di proporre al pubblico ministero istanza di annullamento  o
di revoca dell'ordine di  carcerazione  legittimamente  emesso,  deve
pero'  essere  consentito  al  condannato  di  rivolgere  al  giudice
dell'esecuzione un'istanza di declaratoria di inefficacia  temporanea
del provvedimento che dispone la carcerazione, e cio' in applicazione
analogica  dell'art.  670  del  codice  di  procedura  penale   (cfr.
Cassazione - Sezione 1, sentenza n. 25538 del 10 aprile  2018  Cc.  -
dep. il 6 giugno 2018 - rv. 273105: «Il giudice  dell'esecuzione  non
puo' annullare l'ordine di esecuzione emesso dal  pubblico  ministero
senza il contestuale provvedimento di sospensione per pene  detentive
brevi, ma deve esclusivamente dichiararlo temporaneamente  inefficace
per consentire al condannato di presentare,  nel  termine  di  trenta
giorni, la richiesta di concessione di una  misura  alternativa  alla
detenzione»; Cassazione - Sezione I, sentenza n. 2430 del  17  giugno
1999 - udienza del 23 marzo 1999, Kola; rv. 213875); 
    Tanto premesso, in punto di fatto, risulta che nei confronti  del
D.N. e' stato emesso dalla Procura  generale  di  Palermo  ordine  di
carcerazione n. 222/2019 SIEP in data 26 marzo 2019 in relazione alla
pena di anni tre, mesi sei di reclusione inflitta al predetto per  il
reato di cui all'art. 319-quater, comma 1 del codice penale, commesso
il 9 giugno 2010, con sentenza  emessa  dalla  Corte  di  appello  di
Palermo il 24 aprile 2018, irrevocabile il 13 marzo 2019; 
    Tanto precisato, l'ordine di  esecuzione  di  cui  si  invoca  la
sospensione afferisce a pena detentiva infraquadriennale inflitta per
reato previsto attualmente dall'art. 4-bis della  legge  n.  354/1975
come ostativo alla applicazione di misure alternative alla detenzione
a seguito della modifica introdotta dall'art. 1, comma 6 della  legge
n. 3/2019, entrato in vigore il 31 gennaio 2019; 
    Al momento dell'emissione del suddetto ordine di carcerazione  il
D.N. si trovava in stato di liberta'; 
    La difesa invoca l'adozione di un  provvedimento  di  sospensione
alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata  del
precetto di cui all'art. 1, comma 6 della legge n. 3/2019,  sotto  il
profilo della sua possibile interpretazione quale  norma  sostanziale
piu' sfavorevole, inapplicabile retroattivamente a fatti -  come  nel
caso di specie - commessi prima della sua entrata in vigore; 
    In subordine, in difetto delle condizioni per  simile  operazione
ermeneutica, denuncia l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  1,
comma 6, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n.  3,  la'  dove  ha
inserito i  reati  contro  la  pubblica  amministrazione  tra  quelli
«ostativi» ai sensi dell'art. 4-bis della legge 26  luglio  1975,  n.
354, senza prevedere  un  regime  intertemporale  e,  in  ogni  caso,
laddove, ha inserito alcuni reati contro la pubblica amministrazione,
tra i quali quello di cui all'art. 319-quater del codice penale,  tra
quelli ostativi ai benefici di cui  all'art.  4-bis  della  legge  n.
354/1975, per contrasto con gli articoli 3, 24,  25,  comma  secondo,
27, comma 3, 117 della Costituzione e 7 della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
evidenziando che: 
        avendo riguardo al combinato  disposto  degli  articoli  656,
comma 9, lettera a) del codice di  procedura  penale  e  4-bis  della
legge 26 luglio 1975, n. 354, in relazione al delitto di cui all'art.
319-quater,  comma  1  del  codice  penale  (ormai   irrevocabilmente
ascritto al D.N.), inserito nel novero dei reati di cui  allo  stesso
art. 4-bis in virtu' della novella del 9 gennaio 2019, n. 3, non  sia
piu' possibile  sospendere  l'ordine  di  esecuzione  ai  fini  della
richiesta di misure alternative alla detenzione in stato di liberta'.
In assenza di una  disposizione  transitoria  regolativa  dei  limiti
temporali  di  applicazione  della  nuova   disciplina,   l'emissione
dell'ordine di carcerazione e' pertanto «obbligata», con una modifica
peggiorativa del trattamento penitenziario. Modifica peggiorativa  «a
sorpresa» atteso che, al momento in cui e' stato commesso  il  reato,
il D.N. poteva ragionevolmente  confidare  che  la  sanzione  sarebbe
rimasta  nei  limiti  di  operativita'  delle   misure   alternative.
Evidenzia, pertanto, come tale modifica in itinere delle «regole  del
gioco», in quanto del tutto imponderabile all'atto della  commissione
del reato,  si  ponga  in  evidente  contrasto  con  l'art.  7  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, come interpretato nella  giurisprudenza  della
Corte di  Strasburgo in  situazioni  analoghe  -  rilevante  ai  fini
dell'art. 117 della Costituzione  -,  la'  dove  viola  il  principio
dell'affidamento  quanto  alla   prevedibilita'   delle   conseguenze
sanzionatorie (v. per tutte Grande Camera 21 dicembre 2013,  Del  Rio
Prada contro Spagna); 
        sotto  diverso  aspetto,  pone  in  luce  come   la   novella
normativa, nel modificare le modalita' di  esecuzione  della  pena  -
tradizionalmente ritenute avere valenza meramente processuale - abbia
nondimeno inciso direttamente sul contenuto afflittivo della  pena  e
quindi sulla stessa «natura della sanzione», di  fatto  tramutata  da
«alternativa»  in   «detentiva».   Tenuta   presente   l'impostazione
«sostanzialistica»  ed  «antiformalista»  ormai   affermatasi   nella
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione
ad  istituti  che  presentano  marcati  tratti  di  analogia  con  il
peculiare regime esecutivo imposto per i reati di cui al citato  art.
4-bis (richiamata nuovamente la decisione della Grande Camera del  21
dicembre 2013, Del Rio Prada contro Spagna), i mutamenti con  effetti
concretamente peggiorativi sul regime della sanzione inflitta, devono
ritenersi  avere  natura,  non  processuale,  ma   sostanziale,   con
conseguente inapplicabilita' retroattiva; 
        infine, la difesa censura la costituzionalita'  dello  stesso
inserimento nel novero dei reati soggetti allo speciale regime di cui
al citato art. 4-bis dei delitti dei  pubblici  ufficiali  contro  la
pubblica amministrazione (in particolare, di quello di  cui  all'art.
319-quater, comma 1 del codice penale  che  viene  in  rilievo  nella
specie), in quanto in chiaro contrasto con  la  funzione  rieducativa
della pena. 
    Ritiene la Corte di non potere accedere  ad  una  interpretazione
costituzionalmente orientata  del  combinato  disposto  di  cui  agli
articoli 656, comma 9, lettera a) del codice di  procedura  penale  e
4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, come  modificato  dall'art.
1, comma 6 della legge 9 gennaio 2019, n. 3. 
    Invero, avuto riguardo al «diritto  vivente»,  quale  si  connota
alla luce del diritto positivo e della lettura giurisprudenziale fino
ad ora consolidata a seguito della decisione delle Sezioni unite  del
2006, le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e
le misure alternative alla detenzione, non riguardando l'accertamento
del reato e  l'irrogazione  della  pena,  ma  soltanto  le  modalita'
esecutive della stessa, sono da considerarsi norme penali processuali
e non sostanziali. 
    Pertanto sono soggette - in assenza di una  specifica  disciplina
transitoria - al principio tempus  regit  actum  e  non  alle  regole
dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art.
2 del codice penale e dall'art. 25 della Costituzione (Sezione  U  n.
24S61 del 30 maggio 2006, pubblico ministero in proc. A., rv. 233976;
Sezione 1, n. 46649 dell'11 novembre 2009, Nazar, rv. 245511; Sezione
1, n. 11580 del 5 febbraio 2013, Schifato, rv. 2SS310. Da ultimo;  VI
Sezione pen. n. 535 del 14 marzo 2019). 
    Tale principio  trova  conferma  in  una  decisione  della  Corte
costituzionale, intervenuta con riferimento alle  misure  alternative
in corso al momento dell'entrata in vigore del decreto-legge  n.  152
del 1991, la quale, pur osservando che la tesi  che  afferma  che  il
principio di irretroattivita' e' dettato,  oltre  che  per  la  pena,
anche per le disposizioni  che  ne  regolano  l'esecuzione  «potrebbe
meritare una seria riflessione», tuttavia ha chiarito che  «anche  in
materie non soggette al principio di  irretroattivita'  della  legge,
(...)  la  vanificazione  con  legge   successiva   di   un   diritto
positivamente riconosciuto da una legge precedente non puo' sottrarsi
al necessario scrutinio di ragionevolezza», con cio' assumendo che la
norma valutata - proprio l'inserimento della ostativita'  -  non  sia
soggetta al principio di irretroattivita' (cfr. Corte  costituzionale
n. 306/93; anche Corte  costituzionale  n.  376/97  ha  affermato  il
medesimo  principio  rispetto  all'applicazione  del  regime  di  cui
all'art. 41-bis O.P. ai reati commessi prima  della  sua  entrata  in
vigore   espressamente   precisando   che:   «...il   principio    di
irretroattivita' non  si  puo'  estendere  a  provvedimenti  che  non
incidono sulla  qualita'  e  quantita'  della  pena,  ma  solo  sulle
modalita'  di  esecuzione  della  pena  o  della  misura   detentiva,
nell'ambito delle regole  e  degli  istituti  che  appartengono  alla
competenza dell'amministrazione penitenziaria»). 
    Il principio va ribadito in questa sede, pur non  revocandosi  in
dubbio che, nella piu' recente giurisprudenza della Corte europea per
i diritti  dell'uomo,  ai  fini  del  riconoscimento  delle  garanzie
convenzionali, i concetti di illecito  penale  e  di  «pena»  abbiano
assunto  una  connotazione   «antiformalista»   e   «sostanzialista»,
privilegiandosi alla qualificazione formale data dall'ordinamento, la
valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonche' alle
modalita' di esecuzione della sanzione o della misura  imposta  (caso
Del Rio Prada contro Spagna del 21 ottobre 2013). 
    Cio' posto, ritiene la  Corte  che  vada,  in  linea  principale,
esaminata  la  questione,  rivestente  carattere  assorbente,   della
dedotta illegittimita' costituzionale dell'inclusione del delitto  di
cui all'art.  319-quater,  comma  1  del  codice  penale  tra  quelli
ostativi ai sensi del combinato disposto di cui  agli  articoli  656,
comma 9 del codice di procedura penale, 4-bis della legge n. 354/1975
e 1, comma 6, lettera b) della legge n. 3/2019. 
    Va precisato che occorre distinguere i due  piani  (quello  delle
modifiche delle condizioni per l'accesso alle  misure  alternative  e
quello della sospensione dell'ordine di esecuzione per consentire  la
richiesta delle misure alternative stando fuori dal  carcere),  piani
distinti che non devono essere confusi, in quanto,  in  questa  sede,
non  possono  essere  fatte   valere   richieste   o   questioni   di
incostituzionalita' dell'art.  4-bis  dell'ordinamento  penitenziario
poiche' il giudice dell'esecuzione non e' competente  in  materia  di
applicazione dei benefici penitenziari (vedi per tutte  Cassazione  -
Sezione 1, sentenza n. 24106 del 26 maggio 2009: «...  la  competenza
all'applicazione delle misure alternative alla detenzione, in ipotesi
di soggetto che fruisca della sospensione della pena,  appartiene  al
tribunale di  sorveglianza  del  luogo  ove  ha  sede  l'ufficio  del
pubblico ministero preposto all'esecuzione,  in  forza  della  regola
posta dall'art. 656, comma sesto del codice di procedura  penale,  la
quale deve ritenersi speciale rispetto al principio generale  di  cui
all'art. 677, stesso codice ...»),  ma  possono,  di  contro,  essere
proposte    richieste    o    essere    sollevate    questioni     di
incostituzionalita' dell'art. 656, comma 9 del  codice  di  procedura
penale, essendo pacificamente competenza del  giudice  di  esecuzione
decidere  se  l'ordine  di   esecuzione   possa   essere   dichiarato
temporaneamente inefficace per consentire il deposito dell'istanza di
misura alternativa (vedi per tutte Cassazione  -  Sezione  I  del  13
ottobre 2008, n. 41592 ma anche Cassazione - Sezione I, n.  852/1998:
«... ove, pur essendovi tenuto il pubblico ministero non  provveda  a
sospendere o a far cessare l'esecuzione dell'ordine di carcerazione a
seguito  dell'istanza  di  affidamento  in  prova   terapeutico,   il
richiedente puo' far valere eventuali doglianze mediante incidente di
esecuzione, trattandosi di questione che investe il titolo  esecutivo
... e il G.E. resta investito di un controllo limitato alla  verifica
del corretto esercizio del potere attribuito al pubblico ministero»). 
    Tanto puntualizzato, escluso che possa procedersi ad una  lettura
costituzionalmente orientata della norma, non sostenibile  alla  luce
del granitico orientamento innanzi richiamato -  e  che  pure  questa
Corte fa proprio - sulla natura processuale della norma in questione,
risulta rilevante nel  presente  procedimento  e  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art.  656,
comma 9, lettera a) del codice di  procedura  penale  come  integrato
dall'art. 4-bis della legge 26 luglio  1975,  n.  354,  a  sua  volta
modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b)  della  legge  9  gennaio
2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica
amministrazione,  ed  in  particolare  il  reato  di   cui   all'art.
319-quater, comma 1 del  codice  penale,  tra  quelli  ostativi  alla
concessione di alcuni benefici penitenziari e,  nella  specie,  dalla
possibilita' di richiedere - per una pena contenuta nei quattro  anni
- le misure alternative alla  detenzione  ai  sensi  dell'art.  4-bis
della legge 26 luglio 1975, n. 354, per contrasto con gli articoli  3
e 27, comma 3 della Costituzione. 
    Va premesso che si ritiene sussistere  in  capo  a  questa  Corte
territoriale   la   legittimazione   a   proporre   l'incidente    di
costituzionalita', essendo chiamata ad esercitare  una  effettiva  ed
attuale potestas decidendi proprio in relazione alla norma sospettata
di   incostituzionalita',    emettendo    all'esito    un    giudizio
potenzialmente definitivo del procedimento. 
    Invero, tenuto conto della natura processuale  della  norma,  con
riferimento al reato ascritto al D.N., la cui  condanna  e'  divenuta
irrevocabile il 13 marzo 2019, ossia dopo l'entrata in  vigore  della
novella n. 3/2019, e' stato emesso ordine di  esecuzione  della  pena
detentiva e non e' possibile disporre la sospensione  dell'esecuzione
ai sensi del combinato disposto dell'art. 656, comma 9 del codice  di
procedura   penale   in   base   all'art.   4-bis    dell'ordinamento
penitenziario (come novellato nel gennaio 2019). 
    Ne consegue  che,  se  la  denunciata  norma  venisse  dichiarata
incostituzionale, il D.N. potrebbe ottenere l'invocato  provvedimento
di sospensione dell'ordine di carcerazione. 
    Diversamente, non sarebbe ammesso a fruire di tale beneficio. 
    Esiste, dunque, un chiaro collegamento giuridico fra norma  della
cui costituzionalita' si dubita e regiudicanda  all'esame  di  questo
giudice,  tale  che   il   giudizio   non   possa   essere   definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
costituzionale,  che  avrebbe  ricadute  immediate  e  dirette  sulla
decisione. 
    Parimenti,   deve   ritenersi   sussistere   la   non   manifesta
infondatezza della questione proposta. 
    Si evidenziano, invero, profili di contrasto con il principio  di
ragionevolezza/eguaglianza (art. 3 della Costituzione), in quanto  la
scelta legislativa di inserire il menzionato reato contro la pubblica
amministrazione nel regime di  cui  all'art.  4-bis  dell'ordinamento
penitenziario  implica  l'estensione  al  delitto  di  cui   all'art.
319-quater, comma 1 del codice penale, di una peculiare  «presunzione
di pericolosita' che concerne i condannati per i delitti compresi nel
catalogo»,  che,   tuttavia,   pare   prevalere   «irragionevolmente»
sull'istanza rieducativa (art. 27/3 della Costituzione) che l'accesso
a misura  extramuraria  senza  osservazione  in  carcere  si  impegna
appunto a preservare. 
    In particolare, la novella, inserendo, tra gli altri, il  delitto
di cui all'art. 319-quater, comma 1 del codice penale, come  ostativo
alla possibilita' di accesso da liberi alle misure  alternative  alla
detenzione, da' luogo ad un trattamento  normativo  differenziato  di
situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalita' intrinseca alla
sospensione dell'ordine di esecuzione della  pena  detentiva  e  alle
garanzie apprestate in  ordine  alle  modalita'  di  incisione  della
liberta' personale del  condannato,  senza  che  sussistano  adeguati
indicatori che possano giustificare l'eccezione. 
    Inoltre, tale ostativita' sembra  contrastare  con  il  principio
costituzionale di cui all'art.  27,  comma  III  della  Costituzione,
ossia  con  la  finalita'  rieducativa  della  pena  nella   precipua
prospettiva di una indebita compressione  di  tale  principio  e  del
principio del «minimo sacrificio necessario» che  limita  il  ricorso
alla  massima  sanzione  custodiale,  in  quanto  priva   di   alcuna
indicazione specifica  che  avvalori  la  necessita'  di  un  forzoso
«assaggio di pena» e di una previa osservazione in carcere. 
    Cosi' esposta la questione, giova ricordare che, di recente,  con
ordinanza del 20  novembre  2018,  n.  57913,  la  Suprema  Corte  di
cassazione, accanto ad una serie di profili inerenti la stessa natura
dell'art. 4-bis O.P. e le peculiarita' del permesso premio (beneficio
richiesto  nel  caso  specifico),   richiamando   una   parte   della
giurisprudenza  costituzionale  che  ha  falcidiato  le   presunzioni
assolute di cui all'art. 275, comma 3 del codice di procedura penale,
con  particolare  riferimento  ai  reati  di   concorso   esterno   e
finalisticamente mafiosi, ha sostanzialmente  evidenziato  come  tale
decisione, insieme a quelle di segno analogo per altre  tipologie  di
reato, ha portato alla riformulazione  della  norma  ad  opera  della
legge n. 47 del 2015. Gli interventi citati hanno un filo  conduttore
comune: l'affermazione secondo cui  le  presunzioni  assolute  devono
essere  giustificate  -  per  essere   conformi   al   principio   di
ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione  -  da  peculiari
profili di pericolosita' («le  presunzioni  assolute,  specie  quando
limitano un diritto fondamentale della persona, violano il  principio
di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'  se  non
rispondono  a  dati  di  esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula dell'id quod plerumque accidit»: cfr. Corte costituzionale n.
139/2010). 
    La Corte costituzionale ha esplicitamente rimarcato che cio'  che
«vulnera i parametri costituzionali richiamati non e' la  presunzione
in se', ma il suo carattere assoluto, che implica una  indiscriminata
e totale negazione di rilevanza al principio del  "minore  sacrificio
necessario". La previsione, invece, di una presunzione solo  relativa
di adeguatezza della custodia carceraria  -  atta  a  realizzare  una
semplificazione del procedimento  probatorio,  suggerita  da  aspetti
ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile
da  elementi  di  segno  contrario  -  non   eccede   i   limiti   di
compatibilita'  costituzionale,  rimanendo   per   tale   verso   non
censurabile   l'apprezzamento   legislativo   circa   la    ordinaria
configurabilita' di esigenze cautelari nel grado piu' intenso»  (vds.
sentenze n. 110 del 2012, n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011 e  n.  265
del 2010). 
    Dunque,  i  giudici  delle  leggi  sono  pervenuti  a  dichiarare
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  275,  comma  3,  secondo
periodo del codice di procedura penale, come modificato dall'art.  2,
comma 1 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti  in
materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza  sessuale,
nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con  modificazioni,
dalla legge 23 aprile  2009,  n.  38,  «nella  parte  in  cui  -  nel
prevedere che, quando sussistono  gravi  indizi  di  colpevolezza  in
ordine ai delitti  commessi  avvalendosi  delle  condizioni  previste
dall'art.  416-bis  del  codice  penale  o  al  fine   di   agevolare
l'attivita' delle associazioni previste  dallo  stesso  articolo  del
codice penale, e' applicata la custodia cautelare in  carcere,  salvo
che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano
acquisiti elementi specifici, in  relazione  al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure. Nell'apprezzamento di queste ultime risultanze,  il
giudice dovra' valutare gli elementi specifici del caso concreto, tra
i quali l'appartenenza dell'agente ad associazioni  di  tipo  mafioso
ovvero la sua estraneita' ad esse». 
    Indubbiamente,   sussiste   un   ampio   margine   rimesso   alla
discrezionalita' legislativa nell'identificare  peculiari  situazioni
che suggeriscano di imporre un periodo di carcerazione in attesa  che
l'organo competente decida sulla misura  alternativa,  in  ragione  -
appunto - della particolare pericolosita' sottesa a  taluni  reati  e
posta  a  fondamento  della   ragione   ostativa   alla   sospensione
dell'ordine di esecuzione. 
    La questione, dunque, e' se  tale  presunzione  di  pericolosita'
sia, per l'ipotesi oggetto  del  presente  incidente  di  esecuzione,
irragionevole (cfr. Corte costituzionale n. 265/2010). 
    In tal senso  e'  stato  reiteratamente  affermato  che  la  mera
gravita' astratta del reato o il particolare rango del bene giuridico
- cosi' come ragioni di particolare allarme  sociale  ovvero  intenti
general-preventivi  -  non  possono  essere  di  per  se'  indici  di
pericolosita' valevoli a fondare la presunzione di adeguatezza  della
custodia cautelare, come  a  piu'  riprese  evidenziato  dalla  Corte
costituzionale ne' - per quanto sopra detto circa  la  comunanza  del
presupposto  -  possono  fondare  la  medesima  presunzione  in  sede
esecutiva. 
    Invero, la medesima ratio aveva ispirato il legislatore  delegato
della   riforma   dell'ordinamento   penitenziario,   proprio   nella
riformulazione (in senso riduttivo e  dunque  diametralmente  opposto
all'attuale tendenza) dell'art. 4-bis O.P. 
    In proposito, nella relazione illustrativa  dell'elaborato  della
Commissione  Orlando,  si  evidenziava  come  solo   eliminando   gli
«automatismi» e le «preclusioni impeditive o ritardanti l'avvio di un
percorso trattamentale individualizzante in  ragione  del  titolo  di
reato e  delle  caratteristiche  personali  del  condannato,  possono
evitarsi profili di illegittimita'  costituzionale»,  giustificandosi
eventuali  deroghe  solo  per  «i  casi  di  eccezionale  gravita'  e
pericolosita'  specificatamente  individuati  e  comunque  (per)   le
condanne per i delitti di mafia e terrorismo, ai quali possono essere
assimilati - quali  espressioni  degli  altri  "casi  di  eccezionale
gravita' e pericolosita' specificatamente  individuati"  -  anche  le
altre fattispecie gia' inserite nel primo comma, limitando gli  spazi
applicativi delle preclusioni, pero', alle sole ipotesi associative e
ai soggetti che rivestano un ruolo  apicale  in  seno  al  sodalizio,
fatta eccezione per alcuni delitti gia'  annoverati  nell'elencazione
del comma 1,  che,  per  loro  struttura,  implicano  l'esistenza  di
profili organizzativi. Il riferimento ultimo e'  ai  delitti  di  cui
all'art. 600 (Riduzione o mantenimento  in  schiavitu'  o  servitu'),
600-bis, comma 1, (Prostituzione minorile), 601 (Tratta di  persone),
609-octies (Violenza sessuale di gruppo)  del  codice  penale,  tutti
connotati, al di la' dell'aspetto formale di tipo monosoggettivo,  di
una sostanziale conformazione plurisoggettiva, ora per il riferimento
a modalita' organizzative che evocano la  compartecipazione  di  piu'
soggetti, ora  per  l'apprezzamento  casistico  della  corrispondente
fenomenologia criminale». 
    La soluzione legislativa non  e'  irragionevole  solo  se  amplia
l'orbita applicativa dell'art. 4-bis, comma 1, O.P. secondo parametri
di selezione oggettivi, tratti dalla disciplina esistente - ossia  da
scelte di politica criminale gia' compiute dal  legislatore  -  e  da
ragioni di ordine logico-sistematico,  che  puntano  a  riportare  il
meccanismo ostativo alla sua ispirazione originaria. 
    Invero, il rigido divieto di accesso ai benefici  extramurari  e'
stato introdotto, da un lato, per impedire che il potenziale fruitore
venga riassorbito nelle organizzazioni criminali di  appartenenza  in
caso di concessione di spazi di liberta'; dall'altro, per incentivare
la   collaborazione   con   la   giustizia,   elemento    considerato
indispensabile per debellare  consorterie  altrimenti  impenetrabili.
Presupposto giustificante la netta preclusione disciplinata al  comma
I risiede in una presunzione  di  stabilita'  del  legame  criminoso,
accompagnata dal forte rischio di riallacciamento dei contatti con la
criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, richiamato a  piu'
riprese dall'art. 4-bis O.P. come  cardine  del  regime  derogatorio.
Nelle ipotesi  «di  prima  fascia»  questo  rischio  deve  essere  di
intensita' tale  da  giustificare  una  presunzione  superabile  solo
mediante una proficua collaborazione,  unico  indice  in  grado,  per
legge,  di  sancire  il  distacco   definitivo   dal   sodalizio   di
appartenenza. 
    Dunque, la ratio del meccanismo preclusivo di cui all'art.  4-bis
ha assolto, fin dalla sua introduzione, alla funzione di  individuare
puntualmente una  serie  di  fattispecie  delittuose  considerate  di
particolare allarme sociale, per  riconnettervi  una  disciplina  del
trattamento penitenziario derogatoria rispetto  a  quella  ordinaria,
sulla base dell'assunto  che  la  lotta  ad  alcune  gravi  forme  di
criminalita'  sia  efficacemente  conducibile   (anche)   sul   piano
esecutivo della pena. 
    Se cosi' e', solo laddove la scelta legislativa  sia  conforme  a
tale spirito la disposizione novellata puo' essere immune da  censure
di irragionevolezza. 
    A tal proposito va ricordato che, nel  tempo,  la  giurisprudenza
costituzionale,  elaborata  in  sede   cautelare,   ha   imposto   al
legislatore di non creare  doppi  binari  fondati  sul  mero  allarme
sociale, bensi' su «ragioni giustificanti chiaramente riconoscibili». 
    Per contro, con l'art. 1, comma  6,  lettera  b)  della  legge  9
gennaio 2019, n. 3 - evocativamente definita «legge spazzacorrotti» -
il legislatore ha sancito l'ingresso  del  delitto  di  cui  all'art.
319-quater, comma 1  del  codice  penale,  e  di  altri  delitti  dei
pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione nel novero  dei
reati ostativi  di  cui  all'art.  4-bis,  comma  1  della  legge  n.
354/1975, integrante l'art. 656 del codice di  procedura  penale  per
effetto del quale gli autori dei delitti ivi contemplati sono esclusi
dall'accesso alla quasi totalita' dei benefici penitenziari  e  delle
misure  alternative  alla  detenzione,  a  meno   che   non   abbiano
collaborato   con   la   giustizia   ai   sensi   dell'art.    58-ter
dell'ordinamento  penitenziario  o,  in  virtu'   delle   innovazioni
apportate dalla  legge  in  commento,  «a  norma  dell'art.  323-bis,
secondo comma del codice penale». 
    Si tratta di una scelta che evidenzia  una  tendenza  legislativa
all'ampliamento degli automatismi preclusivi fondati  su  presunzioni
assolute di pericolosita' sociale, tendenza che, per quanto  concerne
la materia penitenziaria, trova il suo terreno di elezione e punto di
emersione principale proprio nel regime di cui all'art. 4-bis O.P. 
    Nella  relazione  introduttiva  al  disegno  di  legge  n.  1189,
presentato alla Camera dei deputati il 24  settembre  2018,  in  atti
parl. - Camera dei deputati, pp. 1-2,  la  scelta  legislativa  trova
questa testuale spiegazione: «il livello di corruzione percepita  nel
settore pubblico e' molto alto [...]. Recenti studi e  pubblicazioni,
indagini e procedimenti penali per fatti di corruzione  gravissimi  e
sistematici (alcuni dei quali hanno avuto anche vasta eco  mediatica)
mostrano come la corruzione e gli  altri  reati  contro  la  pubblica
amministrazione siano delitti seriali e pervasivi, che  si  traducono
in un fenomeno endemico, il quale alimenta mercati illegali, distorce
la concorrenza, costa alla collettivita' un prezzo  elevatissimo,  in
termini sia economici, sia sociali. Non  va  sottovalutato,  infatti,
che la distorsione delle funzioni amministrative altera i  meccanismi
della competizione fra imprese e fra individui, favorendone alcune  o
alcuni a danno di  altri,  a  prescindere  dalle  effettive  qualita'
imprenditoriali o professionali dei soggetti coinvolti. Ne  risultano
danneggiate complessivamente  l'economia,  la  crescita  culturale  e
sociale del Paese, l'immagine della  pubblica  amministrazione  e  la
fiducia stessa dei cittadini nell'azione amministrativa». 
    Ebbene, tale scelta legislativa con i  suoi  accennati  caratteri
estensivi   del   regime   preclusivo   previsto   nell'art.    4-bis
O.P. richiamato, per quel che rileva in questa  sede,  dall'art.  656
del  codice  di  procedura  penale,  sembra  muoversi  in   direzione
contraria rispetto ai  recenti  orientamenti  manifestati  sul  punto
dalla  Corte  costituzionale,  la  quale  ha  gradatamente  eroso  la
severita' delle preclusioni direttamente imposte dall'art. 4-bis o  a
questo indirettamente connesse. 
    Le censure di illegittimita'  costituzionale  della  norma  hanno
avuto quale principio base di riferimento la violazione del principio
rieducativo della pena ex art. 27, comma 3 della Costituzione. 
    In proposito, con la sentenza n. 306  del  1993,  la  Corte,  pur
salvando la disciplina dettata dall'art.  4-bis  in  base  alla  c.d.
teoria della polifunzionalita' della pena, ha tuttavia sottolineato -
limitatamente alla possibilita' di revoca  delle  misure  alternative
concesse  prima  dell'entrata  in   vigore   della   regolamentazione
restrittiva - l'irragionevolezza del requisito della  collaborazione,
definito pacificamente quale «uno strumento di politica  criminale  e
non [...] un indice di colpevolezza o criterio di individualizzazione
del trattamento». 
    Anche nelle pronunce  n.  504/1995  e  n.  137/1999  in  tema  di
permessi premio, nonche' n. 445/1997 in materia  di  semiliberta',  i
giudici costituzionali hanno valorizzato  il  principio  rieducativo,
sul versante della progressivita' del trattamento, affermando che  il
diniego  di  un  beneficio  non  puo'  essere  motivato  sulla   base
dell'assenza di collaborazione, a fronte di un  percorso  rieducativo
gia' in essere al momento di entrata in vigore  della  disciplina  di
cui all'art. 4-bis. 
    Il meccanismo preclusivo previsto dall'art.  4-bis,  comma  1  e'
stato avallato, invece, dalla sentenza 9-24 aprile 2003, n. 135 dalla
Corte costituzionale sulla base dell'asserita  assenza  di  qualsiasi
automatismo: ad avviso della Corte, infatti, «la preclusione prevista
dall'art. 4-bis, comma 1,  [..]  dell'ordinamento  penitenziario  non
[sarebbe]  conseguenza  che  discende  automaticamente  dalla   norma
censurata, ma  deriv[erebbe]  dalla  scelta  del  condannato  di  non
collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale  disciplina
non preclude[rebbe] pertanto  in  maniera  assoluta  l'ammissione  al
beneficio, in quanto al condannato e' comunque data  la  possibilita'
di cambiare la propria scelta» (cfr. Corte  costituzionale,  sentenza
9-24 aprile 2003, n. 135). 
    Ed ancora, con la sentenza n. 239/2014, la  Corte  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, nella parte
in  cui  non  esclude  dal  divieto  di  concessione   dei   benefici
penitenziari ivi previsto la detenzione domiciliare speciale  di  cui
all'art. 47-quinquies, nonche', per identita' di ratio, la detenzione
domiciliare contemplata all'art. 47-ter, comma 1, lettere a e  b;  in
maniera  speculare,  la  sentenza  n.  76/2017  ha  censurato  l'art.
47-quinquies, comma 1-bis, laddove preclude  alle  «madri  condannate
per taluno dei delitti di cui  all'art.  4-bis»  la  possibilita'  di
espiare la frazione di pena prevista dal comma 1 presso un istituto a
custodia attenuata o altro  luogo  di  privata  dimora,  al  fine  di
provvedere alla cura e assistenza dei figli minori degli anni dieci. 
    In entrambe le occasioni i giudici costituzionali hanno  ritenuto
prevalente l'interesse del minore, protetto dagli articoli 29,  30  e
31 della Costituzione, sulla necessita'  di  difesa  sociale  cui  e'
invece preposta la disciplina preclusiva. Cio' - si badi bene  -  non
in  virtu'  di  un'apodittica  asserzione  di  superiorita'  dell'uno
sull'altra,  bensi'  proprio  a  causa  dell'irragionevolezza   della
presunzione assoluta e del conseguente  automatismo  preclusivo,  che
escluderebbero  a   priori   qualsiasi   bilanciamento   tra   valori
contrapposti. 
    L'orientamento cosi' delineato e' stato, poi, riconfermato  nelle
ultime  pronunce  n.  149  e  n.  174  del  2018,  aventi  a  oggetto
rispettivamente  i  meccanismi  preclusivi  di  cui   agli   articoli
58-quater, comma 4 e 21-bis dell'ordinamento penitenziario,  entrambi
connessi all'art. 4-bis: la Corte e'  pervenuta,  con  queste  ultime
sentenze, a dichiarare nuovamente l'illegittimita' di due automatismi
fondati sulla assoluta presunzione di pericolosita'  sociale  di  cui
all'art. 4-bis, in quanto contrastanti con alcuni -  a  questo  punto
preminenti - principi costituzionali. Di cruciale importanza sono, in
particolare,  alcuni  passaggi  argomentativi   della   sentenza   n.
149/2018, in cui la Corte ha  censurato  la  norma  di  cui  all'art.
58-quater per violazione dell'art. 27, comma  3  della  Costituzione,
mettendo in luce il ruolo cardine  svolto  dai  benefici  contemplati
dall'art. 4-bis, comma 1, nell'ottica del «progressivo  reinserimento
armonico della persona  nella  societa',  che  costituisce  l'essenza
della finalita' rieducativa», della quale,  peraltro,  «il  principio
della  progressivita'  trattamentale  e  flessibilita'   della   pena
costituiscono diretta attuazione». 
    Ad avviso dei  giudici  costituzionali,  la  preclusione  di  cui
all'art. 58-quater, comma 4, in base  alla  quale  i  condannati  per
sequestro di persona  a  scopo  di  terrorismo,  di  eversione  o  di
estorsione (articoli 289-bis e 630 del  codice  penale)  che  abbiano
cagionato la morte del sequestrato «non sono ammessi  ad  alcuno  dei
benefici  indicati  nel  comma  1  dell'art.  4-bis  se  non  abbiano
effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata o,  nel
caso    dell'ergastolo,    almeno    ventisei    anni»,     impedisce
l'individualizzazione del trattamento e oblitera, di conseguenza, «il
principio  della  non  sacrificabilita'  della  funzione  rieducativa
sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena». 
    Dunque, deve concludersi che l'orientamento piu' recente  esprime
un'evidente tendenza della Corte a restringere le preclusioni  legate
ai reati ostativi. 
    Anche la Suprema Corte di cassazione si  e'  mossa  nel  medesimo
senso. 
    Si intende fare riferimento alle ordinanze con le quali i giudici
del  Supremo  collegio  hanno  sollevato  questione  di  legittimita'
costituzionale,   rispettivamente:   dell'art.   4-bis,    comma    1
dell'ordinamento penitenziario, per contrasto con gli articoli 3 e 27
della Costituzione, nella parte in cui non  esclude  dal  novero  dei
reati ostativi di prima fascia il sequestro di  persona  a  scopo  di
estorsione ex art. 630 del codice penale, qualora il fatto sia  stato
riconosciuto  di  lieve  entita',  attesa  l'irragionevolezza   della
presunzione di elevata  pericolosita'  sociale  in  questo  specifico
caso; dell'art. 4-bis, comma 1, per violazione degli articoli 3 e  27
della Costituzione, nella parte in  cui  esclude  che  il  condannato
all'ergastolo per delitti commessi avvalendosi  delle  condizioni  di
cui all'art. 416-bis del codice penale ovvero al  fine  di  agevolare
l'attivita'  delle  associazioni  ivi   previste,   che   non   abbia
collaborato   con   la   giustizia   ai   sensi   dell'art.    58-ter
dell'ordinamento penitenziario, possa essere ammesso  alla  fruizione
di  un  permesso  premio;  infine,  dell'art.  47-ter,  comma   1-bis
dell'ordinamento penitenziario, per contrasto  con  gli  articoli  3,
comma 1 e 27, comma 1 e 3 della  Costituzione,  nella  parte  in  cui
prevede che tale disposizione non si  applica  ai  condannati  per  i
reati di cui all'art. 4-bis. 
    Dunque, se la finalita' rieducativa della pena  assume  carattere
precipuo nella fase di esecuzione, indubbiamente le scelte ampliative
del regime di rigore di cui all'art. 4-bis che il legislatore  ha  da
ultimo compiuto con la legge  n.  3/2019,  suscitano  seri  dubbi  di
legittimita' costituzionale. 
    In  particolare,  gli  argomenti  impiegati  nella  sentenza   n.
149/2018, manifestano una netta presa di posizione  nel  senso  della
prevalenza della finalita' rieducativa rispetto alle  altre  funzioni
della pena. Ne discende la  censurabilita'  di  qualsiasi  meccanismo
legislativo  che,  attraverso  preclusioni  assolute  sostitutive  di
qualsiasi valutazione individualizzata  della  personalita'  e  della
pericolosita'  sociale,  sacrifichi   eccessivamente   il   principio
rieducativo al fine di soddisfare esigenze  punitive  ulteriori  che,
per quanto legittime, sono in ogni  caso  recessive  a  fronte  della
garanzia di cui all'art. 27 della Costituzione. 
    Proprio queste argomentazioni, hanno trovato, peraltro, riscontro
nella piu' recente giurisprudenza costituzionale, ove si e' rimarcato
che «l'esito  dello  scrutinio  di  legittimita'»  sulle  ipotesi  di
disallineamenti tra la sospensione dell'ordine  di  esecuzione  e  la
possibilita' di  fruire  dell'affidamento  in  prova  «dipende  [...]
dall'adeguatezza degli indicatori che nella visione  del  legislatore
dovrebbero opporsi all'esigenza della coerenza  sistematica,  fino  a
poter prevalere su di essa» (cfr. Corte costituzionale,  sentenza  n.
41  del  2018,  che  ha  dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 656, comma 5 del codice di procedura  penale,  riscontrando
non  «un  mero  difetto  di  coordinamento»  bensi'  un  difetto   di
ragionevolezza  -  e  dunque  una  violazione   dell'art.   3   della
Costituzione - nel mancato  adeguamento  legislativo  -  del  termine
previsto per sospendere l'ordine di esecuzione della pena  detentiva,
in  modo  da  renderlo  corrispondente  al  termine  di   concessione
dell'affidamento  in  prova   allargato   (quattro   anni);   mancato
adeguamento operato  «senza  alcuna  ragione  giustificatrice,  dando
luogo a un  trattamento  normativo  differenziato  di  situazioni  da
reputarsi uguali, quanto alla finalita' intrinseca  alla  sospensione
dell'ordine di  esecuzione  della  pena  detentiva  e  alle  garanzie
apprestate in ordine  alle  modalita'  di  incisione  della  liberta'
personale del condannato». 
    Cosi' la citata sentenza n. 41 del 2018, sottolineando  ancora  -
appunto con riferimento all'affidamento in prova al servizio  sociale
- che «[l]a natura servente dell'istituto [...] lo espone  a  profili
di incoerenza normativa ogni qual volta venga spezzato  il  filo  che
lega la  sospensione  dell'ordine  di  esecuzione  alla  possibilita'
riconosciuta   al   condannato   di   sottoporsi   ad   un   percorso
risocializzante che non includa il trattamento carcerario». 
    Alla stregua di tali argomenti, ritiene questa  Corte  che  possa
giungersi a rilevare un difetto  di  ragionevolezza  nell'inclusione,
rilevante - in questa  sede  -  ai  fini  della  non  sospendibilita'
dell'ordine di esecuzione emesso nei confronti del D.N., del  delitto
di cui all'art. 319-quater, comma I del codice penale,  attratto  ora
nell'orbita dell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario. 
    Nessun particolare  indicatore  segnala  la  necessita'  -  anche
nell'ipotesi qui rilevante dell'induttore di cui al comma I dell'art.
319-quater  del  codice  penale  di   abbandonare   «l'obiettivo   di
risparmiare il carcere al  condannato»,  segnalato  come  prioritario
dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 569 del  1989  e
perseguito «al massimo grado» dal legislatore sin dalla legge n.  165
del 1998, consentendo a chi  si  trovava  in  stato  di  liberta'  la
possibilita' di accedere all'affidamento in prova, ossia  una  misura
«specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle
mura del carcere». 
    Di qui la possibile violazione dell'art.  3  della  Costituzione,
anche nella precipua prospettiva di  una  indebita  compressione  del
principio rieducativo (art. 27/3 della Costituzione), e del principio
del «minimo sacrificio necessario» che limita il ricorso alla massima
sanzione custodiale. 
    La deroga ad una simile scelta, dunque, e'  deroga  al  principio
rieducativo, e come tale - per  essere  ammissibile  -  deve  trovare
fondamento in una valutazione capace di giustificare l'eccezione alla
luce  della   necessaria   tutela   di   valori   di   pari   rilievo
costituzionale, appunto «nei limiti della ragionevolezza». 
    Ora, nella scelta di  ricomprendere  tra  i  reati  «ostativi»  i
menzionati  reati  contro  la   pubblica   amministrazione,   ed   in
particolare l'art. 319-quater, comma 1 del codice  penale,  non  pare
possibile rintracciare - tra gli interessi perseguiti dal legislatore
e contrapposti all'istanza rieducativa - altre  valutazioni  che  non
siano di schietto ordine generalpreventivo e  di  mera  «deterrenza»,
nulla avendo a che fare la misura - e il  periodo  di  «osservazione»
intramuraria  -  con   peculiarita'   trattamentali   imposte   dalle
connotazioni strutturali del reato in  rilievo  (e/o  delle  relative
tipologie di autore), alla stregua di quanto sopra esposto. 
    Giova ricordare, a supportare  tale  argomentare,  che  la  Corte
costituzionale, in una recente pronuncia in  tema  di  ergastolo,  ha
espressamente affermato  il  «principio  della  non  sacrificabilita'
della funzione rieducativa sull'altare di ogni altra, pur  legittima,
funzione della pena», prima fra tutte la funzione  generalpreventiva,
posto che tale «pur legittima» finalita'  non  puo'  «nella  fase  di
esecuzione  della  pena,  operare  in   chiave   distonica   rispetto
all'imperativo costituzionale della funzione rieducativa  della  pena
medesima,  da  intendersi  come  fondamentale  orientamento  di  essa
all'obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella societa'»
(cosi' la sentenza n. 149  del  2018,  punto  7,  che  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 58-quater,  comma  4  della
legge n. 354 del 1975,  nella  parte  in  cui  esclude  dai  benefici
indicati dall'art. 4-bis, comma 1 della legge  citata,  i  condannati
all'ergastolo per il delitto di cui all'art. 630 del codice penale  -
e per il delitto di cui all'art. 289-bis  del  codice  penale  -  che
abbiano cagionato la morte del sequestrato, ove non abbiano raggiunto
la soglia dei ventisei anni di pena concretamente espiata;  decisione
che dunque riconosce «l'inderogabilita'» dell'unica  finalita'  della
pena enunciata nella Costituzione). 
    Ed in questa prospettiva e' dunque apprezzabile il contrasto  con
l'art. 27/3 della  Costituzione,  nel  prisma  della  valutazione  di
ragionevolezza che, appunto, fonda e  limita  la  legittimita'  delle
relative deroghe. La prospettata questione e' rilevante nel  presente
giudizio, potendo il D.N., in caso di dichiarata incostituzionalita',
ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, aprendosi
per lui il termine  di  trenta  giorni  per  proporre  richiesta,  da
libero, di misure alternative alla detenzione per l'esecuzione  della
pena. 
    Alla  stregua  di  quanto  sopra  argomentato  va  sollevata   la
questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  656,  comma  9,
lettera a) del codice di procedura penale, come  integrato  dall'art.
4-bis della legge n. 354/1975, a sua volta  modificato  dall'art.  1,
comma 6, lettera b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte  in
cui ha inserito i reati contro la  pubblica  amministrazione  ed,  in
particolare, l'art. 319-quater, comma I del codice penale, tra quelli
ostativi alla concessione del beneficio penitenziario di cui all'art.
4-bis della legge 26 luglio 1975,  n.  354,  per  contrasto  con  gli
articoli 3 e 27, comma 3 della Costituzione. 
    Parimenti, ma in via  subordinata,  la  prospettazione  difensiva
secondo la quale l'avere il legislatore cambiato in itinere le «carte
in tavola» senza prevedere alcuna norma transitoria  presenti  tratti
di dubbia conformita' con l'art. 7 della Convenzione europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  e,
quindi, con l'art. 117 della Costituzione, la' dove si  traduce,  per
il D.N., nel passaggio - «a sorpresa» e dunque non prevedibile  -  da
una sanzione «senza assaggio di pena» ad una sanzione con  necessaria
incarcerazione appare non manifestamente infondata. 
    Tali  considerazioni,  tuttavia,  non  possono  condurre  ad  una
«interpretazione costituzionalmente orientata» di una  norma  la  cui
natura rimane, come detto, squisitamente processuale  e  soggetta  al
tempo di applicazione. 
    Pongono, al contrario, un serio  profilo  di  incostituzionalita'
per assenza di previsione  di  un  regime  intertemporale  che  renda
espressamente applicabile la nuova regola processuale ai  soli  reati
commessi prima dell'entrata in vigore della novella. 
    Tanto puntualizzato, la questione posta all'attenzione di  questo
giudice dell'esecuzione puo' essere cosi' esemplificata: premesso che
l'art. I, comma 6, lettera b) della recente legge n. 3/2019 - che  ha
inserito nell'elenco del 4-bis dell'ordinamento  penitenziario  anche
l'art. 319-quater, comma 1 del codice penale  -  non  prevede  alcuna
norma di diritto intertemporale, dev'essere verificato se il disposto
di cui al comma 9, lettera a) dell'art. 656 del codice  di  procedura
penale, nella parte modificata a seguito  della  novella  legislativa
possa  trovare  applicazione   anche   per   fatti   commessi   prima
dell'entrata in vigore della predetta novella ma in cui  l'esecuzione
sia iniziata successivamente. 
    Escluso che possa procedersi ad  una  lettura  costituzionalmente
orientata della  norma,  non  sostenibile  alla  luce  del  granitico
orientamento innanzi richiamato, e che pure questa Corte fa  proprio,
sulla natura processuale della norma in questione, risulta  rilevante
nel presente procedimento e non manifestamente infondata la questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 656,  comma  9,  lettera  a)
come integrato dall'art. 4-bis della legge 26 luglio  1975,  n.  354,
come modificato dell'art. 1,  comma  6,  lettera  b)  della  legge  9
gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito il  reato  di  cui
all'art. 319-quater, comma 1 del codice penale, tra  quelli  ostativi
alla concessione di alcuni benefici penitenziari ai  sensi  dell'art.
4-bis della legge 26 luglio 1975,  n.  354,  per  contrasto  con  gli
articoli 3 e 25, comma 2, e 117  della  Costituzione  in  riferimento
all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, senza  prevedere  un  regime
transitorio che dichiari applicabile la norma ai soli fatti  commessi
successivamente alla sua entrata in vigore. 
    Va premesso che si ritiene sussistere  in  capo  a  questa  Corte
territoriale   la   legittimazione   a   proporre   l'incidente    di
costituzionalita', essendo chiamata ad esercitare  una  effettiva  ed
attuale potestas decidendi proprio in relazione alla norma sospettata
di   incostituzionalita',    emettendo    all'esito    un    giudizio
potenzialmente definitivo del procedimento. 
    Invero, tenuto conto della natura processuale  della  norma,  con
riferimento al reato ascritto al D.N., la cui  condanna  e'  divenuta
irrevocabile il 13 marzo 2019, ossia dopo l'entrata in  vigore  della
novella n. 3/2019, e' stato emesso ordine di  esecuzione  della  pena
detentiva e non e' possibile disporre la sospensione  dell'esecuzione
ai sensi del combinato disposto dell'art. 656, comma 9 del codice  di
procedura   penale   in   base   all'art.   4-bis    dell'ordinamento
penitenziario (come novellato nel gennaio 2019). 
    Ne  consegue  che  se  la  denunciata  norma  venisse  dichiarata
incostituzionale il D.N. potrebbe ottenere  l'invocato  provvedimento
di sospensione dell'ordine di carcerazione. 
    Diversamente, non sarebbe ammesso a fruire di tale beneficio. 
    Esiste dunque un chiaro collegamento giuridico  fra  norma  della
cui costituzionalita' si dubita e regiudicanda  all'esame  di  questo
giudice,  tale  che   il   giudizio   non   possa   essere   definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
costituzionale,  che  avrebbe  ricadute  immediate  e  dirette  sulla
decisione. 
    Sussiste,  pertanto,  il  requisito  della  rilevanza  stante  la
pregiudizialita'   necessaria   della   questione   di   legittimita'
costituzionale rispetto alla  decisione,  sempre  subordinatamente  a
quella prospettata in via principale. 
    Parimenti,   deve   ritenersi   sussistere   la   non   manifesta
infondatezza  della  questione  proposta,  sussistendo   profili   di
incostituzionalita' dell'art. 656, comma 9, lettera a) del codice  di
procedura   penale   in   base   all'art.   4-bis    dell'ordinamento
penitenziario (come novellato nel gennaio  2019)  in  relazione  agli
articoli 3, 25, comma 2, 27 e 117 della Costituzione (come  integrato
dall'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali). 
    Ed invero, il differente regime introdotto, senza  la  previsione
di una  norma  transitoria  con  riguardo  ai  reati  commessi  prima
dell'entrata  in  vigore  della  legge  n.  3/2019,  in  quanto   non
accessibile ne' prevedibile al momento di commissione del fatto, pare
porsi in aperto contrasto con l'interpretazione, ormai  consolidatasi
presso la Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  con  riferimento  a
diversi istituti implicanti, come  nel  caso  di  specie,  variazioni
delle modalita' esecutive della pena. 
    In particolare, giova richiamare la sentenza  resa  dalla  Grande
camera della Corte di Strasburgo in data 21 dicembre 2013,  nel  caso
Del Rio Prada contro Spagna, con la quale - ravvisando una violazione
dell'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ai sensi del quale «...  non
puo' essere inflitta una pena piu' grave  di  quella  applicabile  al
momento in cui  il  reato  e'  stato  commesso»,  tale  principio  ha
applicato al  caso  della  «redencion  de  penas  por  trabajo»  (che
consentiva uno sconto di pena di un giorno ogni due giorni di  lavoro
intramurario), istituto abrogato del nuovo codice penale del 1995  ma
mantenuto in via transitoria per i soggetti condannati sulla base del
codice previgente, ossia un istituto  assimilabile  alla  liberazione
anticipata prevista dal nostro  ordinamento.  In  particolare,  nella
richiamata sentenza, si  e'  chiaramente  delineato  il  concetto  di
«pena» e la sua «portata», evidenziando che: «il concetto  di  "pena"
previsto all'art. 7, § 1 della Convenzione e',  come  la  nozione  di
"diritti e doveri di carattere  civile"  e  "accusa  penale"  di  cui
all'art. 6, § 1, un concetto della Convenzione autonomo. Per  rendere
effettiva la protezione offerta dall'art. 7, la Corte  deve  rimanere
libera di andare oltre  le  apparenze  e  valutare  da  sola  se  una
particolare misura equivale in sostanza a  una  "pena"  ai  sensi  di
questa disposizione (si vedano Welch contro Regno Unito: sentenza del
9 febbraio 1995, Serie A, n. 307-A e Jamil contro Francia,  8  giugno
1995, § 35, Serie A, n. 317-B)». 
    Nel ribadire che  «il  punto  di  partenza  di  ogni  valutazione
dell'esistenza di una pena e' se la misura in questione e' inflitta a
seguito di condanna per un  "reato",  si  e'  precisato  che:  "Altri
fattori  che  possono  essere  presi  in  considerazione  in   quanto
rilevanti a tale riguardo sono la natura e il fine della  misura;  la
sua caratterizzazione  in  base  al  diritto  interno;  le  procedure
relative all'emanazione e  all'attuazione  della  misura;  e  la  sua
gravita' (si vedano Welch, sopra citata, § 28; Jamil, sopra citata)». 
    Inoltre, si e' puntualizzato che «Sia la Commissione sia la Corte
hanno delineato nella loro giurisprudenza  una  distinzione  tra  una
misura che costituisce in  sostanza  una  "pena"  e  una  misura  che
riguarda "l'esecuzione" o "l'applicazione" della "pena". 
    Conseguentemente, se la natura e il fine della misura riguarda la
detrazione  di  pena  o  una  modifica  del  regime  di   liberazione
anticipata, essa non fa parte della pena ai  sensi  dell'art.  7  (si
vedano, tra altri precedenti, Hogben,  sopra  citata;  Hosein,  sopra
citata;  L.  G.  R.  contro  Svezia,  n.  27032/95,  decisione  della
Commissione del 15 gennaio 1997; Grava, sopra citata, §  51;  Uttley,
sopra citata; Kafkaris, sopra citata; § 142;  Monne  contro  Francia,
(dec.), n. 39420/06,  1°  aprile  2008;  M.  contro  Germania,  sopra
citata, § 121; e Giza contro Polonia, (dec.), n. 1997/11,  §  31,  23
ottobre 2012). Nella causa Uttley, per esempio, la Corte ha  ritenuto
che le modifiche apportate alle norme  sulla  liberazione  anticipata
successivamente alla condanna del ricorrente non  gli  fossero  state
"inflitte" ma che facessero parte del regime generale applicabile  ai
detenuti, e lungi dall'essere punitivi, la natura  e  il  fine  della
"misura" erano di consentire la liberazione anticipata, pertanto  non
potevano essere considerati intrinsecamente  "severe".  La  Corte  ha
conseguentemente ritenuto che l'applicazione al ricorrente del  nuovo
regime di liberazione anticipata non facesse parte della  "pena"  che
gli era stata inflitta». 
    «Nella causa Kafkaris, in cui delle modifiche della  legislazione
penitenziaria avevano privato dei  detenuti  che  espiavano  la  pena
dell'ergastolo - compreso il ricorrente - del diritto alle detrazioni
di pena, la Corte riteneva che le modifiche riguardavano l'esecuzione
della pena e non la pena inflitta al ricorrente, che rimaneva  quella
dell'ergastolo.  Essa  spiegava  che  benche'  le   modifiche   della
legislazione penitenziaria e delle condizioni di liberazione potevano
aver reso piu' dura la  reclusione  del  ricorrente,  non  si  poteva
interpretare che tali modifiche infliggessero una "pena" piu' pesante
di quella inflitta dal tribunale del merito.  Essa  ribadiva  a  tale
riguardo che le questioni relative  alle  politiche  di  liberazione,
alla loro modalita' di attuazione e al ragionamento che e' alla  loro
base rientrano nei poteri degli  Stati  parti  della  Convenzione  di
determinare la propria  politica  penale  (si  vedano  Achour,  sopra
citata, § 44 e Kafkaris, sopra citata, § 151). 
    Ma la medesima  Corte  ha  tuttavia  riconosciuto  anche  che  in
pratica la distinzione tra una misura che costituisce  una  "pena"  e
una misura  che  riguarda  "l'esecuzione"  e  "l'applicazione"  della
"pena" puo' non essere  sempre  chiara  (si  vedano  Kafkaris,  sopra
citata, § 142; Gurguchiani, sopra citata, § 31; e M. contro Germania,
sopra citata, § 121). 
    Per di piu' chiaramente da  detta  sentenza  si  ricava  che  "il
termine "inflitta" utilizzato nella sua seconda frase non puo' essere
interpretato  nel  senso  di  escludere  dal  campo  di  applicazione
dell'art. 7, § 1, tutte le  misure  introdotte  successivamente  alla
pronuncia della condanna. Essa  ribadisce  a  tale  riguardo  che  e'
estremamente  importante  che  la  Convenzione  sia  interpretata   e
applicata in modo da rendere i suoi diritti pratici ed effettivi, non
teorici e illusori (si vedano Hirsi Jamaa e Altri contro Italia [GC],
n. 27765/09, § 175 della Convenzione europea per la salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali 2012, e Scoppola  (n.
2), sopra citata, § 104)». 
    Pertanto, si e' cosi' statuito: «Alla luce di  quanto  sopra,  la
Corte  non  esclude  la  possibilita'  che  le  misure  adottate  dal
legislatore,  dalle  autorita'   amministrative   o   dai   tribunali
successivamente all'inflizione della pena  definitiva,  o  nel  corso
dell'espiazione della pena, possano comportare la ridefinizione o  la
modifica della portata della pena inflitta dal tribunale del  merito.
Quando cio' accade,  la  Corte  ritiene  che  le  misure  interessate
dovrebbero  rientrare  nell'ambito  del   divieto   di   applicazione
retroattiva delle pene previsto dall'art.  7,  §  1,  in  fine  della
Convenzione. 
    Diversamente,  gli  Stati  sarebbero   liberi   -   per   esempio
modificando la legislazione o reinterpretando i regolamenti stabiliti
- di adottare  delle  misure  che  ridefinivano  retroattivamente  la
portata della pena inflitta, a svantaggio della  persona  condannata,
quando quest'ultima non avrebbe potuto immaginare  tale  sviluppo  al
momento in cui e' stato commesso il reato  o  e'  stata  inflitta  la
pena. In tali condizioni l'art. 7, § 1, sarebbe  privo  di  qualsiasi
effetto utile per le persone condannate a pene delle quali  e'  stata
modificata la portata ex post  facto  a  loro  svantaggio.  La  Corte
sottolinea che tali modifiche devono essere distinte dalle  modifiche
apportate alla modalita' di esecuzione della pena, che non  rientrano
nel campo di applicazione dell'art. 7, § 1, in fine». 
    «Per determinare se una misura adottata nel corso dell'esecuzione
di una pena riguarda solo la modalita' di esecuzione della pena o, al
contrario, incide sulla sua  portata,  la  Corte  deve  esaminare  in
ciascun caso che cosa comportava effettivamente la "pena" inflitta in
base al diritto interno in vigore al momento pertinente, o  in  altre
parole, quale era la sua natura intrinseca. Nel fare cio'  essa  deve
considerare il diritto interno nel suo complesso e la  modalita'  con
cui esso era applicato al momento pertinente (si veda Kafkaris, sopra
citata, § 145)». 
    A supportare  il  dato  di  «non  manifesta  infondatezza»  della
questione in esame, soccorre la recente pronuncia della Suprema Corte
- Sezione VI penale n. 12541 del 14  marzo  2019,  nella  quale,  pur
precisandosi  che  la  questione  non  atteneva  alla   sentenza   di
applicazione della pena oggetto del ricorso in Cassazione, tuttavia i
giudici del Supremo collegio hanno  evidenziato  che:  «...  l'omessa
previsione di una disciplina transitoria circa l'applicabilita' della
disposizione  (come  novellata)  possa  suscitare  fondati  dubbi  di
incostituzionalita' in relazione ai riverberi processuali sull'ordine
di esecuzione, in quanto non  piu'  suscettibile  di  sospensione  in
forza della previsione dell'art. 656, comma 9 del codice di procedura
penale». 
    Ed  invero,  appare  fonte  di   ingiustificata   disparita'   di
trattamento ex art. 3 della Costituzione la novella del 2019 che pone
sullo stesso piano, sotto il profilo della esecuzione della pena, chi
ha commesso il reato potendo contare su un impianto normativo che gli
avrebbe consentito di non scontare in carcere una pena, eventualmente
residua, inferiore a quattro anni, e chi ha commesso  o  commette  il
reato dopo l'entrata in vigore della legge  9  gennaio  2019,  n.  3,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 16 gennaio 2019, n. 13. 
    Ancora, la norma presenta, nella parte in cui non ha previsto una
disposizione di diritto  intertemporale,  profili  di  non  manifesta
infondatezza di illegittimita' costituzionale per  contrasto  con  il
disposto del comma 2 dell'art. 25  della  Costituzione,  per  i  suoi
indubbi riflessi sostanziali in punto di  esecuzione  della  pena  in
concreto, cosi' come intesa nella piu' recente  giurisprudenza  della
Corte europea per  i  diritti  dell'uomo,  in  quanto  frutto  di  un
cambiamento delle regole successivo alla data del commesso reato. 
    Infine, appare contrastante con l'art.  117  perche'  l'avere  il
legislatore cambiato in itinere le regole sull'esecuzione della  pena
per taluni reati senza prevedere alcuna  norma  transitoria  presenta
tratti di non conformita' con l'art. 7 della Convenzione europea  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali
e, quindi, con l'art. 117 della Costituzione, laddove si traduce, per
il D.N., nel passaggio a sorpresa e non prevedibile, al momento della
commissione del reato, alla sanzione con necessaria incarcerazione. 
    La prospettata questione  e'  rilevante  nel  presente  giudizio,
potendo di D.N., in caso di dichiarata incostituzionalita',  ottenere
l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, aprendosi per  lui
il termine di trenta giorni per proporre  richiesta,  da  libero,  di
misure alternative alla detenzione per l'esecuzione della pena. 
    Alla  stregua  di  quanto  sopra  argomentato  va  sollevata,  in
subordine rispetto a quella principale, la questione di  legittimita'
costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a) del codice  penale,
come integrato dall'art. 4-bis della legge n. 354/1975, a  sua  volta
modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b)  della  legge  9  gennaio
2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica
amministrazione ed, in particolare, l'art. 319-quater,  comma  1  del
codice penale, tra quelli ostativi  alla  concessione  del  beneficio
penitenziario di cui all'art. 4-bis della legge 26  luglio  1975,  n.
354, per contrasto con gli articoli 3,  25,  comma  2,  e  117  della
Costituzione come integrato dall'art. 7 della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
senza prevedere un regime transitorio  che  dichiari  applicabile  la
norma di cui all'art. 1, comma 6, lettera b) della  legge  9  gennaio
2019, n. 3 ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in
vigore. 
    Consegue la sospensione  del  presente  processo  e  l'ordine  di
trasmettere gli atti immediatamente alla Corte costituzionale nonche'
di notificare la presente ordinanza al Presidente del  Consiglio  dei
ministri e comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.