IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA 
                             di Potenza 
 
    L'anno 2019 il giorno 19 del  mese  di  giugno  il  Tribunale  di
sorveglianza, riunito  in  camera  di  consiglio  nelle  persone  dei
componenti: 
        1) dott.ssa Paola Stella, Presidente; 
        2) dott.ssa Michela Tiziana Petrocelli, magistrato; 
        3) dott. Guglielmo Scoscia, esperto; 
        4) dott.ssa Viviana Festa, esperto, 
per deliberare sul reclamo ex art. 30-bis O.P. proposto da D.G. M.P.,
nato a /// il ///, ristretto presso la  casa  circondariale  di  ///,
avverso il decreto  n.  299/2019  emesso  il  20  febbraio  2019  dal
magistrato  di  sorveglianza  di  Potenza   di   declaratoria   della
inammissibilita' della istanza di  permesso  premio  ex  art.  30-ter
O.P., a scioglimento della riserva di cui al verbale di udienza; 
    Sentiti il difensore ed  il  P.G.  che  hanno  concluso  come  da
verbale; 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    D.G. M.P., sopra generalizzato, e' ristretto in espiazione  della
condanna alla pena di anni otto di reclusione inflitta  con  sentenza
emessa dalla Corte di appello di Potenza in data  30  settembre  2016
irrevocabile l'8 agosto 2017 con pena residua  di  anni  sette,  mesi
otto  e  giorni  ventiquattro  di  reclusione  (come  da  ordine   di
esecuzione pena n. SIEP 168/2017, emesso in data 9 agosto 2017  dalla
Procura generale della Repubblica  presso  la  Corte  di  appello  di
Salerno) in relazione ai reati di cui agli articoli 81, comma 2 c.p.;
317 c.p.; art. 317 c.p.; articoli 110-81,  comma  2;  319  c.p.,  con
decorrenza pena dal 9 agosto 2017 e fine pena al 17 dicembre 2024. 
    Il magistrato di sorveglianza di Potenza, con decreto n. 299/2019
emesso il 20 febbraio 2019  e  depositato  il  21  febbraio  2019  ha
dichiarato inammissibile l'istanza di permesso premio ex art.  30-ter
O.P. avanzata  dal  predetto  D.G.  rilevando  che  tra  i  reati  in
espiazione figuravano i reati di cui agli articoli 317 e 319 c.p.,  i
quali rientravano nella previsione di cui  all'art.  4-bis,  comma  1
O.P. 
    Riteneva il magistrato  che  l'istanza  fosse  inammissibile  non
ricorrendo le condizioni dell'accertata inesistenza  di  collegamenti
con la criminalita' organizzata  unita  alla  collaborazione  con  la
giustizia a norma dell'art. 58-ter  O.P.  ovvero  a  norma  dell'art.
323-bis c.p., e cio' in quanto il richiedente non  aveva  dedotto  la
sussistenza della predetta collaborazione.  Trattandosi,  quindi,  di
delitto   interamente   ostativo   ed   in   difetto   della    detta
collaborazione, il richiedente avrebbe dovuto espiare per  intero  la
relativa condanna. 
    Il decreto di rigetto, depositato in data 21 febbraio  2019,  era
notificato al detenuto in data 23 febbraio 2019 alle ore 14,05. 
    La casa circondariale di ///  trasmetteva  la  dichiarazione  del
detenuto resa il giorno 24 febbraio 2019 alle ore 10,45 con la  quale
il predetto proponeva reclamo avverso il decreto di  inammissibilita'
allegando i motivi a sostegno. Dichiarazione pervenuta all'Ufficio di
sorveglianza il 26 febbraio 2019 ed al  Tribunale  il  successivo  27
febbraio 2019. 
    Il reclamo appare tempestivamente  proposto  ai  sensi  dell'art.
30-bis  O.P.  dovendo  aversi  riguardo  alla  data  ed   ora   della
dichiarazione di impugnazione  con  allegato  scritto  contenente  la
enunciazione dei motivi (24 febbraio 2019, ore 10,45) e non alla data
di ricezione della impugnazione conseguente alla  trasmissione  della
impugnazione da parte della casa circondariale. 
    Nel reclamo  scritto  trasmesso  in  uno  alla  dichiarazione  di
impugnazione, il detenuto esponeva: 
        1) che la richiesta era ammissibile alla luce della normativa
vigente all'epoca in cui l'istanza era  stata  formulata  e  non  era
imputabile al detenuto il ritardo nella adozione del provvedimento; 
        2)  che  era  stata  operata  una  illegittima   applicazione
retroattiva delle disposizioni  restrittive  introdotte  dalla  legge
cosiddetta anticorruzione; 
        3) che  il  provvedimento  impugnato  e'  stato  adottato  in
violazione dell'art. 25, comma 2 della  Costituzione  in  quanto  non
considera che per consolidato  orientamento  giurisprudenziale  della
Corte costituzionale (sentenze n. 349 del 1993 e  n.  504  del  1995)
permesso premio rientra tra le misure sostanziali che incidono  sulla
quantita' e quantita' pena e percio' stesso modificano  il  grado  di
privazione della liberta' personale imposto al  soggetto  sicche'  le
relative  disposizioni  restrittive,  avendo  incidenza   di   natura
sostanziale,  rientrano  nel  regime  di   irretroattivita'   sancito
dall'art. 25, comma 2 O.P.; 
        4) che il provvedimento impugnato e' illegittimo perche'  non
tiene conto dell'orientamento  della  Corte  costituzionale  relativo
all'art.  4-bis  O.P.  secondo  cui   le   disposizioni   restrittive
sopravvenute non si applicano nei confronti dei condannati che  prima
della entrata  in  vigore  della  disciplina  piu'  rigorosa  abbiano
raggiunto  una  grado  di  rieducazione  proporzionato  al  beneficio
richiesto; 
        5) che il reclamante, all'epoca della entrata in vigore della
legge piu' restrittiva aveva gia' realizzato tutte le condizioni  per
l'accesso  al  permesso  premio  avendo   raggiunto   un   grado   di
rieducazione adeguato al godimento di tale beneficio; 
        6)  la  disciplina  sopravvenuta   era   stata   erroneamente
applicata  anche  sotto  altro  profilo  in  quanto,  non  solo   non
sussisteva alcun collegamento del  richiedente  con  la  criminalita'
organizzata ma lo stesso versava nella  condizione  della  cosiddetta
collaborazione   inesigibile   in    considerazione    dell'integrale
accertamento  dei  fatti  e  delle  responsabilita'  operato  con  la
sentenza di condanna.  Tale  situazione  non  era  stata  dedotta  al
momento  della  presentazione  della  istanza  in   quanto   l'allora
formulazione dell'art. 4-bis O.P. non comprendeva tra i reati di  cui
al comma 1 quelli di cui agli articoli 317 e 319 c.p. Chiedeva quindi
il D.G. annullarsi il provvedimento impugnato. 
    Il 13 giugno 2019 la difesa del D.G. depositava memoria difensiva
nella   quale   erano   svolte   argomentazioni   in   ordine    alla
inapplicabilita' retroattiva della nuova disciplina di cui alla legge
9 gennaio 2019, n. 3; richiamava il  principio  costituzionale  della
non regressione trattamentale al fine di negare l'applicazione in via
retroattiva   della   normativa   sopravvenuta   ed   insisteva   per
l'accoglimento del reclamo; in via subordinata, essendo  la  relativa
questione  rilevante  e  non  manifestamente   infondata,   sollevava
questione di costituzionalita' dell'art. 1, comma 6, lettera b) della
legge n. 3/2019 nella parte in cui  modificando  l'art.  4-bis  O.P.,
comma 1 della legge n. 354/1975, si applicava anche in  relazione  ai
delitti di cui  agli  articoli  318,  319,  319-quater  e  321  c.p.,
commessi anteriormente alla entrata in vigore  della  legge  medesima
per contrasto con gli articoli 3, 25,  comma  2;  27,  comma  3;  117
Cost., art. 7 della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
    In data 15 giugno 2019 perveniva memoria  a  firma  del  detenuto
nella quale svolgeva argomentazioni a sostegno della ricorrenza della
condizione di  «collaborazione  impossibile  e/o  inesigibile»  nella
quale lo stesso versava e  chiedeva  al  tribunale  di  accertare  la
impossibilita'  e/o  inesigibilita'  della  collaborazione   con   la
giustizia a norma dell'art. 58-ter O.P. 
    Dalla posizione giuridica in atti si evince che  il  detenuto  e'
ristretto in  espiazione  di  condanna  inflitta  in  relazione  agli
articoli 81, comma 2 c.p.; 317 c.p.; art. 317 c.p.; articoli  110-81,
comma 2 e 319 c.p., con sentenza della Corte di  appello  di  Potenza
del 30 settembre 2016 irrevocabile in data 8 agosto 2017. 
    Come noto,  l'art.  4-bis,  comma  1  O.P.  e'  stato  sostituito
dall'art. 1, comma 6, della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il
contrasto dei reati contro la pubblica  amministrazione,  nonche'  in
materia di prescrizione del reato e in  materia  di  trasparenza  dei
partiti e movimenti politici) entrata in vigore il 31  gennaio  2019.
La sostituzione e' avvenuta nel senso che al predetto  articolo  sono
state apportate le seguenti modificazioni: 
        a) dopo le parole: «collaborino  con  la  giustizia  a  norma
dell'art. 58-ter della presente legge» sono inserite le seguenti:  «o
a norma dell'art. 323-bis, secondo comma, del codice penale»; 
        b) dopo  le  parole:  «mediante  il  compimento  di  atti  di
violenza, delitti di cui agli articoli» sono  inserite  le  seguenti:
«314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo
comma, 320, 321, 322, 322-bis,». 
    L'istanza di concessione del permesso premio ex art. 30-ter  O.P.
e' stata avanzata dal  D.G.  con  richiesta  datata  8  gennaio  2019
pervenuta all'Ufficio di sorveglianza in data 17 gennaio 2019  ovvero
in epoca anteriore alla entrata in vigore  delle  disposizioni  sopra
indicate le quali  risultano  maggiormente  restrittive  quanto  alla
concessione di benefici penitenziari rispetto alla normativa  vigente
all'epoca della proposizione della domanda. 
    Il  magistrato  di  sorveglianza,  nel  dichiarare  inammissibile
l'istanza, ha ritenuto  che  la  sopraggiunta  normativa,  in  quanto
vigente al momento dell'adozione della pronuncia,  fosse  applicabile
al caso in esame evidentemente in applicazione del  principio  tempus
regit acutm stante la natura di normativa di natura processuale e non
sostanziale e non essendo  stata  dedotta  alcuna  delle  ipotesi  di
collaborazione previste nella norma siccome modificata. 
    Dalla disamina del testo  dell'art.  4-bis  O.P.  nella  versione
conseguente alla sostituzione effettuata dall'art. 1, comma 6,  legge
n.  3/2019,  si  evince  che,  fatta  eccezione  per  la  liberazione
anticipata, le ipotesi delittuose inserite nella previsione dell'art.
4-bis, comma 1 O.P. integrano altrettante  fattispecie  assolutamente
ostative alla concessione dei benefici penitenziari, tra i  quali  il
permesso premio, salva la collaborazione positiva del  condannato  ai
sensi dell'art. 58-ter O.P. e 323-bis c.p.  ovvero,  in  mancanza  di
detta  collaborazione,  nei  casi  di  ricorrenza  della   cosiddetta
collaborazione inesigibile di cui al comma 1-bis dell'art. 4-bis O.P.
e sempre sul presupposto dell'accertata assenza di  collegamenti  con
la criminalita' organizzata. 
    Reputa questo  Tribunale  di  dover  sollevare  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,  lettera  b)  della
legge n. 3/2019 non potendo allo stato  ritenersi  che  la  soluzione
della   questione   possa   discendere   da    una    interpretazione
costituzionalmente orientata  della  normativa  di  riferimento.  Non
sembra, infatti, superabile, in difetto di apposito intervento  della
Corte costituzionale, l'orientamento giurisprudenziale prevalente  in
ordine alla natura processuale  delle  norme  regolanti  l'esecuzione
penale  e  quindi  anche  delle   norme   concernenti   l'ambito   di
concedibilita' dei benefici  penitenziari.  Principio  affermato  nel
senso  che  le  disposizioni  concernenti  l'esecuzione  delle   pene
detentive e le misure alternative alla  detenzione,  non  riguardando
l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma  soltanto  le
modalita' esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali
sostanziali e, pertanto  (in  assenza  di  una  specifica  disciplina
transitoria), soggiacciono al principio tempus regit actum e non alle
regole dettate in materia di successione di norme  penali  nel  tempo
(Cassazione penale sez. I, 5  febbraio  2013,  n.  11580;  Cassazione
penale sez. I, 11 novembre 2009, n. 46649; Cassazione penale  sezioni
unite, 30 maggio 2006, n. 24561; sez. I  n.  3789  del  22  settembre
1994; sez. I n. 3834 del 23 settembre 1994; sez. 1, n.  5976  del  30
novembre 1998, De Fazio, sez.  1,  n.  6356  del  15  dicembre  1998,
Galluccio, sez. 1, n. 999 dell'11 febbraio 2000). 
    In alcuni  casi  le  leggi  intervenute  nella  soggetta  materia
contenevano  disposizioni  transitorie.  Cosi'  il  decreto-legge  13
maggio 1991, n. 152, convertito  con  modificazioni  nella  legge  12
luglio  1991,  n.  203,  che   inseri'   per   primo   l'art.   4-bis
nell'ordinamento penitenziario, introdusse  anche  altri  limiti  per
determinati benefici penitenziari. Ebbene, questa legge non  contiene
disposizioni  transitorie  in  ordine  all'art.  4-bis,   mentre   ha
disposizioni transitorie per quanto riguarda  il  lavoro  all'esterno
(art. 21 O.P.), i permessi premio (art. 30-ter O.P.)  e  l'ammissione
alla semiliberta' (art. 50 O.P.). Per queste  misure  il  legislatore
del 1991 ha innalzato la  soglia  di  espiazione  della  pena  che  i
condannati per i delitti di cui al 4-bis devono  superare  per  poter
accedere ai benefici: la relativa disposizione transitoria  (art.  4)
stabilisce che le nuove norme si applicano solo per i condannati  per
delitti commessi dopo l'entrata in vigore del decreto-legge. 
    Parimenti la legge 23 dicembre 2002, n. 279, che ha modificato in
senso restrittivo il comma 1, dell'art. 4-bis (art. 1), ha una  norma
transitoria (art. 4) per la quale le modifiche apportate con l'art. 1
«non si applicano nei confronti delle persone detenute per i  delitti
di cui agli articoli 600, 601 e 602 c.p. ovvero per delitti posti  in
essere per  finalita'  di  terrorismo,  anche  internazionale,  o  di
eversione dell'ordine democratico, commessi precedentemente alla data
di entrata in vigore della presente legge». 
    Il fatto che, invece, la citata  legge  n.  3/2019  non  contenga
alcuna disposizione transitoria analoga a quelle precedenti induce  a
ritenere   che   le   innovazioni   introdotte   con   essa,    lungi
dall'applicarsi solo ai delitti commessi  o  alle  condanne  divenute
esecutive dopo la entrata in vigore della legge stessa,  soggiacciano
invece al generale principio del tempus regit actum. 
    Deve tuttavia darsi atto che la Suprema corte di cassazione,  con
la sentenza Cass.  sez.  6  del  14  marzo  2019,  n.  12541,  si  e'
distaccata dal predetto orientamento consolidato  propendendo  invece
per altro approccio di tipo sostanzialistico  quale  quello  adottato
dalla giurisprudenza della corte CEDU in materia penale. 
    Nel  caso  sottoposto  all'attenzione  della  Suprema  corte,  il
giudice per le indagini preliminari in sede di emissione di  sentenza
di patteggiamento in relazione ai reati di cui agli articoli 110, 319
e 321 c.p.  e  articoli  319,  319-ter  e  321  c.p.  aveva  ordinato
all'imputato di  pagare  una  data  somma  a  titolo  di  riparazione
pecuniaria ex art. 322-quater c.p. 
    Avverso  detto  provvedimento  era  stato  proposto  ricorso  per
cassazione  chiedendosi  l'annullamento  dello  stesso  con  limitato
riferimento alla disposta condanna  al  pagamento  della  riparazione
pecuniaria per violazione di legge penale e  processuale.  La  difesa
nell'esporre i motivi, aveva sollecitato  la  Corte,  ritenendone  la
competenza a conoscere  della  fase  esecutiva  del  procedimento,  a
sollevare la questione di legittimita' costituzionale della  legge  9
gennaio 2019, n. 3, art. 6, comma 1, lettera b), nella parte  in  cui
ha inserito i reati contro la  pubblica  amministrazione  tra  quelli
«ostativi» alla concessione di alcuni benefici penitenziari, ai sensi
della legge  26  luglio  1975,  n.  354,  art.  4-bis,  per  rilevato
contrasto con gli articoli 3 e 24 Cost., art. 25 Cost., comma 2, art.
27 Cost., comma 3, e art. 117 Cost., art. 7 CEDU, nella parte in  cui
non prevede un regime intertemporale. 
    A sostegno della deduzione, la difesa rilevava,  sotto  un  primo
aspetto, come avendo riguardo al  combinato  disposto  dell'art.  656
c.p.p., comma 9, lettera a), e legge 26 luglio  1975,  n.  354,  art.
4-bis, in relazione ai delitti di cui agli articoli  319,  319-ter  e
321 c.p. contestati al proprio  assistito,  in  quanto  inseriti  nel
novero dei reati di cui  allo  stesso  art.  4-bis  in  virtu'  della
novella con legge 9 gennaio  2019,  n.  3,  non  sia  piu'  possibile
sospendere l'ordine di esecuzione ai fini della richiesta  di  misure
alternative alla detenzione in stato di liberta'. In assenza  di  una
disposizione  transitoria  regolativa   dei   limiti   temporali   di
applicazione della nuova disciplina, con il  passaggio  in  giudicato
della  sentenza  di  patteggiamento,   l'emissione   dell'ordine   di
carcerazione   sara'   pertanto   «obbligata»,   con   una   modifica
peggiorativa del trattamento penitenziario. Modifica peggiorativa  «a
sorpresa» atteso che, al momento in  cui  avanzava  la  richiesta  ex
articoli  444  e  445  c.p.p.,  l'imputato   poteva   ragionevolmente
confidare che la sanzione sarebbe rimasta nei limiti di  operativita'
delle  misure  alternative  e  dunque  «senza  assaggio   di   pena».
Evidenzia, pertanto, come tale modifica in itinere delle «regole  del
gioco», in quanto del tutto imponderabile  all'atto  dell'opzione  in
rito, si  ponga  in  evidente  contrasto  con  l'art.  7  CEDU,  come
interpretato  nella  giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo  in
situazioni analoghe, rilevante ai fini dell'art. 117 Cost., la'  dove
viola il principio dell'affidamento quanto alla prevedibilita'  delle
conseguenze sanzionatorie (vedi per tutte Grande camera  21  dicembre
2013, Del Rio Prada contro Spagna). 
    La pronuncia Cassazione penale sez. VI, 14 marzo 2019 (udienza 14
marzo 2019, depositata il 20 marzo 2019), n. 12541, nell'esaminare la
sollecitazione   del   ricorrente   a   sollevare   l'incidente    di
costituzionalita' sotto un duplice profilo e cioe' in  relazione,  da
un lato, all'omessa previsione di un regime di diritto intertemporale
da parte della legge n. 3/2019 e,  dall'altro  lato,  all'inserimento
dei reati contro la pubblica amministrazione fra i  «reati  ostativi»
contemplati dall'art. 4-bis  O.P.,  affermava  che  la  questione  di
incostituzionalita' concernente l'assenza di  un  regime  di  diritto
intertemporale,  per  quanto  non  fosse  manifestamente   infondata,
risultava nondimeno non rilevante nella specie ... Assume la  Suprema
corte che «Puo' convenirsi con il ricorrente che l'omessa  previsione
di  una   disciplina   transitoria   circa   l'applicabilita'   della
disposizione  (come  novellata)  possa  suscitare  fondati  dubbi  di
incostituzionalita' in relazione ai riverberi processuali sull'ordine
di esecuzione, in quanto non  piu'  suscettibile  di  sospensione  in
forza della previsione dell'art. 656 c.p.p., comma 9. 
    Va difatti considerato  come,  secondo  disposto  dell'art.  656,
comma 9, lettera a), la sospensione dell'ordine di  esecuzione  della
sentenza di condanna ad una pena detentiva non  superiore  a  quattro
anni (giusta anche la declaratoria d'incostituzionalita' con sentenza
della Corte costituzionale 2 marzo 2018, n. 41)  per  il  termine  di
trenta giorni al  fine  di  consentire  al  condannato  in  stato  di
liberta' di avanzare istanza  di  concessione  di  una  delle  misure
alternative  previste  dalla  legge  n.  354  del  1975,  sospensione
prevista dal comma 5 dello stesso articolo, non possa essere disposta
nei confronti dei condannati per i delitti  di  cui  al  citato  art.
4-bis. 
    Orbene, avuto riguardo al "diritto  vivente",  quale  si  connota
alla luce del diritto positivo e della lettura giurisprudenziale fino
ad ora consolidata a seguito della decisione delle sezioni unite  del
2006, le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e
le misure alternative alla detenzione, non riguardando l'accertamento
del reato e  l'irrogazione  della  pena,  ma  soltanto  le  modalita'
esecutive della stessa, sono considerate norme penali  processuali  e
non sostanziali e, pertanto, ritenute soggette,  in  assenza  di  una
specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit  aetum  e
non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel
tempo dall'art. 2 c.p. e dall'art. 25 Cost. (sezioni unite, n.  24561
del 30 maggio 2006, P.M. in proc. A., Rv. 233976; sez.  1,  n.  46649
dell'11 novembre 2009, Nazar, Rv. 245511; sez.  1,  n.  11580  del  5
febbraio  2013,  Schirato,  Rv.  255310).  In  applicazione  di  tale
interpretazione, con riferimento ai reati ascritti al ricorrente, non
sarebbe piu' possibile disporre  la  sospensione  dell'esecuzione  ai
sensi del combinato disposto dell'art. 656 c.p.p., comma 9,  in  base
all'art. 4-bis O.P. (come novellato nel gennaio 2019). 
    6.2. D'altra parte, non e' revocabile in dubbio che,  nella  piu'
recente giurisprudenza della Corte europea per i  diritti  dell'uomo,
ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali,  i  concetti
di illecito  penale  e  di  pena  abbiano  assunto  una  connotazione
"antiformalista"    e    "sostanzialista",    privilegiandosi    alla
qualificazione   formale   data   dall'ordinamento   (all'"etichetta"
assegnata), la valutazione in  ordine  al  tipo,  alla  durata,  agli
effetti nonche' alle modalita' di esecuzione della sanzione  o  della
misura imposta. 
    Significativa in tale senso e' la pronuncia resa nel caso Del Rio
Prada contro Spagna (del 21 ottobre 2013), la' dove la Grande  camera
della Corte EDU, nel  ravvisare  una  violazione  dell'art.  7  della
Convenzione,   ha   riconosciuto   rilevanza   anche   al   mutamento
giurisprudenziale in tema di un istituto riportabile alla liberazione
anticipata prevista dal nostro ordinamento in quanto suscettibile  di
comportare effetti peggiorativi, giungendo dunque ad  affermare  che,
ai fini del rispetto del "principio dell'affidamento" del  consociato
circa  la  "prevedibilita'  della  sanzione  penale",  occorre  avere
riguardo non solo alla pena irrogata, ma anche  alla  sua  esecuzione
(sebbene, in quel caso, l'istituto  avesse  diretto  riverbero  sulla
durata della pena da scontare). 
    6.3.  Alla  luce  di  tale  approdo   della   giurisprudenza   di
Strasburgo, non parrebbe manifestamente infondata  la  prospettazione
difensiva secondo la quale l'avere il legislatore cambiato in itinere
le  "carte  in  tavola"  senza  prevedere  alcuna  norma  transitoria
presenti tratti di dubbia conformita' con l'art. 7  CEDU  e,  quindi,
con l'art. 117 Cost., la' dove si traduce, per il F., nel  passaggio,
"a sorpresa" e dunque non prevedibile, da  una  sanzione  patteggiata
"senza  assaggio  di   pena"   ad   una   sanzione   con   necessaria
incarcerazione,  giusta  il  gia'  rilevato  operare  del   combinato
disposto dell'art. 656 c.p.p., comma 9, lettera a), e art. 4-bis O.P. 
    D'altronde,  in  precedenza,  il   legislatore   aveva   adottato
disposizioni transitorie finalizzate  a  temperare  il  principio  di
immediata applicazione delle modifiche  all'art.  4-bis  O.P.,  quali
quelle contenute nel decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, art. 4,  e
nella legge 23 dicembre 2002, n. 279, art. 4, comma 1 (che inseriva i
reati di cui agli articoli 600, 601 e 602 c.p. nell'art. 4-bis cit.),
limitandone l'applicabilita' ai soli reati  commessi  successivamente
all'entrata in vigore della legge.». 
    La Suprema corte  riteneva  di  non  sollevare  la  questione  di
incostituzionalita' prospettata in quanto la stessa afferiva non alla
sentenza di patteggiamento oggetto  del  ricorso,  ma  all'esecuzione
della pena applicata con la stessa  sentenza,  dunque  ad  uno  snodo
processuale diverso nonche' logicamente e  temporalmente  successivo,
di talche' ai fini della decisione della Corte non rilevava,  potendo
se del caso essere riproposta in sede di incidente di esecuzione. 
    Tanto   premesso,    deve    affermarsi    che    la    questione
dell'applicabilita' della modifica apportata all'art. 4-bis, comma  1
O.P. dall'art. 1, comma 6, lettera b) O.P. anche alla  esecuzione  di
pena detentiva irrogata con sentenza di condanna per  fatti  commessi
anteriormente alla modifica introdotta dal citato art.  1,  comma  6,
lettera b) e' indubbiamente dotata di rilevanza nel caso in  disamina
avendo il D.G. chiesto l'accesso ad un beneficio penitenziario  quale
il permesso ex art. 30-ter O.P.) ed essendo lo  stesso  ristretto  in
espiazione di condanna intervenuta prima  del  31  gennaio  2019  per
reati (articoli 317-319 c.p.) i quali, in ragione della  modifica  di
cui si e' detto, sono divenuti, in epoca successiva alla  domanda  di
concessione del  beneficio,  integralmente  ostativi  in  assenza  di
collaborazione o in assenza di collaborazione che sia accertata  come
inesigibile o impossibile. 
    Va poi considerato che le  risultanze  istruttorie  acquisite  in
atti (vedi relazioni della casa circondariale di ///  del  17  giugno
2019 e dell'8 aprile 2019) consentirebbero nel merito  di  addivenire
ad una pronuncia di concessione del  beneficio  avuto  riguardo  alla
regolare condotta intramuraria, all'ammissione al lavoro  all'esterno
ex art. 21 O.P. svolto nella forma del volontariato nell'ambito della
consulenza giuridica  prestata  in  prevalenza  a  favore  di  utenti
stranieri con uscita tutte le mattine dal lunedi' al  venerdi'  dalle
9,00 alle 12,00 a decorrere dal settembre 2018 per recarsi presso  la
Caritas di /// (programma ex art. 21 O.P. approvato dal magistrato di
sorveglianza in data 29 agosto 2018). Emerge dalle relazioni in  atti
che il confronto con i responsabili del  servizio  ha  consentito  di
accertare l'adesione  corretta  e  costante  del  detenuto  a  quanto
previsto nel programma di trattamento. Tale impegno e' mantenuto  con
estrema  dedizione  e  senso  di  responsabilita'.   L'attivita'   di
volontariato viene svolta nell'ambito  di  un'azione  riparatrice  di
risarcimento. Il soggetto mantiene una condotta  regolare  esente  da
rilievi disciplinari; si segnala un atteggiamento  di  disponibilita'
nel dare aiuto e sostegno ai compagni di stanza in difficolta'. 
    Va poi sostenuta altresi' la  non  manifesta  infondatezza  della
questione in relazione ai profili di seguito esposti. 
    1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b)
della legge 9 gennaio 2019, n. 3, per contrasto con gli articoli  25,
comma 2, 117 della Cost., 7 della CEDU in riferimento alla violazione
del principio della irretroattivita' della legge penale.  -  In  base
all'art. 7, paragrafo  1  CEDU  nessun  puo'  essere  condannato  per
un'azione o una omissione che al momento in cui e' stata commessa non
costituiva reato secondo il diritto interno o interazionale, ne' puo'
essere inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al  momento
in cui il reato e' stato commesso. Si impone con evidenza il richiamo
ai principi stabiliti dagli articoli 25, comma 2 della  Costituzione,
e 2 c.p. posto che da tali norme discende il  principio  che  nessuna
conseguenza sfavorevole  puo'  derivare  al  soggetto  da  una  legge
successiva alla commissione del fatto reato, in tanto consistendo  il
cosiddetto principio di irretroattivita'. La Corte CEDU, adottando un
atteggiamento di tipo sostanzialistico, ha riconosciuto che istituti,
pur formalmente  non  classificati  come  penali  e  collocati  nella
normativa penitenziaria, non possono essere considerati alla  stregua
di mere modalita' di esecuzione della  pena  e  quindi  sottratti  al
principio di irretroattivita' qualora  essi  finiscano  per  incidere
sulla pena in termini di  sostanziale  modificazione  quantitativa  o
qualitativa della pena stessa. 
    Deve ritenersi che questo sia  il  caso  non  solo  delle  misure
alternative alla detenzione bensi' anche quello dei permessi  premio.
Anche tale secondo istituto non attiene  ad  una  mera  modalita'  di
esecuzione della pena e  l'avere  introdotto  la  modifica  dell'art.
4-bis, comma 1 O.P. nel  senso  di  escludere  l'accesso  a  siffatto
beneficio in presenza  di  condanna  per  una  tipologia  di  delitti
individuati come interamente ostativi ma che tali non erano  in  base
alla normativa previgente viene ad incidere sulla qualita' essenziale
della pena stessa rispetto alla quale la funzione  rieducativa  viene
assicurata anche  tramite  il  beneficio  ex  art.  30-ter  O.P.  Una
eventuale modifica normativa sopravvenuta che, come quella in  esame,
operi in senso di restringere i presupposti di  accesso  ai  permessi
premio viene a modificare la  natura  stessa  della  sanzione  penale
applicata escludendo, ora per allora, che pene relative a determinati
reato possano consentire l'accesso ad esperienze in  esternato  nella
forma del  beneficio  premiale.  In  tal  modo  si  incide  in  senso
deteriore ed in senso sostanziale  sulla  esecuzione  della  pena  e,
quindi, sul grado di liberta' del detenuto. 
    Nella pronuncia Corte costituzionale 28 luglio 1993  (udienza  24
giugno 1993, depositata il 28 luglio 1993), n. 349,  e'  presente  un
passaggio motivazionale di rilevanza ai fini che interessano, laddove
si definiscono «misure  di  natura  sostanziale  che  incidono  sulla
qualita' e quantita' della pena» quelle «che comportano  un  sia  pur
temporaneo distacco,  totale  o  parziale,  dal  carcere  (cosiddette
misure extramurali), e si precisa che le misure che ammettono a forme
di espiazione della pena fuori dal carcere (previste, per lo piu', al
capo  VI  del  titolo  I  dell'ordinamento   penitenziario,   «Misure
alternative  alla  detenzione»:  affidamento  in  prova  al  servizio
sociale,   detenzione    domiciliare,    semiliberta',    liberazione
anticipata, licenze; ma anche l'assegnazione al lavoro  esterno  o  i
permessi premio  previsti  al  capo  III)  «incidono  sostanzialmente
sull'esecuzione della pena e, quindi, sul grado di liberta' personale
del detenuto». 
    D'altronde, con la sentenza 30 dicembre 1997, n.  445,  la  Corte
costituzionale  ha  dichiarato  costituzionalmente  illegittimo,  per
violazione degli articoli 3 e 27 Cost., l'art. 4-bis, comma 1,  legge
26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e  sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), nella
parte in cui non prevede che il beneficio  della  semiliberta'  possa
essere concesso nei confronti dei condannati che, prima della data di
entrata in vigore dell'art. 15, comma 1, decreto-legge 8 giugno 1992,
n. 306, convertito con modificazioni, nella legge 7 agosto  1992,  n.
356, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio
richiesto  e  per  i  quali  non  sia  accertata  la  sussistenza  di
collegamenti attuali con  la  criminalita'  organizzata,  in  quanto,
posto che, alla luce del principio della progressivita' trattamentale
piu' volte  affermato  dalla  Corte,  soltanto  postulando  la  piena
coerenza della scelta  normativa  di  espungere  dal  panorama  delle
opportunita' rieducative  istituti  di  fondamentale  risalto,  quale
certamente e' la semiliberta', anche nei confronti  di  soggetti  che
(come nella specie) gia' si trovavano da tempo in fase di  espiazione
all'atto  della  entrata  in  vigore  della  nuova  e  piu'  rigorosa
disciplina introdotta dal decreto-legge n.  306  del  1992,  potrebbe
ritenersi non compromesso il principio di  uguaglianza  e,  al  tempo
stesso, non frustrata la funzione rieducativa della pena, e'  proprio
quella coerenza a risultare gravemente incrinata nelle ipotesi in cui
il condannato avesse gia' maturato a quell'epoca positive esperienze,
al punto da essere iscritto in un programma di trattamento fortemente
caratterizzato da adesioni comportamentali, in se' sintomatiche di un
percorso rieducativo difficilmente regredibile. 
    La  Corte  costituzionale  si  e'  espressa  sul  terreno   della
inibizione all'applicazione immediata delle disposizioni peggiorative
nei confronti di coloro che in regime di  restrizione  avessero  gia'
raggiunto, al momento della vigenza delle disposizioni  peggiorative,
uno  stadio  del  percorso  rieducativo  da  ritenersi  adeguato   al
godimento del beneficio (sentenze n. 504 del 1995, n. 445  del  1997,
n. 137 del 1999, n. 257 del 2006). 
    Nel  caso  concreto  in  cui  e'  intervenuta   declaratoria   di
inammissibilita' della domanda di  permesso  premio  in  relazione  a
condannato ristretto in espiazione di pena  inflitta  per  i  delitti
divenuti ostativi a seguito della sopravvenuta normativa ma che  tali
non erano al momento della domanda, deve ritenersi  che  la  modifica
operata dall'art. 1, comma 6, lettera b), che ha per  effetto  quello
di  denegare  il  permesso  premio  tranne   che   non   ricorra   la
collaborazione ex art. 323-bis, secondo comma  del  codice  penale  o
l'accertamento della collaborazione  impossibile  (e  ferma  restando
sempre l'assenza di collegamenti con  la  criminalita'  organizzata),
abbia determinato un sostanziale aumento del  grado  di  compressione
della liberta' personale sicche' la  violazione  costituzionale  deve
ravvisarsi nella mancanza di una disposizione di  natura  transitoria
che in aderenza ai principi di cui agli articoli  25,  comma  2,  117
Cost. e 7  CEDU,  faccia  decorrere  l'efficacia  delle  disposizioni
peggiorative introdotte dalla data di entrata in vigore  della  legge
n. 3/2019 con previsione, quindi, di non applicazione delle modifiche
sfavorevoli alle pene relative a fatti commessi anteriormente a  tale
entrata in vigore. Va tenuto presente che se e' vero  che  in  taluni
casi il legislatore ha espressamente introdotto una norma transitoria
per circoscrivere l'applicabilita' della normativa  limitativa  della
concessione  dei  benefici  penitenziari  per   alcuni   delitti   ai
condannati per  delitti  commessi  dopo  l'entrata  in  vigore  della
normativa (art. 4, legge n. 203/1991 di conversione del decreto-legge
n. 152/1991), e' anche vero che laddove tale  norma  sia  mancata  e'
intervenuta  la  Corte  costituzionale   affermando   il   cosiddetto
principio di non regressione del trattamento  per  fatto  incolpevole
cosi'  dichiarando  la  illegittimita'  costituzionale  delle   norme
sopravvenute nella parte in cui non prevedono che i benefici in  esse
indicati potevano essere concessi nei confronti  dei  condannati  che
avessero gia' raggiunto sulla  base  della  normativa  previgente  un
grado  di  rieducazione  adeguato  ai   benefici   richiesti   (Corte
costituzionale n. 79/2007; n. 257/2006; n. 137/1999; n. 445/1997). 
    2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b)
della legge 9 gennaio 2019, n. 3, per contrasto con gli articoli  25,
comma 2, 117 della Costituzione, 7 della  CEDU  in  riferimento  alla
violazione del principio di affidamento. -  Il  sopraggiungere  della
normativa di cui all'art. 1,  comma  6  della  legge  n.  3/2019,  ha
operato una lesione del cosiddetto principio di affidamento il  quale
discende dal principio di irretroattivita' in materia penale  che  si
trae dagli articoli 25, comma 2,  117  Cost.  e  7  CEDU.  Lede  tale
principio ogni modifica che successivamente al passaggio in giudicato
della  sentenza  di  condanna  renda  piu'  severo   il   trattamento
sanzionatorio aggravando la pena stabilita dal giudice  in  relazione
alla condotta accertata. Il legittimo affidamento non puo' che  avere
ad  oggetto  l'an,  la  tipologia  della  sanzione,   la   dimensione
quantitativa della sanzione che  verra'  irrogata  e  quindi  la  sua
«afflittivita'» nella accezione sopra detta. 
    Varie le pronunce  della  Corte  di  Strasburgo  espressione  del
cosiddetto principio di  affidamento  le  quali  hanno  censurato  le
disposizioni degli ordinamenti interni introduttive  di  applicazione
retroattiva di pene intese in senso sostanziale piu' severe ed  hanno
affermato il principio che la prevedibilita' cui si riferisce  l'art.
7 CEDU non riguarda solo il settore della sanzione  ma  anche  quello
della sua esecuzione. In tal senso sentenza Gurguchiani contro Spagna
che  ha  affermato  la  illegittimita'  della   espulsione   prevista
obbligatoriamente  in  sostituzione  della  pena  detentiva  da   una
normativa successiva alla commissione del delitto  laddove  la  legge
vigente al momento  del  fatto  stabiliva  quella  sostituzione  come
meramente eventuale ad opera  del  giudice;  la  sentenza  M.  contro
Germania  (ricorso  n.  19359/04)  che  ha  censurato  l'applicazione
retroattiva del nuovo e piu' duro regime di durata della custodia  di
sicurezza, misura personale che  in  base  ad  una  legge  introdotta
successivamente alla commissione del fatto non era piu' limitata  nel
massimo a dieci anni; la sentenza Del Rio Prada contro Spagna che  ha
ritenuto parte integrante del diritto penale  materiale  un  istituto
affine alla liberazione anticipata prevista nel nostro ordinamento. 
    Analogamente, anche pronunce nazionali hanno ritenuto lesive  del
cosiddetto principio dell'affidamento le ipotesi in cui  gli  effetti
sfavorevoli previsti da un disposizione normativa conseguano  non  ad
una  condotta  dell'imputato/condannato  bensi'  siano  imputabili  a
fattori esterni, aleatori, del tutto  sottratti  alla  sua  sfera  di
controllo (sezioni  unite  12  luglio  2007,  n.  27614)  venendo  ad
escludere per tali motivi la modifica retroattiva in pejus di  misure
cautelari (sezioni unite, sentenza  14  luglio  2011,  n.  29719)  ed
evidenziando che in ordine alle norme processuali,  occorre  adottare
un approccio sostanziale valutandosi in concreto l'effettivo  impatto
sui diritti fondamentali ed in primis sulla liberta' personale. 
    La sopraggiunta limitazione all'accesso ai benefici  penitenziari
e tra questi i permessi premio  non  rappresenta  modifica  incidente
sulle mere modalita' esecutive  della  pena  detentiva  ma  viene  ad
operare una vera e propria trasformazione  della  tipologia  di  pena
eseguibile determinando un inasprimento  della  sanzione  stessa.  Le
disposizioni  della  legge  n.  3/2019  che   hanno   introdotto   un
trattamento  sanzionatorio  piu'  severo  per  i  delitti  contro  la
pubblica amministrazione senza introdurre  un  regime  intertemporale
hanno generato un mutamento imprevedibile ed indipendente dalla sfera
di controllo del soggetto tale da modificare in senso sostanziale  il
quadro giuridico normativo che il soggetto aveva di fronte a  se'  al
momento in cui si e' determinato  alla  consumazione  del  reato  con
piena consapevolezza della relative  conseguenze,  cosi'  da  poterne
adeguatamente soppesare i benefici e  svantaggi.  In  definitiva,  la
intervenuta modifica ha «sorpreso» il soggetto con una  sanzione  non
prevedibile al momento della commissione del fatto. 
    3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lettera b)
della legge 9 gennaio 2019, n. 3, per contrasto con gli articoli 3  e
27, commi 2 e 3 Cost., in relazione alla violazione del principio  di
ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena. - La  mancata
previsione, nella  sopraggiunta  normativa  di  una  disposizione  di
natura transitoria che limiti  l'efficacia  delle  disposizioni  piu'
restrittive alla esecuzione delle condanne per fatti  reato  commessi
dopo la sua entrata in vigore, lede il principio di ragionevolezza  e
della finalita' rieducativa della pena di cui agli articoli 3  e  27,
commi 2  e  3  Cost.  La  disciplina  piu'  severa,  incidendo  sulla
esecuzione di condanne per fatti commessi prima della sua entrata  in
vigore, crea una irragionevole disparita' di trattamento tra soggetti
che, giudicati colpevoli dei medesimi reati, abbiano vista decisa  la
propria istanza di accesso al  beneficio  penitenziario  prima  della
entrata in vigore della legge  n.  3/2019  e  quelli  che,  per  mera
casualita' o comunque per fattori  del  tutto  avulsi  dalla  propria
volonta',  l'abbiano  vista  decidere  in  epoca  posteriore  a  tale
momento.  Ne  deriva  l'irragionevole  esito  per  cui  si   generano
trattamenti diversi del tutto sganciati dal grado di meritevolezza  e
di adesione al percorso rieducativo dei  condannati  per  i  medesimi
delitti. La carenza  di  disposizioni  transitorie  incide  in  senso
sfavorevole sui relativi percorsi di risocializzazione  senza  alcuna
correlazione con un giudizio aderente alla personalita' dei  detenuti
e sul grado di rieducazione da essi raggiunto e finisce per porsi  in
contraddizione  con  la  «logica  della  progressione   trattamentale
penitenziaria che,  notoriamente,  deve  caratterizzare  l'espiazione
della pena detentiva in rapporto al  finalismo  di  cui  all'art.  27
Cost. (sentenza Corte costituzionale  n.  149/2018  che  richiama  le
sentenze n. 255 del 2006, n. 257 del 2006, n. 445 del 1997 e  n.  504
del 1995). 
    Il carattere automatico della preclusione all'accesso ai benefici
penitenziari o, piu' correttamente, la possibilita' di  accesso  solo
in caso di collaborazione o di accertata  collaborazione  impossibile
senza alcuna distinzione di ordine temporale  quanto  alla  sfera  di
applicazione  della  nuova  normativa  finisce  con  il   determinare
l'operativita' della disciplina restrittiva a danno di condannati che
avevano maturato un  grado  di  rieducazione  adeguato  al  beneficio
richiesto gia' in epoca antecedente  alla  entrata  in  vigore  della
legge n. 3/2019  con  l'effetto  di  impedire  al  giudice  qualsiasi
valutazione  individuale  sul  concreto  percorso   di   rieducazione
compiuto dal condannato durante  l'esecuzione  della  pena  stessa  e
cio', soltanto in  ragione  del  titolo  di  reato  che  supporta  la
condanna. Tale  automatismo  e  la  connessa  impossibilita'  per  il
giudice di procedere a valutazioni individualizzate  contrasta  pero'
con il ruolo che deve essere riconosciuto, nella fase  di  esecuzione
della pena, alla sua finalita' di rieducazione del  condannato;  come
chiarito da Corte costituzionale n. 149/2018 si tratta  di  finalita'
ineliminabile (sentenza n. 189 del  2010),  che  deve  essere  sempre
garantita anche  nei  confronti  di  autori  di  delitti  gravissimi,
condannati alla massima pena prevista nel nostro ordinamento,  ovvero
all'ergastolo  (sentenza  n.  274  del  1983).  In  questo  senso  e'
orientata la costante giurisprudenza della Corte, che ha tra  l'altro
indicato come criterio  «costituzionalmente  vincolante»  quello  che
esclude «rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece  una
valutazione individualizzata e  caso  per  caso»  nella  materia  dei
benefici penitenziari (sentenza n.  436  del  1999),  in  particolare
laddove l'automatismo sia connesso a presunzioni iuris et de iure  di
maggiore pericolosita' legate al titolo del reato commesso  (sentenza
n. 90 del 2017), giacche', ove non  fosse  consentito  il  ricorso  a
criteri  individualizzanti,  «l'opzione  repressiva   finirebbe   per
relegare nell'ombra il profilo  rieducativo»  (sentenza  n.  257  del
2006), instaurando di  conseguenza  un  automatismo  «sicuramente  in
contrasto con i principi di proporzionalita'  ed  individualizzazione
della pena» (sentenza n. 255 del 2006; in senso conforme, sentenze n.
189 del 2010, n. 78 del 2007, n. 445 del 1997, n. 504 del 1995). 
    L'applicazione retroattiva della disciplina restrittiva confligge
quindi  con  i  citati  parametri  costituzionali  perche'  viene  ad
incidere in modo irragionevole sul  percorso  rieducativo  senza  che
tale lesione  sia  collegabile  ad  un  comportamento  colpevole  del
condannato. 
    Il Tribunale di sorveglianza, pertanto, premessa la  rilevanza  e
non manifesta  infondatezza  della  questione  di  costituzionalita',
ritiene di dover sollevare questione di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1, comma 6, lettera b) della legge 9 gennaio  2019,  n.  3,
nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis, comma 1 della legge  26
luglio 1975, n. 354, si applica anche in relazione ai delitti di  cui
agli articoli 317 c.p. e 319 c.p. commessi anteriormente alla entrata
in vigore della medesima legge per contrasto con gli articoli 3,  25,
comma 2, 27 commi 2 e 3, 117  Cost.  e  art.  7  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
firmata a Roma il 4 novembre 1950. 
    Ai  sensi  dell'art.  23,  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  deve
dichiararsi la sospensione del presente  procedimento  con  immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.