TRIBUNALE DI GENOVA Sezione Prima In procedimento ex art. 702-bis del codice di procedura civile; Promosso da M. R. (avv. Cocchi Luigi); Contro Presidenza del Consiglio dei ministri (Avvocatura distrettuale dello Stato. Il Tribunale, composto dai signori: dott. Mario Tuttobene - Presidente; dott.ssa Lorenza Calcagno - Giudice; dott. Paolo Gibelli - Giudice rel. Osserva quanto segue 1) in merito al fatto, al ricorso ed alle questioni di costituzionalita' sollevate. Il dott. M. R. e' stato eletto Consigliere regionale della Regione Liguria in occasione delle elezioni amministrative tenutesi il 31 maggio 2015 e cosi' nelle precedenti due legislature regionali rivestendo quindi continuamente la carica dal 2005; In data 30 maggio 2019, la cancelleria del Tribunale di Genova - 2ª Sezione penale -, ha trasmesso alla prefettura - ai sensi dell'art. 8, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, dispositivo della sentenza penale resa lo stesso 30 maggio 2019, a carico - tra gli altri - dello stesso dott. M. R. Con la suddetta sentenza il dott. R. e' stato condannato in primo grado per il reato di cui all'art. 478 del codice penale (falsita' ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), e per il reato di cui all'art. 314 del codice penale (peculato), ad una pena complessiva pari a anni tre, mesi due e giorni quindici di reclusione, con sanzioni accessorie di legge. I fatti erano relativi alla modalita' di spesa dei contributi economici destinati al funzionamento dei gruppi politici consiliari regionali e, nelle tesi di accusa, accolta in prima cure, destinati da consiglieri e capigruppo a finalita' estranee al funzionamento politico di gruppi medesimi, con ulteriore rendicontazione non veritiera dei capigruppo. Dalla sentenza di condanna, constano a carico del dott. R. spese personali presentate a rimborso e non attinenti a spese effettivamente rimborsabili per soli euro 138,20 (par. 31.7.2 della sentenza di condanna, corrispondente al capo 21 J), mente avendo egli ricoperto la carica di capogruppo consiliare (del Omissis) dalla fine del 2011 risulta aver attestato la veridicita' ed inerenza di spese di colleghi per alcune decine di migliaia di euro, nel contesto di una prassi la cui qualificazione come illecita ha prodotto la condanna a carico di altri capigruppo e la pendenza di processi ancora da definire. A seguito di quanto sopra in data 5 luglio 2019 il Presidente del Consiglio dei ministri (avv. Giuseppe Conte) sentito il Ministero dell'interno (sen. Matteo Salvini), visto l'art. 8, comma 1, del decreto legislativo n. 235//2012 (di seguito anche, secondo la comune menzione «legge Severino»), emetteva il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri contenente il provvedimento di sospensione dalla carica di Consigliere regionale la Regione Liguria nei confronti del dott. M. R. dalla data del 30 maggio 2019 (pronuncia della sentenza di condanna). In data 10 e 11 luglio 2019 il provvedimento era notificato all'interessato. Ricevuta la notifica il dott. R. ha formulato ricorso avverso il provvedimento ex art. 22, comma 1 della legge n. 150 del 2011, siccome avverso provvedimento incidente in materia elettorale, instaurando, come prevede la norma suddetta, un procedimento da condursi con «rito sommario collegiale» (art. 702-bis del codice di procedura civile), e come tale iscritto e rubricato. Si deve subito anticipare che la via formale di tutela prescelta, e' conforme, quanto a profili di rito, a quella indicata dalla sentenza della Cassazione A Sezioni unite n. 11131/15, pronuncia con la quale, in analogo caso di applicazione della c.d. legge Severino, la Suprema Corte, risolvendo il conflitto con la giurisdizione amministrativa, adita in prima battuta, ritenuta la questione di diritto soggettivo, ha fatto riferimento espresso al procedimento suddetto come «sede della tutela» avverso il provvedimento di sospensione. Si deve ancora rilevare che tale sede e' individuata nonostante che non sia specificata dal testo del decreto legislativo n. 235/12, testo strutturato attorno ad un «secco automatismo» tra la condanna penale, status di incandidabilita', sospensioni e decadenze conseguenti. Infatti, nonostante la particolarita' dell'istituto la Corte ha osservato che le questioni di ineleggibilita', incompatibilita' e decadenza sono in tutto assimilabili. Con il ricorso il dott. R. richiede che il provvedimento di sospensione suddetto sia disapplicato, o per difetto di legittimo presupposto normativo, o per entita' sproporzionata del provvedimento, con sua reintegrazione nel consiglio regionale, previo riconoscimento, a seguito del rinvio alla Corte costituzionale, della incostituzionalita' dell' art. 8 del decreto legislativo n. 231/12 per i due motivi principali che seguono e che tendono in effetti o alla cancellazione integrale del fondamento normativo dell'istituto adottato in concreto o alla introduzione di un potere di vaglio necessario minimo della proporzione tra il fatto ritenuto e l'effetto sull'elettorato passivo. I motivi principali detti sono quindi in estrema sintesi due e sono i seguenti: 1) con il primo si sostiene che, nella misura in cui l'articolo in questione, e per il vero l'intero impianto del decreto legislativo n. 235/12, pretende di essere applicabile ai consiglieri regionali, esso violerebbe gli artt. 117 e 122 della Costituzione, invadendo la sfera di competenza legislativa regionale, ovvero (tesi sostenuta con maggior convinzione) comprimendola con modalita' di esercizio di una potesta' legislativa statale incidente in materia regionale, ed esercitata in difetto di ogni coordinamento e collaborazione. (di fatto auspicando una pronuncia soppressiva della Corte costituzionale); 2) con il secondo si sostiene l'illegittimita' costituzionale della mancata introduzione di un vincolo di necessaria proporzionalita' in concreto tra fatto accertato in sede penale e la «conseguenze automatiche», sul piano del godimento dell'elettorato passivo, previste dalla legge (di fatto auspicando una pronuncia additiva della Corte costituzionale, ovvero ancora una pronuncia soppressiva, ove la Corte non ravvisi una integrazione necessaria e sufficiente ad ovviare alla eventualmente rilevata incostituzionalita'). Piu' precisamente l'incostituzionalita' deriverebbe, evidentemente per il medio dell'art. 11 della Costituzione, dalla violazione dei principi in materia di tutela dell'eletto ritraibili dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e precisamente dell'art. 3 del primo protocollo accluso alla Convenzione (necessita' di ordinamento democratico). La norma suddetta, per come interpretata nel reiterato insegnamento della Corte EDU, esige la possibilita' di una delibazione bilanciata, individualizzata e giudiziaria di ogni forma di perdita dell'elettorato attivo e passivo, laddove la legge in questione non prevede ne' presupposti sostanziali del provvedimento diversi dalla sussistenza della condanna penale (che tuttavia nel suo dispositivo non ha ad oggetto direttamente la sospensione, ne' la decadenza), ne' la sede per l'impugnativa, ne' i contenuti dell'impugnativa medesima, cosi' violando (in tesi) il trattato EDU sotto il profilo visto. All'evidenza ambo i motivi, ove ritenuti non manifestamente infondati, richiedono necessariamente il rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale. Sussistono anche ulteriori motivi che, come brevemente si vedra', possono essere anche ritenti meri argomenti a sostegno dei due primari compiutamente esposti ovvero eccezioni non compiutamente sviluppate e come tali non tali da superare il primo vaglio di ammissibilita'. Contemporaneamente al ricorso principale ex art.700 del codice di procedura civile il dott. R. richiede di disporre con disapplicazione anche in sede cautelare del provvedimento opposto, la sua riammissione, pleno iure, quale Consigliere in seno al «legislativo ligure». I ricorsi di merito, che interessa in questa sede, e quello cautelare, sono stati notificati nelle forme di legge alla Presidenza del Consiglio dei ministri la quale si e' costituita a mezzo della locale Avvocatura distrettuale dello Stato, in entrambi. L'Avvocatura non ha contestato la giurisdizione sul caso del giudice adito, ne' il rito prescelto, con conferma di quanto cennato sulla correttezza della individuata sedes iudicii, ha tuttavia radicalmente contestato tutti i sollevati motivi di incostituzionalita', uno per uno e per i motivi cui si fara' cenno, per il necessario, alla motivazione della presente, cosi' concludendo per il rigetto del ricorso direttamente conseguente alla manifesta infondatezza delle questioni sollevate. In effetti, prescindendo di un intervento censorio od adeguatore del giudice delle leggi, non sussiste alcuna possibilita' di tutela della posizione del ricorrente nella pur riconosciuta presente sede processuale, se non per motivi puramente formali (non corrispondenza della condanna ai casi di legge, error in personam, estinzione del reato per fatti successivi, abotilio crimins, nullita' della sentenza ai sensi del codice di procedura penale, ecc) motivi nessuno dei quali e' dedotto dal ricorrente. 2) In merito alla ammissibilita' del ricorso, alla sussistenza della giurisdizione ordinaria ed alla corretta impostazione in rito. Preliminarmente occorre ribadire l'ammissibilita' del ricorso, la giurisdizione ordinaria e la competenza di questo giudice secondo la linea in rito gia' specificata. Nella sua struttura di base il decreto legislativo n. 235/12 non prevede un controllo giurisdizionale dei provvedimenti di sospensione o decadenza dalle cariche elettive che introduce. La giurisprudenza costituzionale ha gia' chiarito che i suddetti provvedimenti non hanno natura sanzionatoria, ma piuttosto una natura paragonabile ad una misura cautelare operante ex lege e finalizzata ad evitare la permanenza in cariche pubbliche di rilievo di soggetti fortemente indiziati di condotte delittuose di un determinato genere, ovvero riconosciuti responsabili delle stesse. Tanto e' stato dichiarato soprattutto per sottrarre gli istituti della legge, ovvero la c.d. «incandidabilita'» e di provvedimenti, conseguenti alla stessa, «sospensioni» e «decadenze» ad una ricostruzione in termini di sanzione accessoria che avrebbe portato alla non applicazione retroattiva. (la ricostruzione non e' tuttavia priva di diverse conseguenze). Nel quadro suddetto e' stata gia' confermata, anche da un primo indiretto vaglio costituzionale sul punto, la scissione formale tra il provvedimento penale e le sue motivazione (che attengono solo al fatto di base accertato) ed il successivo provvedimento incidente sulla posizione elettiva (nel caso decreto del Presidente del Consiglio dei ministri) il quale si configura come «esecutivo della condanna in senso improprio» (la vera esecuzione vi sarebbe se le misure fossero comprese nel dispositivo penale e competerebbe al PM), nel senso che adotta la condanna quale «mero presupposto di fatto», sia pur intrinsecamente giuridico, di un autonomo ulteriore provvedimento amministrativo indicente -eccezionalmente- su uno status derivante da diritto soggettivo (alla carica elettiva). Tale status non viene degradato, ma ne viene dichiarata la successiva cessazione per il venir in essere di un presupposto di legge contrario ad esso. Si tratta all'evidenza, nella mens legis, di un provvedimento restrittivo di diritti di «natura automatica» e la sottolineatura della accessorieta' ed automaticita' della conseguenza della incandidabilita' e' data da diversi elementi della disciplina: 1) dalla gia' detta mancata previsione dei qualsiasi forma di opposizione; 2) dal tentativo di sminuire la necessita' di una tutela, almeno formale (sotto il profilo della reale ostativita' del titolo e della identita' del destinatario), menzionando esplicitamente il cancelliere quale pubblico ufficiale certificatore della trasmissione di una sentenza autentica, ma anche conforme ai presupposti di legge per i provvedimenti restrittivi; 3) dalla ulteriore previsione di un «collegamento» tra tali provvedimenti restrittivi e la «vita» della sentenza, in termini di sua riforma o conferma nei gradi successivi". Naturalmente l'idea di un provvedimento capace di incidere addirittura su cariche di rilievo costituzionale, non essendo «parte della sentenza penale», ed essendo tuttavia non impugnabile, non e' compatibile con il diritto di difesa. Ogni tesi che dovesse propendere in tal senso urterebbe frontalmente con il disposto dell'art. 24 della costituzione. E' evidente, come cennato, che e' necessaria una sede ove, almeno sul piano formale, possa essere presa in considerazione la corrispondenza tra il presupposto di legge (sentenza di un certo tipo e carico di una certa persona) con il provvedimento amministrativo sospensivo o decadenziale adottato. Per chiarirlo e' sufficiente considerare che la tesi della inoppugnabilita' validerebbe irreparabilmente anche provvedimenti gravemente viziati, ad esempio emessi per titolo non previsto, in relazione a carica non menzionata - con analogia legis -, con error in personam o nonostante la successiva abolitio crimis, non ancora dichiarata dal giudice penale). L'inoppugnabilita' sarebbe «tale per tutto» e quindi condurrebbe ad un esito abnorme che non pare meriti ulteriore considerazione. Ammessa la possibilita' dell'opposizione si deve richiamare ancora la sentenza della Cass. civ. sez. un. n. 11131/15 la quale individuando chiaramente la questione dell'opposizione ai detti provvedimenti sospensivi o decadenziali come «di diritto soggettivo», con conseguente giurisdizione del G.O., individua senza dubbio una potenziale sede di tutela piena. Solo ragionando «al limite» si e' affermato l'accessibilita' di detta tesi solo per profili procedurali o di forma, ma, invero, nulla pare escludere, che la sede di tutela sia utilizzata anche per richiedere una tutela non prevista dalla legge, sui presupposti che, in termini di giustizia costituzionale, la legge dovrebbe prevedere per ragioni di tutela di diritti fondamentali. Sussistono quindi l'ammissibilita' del ricorso, la giurisdizione e competenza di questo Tribunale in composizione collegiale e nel contesto del correttamente scelto rito sommario introdotto. Il tutto anche in relazione al luogo dell'intervenuta lamentata violazione del diritto, violazione che, come visto e' il vero oggetto della tutela richiesta. 4) In merito alla non manifesta infondatezza di due delle sollevate questioni di costituzionalita' Detto quanto sopra sulla rituale impostazione del giudizio in cui sono sollevate le eccezioni di costituzionalita' si puo' ora procedere all'esame delle stesse sotto il profilo della rilevanza e della non manifesta infondatezza. Il profilo della rilevanza e' gia' esaurito da quanto detto in precedenza sull'oggetto del giudizio. Il dott. R. non nega di aver ricevuto condanna per un titolo ostativo alla sua permanenza in Consiglio e chiede la rimozione del provvedimento solo perche' esso, pur conforme a legge, non corrisponde a suoi asseriti diritti di rango costituzionale, ovvero perche' la normativa di riferimento e' ritenuta costituzionalmente viziata per ragioni inerenti l'iter legis. Non si rileva alcuna possibilita' per questo giudice ordinario adito di fare una applicazione diretta di norme che consentano un vaglio delle istanze del dott. R. La domanda di integrale disapplicazione ha quindi ragioni esclusivamente costituzionali La rilevanza e' chiaramente riscontrabile. Quanto alla «non manifesta infondatezza» il Collegio, pur consapevole della sussistenza di una seria forza persuasiva anche degli argomenti sollevati in senso contrario alla prospettazione di incostituzionalita' del dott. R. non riesce a ravvisare negli stessi qual carattere di «palese evidenza» da cui conseguirebbe la detta «manifesta infondatezza». Come cennato, infatti, almeno due delle questioni sollevate, continuano ad apparire altamente controvertibili, con conseguente assenza della manifesta infondatezza. Nel corpo del ricorso, per il vero, sono contenuti, anche altri riferimenti sviluppati in parte come autonomi profili di incostituzionalita', in parte come argomenti ulteriori per sostenere la generale esigenza di un giudizio di proporzionalita' tra la condanna e l'effetto. In tal senso si possono leggere i riferimenti all'ingiustizia dell'eguale disciplina dell'incandidabilita' per ragioni di «lotta alla mafia» ovvero per condanna «per reati avverso la PA» ed altresi' alla ingiustizia del pari trattamento tra i consiglieri regionali, privi di funzioni amministrative, ed assessori e Presidente, che invece svolgono tali funzioni. I motivi suddetti, ove li si volesse considerare autonomi, non potrebbero che esser ritenuti manifestamente infondati. Infatti nulla esclude che il legislatore possa adottare una misura di natura cautelare oltre una certa soglia di necessita', senza piu' operare distinzioni, superata la soglia, tra esigenze piu' o meno pressanti. Detto quanto sopra si puo' passare all'esame degli argomenti ritenuti «non manifestamente infondati». Non appare innanzitutto manifestamente infondato il motivo attinente il difetto di ogni previsione da parte della c.d. legge Severino di un vaglio di proporzionalita' tra i fatti oggetto della condanna e la conseguenza della decadenza da una carica elettiva del condannato. Si deve considerare che la struttura della normativa in esame e' ispirata, come gia' illustrato, ad un rigido automatismo. Essa considera unicamente il rapporto tra la permanenza in una carica elettiva e l'intervenuta condanna penale per determinati fatti. Un particolare aspetto di tale rigidita' e' l'esclusione dell'esigenza di ogni connessione concreta tra i fatti accertati e la carica esercitata al momento della decadenza, potendo benissimo essere, come in effetti risulta nel caso, i fatti accertati risalenti nel tempo e seguiti da condotta difforme nell'esercizio della medesima carica, oppure generati da una occasione, di fatto, o normativa, non piu' attuale, oppure seguiti da una nuova elezione ad una carica diversa. La normativa contestata considera quindi de iure «pericolosa» la permanenza in carica del condannato (evidentemente per caratteri della condotta ex ante valutati dal legislatore) per non dire che considera il condannato «indegno» della carica, cosa che in effetti contrasterebbe con la supposta e gia' dichiarata natura cautelare e non sanzionatoria della normativa e, in effetti, imporrebbe la sempre rifiutata irretroattivita' e forse, piu' in generale, la considerazione complessiva, anche in rito, quale sanzione accessoria. Ribadita la rigidita' del presupposto della supposta «cautela ex lege» si deve a questo punto osservare che i titoli di reato in relazione ai quali sono previste decadenza e correlata sospensione sono si' edittalmente gravi, ma la normativa in esame non consente al giudice penale - ne' ad alcun altro - di apprezzarne in concreto la gravita', elemento questo che, in effetti, per qualsiasi reato, scema al limite minore della fattispecie. Si puo' ad esempio essere condannati per un peculato per aver utilizzato alcuni fogli di carta dell'amministrazione al fine di scrivere una lettera personale durante una seduta consigliare, ovvero per corruzione impropria per aver accettato un regalo di modesto valore da una associazione beneficiata da un determinato provvedimento, persino per una telefonata non necessaria fatta a spese dell'amministrazione e per ragioni non di servizio. Si tratta di fatti normalmente non denunciati, non provabili, non perseguibili, ma non di fatti penalmente irrilevanti. Si deve notare che i fatti suddetti appartengono probabilmente alla categoria dei fatti di lieve entita' per i quali la riforma attuata con il decreto legislativo n. 28 del 2015 che ha introdotto l'art. 133-bis del codice penale ha escluso la punibilita' previo, appunto, un vaglio concreto del giudice. Nondimeno al peculato ed alla corruzione non si applica la norma in esame posto che essa esclude i reati con pena edittale massima superiore ad anni cinque. Con il che la struttura rigida della norma resta invariata e del tutto insensibile alla gravita' del fatto. Gli autori anche delle condotte minime ipotizzate, de iure condito, sono soggetti alla decadenza da cariche politiche anche di notevole rilievo ed ottenute anche con larghissimo consenso, anche nella consapevolezza da parte dell'elettorato del procedimento penale, dei fatti in esso ascritti all'eletto e di primi esiti degli accertamenti giudiziari. La rigidita' della normativa coinvolge, evidentemente, tutte le misure previste dalla legge, venendo in questa sede in considerazione l'art. 8, siccome concretamente applicato. Un ultimo aspetto meritevole di sottolineatura della particolarita' anche alla luce dell'ordinamento interno della normativa in esame e' il fatto che la supposta natura cautelare opera sulla base di un pericolo completamente presunto ex lege, come ad esempio nel caso in cui l'illecito fosse relativo ad una carica pregressa e mutata, con impossibilita' nella nuova carica di reiterare la condotta. Si deve notare, con possibile ulteriore profilo di incostituzionalita' della normativa, che appare assorbito in quelli in diretto esame, che la pericolosita' presunta ex lege e' ormai totalmente espulsa sia dal novero delle misure cautelari sia dallo stesso ambito delle misure di sicurezza personali, laddove e' stato ritenuto sulla base dei soli principi dell'ordinamento costituzionale italiano la necessita' assoluta dell'esame in concreto del caso. Il ricorso evidenzia con chiarezza l'aspetto detto e nulla di specifico e' stato replicato sul punto, se non una invocazione del carattere speciale della normativa intesa alla tutela del funzionamento libero delle istituzioni. Naturalmente occorre ancora esaminare sotto quale esatto profilo tale indubbia rigidita' possa urtare con una disposizione di rango costituzionale. Il dott. R. indica in tal senso il contrasto detto tra il carattere rigido della normativa in esame ed i trattato EDU. e, precisamente l'art. 3 del protocollo aggiuntivo n. 1 in forza del quale gli stati aderenti dichiarano il loro carattere «necessariamente democratico». In tema di elettorato passivo la Corte di Strasburgo ha sempre fatto discendere dal dato normativo suddetto l'esistenza di un diritto fondamentale all'elettorato attivo e passivo riconosciuto dal trattato, e quindi, per l'ordinamento italiano, di rango sostanzialmente costituzionale. Nel conformare tale tutela la Corte, con diverse pronunce (Gran Camera 5/10/05 Hirst -Regno Unito; Sez I 15/6/06, Lykourezos - Grecia; Sez. III 5/4/07, Kavakcu - Turchia; Sez. I 8/4/10 Frodl - Italia; Gran Camera 27/4/10 Tanse - Moldavia) ha espressamente ritenuto la necessita' che eventuali limiti di qualsiasi genere al diritto degli eletti di rivestire le cariche conferitegli dal meccanismo democratico potessero derivare solo da un "processo decisorio individualizzato", giungendo poi ad affermare che tale processo deve essere tendenzialmente di natura giurisdizionale e comunque pervenire ad un concreto collegamento tra il fatto commesso e l'impossibilita' di ricoprire la carica elettiva. (Tra le cariche prese in considerazione risulta espressamente anche quella di consigliere regionale nell'ordinamento Italiano). Non pare affatto certo che la attuale struttura della legge Severino, in forza della vista rigidita', pur nel condivisibile intento di garantire la qualita' morale degli eletti, risponda al requisito detto. Come gia' visto, infatti, la struttura della normativa si presenta come del tutto accessoria ad una risultanza penale, ma non esiste, de iure condito, alcuna sede ed alcun parametro, per valutare la concreta rilevanza dell'intervento penale e la sua relazione, anche temporale, con l'effetto della distorsione che apporta nel processo democratico. A fronte di tale argomento l'unica obiezione risulta quella relativa alla facolta' del legislatore di effettuare, una volte per tutte, ed in astratto tale valutazione. Nondimeno, come gia' detto, la mancanza di ogni potere del giudice penale di considerare i fatti in questione come di lieve entita' gia' da sola esclude che la astratta valutazione legislativa, che comprende ogni fatto, si presenti come un criterio di discernimento satisfattivo. Inoltre la giurisprudenza della CEDU sembra rifiutare espressamente tale ipotesi e nella misura in cui esige che l'impedimento all'elezione operi nel contesto di un procedimento individualizzato (individual decision) e tendenzialmente giurisdizionale, essa, infatti, rifiuta espressamente ogni restrizione dell'elettorato passivo ed attivo, che non coincida la astratta definizione dei consueti limiti costituzionali del suffragio universale e che non passi attraverso un procedimento dedicato alla sua valutazione, nel contesto del quale possa essere valutato in concreto il rilievo del tema impeditivo. Non e' difficile intravedere nelle pronunce menzionate la preoccupazione di impedire che una chiara volonta' popolare, espressa nel voto a dispetto di un fatto potenzialmente impeditivo della elezione, sia poi posta nel nulla non nel contesto del procedimento democratico, ma con il ricorso a leggi che neghino il diritto ad essere portatori della rappresentanza politica. Questa finalita' e', ovviamente, piuttosto lontana dal contesto del caso in esame, nondimeno la struttura per la limitazione dell'elettorato passivo prevista dalla CEDU pare sussistere come una garanzia generalizzata. L'eccezione attinente alla mancata previsione da parte della legge Severino (e precisamente nel caso da parte dell'art. 8 del decreto legislativo n. 235/12) della possibilita' di effettuale una valutazione di proporzionalita' tra la condanna riportata e la sospensione da pronunciarsi non pare quindi manifestamente infondata. Quanto sopra non pare escluso dal fatto che l'aspetto potenzialmente piu' grave della violazione, ovvero la mancata previsione di un procedimento per la contestazione dei provvedimenti sospensivi o decadenziali, sembra ovviato dalla gia' citata giurisprudenza di legittimita' che invece consente una opposizione giudiziaria. Infatti la mera sussistenza di una sede formale per tale opposizione, senza una previsione di parametri decisionali in proposito, non pare raggiungere un esito adeguatore, esito che pare possa pervenire solo da un intervento correttivo del giudice delle leggi o del legislatore. Si deve notare che quest'ultimo, nella sua generalissima discrezionalita', potrebbe anche ricostruire la reale connessione tra il processo penale e l'effetto in esame, facendo della pronuncia limitativa dell'elettorato un vero oggetto di tale processo. Il secondo complesso di motivi per cui e' richiesto il rinvio alla Corte costituzionale attiene al supposto conflitto dell'art. 8 in questione, ed in generale dell'intero decreto legislativo n. 231/12 per quanto concerne gli enti locali e le regioni, con il riparto di potesta' legislativa stato-regione. La tesi di parte ricorrente non e' quella, senza dubbio semplicistica, che assume una intervenuta violazione plateale della competenza legislativa regionale. Nonostante il testo dell'art. 122 cost. assegni alla competenza regionale esclusiva la disciplina dell'elettorato attivo e passivo per gli organi di vertice dell'Ente, il ricorso prende atto della tesi gia' sostenuta sul punto dalla Consulta, per cui la normativa in esame concernerebbe un istituto diverso da quelli espressamente indicati nel detto art. 122 (eleggibilita' e incompatibilita'), ovvero la «incandidabilita'». E' nella sostanza gia' considerata la tesi, peraltro espressamente ribadita in questa sede anche dalla Avvocatura di Stato, per cui la normativa in esame non avrebbe ragioni di regolazione dell'ordinario funzionamento della democrazia su base nazionale, o locale, ma prevederebbe una limitazione straordinaria e speciale dei diritti correlati al processo elettorale, ed all'avvenuta elezione, per ragioni di ordine pubblico e sicurezza pubblica, realizzando una estensione speciale, con altri mezzi, della tutela di determinati beni (imparzialita' e buon andamento della PA) dotati in primo luogo di protezione penale. In sostanza pur ritenendo preferibile la tesi della competenza regionale in materia ex art. 122 cost. il ricorrente si pone gia' nell'ottica per cui, in relazione alla ragione sostanziale che la giustifica, la normativa in questione si potrebbe ben ritenere ricompresa nell'area della competenza legislativa statale ex art. 117, comma 2, lettera e) della Costituzione. Nondimeno parte ricorrente sostiene che la disciplina in questione, anche ove rientrasse nella competenza esclusiva dello Stato, tuttavia, disciplinando materia incidente in modo estremamente significativo nell'ordinamento regionale, andando addirittura ad incidere sulla possibilita' di permanenza in carica dei suoi organi apicali elettivi, avrebbe potuto essere adottata, con tale espansione sull'ordinamento regionale, solo previa attivazione di una procedura di leale consultazione, ovvero previo confronto in sede di conferenza stato/regioni. In proposto viene citata la sentenza della Corte costituzionale n. 251/16 (relativa alla c.d. riforma Madia della dirigenza pubblica) con la quale e' stato fissato il principio suddetto proprio per le materie di competenza statale in relazione alle quali, tuttavia, vi sia una concreta incidenza della ricaduta della normativa in sede regionale. A fronte di tale argomento e' stato replicato che la riforma censurata per difetto di coordinamento concerneva un diverso e minore tema, tema tipico del diritto amministrativo e del lavoro, per il quale l'interlocuzione era necessaria a differenza che nella materia in questione. Nondimeno non consta con chiarezza come la minor incidenza della riforma in allora esaminata avrebbe reso necessaria la procedura di consultazione in conferenza stato-regioni, mentre un intervento legislativo tale da incidere sullo stesso vertice politico delle regioni, in materia almeno estremamente affine a quella che lo stato riserva alla loro potesta' esclusiva ex art. 122, si potrebbe invece prescinderne. L'Avvocatura ha insistito nell'evidenziare che l'interlocuzione sulle «ragioni» della incandidabilita' sarebbe «inutile», posto che le regioni non avrebbero titolo formulare proposte sul punto, cosa sulla quale si potrebbe anche convenire, ma residuerebbe il tema degli effetti, e della discriminazione delle diverse posizione di Presidente, assessore e consigliere sul quale forse l'interlocuzione sarebbe stata dotata di un suo spazio. In ogni caso il preliminare vaglio del giudice del merito deve escludere la manifesta infondatezza della questione ed operare anche per il motivo detto per la remissione. Resta quindi confermata la rilevanza e non manifesta infondatezza di due eccezioni di incostituzionalita' sollevate.