IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL FRIULI-VENEZIA GIULIA Sezione Prima Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 238 del 2019, proposto da G.Z., rappresentato e difeso dagli avvocati Luca De Pauli e Mara Del Bianco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Contro Ministero dell'interno (Prefettura - Ufficio territoriale del Governo di Udine, Prefetto di Udine), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Trieste, presso la quale e', del pari, per legge e domiciliato in Trieste, piazza Dalmazia, 3; Per l'annullamento: a) del provvedimento protocollo n. 53096, dd. 10 luglio 2019 del sig. Prefetto di Udine, recante comunicazione «che, per le motivazioni suindicate, nei confronti del sig. Z.G., nato a L. , l'. , residente a C. , sussistono alla data odierna le cause di divieto, di sospensione o di decadenza di cui all'art. 67 del decreto legislativo n. 159/2011» con effetto di «informazione antimafia interdittiva», notificato a mani proprie in data 15 luglio 2019; b) dei presupposti verbali delle riunioni del Gruppo Interforze costituito presso la Prefettura di Udine - UTG con decreto n. 33611 dd. 2 maggio 2019, «durante le quali e' stato convenuto di disporre un provvedimento interdittivo ai sensi della normativa antimafia» (di cui e' menzione nel provvedimento sub a), ma mai comunicati ne' partecipati e di estremi sconosciuti); c) di tutti gli altri atti a tali provvedimenti comunque connessi, presupposti e/o conseguenti, anche non conosciuti; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'interno; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 gennaio 2020 la dott.ssa Manuela Sinigoi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; La vicenda fattuale Il ricorrente - condannato con sentenza del Tribunale di Udine, Uff. GIP, n. 167/2017 depositata il 14 marzo 2017 e divenuta irrevocabile il 28 aprile 2017, pronunciata ex art. 444 c.p.p., alla pena di mesi tre e giorni diciotto, convertita nella multa di euro ventisettemila, per il reato di cui all'art. 640-bis c.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), commesso nell'anno 2013, reato consistente nell'aver posto in essere artifizi e raggiri per conseguire fondi europei dell'importo di euro 42.000,00, facendo risultare lavori di ristrutturazione di un immobile per finalita' di commercializzazione dell'acquacoltura regionale, «in luogo della vera natura degli interventi, che erano funzionali alla ristrutturazione di un immobile ad uso abitativo nell'interesse dell'imputato e del suo nucleo familiare» - ha impugnato innanzi a questo Tribunale amministrativo regionale, invocandone l'annullamento, il provvedimento in epigrafe compiutamente indicato, adottato ai sensi degli articoli 67 e 92 del decreto legislativo n. 159/2011 (codice antimafia), come modificato dall'art. 24, comma 1, lettera d), decreto-legge n. 113 del 2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018, con cui il Prefetto di Udine ha comunicato alla locale Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura che nei confronti del medesimo sussistono le cause di divieto, di sospensione o di decadenza di cui all'art. 67, automaticamente ostative al conseguimento o al mantenimento di iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attivita' imprenditoriali, comunque denominati. L'Amministrazione ha fatto, invero, esplicita applicazione nei suoi confronti della previsione contenuta nell'ultimo periodo dell'art. 67, comma 8, introdotto dall'art. 24, comma 1, lettera d) del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132, il quale ha previsto che gli effetti automaticamente interdittivi conseguono anche alla condanna (definitiva o pronunciata in secondo grado) per il reato di cui all'art. 640-bis c.p., cosi' ampliando le ipotesi contemplate dalla disposizione, originariamente riferite ai casi della sottoposizione ad una misura di prevenzione definitiva prevista dal libro I, titolo I, capo II del codice antimafia, oppure dalla condanna (definitiva o anche non definitiva, purche' confermata in appello) per uno dei gravi reati associativi di cui all'art. 51, comma 3-bis del codice di procedura penale (delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all'art. 12, commi 1, 3 e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, 600, 601, 602, 416-bis, 416-ter, 452-quaterdecies e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonche' per i delitti previsti dall'art. 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e dall'art. 291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43). L'interessato ha quindi, come detto, gravato il provvedimento lesivo, denunciandone l'illegittimita' per: 1. «Violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 3, legge 7 agosto 1990, n. 241) - Violazione del principio del giusto procedimento»; 2. «Violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 67, decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, in relazione all'art. 25, comma 2 della Costituzione e all'art. 2 c.p.) - Violazione del principio di irretroattivita' della legge penale - Violazione dell'art. 7 CEDU»; 3. «Violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 67, decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, in relazione all'art. 444 e all'art. 445 c.p. - art. 14 preleggi) - Violazione del principio di tassativita' in materia sanzionatoria»; 4. «Violazione e/o falsa applicazione di legge per incostituzionalita' in parte qua dell'art. 67, decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, con particolare riferimento all'inserimento dell'art. 640-bis c.p. nell'elenco dei reati che implicano l'emanazione della "interdittiva antimafia" ad opera dell'art. 24, comma 1, lettera d) del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1º dicembre 2018, n. 132 (violazione dell'art. 3 della Costituzione, 25 della Costituzione, 27 della Costituzione, 38 della Costituzione, 41 della Costituzione, anche in relazione agli articoli 6 e 7 CEDU e all'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea - violazione del principio di ragionevolezza e di proporzionalita' - eccesso di potere legislativo)». Il Ministero dell'interno, costituito in giudizio con il patrocinio dell'Avvocatura distrettuale dello Stato di Trieste, ha puntualmente controdedotto alle avverse censure e invocato la reiezione del ricorso. All'esito dell'udienza camerale dell'11 settembre 2019, questo Tribunale, con ordinanza cautelare n. 74/2019, ha denegato al ricorrente l'invocata misura cautelare, osservando che: «- nei procedimenti volti all'adozione dell'interdittiva antimafia non e' dovuta la comunicazione di cui all'art. 7 della legge n. 241/1990, trattandosi di procedimenti intrinsecamente caratterizzati da riservatezza e urgenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 28 giugno 2017, n. 3171; id, sez. VI, 29 febbraio 2008, n. 756; id, sez. V, 12 giugno 2007, n. 3126 e 28 febbraio 2006, n. 851); - la giurisprudenza amministrativa ha gia' avuto modo di affermare che l'interdittiva antimafia e' provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un'ottica di bilanciamento tra la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e la liberta' di iniziativa economica riconosciuta dall'art. 41 della Costituzione (cfr. Ad. Plen. n. 3/2018), derivandone che il carattere non punitivo e, anzi, la sua assimilabilita' ad una misura di sicurezza, consente di ritenere la relativa applicazione assoggettata alla disciplina dettata dall'art. 200 c.p. in tema di successione di leggi nel tempo; - la norma che viene in rilevo non ha sottratto alla sua applicazione le sentenze di applicazione della pena su richiesta, sentenze che - si rammenta - sono equiparate dalla legge ad una sentenza di condanna; - risultano condivisibili le argomentazioni della difesa erariale laddove richiama l'attenzione sul fatto che " ... L'art. 640-bis c.p., introdotto dal legislatore come causa ostativa al rilascio della liberatoria antimafia, e' una disposizione quanto mai opportuna, considerato il carattere persuasivo e la capacita' di espansione geografica delle attivita' imprenditoriali da parte delle associazioni mafiose", il che vale di per se', non solo a giustificare l'estensione dell'applicazione dei commi 1, 2 e 4 dell'art. 67 del decreto legislativo n. 159/2011 a reati non tipicamente "mafiosi", ma anche e soprattutto a precludere, al contempo, a questo giudice una valutazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale prospettata dal ricorrente; - la sussistente (e irrevocabile) condanna per il reato di cui all'art. 640-bis c.p. (Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) e', dunque, circostanza (paccamente e) automaticamente ostativa al rilascio della liberatoria». Tale decisione e' stata, pur tuttavia riformata dal Consiglio di Stato, sez. III, con ordinanza 18 ottobre 2019, n. 5291, in accoglimento dell'appello proposto dall'interessato. Il giudice di appello ha ritenuto, in particolare, la pronuncia di questo Tar «parzialmente condivisibile, con riguardo alle argomentazioni riferite all'insussistenza della violazione dell'art. 7 della legge n. 241/1990 e all'equiparazione tra la sentenza di condanna e quella pronunciata in esito alla richiesta congiunta delle parti del processo penale (patteggiamento)», ma necessitante, invece, di ulteriore approfondimento, in sede di merito, in relazione ai «temi decisori relativi alla portata retroattiva della nuova previsione di cui all'art. 67, comma 8, ultimo periodo e, in ogni caso, i temi relativi alla intrinseca ragionevolezza della disposizione, anche in relazione ai profili di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimita' costituzionale prospettati dalla parte ricorrente e comunque rilevabili di ufficio». In vista dell'udienza pubblica del 29 gennaio 2020, fissata per la trattazione del ricorso, il ricorrente ha dimesso memoria a migliore e conclusiva illustrazione delle proprie difese, insistendo, in particolare, sui profili di denunciata incostituzionalita' della norma di cui e' stata fatta applicazione nel caso concreto, traendo in tal senso conforto dalle diffuse e motivate riflessioni svolte al riguardo dal Consiglio di Stato in sede di appello dell'ordinanza cautelare di questo Tribunale. La causa e' stata, quindi, chiamata alla detta udienza e, poi, trattenuta in decisione. All'esito della Camera di Consiglio che ne e' seguita, questo Tribunale amministrativo regionale, melius re perpensa, ha pronunciato la seguente ordinanza, ritenendo, invero, sussistenti i presupposti per sollevare d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 67, comma 8, del decreto legislativo n. 159/2011 (codice antimafia), introdotto dall'art. 24, comma 1, lettera d) del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132 per violazione dei principi di proporzionalita' e ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione e degli articoli 25, 27, 38 e 41 della Costituzione, anche in relazione agli articoli 6 e 7 CEDU, laddove, all'ultimo periodo, prevede che gli effetti automaticamente interdittivi all'ottenimento, tra gli altri, di «altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attivita' imprenditoriali, comunque denominati» (art. 67, comma 1, lettera f) conseguono anche alla condanna (definitiva o pronunciata in secondo grado) per il reato di cui all'art. 640-bis c.p.. Rilevanza della questione La questione e' rilevante per le seguenti ragioni. Al fine del decidere viene in rilievo la disposizione di cui all'art. 67, comma 8, del decreto legislativo n. 159/2011 (codice antimafia), introdotto dall'art. 24, comma 1, lettera d) del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132, che recita: «Le disposizioni dei commi 1, 2 e 4 si applicano anche nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancorche' non definitiva, confermata in grado di appello, (...) per i reati di cui all'art. 640, secondo comma, n. 1), del codice penale, commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico, e all'art. 640-bis del codice penale.» In virtu' di tale disposizione, di cui ha fatto puntuale applicazione il Prefetto di Udine, sono state, invero, ritenute sussistenti a carico del ricorrente, le cause di divieto, di sospensione o di decadenza di cui all'art. 67, automaticamente ostative al conseguimento o al mantenimento di iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attivita' imprenditoriali, comunque denominati. Secondo il tenore letterale della norma, il ricorso dovrebbe essere respinto poiche' il ricorrente ha riportato una condanna per il reato di cui all'art. 640-bis c.p.. Laddove venisse, tuttavia, accolta la questione di legittimita' costituzionale dianzi sinteticamente prospettata il presente giudizio avrebbe un esito diverso, in quanto la riconosciuta incostituzionalita' in parte qua della norma oggetto di applicazione determinerebbe, per l'appunto, l'annullamento dell'informazione antimafia interdittiva notificata al ricorrente quale effetto automatico della condanna riportata. Il Tribunale ritiene, peraltro, che la norma positiva, cosi' come formulata, non lascia, allo stato, alcuno spazio per un'eventuale lettura costituzionalmente orientata nei sensi prospettati dal ricorrente (ovvero escludendone la portata retroattiva, riferita cioe' a comportamenti posti in essere e/o a sentenze pronunciate prima della sua entrata in vigore), dato che, come gia' osservato nell'ordinanza con cui e' stata denegata al medesimo la tutela cautelare invocata, la natura cautelare e preventiva tipicamente propria dell'interdittiva antimafia ovvero il suo carattere non punitivo e, anzi, la sua assimilabilita' ad una misura di sicurezza, consente di ritenere la relativa applicazione assoggettata alla disciplina dettata dall'art. 200 c.p. in tema di successione di leggi nel tempo. Ad avviso del collegio il profilo della retroattivita' potrebbe, dunque, essere apprezzato solo in uno con quello della ragionevolezza della disposizione, ma cio' pare possibile solo nell'ambito di un giudizio di costituzionalita' e non, in via meramente interpretativa, da parte di questo giudice, ostandovi, per l'appunto, la formulazione della norma che prevede un automatismo ostativo al conseguimento o al mantenimento di iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attivita' imprenditoriali, comunque denominati nei confronti di chi ha subito condanna per truffa aggravata. Sulla non manifesta infondatezza della questione Il collegio condivide, innanzitutto, facendole proprie, le motivate osservazioni svolte dalla III sezione del Consiglio di Stato nella su indicata ordinanza cautelare n. 5281/2019, laddove e' stato posto, in particolare, l'accento sul fatto che: «in linea generale, le misure di prevenzione antimafia a carattere interdittivo possono legittimamente attribuire rilievo anche a fatti (e reati) accaduti in un tempo precedente all'entrata in vigore della disciplina che le prevede, in considerazione della loro funzione preventiva e non afflittiva; occorre peraltro verificare, di volta in volta, se la previsione di un effetto interdittivo automatico conseguente a determinate condanne penali persegua la finalita' di completare il trattamento sanzionatorio correlato al reato o si colleghi all'interesse pubblico primario del contrasto alle organizzazioni mafiose; nella materia della prevenzione della criminalita' organizzata, infatti, il legislatore ordinario e' titolare di un'ampia discrezionalita' valutativa nella scelta delle misure ritenute idonee allo scopo, ancorche' esse incidano sulle liberta' economiche e si fondino su accertamenti semplificati; detta discrezionalita' puo' legittimamente manifestarsi anche attraverso la previsione di effetti interdittivi automatici collegati al verificarsi di determinate circostanze considerate pienamente indicative del rischio di contaminazione mafiosa del tessuto sociale ed economico; tuttavia, anche nella definizione di tali ipotesi resta fermo il necessario controllo di ragionevolezza e di proporzionalita' delle disposizioni legislative, ex art. 3 della Costituzione, secondo i parametri sviluppati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, nonche' l'esigenza di rispettare i criteri imposti della CEDU e dalla Carta di Nizza in materia di tutela dei diritti fondamentali; in tale prospettiva, e', allo stato, dubbia la ragionevolezza della norma inserita nell'ultimo periodo dell'art. 67, comma 8, nella misura in cui essa parifica - ai fini della determinazione degli automatici effetti interdittivi - alla situazione della definitiva adozione di una misura di prevenzione tipica, adottata all'esito dei procedimenti di cui al libro primo, titolo I, capo II, del codice antimafia, e alla situazione della condanna di gravissimi reati a struttura associativa, finalizzati alla commissione di specifici delitti (espressione quindi di un'attivita' criminale organizzata di carattere economico) la diversa ipotesi della condanna per il reato di cui all'art. 640-bis, il quale non ha struttura associativa, risulta punito con sanzioni molto inferiori e, nella sua configurazione normativa, non e' necessariamente correlato ad attivita' della criminalita' organizzata (come, del resto, risulta in concreto accertato dalla sentenza di condanna patteggiata subita dall'appellante); il dubbio sulla ragionevolezza di tale previsione deriva altresi' dalla circostanza che la condanna per il reato di cui all'art. 640-bis (insieme alle ipotesi di condanna per altri titoli di reato, previsti 353, 353-bis, 603-bis, 629, 644, 648-bis, 648-ter del codice penale, dei delitti di cui all'art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all'art. 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356) nello stesso codice antimafia, all'art. 84, comma 4, lettera a) e' opportunamente considerato come elemento da cui e' possibile inferire (senza, pero', alcun automatismo probatorio) la sussistenza di un rischio concreto di infiltrazione mafiosa o della criminalita' organizzata, ai fini dell'adozione di un'informativa interdittiva; in tal senso, nel contesto dell'art. 84, risulta perfettamente coerente la collocazione dell'art. 640-bis tra i "delitti-spia" significativamente indicativi della capacita' di penetrazione nell'economia legale da parte della criminalita' organizzata, come ben evidenziato dal decreto cautelare presidenziale n. 4808/2019». Alla luce di quanto sin qui riportato pare, quindi, potersi rilevare, come gia' anche la III sezione del Consiglio di Stato, che il previsto effetto interdittivo automatico della condanna per il reato di cui all'art. 640-bis, previsto dall'art. 67 del codice antimafia, potrebbe risultare, allo stato, irragionevolmente sproporzionato rispetto alla finalita' preventiva perseguita dal legislatore, il che alimenta anche l'ulteriore dubbio sulla legittimita' della sua applicabilita' retroattiva, potendosi ipotizzare che la sua finalita' sia sostanzialmente punitiva e non preventiva, con la conseguente applicazione dei principi costituzionali e convenzionali in materia di irretroattivita' delle norme penali. Con riguardo al profilo della ritenuta violazione dei principi di proporzionalita' e ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione pare, inoltre, opportuno ricordare che la ragionevolezza delle leggi e' corollario del principio di uguaglianza ed esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate, o congruenti, rispetto al fine perseguito dal legislatore, con la conseguenza che sussiste la violazione di tale principio laddove si riscontri una contraddizione all'interno di una disposizione legislativa, oppure tra essa ed il pubblico interesse perseguito che costituisce un limite al potere discrezionale del legislatore, impedendone un esercizio arbitrario. Nel caso di specie, il dubbio di costituzionalita' riguarda una norma la quale fa derivare un effetto interdittivo automatico a carico di soggetti che sono stati condannati per un reato (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) che non e' riconducibile tout court alla criminalita' organizzata di tipo mafioso e che puo', al piu', costituire mera circostanza da cui desumere, nello specifico caso concreto e attraverso una compiuta e diffusa valutazione di carattere necessariamente discrezionale, elementi sintomatici di contiguita' al fenomeno mafioso della specifica condotta posta in essere. La disposizione, laddove fa derivare automatici effetti ostativi, appare, quindi, eccedere lo scopo che si propone che e' quello di contrastare, mediante apposite misure di carattere preventivo, il dilagare dell'ingerenza da parte della criminalita' organizzata nel tessuto socio-economico, che - come ripetutamente evidenziato dal Consiglio di Stato - ha effetti inquinanti e falsanti il libero e naturale sviluppo dell'attivita' economica nei settori infiltrati, con grave vulnus, non solo per la concorrenza, ma per la stessa liberta' e dignita' umana (ex multis Cons. Stato, sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651). Al collegio pare, dunque, che l'automatismo previsto nel caso specifico non sia direttamente e immediatamente correlato all'interesse pubblico generale a preservare l'integrita' del tessuto economico sociale di mercato libero e competitivo e che piuttosto elida, in spregio ai principi di proporzionalita' e ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, la liberta' di iniziativa economica privata assicurata dall'art. 41 della Costituzione e la possibilita' di svolgere qualsivoglia attivita' lavorativa, professionale ed economica soggetta a «iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo». Nel caso di specie - pur non essendovi (o, comunque, non essendo stata data alcuna evidenza) della sussistenza di effettive correlazioni alla «mafia» della condotta posta in essere dal ricorrente e sanzionata con la condanna da cui in sede amministrativa sono state fatte derivare nei confronti del ricorrente conseguenze cosi' gravemente pregiudizievoli in forza della norma di legge di cui viene messa in dubbio la costituzionalita' - il provvedimento impugnato incide, invero, compromettendola, sull'intera attivita' imprenditoriale del medesimo, soggetta a regime autorizzatorio, quali l'iscrizione alla Camera di commercio e all'albo professionale degli ingegneri. Nessun utile elemento che possa indurre a ritenere, comunque, ragionevolmente giustificato l'inserimento del reato di cui all'art. 640-bis c.p. tra quelli aventi immediata e automatica valenza ostativa risulta, peraltro, ritraibile nemmeno dagli atti preparatori della legge (relazione che accompagna il decreto-legge n. 113/2018 - Atto Senato n. 840, p. 21), ove si legge che: «La disposizione che modifica il comma 8 dell'art. 67 (art. 24, comma 1, lettera d) del decreto-legge) e' finalizzata ad estendere gli effetti dei divieti e delle decadenze previsti dai commi 1, 2 e 4 del citato articolo derivanti dall'applicazione di misure di prevenzione nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancor che' non definitiva, confermata in grado di appello, anche per i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente pubblico di cui all'art. 640, secondo comma, numero 1), del codice penale, e per quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all'art. 640-bis del medesimo codice. A seguito di tale intervento, conseguentemente, si applicano ai predetti soggetti le fattispecie ostative che impediscono il rilascio della documentazione antimafia, delle comunicazioni antimafia di cui all'art. 84 e delle verifiche antimafia di cui all'art. 85 del codice antimafia. Ed invero i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente pubblico, di cui all'art. 640, secondo comma, numero 1), del codice penale e di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all'art. 640-bis dello stesso codice, nonostante siano nella prassi le attivita' delittuose poste in essere piu' frequentemente per ottenere il controllo illecito degli appalti, non figurano, nel quadro normativo attuale, tra le ipotesi rilevanti al fine del diniego del rilascio della documentazione antimafia. A tale lacuna pone rimedio la disposizione in commento, che modifica il comma 8 dell'art. 67 del codice antimafia». Come opportunamente osservato dal ricorrente nella memoria dimessa in vista dell'odierna udienza, i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente pubblico (art. 640 c.p.) e di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), attribuiti alla competenza dei Tribunali territoriali, non rientrano, infatti, nel novero di quelli effettivamente legati ad attivita' distorsive in materia di appalti pubblici [come ad es. art. 353 c.p. (turbata liberta' degli incanti), art. 353-bis c.p. (turbata liberta' del procedimento di scelta del contraente), art. 354 c.p. (astensione dagli incanti); art. 356 c.p. (frode in pubbliche forniture)], sicche' ritenere che gli stessi siano «nella prassi le attivita' delittuose poste in essere piu' frequentemente per ottenere il controllo illecito degli appalti» costituisce, in effetti, una «non giustificazione» che viepiu' avvalora l'irragionevolezza della disposizione legislativa in questione, in quanto non offre, tra l'altro, alcuna evidenza delle concrete ed effettive ragioni per cui sono stati messi sullo stesso piano dei gravissimi reati menzionati all'art. 51, comma 3-bis c.p.p. (attributi alla competenza della Procura Distrettuale Antimafia e quindi al Tribunale distrettuale), essendo oltremodo palese il diverso grado di disvalore delle condotte rispettivamente sanzionate. Da ultimo preme, inoltre, ribadire, come gia' dianzi anticipato, che l'irragionevole assimilazione nel contesto della norma che qui viene in rilievo del reato di cui all'art. 640-bis c.p. a quelli, decisamente piu' gravi, indicati all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. si traduce sostanzialmente in un inasprimento, peraltro in assenza di un previa ed equa valutazione giudiziale e del legittimo e compiuto esercizio di tutte le prerogative difensive, del regime sanzionatorio previsto per il reato che assume rilievo, che si scontra inevitabilmente con i principi di cui agli articoli 25 e 27 della Costituzione, anche in relazione agli articoli 6 e 7 CEDU, in particolare laddove, come nel caso di specie, siffatti effetti pregiudizievoli vengono fatti derivare anche da sentenze pronunciate antecedentemente all'entrata in vigore dell'art. 24, comma 1, lettera d) del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° dicembre 2018, n. 132, che ha inserito l'art. 640-bis c.p.p. all'interno dell'art. 67, comma 8, decreto legislativo n. 159/2011. Per le ragioni sin qui esposte, il collegio, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dianzi prospettata, la solleva d'ufficio, ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87 dell'11 maggio 1983, e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sospendendo, al contempo, il giudizio in corso. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese e' riservata alla decisione definitiva.