TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI MILANO 
                       Ufficio di Sorveglianza 
 
    Il Magistrato Simone Luerti, nel procedimento di sorveglianza nei
confronti di C. A., nato a ..., attualmente detenuto presso la I C.R.
di Milano Opera; avente per oggetto istanza di detenzione domiciliare
ex art. 47-ter OP; 
    titolo  esecutivo:  provvedimento  esecuzione  pene   concorrenti
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia n.  1239/2019
SIEP; 
    pena da espiare: anni 14 mesi 7 di reclusione; 
    decorrenza pena  26  febbraio  2019;  fine  pena  attuale  al  25
settembre 2033; 
    reati per cui vi e' condanna in esecuzione: 
    bancarotta fraudolenta ex art.  216  regio  decreto  n.  267/1942
(commessa il 27 giugno 2000); 
    fatti di bancarotta fraudolenta ex  art.  223  regio  decreto  n.
267/1942 con recidiva  ex  art.  99,  comma  IV,  del  codice  penale
(commessi in data 25 ottobre 1999 e in data 14 febbraio 2000); 
    fatti di bancarotta fraudolenta ex  art.  223  regio  decreto  n.
267/1942 (commessi in data 27 gennaio 2011); 
    omessa  dichiarazione   annuale   d'imposta   art.   5,   decreto
legislativo n. 74/2000, con recidiva ex art. 99, comma IV, del codice
penale (commessa in data 24 ottobre 2013); 
    occultamento o  distruzione  di  documenti  contabili,  art.  10,
decreto legislativo n. 74/2000 (commessa il 24 ottobre 2013). 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Il detenuto  istante  sta  espiando  in  carcere  la  pena  della
reclusione sopra indicata per alcuni  reati  fallimentari  e  fiscali
commessi nel corso degli armi ed in  occasione  della  sua  attivita'
imprenditoriale.  La  pluralita'  di  condotte  illecite  oggetto  di
condanna ha determinato altresi' in alcuni casi il  riconoscimento  e
l'applicazione  della  circostanza  aggravante  della  recidiva;   la
medesima  circostanza  e'  stata  ritenuta  anche  in   alcuni   casi
precedenti gia' espiati. 
    L'esecuzione della pena iniziava in data 26 febbraio 2019 e  dura
quindi da circa un anno. 
    Con istanza in data 24 settembre 2019, legittimamente  presentata
personalmente dal carcere, il detenuto ha chiesto di  essere  ammesso
alla misura alternativa della detenzione domiciliare, da  trascorrere
presso l'abitazione della moglie signora P. M. (sita in ...). 
    A causa della misura della pena e della assenza di indicazione di
patologie fisiche o psichiche da parte dell'interessato, l'istanza e'
interpretabile e applicabile solo ai sensi dell'art. 47-ter, comma 01
O.P., c.d. detenzione domiciliare per ultrasettantenni, che quindi e'
l'unica misura di cui potrebbe astrattamente beneficiare. 
Esame della rilevanza della questione. 
    Cio' premesso in fatto, deve affrontarsi la questione preliminare
di ammissibilita' dell'istanza avanzata dal detenuto, alla stregua di
quanto previsto dall'art. 47-ter, comma 01 OP. 
    La norma in esame prevede  che  «La  pena  della  reclusione  per
qualunque reato ad eccezione di quelli previsti dal Libro  II  titolo
XII capo III  sezione  I  e  dagli  articoli  609-bis,  609-quater  e
609-octies del codice penale, dall'art. 51, comma 3-bis,  del  codice
di procedura penale e dall'art.  4-bis  della  presente  legge,  puo'
essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico  di
cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona  che,  al
momento dell'inizio dell'esecuzione della pena, o dopo l'inizio della
stessa, abbia compiuto i settanta anni di eta' purche' non sia  stato
dichiarato delinquente abituale, professionale o  per  tendenza,  ne'
sia stato mai condannato con l'aggravante  di  cui  all'art.  99  del
codice penale». 
    Alla luce della norma applicabile, l'istanza e' ammissibile ed il
C... potrebbe astrattamente beneficiare della detenzione  domiciliare
ex art. 47-ter, comma 01 OP,  perche'  e'  in  possesso  di  tutti  i
requisiti formali richiesti  per  la  concessione  della  misura,  ad
eccezione  della  assenza  di  condanne  con  recidiva  su   cui   ci
soffermeremo piu' avanti. 
    Egli infatti non e' stato mai condannato per alcun reato ostativo
alla concessione della misura in esame, ne'  soprattutto  nessuno  di
tali reati e' compreso nel cumulo in espiazione. 
    Egli inoltre non risulta essere mai stato dichiarato  delinquente
abituale,  professionale  o  per  tendenza.   Infine,   ha   compiuto
settantotto  anni  e  quindi  e'   soggetto   ultrasettantenne,   non
destinatario di alcuna misura di sicurezza. 
    La norma  non  pone  limiti  di  pena  e  pertanto  l'istanza  e'
ammissibile anche con la condanna ad anni 14 e mesi 7 di reclusione. 
    La rilevanza  in  concreto  della  questione  si  apprezza  anche
osservando che la quota di pena residua da espiare (circa anni  13  e
mesi 8) impedisce qualsiasi altra misura alternativa  prevista  dalla
legge n. 354 del 26. luglio 1975 (ordinamento penitenziario). 
    Inoltre, il detenuto non  risulta  affetto  da  alcuna  patologia
fisica o psichica grave  e  non  ha  chiesto  ne'  puo'  chiedere  un
differimento della pena ex art. 146 o 147 del codice penale. 
    A questo  punto,  giova  sottolineare  che  l'unico  elemento  di
ostacolo alla concessione della misura della  detenzione  domiciliare
ex art. 47-ter, comma 01 OP, e' la presenza di condanne con  recidiva
ex art. 99 del codice penale nel cumulo in  espiazione,  e  di  altre
condanne precedenti gia' espiate, come gia' esposto in premessa. 
    Per comprendere i termini della questione, e'  utile  evidenziare
la struttura della norma in esame. 
    L'asse  portante  della  previsione   normativa   e'   costituito
dall'espressione: La pena della reclusione per qualunque reato  (...)
puo' essere espiata nella propria abitazione (...),  quando  trattasi
di persona che, al momento dell'inizio dell'esecuzione della pena,  o
dopo l'inizio della stessa, abbia compiuto i settanta anni di eta'. 
    La norma generale quindi non  impone  condizioni  ne'  limiti  di
pena, a differenza delle  altre  ipotesi  di  detenzione  domiciliare
previste dallo stesso art. 47-ter OP, ed e' ancorata alla  sola  eta'
del condannato. Solo l'espressione «puo'» rivela  che  il  Magistrato
conserva il generico potere di valutazione discrezionale nel merito. 
    In proposito,  e'  appena  il  caso  di  rammentare  la  costante
giurisprudenza di legittimita', a mente della quale, da un  lato,  la
detenzione domiciliare non e' misura che debba essere automaticamente
concessa ai  detenuti  ultrasettantenni,  dovendo  in  ogni  caso  la
magistratura di sorveglianza valutarne la meritevolezza e l'idoneita'
a facilitare il reinserimento sociale (cfr. tra molte, Cassazione  I,
n. 8712 dell'8 febbraio 2012 CED 252921 - 01) e  dall'altro,  risulta
«immanente al vigente sistema normativa una sorta di incompatibilita'
presunta con il regime carcerario per il soggetto che abbia  compiuto
i settanta anni,  sicche',  nell'ipotesi  di  esecuzione  della  pena
detentiva che lo riguardi, in presenza di un'istanza di  differimento
per motivi di salute o, in alternativa,  di  detenzione  domiciliare,
l'indagine del giudice in ordine alla gravita' delle  infermita'  che
lo affliggono e alla loro compatibilita' con lo stato  detentivo  non
e' decisiva, pur se  utile,  mentre  e'  determinante  l'accertamento
della  sussistenza  di  circostanze  eccezionali,  tali  da   imporre
l'inderogabilita' dell'esecuzione stessa ovvero da contrastare con la
possibilita' di renderla meno afflittiva, ricorrendone le  condizioni
di legge, mediante la detenzione domiciliare» (cfr. Cassazione 1,  n.
16183 del 12 febbraio 2001 e Cassazione I, n.  52979  del  13  luglio
2016). 
    La ratio della norma,  ispirata  al  principio  di  umanizzazione
della pena, e' quindi ancorata alla sola eta' del condannato ed  alla
presunzione relativa di incompatibilita' dello stato detentivo, a cui
possiamo aggiungere la difficile percorribilita'  di  un  trattamento
rieducativo intra murario  per  un  soggetto  ormai  personalmente  e
psicologicamente strutturato. 
    Tuttavia, proprio  per  compensare  l'ampiezza  della  previsione
generale, la norma prevede due eccezioni rappresentate da due  classi
di  cause  assolutamente  ostative  alla  concessione  della   misura
domiciliare in questione. 
    La prima e' costituita da un nutrito nucleo di reati  esattamente
identificati attraverso il richiamo a fonti normative specifiche e ad
altri  elenchi   di   reati,   che   l'ordinamento   qualifica   come
particolarmente gravi, socialmente  pericolosi  o  allarmanti  ed  in
particolare: quelli previsti dal Libro II titolo XII capo III sezione
l' e dagli articoli  609-bis,  609-quater  e  609-octies  del  codice
penale, dall'art. 51, comma 3-bis del codice di  procedura  penale  e
dall'art. 4-bis della presente legge. 
    Per  tutti   questi   reati   la   detenzione   domiciliare   per
ultrasettantenni non puo'  essere  mai  applicata  per  l'evidente  e
comune ragione costituita dal giudizio di pericolosita' in astratto e
di non meritevolezza della misura alternativa che discende da  scelte
e qualificazioni delle condotte che il legislatore ha gia' operato  a
priori  in   altri   settori   dell'ordinamento.   Troviamo   infatti
raggruppati nel medesimo elenco  i  delitti  contro  la  personalita'
individuale  (come  la  riduzione  in  schiavitu',  la  prostituzione
minorile o la pedopomografia), le varie ipotesi di violenza sessuale,
i reati  attribuiti  alla  competenza  della  Direzione  distrettuale
antimafia ed infine tutti i reati ostativi di cui all'art. 4-bis OP. 
    La seconda eccezione riguarda la posizione giuridica  individuale
del condannato per i reati residui, a cui astrattamente la detenzione
domiciliare per ultrasettantenni sarebbe  applicabile,  «purche'  non
sia  stato  dichiarato  delinquente  abituale,  professionale  o  per
tendenza, ne' sia  stato  mai  condannato  con  l'aggravante  di  cui
all'art. 99 del codice penale». 
    In questo caso lo stigma di pericolosita' e non meritevolezza  e'
ancora formulato astrattamente, ma non viene mutuato  da  valutazioni
del legislatore, bensi'  da  giudizi  formulati  in  altre  sedi  sul
soggetto interessato ed in particolare  in  provvedimenti  giudiziari
specifici. 
    Questa  eccezione  o,  se   vogliamo,   requisito   negativo   di
ammissibilita', deve essere tuttavia esaminato piu' nel dettaglio. 
    Appare prima facie evidente  che  nel  novero  dei  provvedimenti
ostativi alla detenzione domiciliare sono compresi sia  provvedimenti
di accertamento e dichiarazione giudiziale di  pericolosita'  sociale
in concreto (dichiarazione di delinquenza abituale,  professionale  o
per tendenza), sia condanne  per  qualsiasi  reato  con  l'aggravante
della recidiva ex art. 99 codice penale senza  distinzioni  e  quindi
per tutte le ipotesi contemplate dalla norma. 
    In tema di dichiarazione di delinquenza abituale, anche  presunta
dalla legge ai sensi dell'art. 102 codice penale, e'  bene  precisare
che la costante interpretazione della giurisprudenza di  legittimita'
richiede la contemporanea sussistenza tanto dei presupposti oggettivi
indicati dall'art. 102 codice penale quanto della attuale e  concreta
pericolosita' sociale del soggetto, ai sensi degli articoli 133 c 203
dello stesso codice (cfr. la  recente  Cassazione  I,  n.  49976  del
17/9/2018 CED 276141). 
    La norma in esame accomuna ad  una  dichiarazione  giudiziale  di
pericolosita'  sociale,  attribuendole  identica  funzione  ostativa,
anche una ipotesi affatto diversa  e  cioe'  non  essere  «stato  mai
condannato con l'aggravante di cui all'art. 99 del codice penale». 
    In  tutta  evidenza,  si  tratta  di  un  ulteriore  giudizio  in
astratto,  meccanicamente  ostativo  alla  concessione  della  misura
domiciliare,  pur  in  presenza  di  tutti  gli  altri  requisiti  di
legittimita', ma ancorato a condizioni di fatto e di diritto  affatto
diverse, aleatorie nella loro ricorrenza, che esprimo un giudizio  di
pericolosita'   indiretto,   di   intensita'   potenzialmente   molto
differente e soprattutto non attuale. 
    In materia di recidiva, e' appena il caso  di  ricordare  che  si
tratta di un dato oggettivo che qualifica un soggetto gia' condannato
per uno o piu' reati, che commette altre condotte criminose  dopo  la
condanna per le precedenti. 
    Si ritiene comunemente che l'istituto abbia natura di circostanza
aggravante, ma la dottrina penalistica piu' moderna ritiene  che  sia
uno  stato  personale  del  colpevole  che   funge   da   indice   di
commisurazione della pena; in ogni caso, in giurisprudenza  e'  certo
che la recidiva vada  soggetta  al  giudizio  di  comparazione  delle
circostanze. 
    Anche la giurisprudenza costituzionale ha contribuito a delineare
l'istituto, individuando il  suo  fondamento  nella  piu'  accentuata
colpevolezza e nella maggiore pericolosita' del reo, da  valutare  ai
fini della applicazione facoltativa e discrezionale  dell'aumento  di
pena (Corte cost. n. 192 del 2007). Del  pari,  e'  pacifico  che  la
recidiva   debba   essere   contestata   dal    pubblico    ministero
nell'imputazione del fatto e che in mancanza il giudice non  la  puo'
accertare e ritenere in sentenza. Per contro, sin dalla  riforma  del
decreto-legge  n.  99/1974,  vige  il  principio  della  applicazione
facoltativa della recidiva anche 
    ritualmente contestata, recentemente  riaffermato  proprio  dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 185/2005, che  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale  del  comma  5  dell'art.  99  codice
penale, come novellato dalla legge n. 251/2005, nella  parte  in  cui
imponeva l'aumento obbligatorio della recidiva per i delitti  di  cui
all'art. 407 comma 2 lettera a) codice di procedura penale. 
    La sentenza citata, sulla scorta di precedenti costituzionali, ha
ribadito che nel caso di recidiva facoltativa l'aumento di pena  puo'
essere disposto «solo allorche' il nuovo episodio  delittuoso  appaia
concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al  tempo  di
commissione dei precedenti, sotto il profilo  della  piu'  accentuata
colpevolezza e della maggiore pericolosita' del  reo»  (ordinanza  n.
409 del 2007; conformi, ex plurimis, ordinanze n. 193, n. 90 e n.  33
del 2008). 
    La   pronuncia   citata   ha   inoltre   sottolineato   come   la
giurisprudenza di legittimita' abbia  recepito  l'orientamento  della
Corte ed  abbia  indicato  altresi'  gli  indici  in  base  ai  quali
applicare la recidiva; in particolare ha  ricordato  che  il  giudice
dovra' tenere conto "della natura dei reati, del tipo di devianza  di
cui sono il segno, della qualita' dei comportamenti, del  margine  di
offensivita' delle condotte, della distanza temporale e  del  livello
di omogeneita'  esistenti  fra  loro,  dell'eventuale  occasionalita'
della   ricaduta   e    di    ogni    altro    possibile    parametro
individualizzante„rignificativo della  personalita'  del  reo  e  del
grado di colpevolezza, al di  la'  del  mero  riscontro  formale  dei
precedenti penali. (Corte di cassazione,  sezioni  unite  penali,  27
maggio 2010, n.  35738.  In  senso  conforme,  Corte  di  cassazione,
sezioni unite penali, 24 febbraio 2011, n. 20798)». 
    Dalla sommaria esposizione della struttura  e  del  funzionamento
della recidiva si  possono  trarre  alcune  considerazioni  utili  ai
nostri fini: 
        la recidiva implica un  giudizio  di  pericolosita',  che  si
risolve in un fattore aggravante della colpevolezza che incide  sulla
commisurazione della pena; nella prassi  in  realta'  e'  considerato
piuttosto come fattore di maggiore gravita' della condotta attuale in
forze di fatti analoghi del passato; l'unico riflesso negativo  sulla
persona e' ancora una volta centrato  sulla  pena,  che  deve  essere
aumentata in  ragione  della  dimostrata  inefficacia  deterrente  di
precedenti condanne; 
        in questi termini, piu' comunemente la recidiva  non  esprime
un giudizio generale prognostico sulla persona, ma uno specifico  sul
fatto, ritenuto piu' grave perche' reiterato; 
        la  sua  applicazione  dipende  da  condizioni  variabili   e
ingovernabili quali l'effettiva contestazione da parte  del  pubblico
ministero (che non sempre assolve  l'obbligo  di  contestarla)  e  la
discrezionalita' del giudice nel riconoscerla e applicarla, alla luce
della complessita' di criteri sopra indicati dalla SC; 
        nella prassi giudiziaria entrambe le scelte discrezionali che
precedono dipendono sia  da  molteplici  e  non  ostensibili  fattori
soggettivi, sia dalla  correttezza  e  dalla  professionalita'  degli
interpreti; - proprio per la sua imponderabilita', puo' accadere  che
la recidiva venga riconosciuta su reati lievi e poco significativi in
termini sia di allarme sociale, sia di entita' della  pena,  ma  cio'
nel contempo puo' ostacolare l'espiazione domiciliare della pena  per
altri e ben piu' gravi reati, anche in assenza  di  contestazione  di
recidiva; 
        anche nella misura in cui la recidiva implica  indirettamente
un giudizio di pericolosita', si deve  osservare  che  tale  giudizio
risale al tempo della sentenza di condanna, quindi non e'  attuale  e
nessuna norma consente di  attualizzarlo  al  tempo  della  decisione
sulla misura alternativa, in relazione alle circostanze  oggettive  e
soggettive del presente; 
        nello   specifico   della    detenzione    domiciliare    per
ultrasettantenni,  infine,  si  osserva  che  l'ammissibilita'  della
misura alternativa  non  conosce  soglie  di  pena,  mentre  in  modo
contraddittorio patisce l'ostacolo di un  istituto  che  incide  solo
sulla commisurazione della pena, aumentandola in caso  di  precedenti
condanne. 
    Ne consegue che, secondo la normativa citata, di cui si  sospetta
l'incostituzionalita',  la  valutazione  discrezionale  e  di  merito
tipica della  Magistratura  di  Sorveglianza  circa  l'applicabilita'
della   misura   alternativa   della   detenzione   domiciliare   per
l'ultrasettantenne e' impedita in modo oggettivo e  insuperabile  non
solo da condizioni di valutata pericolosita' da parte della  legge  o
del giudice, ma anche da un fattore imponderabile,  aleatorio  e  non
rappresentativo di pericolosita' attuale o non  meritevolezza,  quale
e' la recidiva. 
    La non manifesta infondatezza della questione. 
    Il principale parametro costituzionale invocato e'  rappresentato
dal principio di eguaglianza, proporzionalita'  e  ragionevolezza  di
cui all'art. 3 Cost. 
    In base al principio citato, la Corte ha costantemente  affermato
in molteplici e diversificate materie che «le  presunzioni  assolute,
specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano
il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali,  cioe'
se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella
formula    dell'id    quod    plerumque     accidit»,     sussistendo
l'irragionevolezza della presunzione assoluta «tutte le volte in  cui
sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa»  (cfr.  Corte
costituzionale n. 172 del 2012, che a sua volta richiama  le  proprie
sentenze n. 231 e n. 164 del 2011; n. 265 e n. 139 del 2010). 
    Al principio di eguaglianza  si  somma  la  funzione  rieducativa
della pena di cui all'art.  27-terzo  conma  Cost.,  che  implica  un
costante "principio di proporzione" tra qualita'  e  quantita'  della
sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra (Corte cost. n. 341  del
1994 e n. 251 del 2012), applicabile ad ogni pena inflitta e ad  ogni
forma di espiazione della stessa anche alternativa. E' appena il caso
di rammentare il consolidato principio costituzionale, affermato  sin
dalla sentenza n.  313  del  1999,  secondo  il  quale  la  finalita'
rieducativa della pena informa tutte le fasi della  sanzione  penale,
dalla  previsione  normativa  astratta  fino   all'esecuzione   della
condanna definitiva e quindi a maggior ragione in materia  di  misure
alternative. 
    Oltre ad affermare il citato principio in termini coerenti con la
propria costante giurisprudenza, nella  sentenza  indicata  la  Corte
censura una norma che  puo'  essere  agevolmente  letta  in  perfetto
parallelismo a quella oggetto della presente questione. 
    In particolare, la sentenza n. 172 cit. dichiara l'illegittimita'
costituzionale  dell'art.  1-ter,   comma   13,   lettera   c),   del
decreto-legge 1° luglio  2009,  n.  78,  introdotto  dalla  legge  di
conversione 3 agosto 2009, n. 102, nella parte  in  cui  fa  derivare
automaticamente il rigetto  della  istanza  di  regolarizzazione  del
lavoratore extracomunitario dalla pronuncia nei suoi confronti di una
sentenza di condanna per uno dei reati  previsti  dall'art.  381  del
codice  di  procedura  penale,  senza  prevedere  che   la   pubblica
amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una
minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. 
    In  motivazione  la  Corte  precisa  che  il   legislatore   puo'
legittimamente subordinare la regolarizzazione del rapporto di lavoro
al fatto che la permanenza nel territorio  dello  Stato  non  sia  di
pregiudizio ad alcuno  degli  interessi  coinvolti  dalla  disciplina
dell'immigrazione, ma la relativa scelta deve costituire il risultato
di  un  ragionevole  e  proporzionato  bilanciamento  degli   stessi,
soprattutto quando sia suscettibile di  incidere  sul  godimento  dei
diritti fondamentali. 
    In altre parole, la Corte riconosce la legittimita'  della  norma
che impedisce la  regolarizzazione  del  lavoratore  extracomunitario
condannato per uno dei  delitti  previsti  dall'art.  381  codice  di
procedura penale  (delitti  che  consentono  l'arresto  in  flagranza
facoltativo); tuttavia, censura il fatto  che  l'  ostativita'  della
condanna per tali delitti operi indefettibilmente, quando  invece  la
stessa norma subordina l'arresto (che appunto e' facoltativo)  a  una
specifica  valu  azione  di  elementi  ulteriori  rispetto  a  quelli
consistenti nella mera  commissione  del  fatto.  La  Corte  conclude
introducendo la necessita' della (ri)valutazione attuale  e  concreta
del sospetto di minaccia per l' ordine pubblico o la sicurezza  dello
Stato, indiziato dal dato formale dell'avere riportato  condanna  per
delitto di cui all'art. 381 codice di procedura penale. 
    In termini ancora  piu'  pertinenti,  giova  richiamare  la  gia'
citata sentenza Corte costituzionale n. 185 del 2015  in  materia  di
applicazione obbligatoria della recidiva  ex  art.  99  comma  quinto
codice penale come novellato dalla legge. n. 251/2005, senza  che  il
giudice sia tenuto ad  accertare  in  concreto  se,  in  rapporto  ai
precedenti, il nuovo episodio delittuoso sia indicativo di  una  piu'
accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosita' del reo. 
    Nell'introdurre il proprio ragionamento, la Corte  ribadisce  che
l'individuazione delle condotte  punibili  e  la  configurazione  del
relativo trattamento sanzionatorio rientrano  nella  discrezionalita'
legislativa,  che  e'  sindacabile  sul  piano   della   legittimita'
costituzionale  solo  nel  caso  in  cui   si   traduca   in   scelte
manifestamente irragionevoli o arbitrarie. 
    Nel rispetto di tale principio, la Corte  censura  il  fatto  che
l'automatico  e   obbligatorio   aumento   di   pena   sia   derivato
esclusivamente dal dato formale del titolo di reato commesso, secondo
il rigido automatismo sanzionatorio cui da' luogo la norma censurata.
Cio'  e'  ritenuto  "del  tutto  privo  di  ragionevolezza,   perche'
inadeguato a  neutralizzare  gli  elementi  eventualmente  desumibili
dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e  dagli
altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione  del
giudice, prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi
di una piu' accentuata colpevolezza e di una  maggiore  pericolosita'
del reo. L'obbligatorieta' stabilita dal quinto  comma  dell'art.  99
cod pen. impone l'aumento della pena anche nell'ipotesi in cui esiste
un  solo  precedente,  lontano  nel  tempo,  di   poca   gravita'   e
assolutamente privo di significato affini della recidiva". 
    Risulta estremamente interessante ai nostri fini  osservare  come
la  Corte  tenga  a  precisare   che   "l'automatismo   sanzionatorio
introdotto dalla norma censurata non potrebbe  giustificarsi  neppure
ritenendo che esso si fondi  su  una  presunzione  assoluta  di  piu'
accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosita' del reo". 
    E cio' per la costante affermazione gia' richiamata  secondo  cui
«le  presunzioni  assolute,  specie  quando   limitano   un   diritto
fondamentale della persona, violano il principio di  eguaglianza,  se
sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se  non  rispondono  a  dati  di
esperienza  generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod
plerumque accidit», sussistendo l'irragionevolezza della  presunzione
assoluta «tutte le volte in cui sia "agevole"  formulare  ipotesi  di
accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a  base  della
presunzione stessa» (cfr. Corte costituzionale n. 172 del 2012, che a
sua volta richiama le proprie sentenze n. 231 e n. 164 del  2011;  n.
265 e n. 139 del 2010). 
    E' appena il caso di ricordare che il medesimo principio e' posto
a fondamento  della  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 275, comma 3,  secondo  periodo  del  codice  di  procedura
penale, nella parte in cui prevede l'idoneita'  della  sola  custodia
cautelare in carcere per determinati delitti di particolare gravita',
senza fare salva l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici,
in relazione al caso concreto, dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure (Corte cost. n.
110 del 2012). 
    Giova riprendere  a  questo  punto  la  norma  in  scrutinio  per
osservare come la stessa preveda la natura ostativa di una  qualsiasi
precedente condanna con recidiva (ne' sia stato  mai  condannato  con
l'aggravante di cui all'art. 99 del codice penale)  alla  concessione
della detenzione domiciliare per ultrasettantenne,  senza  consentire
alcuna valutazione in concreto  ne'  di  pericolosita'  attuale,  ne'
-quanto  meno  -  di   adeguata   e   ragionevole   incidenza   sulla
meritevolezza della misura stessa. 
    La stessa contestazione della recidiva, successivamente  ritenuta
dal  giudice  in  sentenza,  dipende  da  una  serie   di   variabili
discrezionali che  si  risolvono  in  un  giudizio  di  pericolosita'
affatto inattendibile. In ogni caso, la recidiva  si  rivolge  ad  un
passato che puo' essere anche lontano, sia dalla stessa sentenza  che
la applica, sia  a  maggior  ragione  dal  momento  successivo  della
decisione  sulla  misura  alternativa  in  fase  esecutiva,  in   cui
determina il suo effetto ostativo. 
    Inoltre,  anche   quando   sia   correttamente   ritenuta,   puo'
legittimamente  accedere  a  fattispecie  concrete  lievi,  legate  a
contingenze del caso concreto, affatto  non  rappresentative  di  una
piu' accentuata colpevolezza,  ne'  una  maggiore  pericolosita'  del
condannato. Cio' solo rende manifestamente agevole" formulare ipotesi
di accadimenti reali contrari  alla  generalizzazione  posta  a  base
della  presunzione  stessa,  potendosi  riscontrare   nella   pratica
condannanti con recidiva per  nulla  pericolosi  e  condannati  senza
recidiva  molto  pericolosi,  in  entrambi   i   casi   per   ragioni
imponderabili. 
    Il giudizio sulla personalita' del reo e sulla sua  pericolosita'
soggettiva e' bloccato dal meccanismo automatico della norma,  quando
invece - proprio perche'  ultrasettantenne  -  egli  potrebbe  essere
concretamente ben lontano nel  tempo  e  nello  spazio  da  contesti,
ambienti, occasioni, relazioni, capacita' al delitto, in misura  tale
da neutralizzare nel presente la pericolosita' ritenuta nel passato. 
    La  previsione  di  un  insuperabile  fattore  ostativo,   legato
solamente al dato formale della  precedente  condanna  con  recidiva,
senza alcuna possibile verifica della concreta  significativita'  del
giudizio risalente nel tempo in punto di piu' accentuata colpevolezza
e della maggiore pericolosita' del reo, viola anche l'art. 27,  terzo
comma, Cost., che -  come  e'  gia'  stato  accennato  -  implica  un
costante principio di proporzione  tra  qualita'  e  quantita'  della
sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra. 
    Impedire  in  radice  l'accertamento  della   effettiva   valenza
indiziante  di  pericolosita'   della   recidiva,   puo'   ostacolare
l'applicazione di una misura alternativa come la specifica detenzione
domiciliare  in  esame,  in  modo  irragionevole  e   sproporzionato,
determinando nel condannato un senso di ingiustizia che si risolve in
una frustrazione della finalita' rieducativa e risocializzante  della
pena, prevista dall'art. 27, terzo comma, Cost.. 
    Tale  giudizio   rende   palesemente   fondata   l'eccezione   di
legittimita' costituzionale, ove si osservi a maggior ragione che  la
norma rende inammissibile la misura alternativa  indistintamente,  in
presenza di qualsiasi forma di recidiva - anche semplice -  applicata
in qualsiasi condanna nel tempo (ne' sia stato mai condannato...)  ed
infine per qualsiasi reato. 
    Per le ragioni sopra esposte, ad  avviso  di  questo  Magistrato,
sussistono ragioni  di  contrasto  della  norma  contenuta  nell'art.
47-ter, comma 01 O.P. con gli articoli  3  e  27,  comma  3  Cost.  e
pertanto, preso  atto  della  rilevanza  in  fatto,  deve  sollevarsi
questione  di  illegittimita'  costituzionale,  che  si  ritiene  non
manifestamente infondata.