LA CORTE DI CASSAZIONE Terza sezione penale Composta da: Vito Di Nicola, Presidente; Angelo Matteo Socci; Antonella Di Stasi; Stefano Corbetta, relatore; Enrico Mengoni. Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da B. G., nato a ... il ... avverso la sentenza del 3 giugno 2019 della Corte di appello di Lecce; Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; Udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Corbetta; Lette le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Valentina Manuali, che ha concluso chiedendo l'inammissibilita' del ricorso. Ritenuto in fatto 1. Con l'impugnata sentenza, la Corte di appello di Lecce confermava la decisione resa dal G.u.p. del Tribunale di Brindisi all'esito del giudizio abbreviato e appellata dall'imputato, la quale, ritenuta la continuazione, aveva condannato G. B. alla pena di un anno e dieci mesi di reclusione e 6.000 euro di multa perche' ritenuto responsabile dei reati di cui agli articoli 81 del codice penale, 9, comma 7, legge n. 376 del 2000 (capo 1) e articoli 110, 476, 482 del codice penale (capo 2), a lui ascritti per avere commercializzato, mediante consegna a numerosi soggetti praticanti l'attivita' del culturismo che frequentavano la palestra di cui era titolare - due dei quali partecipanti a gare pubbliche di body building -, specialita' medicinali ad azione anabolizzante attraverso canali non ufficiali e ottenute mediante la predisposizione di ricette mediche falsificate. 2. Avverso l'indicata sentenza, l'imputato, per il tramite del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. 2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell'art. 606, comma 1, lettera b) del codice di procedura penale in relazione all'art. 546, comma 1, lettera e) del codice di procedura penale. Assume il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe erroneamente rigettato il motivo di appello incentrato sulla sostanziale carenza di autonoma valutazione degli elementi di prova, essendosi il G.u.p. limitato a una parafrasi dell'ordinanza cautelare, cio' che integra, ad avviso del ricorrente, il vizio di difetto di motivazione. 2.2. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell'art. 606, comma 1, lettera b) ed e) del codice di procedura penale in relazione all'art. 9, comma 7, legge n. 376 del 2000. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe erroneamente ravvisato l'ipotesi di commercializzazione di prodotti anabolizzanti sulla base delle intercettazioni telefoniche, che, da sole, non potrebbero costituire prova di penale responsabilita', e senza considerare che: 1) non e' emerso alcun rapporto con il coimputato M.; 2) i rapporti con il P. erano esclusivamente finalizzati all'acquisto di materiale lecito, quali proteine, berrette proteiche, ecc.; 3) il B. forniva al B. solamente integratori alimentari. La Corte territoriale, inoltre, non avrebbe correttamente valutato le dichiarazioni dell'imputato, il quale ha si' ammesso di aver detenuto e utilizzato prodotti anabolizzanti ma per uso personale; in ogni caso, sarebbe al piu' configurabile la meno grave ipotesi di cui al comma 1 dell'art. 9, legge n. 376 del 2000, non essendo ravvisabile l'esercizio abituale dell'attivita' illecita. 2.3. Con il terzo motivo si censura la violazione dell'art. 606, comma 1, lettera b) ed e) del codice di procedura penale in relazione agli articoli 476, 82 del codice penale. Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe desunto la prova della penale responsabilita' del reato di cui al capo 2) unicamente dal contenuto delle dichiarazioni del computato M., le quali sarebbero sprovviste di elementi di riscontro. 2.3. Con il quarto motivo si eccepisce la violazione dell'art. 606, comma 1, lettera b) ed e) del codice di procedura penale in relazione agli articoli 62-bis e 133 del codice di procedura penale. Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe negato l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche sulla base di un presupposto errato, ossia che il B. non abbia ammesso le proprie responsabilita', in quanto l'imputato ha confessato di essere assuntore di sostanze dopanti, negando solamente di averne fatto commercio e di aver compilato ricette false. Considerato in diritto 1. Il primo motivo e' manifestamente infondato. 2. Come correttamente ritenuto dalla Corte d'appello, il richiamo alla violazione dell'art. 292 del codice di procedura penale, che indica i requisiti dell'ordinanza applicativa di una misura cautelare, e' del tutto eccentrico rispetto alla sentenza, che e' invece disciplinata, quanto a forma e a contenuto, dall'art. 546 del codice di procedura penale, alla cui stregua devono percio' essere valutate e dedotte eventuali nullita'. 3. Peraltro, a conferma della non pertinenza del parametro normativo che si assume violato va evidenziato non solo il diverso atteggiarsi del principio del contraddittorio nella fase procedimentale rispetto a quella processuale, anche quando l'imputato - come nel caso in esame - acceda a un rito alternativo, ma anche e soprattutto il diverso standard probatorio richiesto per l'emissione di una misura cautelare personale, che, ai sensi dell'art. 273, comma 1, del codice di procedura penale, esige la sussistenza di «gravi indizi di colpevolezza», e per l'affermazione della penale responsabilita', che, come emerge dall'art. 533, comma 1, del codice di procedura penale, va provata oltre ogni ragionevole dubbio. 4. Il terzo motivo e' inammissibile perche' fattuale, essendo diretto a contestare la valutazione delle prove operata dai giudici di merito, e, comunque, perche' generico. 5. Il ricorrente non si confronta con la motivazione della Corte territoriale, la quale ha desunto il giudizio di penale responsabilita' per il reato di cui al capo 2) dalle dichiarazioni del computato N. M. - il quale ha riferito della richiesta del B., da lui adempiuta, di realizzare, tramite siti web, ricette mediche false, compilandole con i dati anagrafici fornitigli dal B., relative a prescrizioni di farmaci anabolizzanti -, riscontrate dai seguenti elementi: 1) le numerose ricette acquisite presso il servizio farmaceutico dell'Asl di ..., relative a farmaci dopanti, falsamente sottoscritte da una serie di medici, che, appunto, hanno disconosciuto la firma; 2) le false ricette rinvenute presso le farmacie di ... e di ..., ricollegabili all'attivita' del B., perche' presso la sua abitazione fu rinvenuto uno scontrino di acquisto della prima e perche' sono emersi contatti telefonici tra il ricorrente e il titolare della seconda; 3) il fatto che G. M., socio del B., sia stato riconosciuto dal farmacista L. A. come colui che aveva spedito presso la sua farmacia ricette poi rivelatisi false, contenenti richieste per l'acquisto di farmaci anabolizzanti; 4) il contenuto di talune intercettazioni telefoniche, in cui B. e M. parlano di rifare le «fotocopie» con indicazione di «due pezzi» o dei nomi da correggere con la sostituzione di consonanti (tel. n. 1776 del 15 luglio 2001, n. 1916 del 22 luglio 2011 e n. 3214 del 5 settembre 2011). Si tratta di una motivazione adeguata che, essendo immune da illogicita' manifeste, supera vaglio di legittimita'. 7. In ordine al secondo motivo, si osserva quanto segue. 8. L'art. 9, comma 7, legge n. 376 del 2000 puniva, con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 5.164 a 77.468 euro, «chiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all'art. 2, comma 1, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente, destinati alla utilizzazione sul paziente». Il comma 1 dell'art. 9 prevedeva una fattispecie meno grave, punita con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645, nei confronti di «chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l'utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste all'art. 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull'uso di tali farmaci o sostanze»; la fattispecie, peraltro, poteva trovare applicazione «salvo che il fatto costituisca piu' grave reato». Ferma restando l'identita' dell'oggetto del reato, ossia le cd. «sostanze, dopanti», le due ipotesi delittuose si differenziavano sia per la condotta - il commercio in un caso, il procurare ad altri, somministrare, assumere o favorire nell'altro -, sia per la presenza, nella sola ipotesi del comma 1, del dolo specifico, incarnato nel «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti». 9. L'art. 9, legge n. 376 del 2000 e' stato abrogato dall'art. 7, comma 1, lettera n), decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21; parallelamente, in applicazione del principio della «riserva di codice», ora enunciato nell'art. 3-bis del codice penale, l'art. 2, comma 1, lettera d), decreto legislativo n. 21 del 2018 ha trasferito nel codice panale le disposizioni gia' contenute nell'indicato art. 7: l'art. 586-bis del codice penale, infatti, incrimina l'utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti». In particolare, ai fini che qui interessano, il comma 7 dell'art. 586-bis del codice penale commina la reclusione da due a sei anni e la multa da 5.164 a 77.468 euro nei confronti di «chiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi indicate dalla legge, che siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero idonei a modificare i risultati dei controlli sull'uso di tali farmaci o sostanze, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati alla utilizzazione sul paziente». Il comma 1, invece, «salvo che il fatto costituisca piu' grave reato», punisce con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da 2.582 a 51.645 euro «chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l'utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste dalla legge, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull'uso di tali farmaci o sostanze». 10. Orbene, per quanto qui rileva, con riferimento alla condotta di commercio di sostanze dopanti, si osserva che non vi e' piena coincidenza tra la fattispecie di cui all'abrogato art. 9, comma 7, legge n. 376 del 2000 e quella oggetto di incriminazione da parte del vigente art. 586-bis, comma 7, del codice penale, che, a differenza della precedente figura delittuosa, contempla il dolo specifico del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», prevedendo, in alternativa (ipotesi che qui non rileva), la condotta di commercio di sostanze idonee a modificare i risultati anti-doping, che vengono assimilati alle sostanze dopanti. 11. Non vi e' dubbio che la previsione, nella nuova figura delittuosa considerata dal comma 7 dell'art. 586-bis del codice penale, del dolo specifico rappresenta un filtro selettivo della penale rilevanza della condotta, che e' ora punita solo ove l'agente abbia agito con il fine indicato dalla norma, non essendo ovviamente richiesto, come ogni reato a dolo specifico, che quel fine sia effettivamente conseguito. In altri termini, la fattispecie contemplata dall'art. 586-bis, comma 7, del codice penale non incrimina piu' la commercializzazione tout court di sostanze dopanti, come avveniva in relazione all'abrogato art. 9, comma 7, legge n. 376 del 2000, ma solo quella in cui l'agente si prefigge lo scopo «di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», indipendentemente dall'effettivo conseguimento di tale finalita'. Per effetto della previsione dell'indicato dolo specifico, si e' percio' realizzata una parziale abolitio criminis, non essendo piu' punito il commercio di «sostanze dopanti» commesso in assenza del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti»; in caso del genere, nemmeno puo' trovare applicazione la fattispecie del comma 1, la quale pure esige il medesimo dolo specifico. 12. Venendo al caso in esame, con motivazione esente da illogicita' manifeste, sulla base degli esiti sia delle conversazioni telefoniche intercettate (puntualmente indicate a p. 2-3 della sentenza impugnata), sia della perquisizione domiciliare (che ha consentito il rinvenimento, oltre che di numerosi farmaci anabolizzanti, anche di un'agenda su cui erano appuntati nomi e somme di denaro, a dimostrazione di una rudimentale contabilita'), nonche' delle dichiarazioni di S. P., il quale ha riferito di aver ceduto prodotti anabolizzanti al B., che costui utilizzava anche per rifornire gli atleti da lui preparati, la Corte territoriale ha ravvisato un fatto di commercio di sostanze dopanti, facendo corretta applicazione del principio secondo cui la condotta di commercio clandestino di sostanze c.d. anabolizzanti deve avere i caratteri di un'attivita' continuativa, supportata da una elementare struttura organizzativa (sez. 6, n. 17322 del 20 febbraio 2003, Frisinghelli, Rv. 224957). 13. Nondimeno, avvedendosi dell'intervenuta modifica legislativa, la Corte territoriale non ha verificato, in capo al B., anche la sussistenza del dolo specifico, consistente nel «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», ora contemplato dalla fattispecie di cui all'art. 586-bis, comma 7, del codice penale, che, in quanto norma piu' favorevole, proprio perche' restringe il perimetro della punibilita', trova applicazione retroattiva. Dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado emerge peraltro il difetto di tale dolo specifico, in quanto, come si desume dalla decisione emessa dal G.u.p. (p. 80), il B. «oltre a predisporre le diete ed i programmi di allenamento per i body builders, consigliava agli atleti l'assunzione di sostanze anabolizzanti, che egli stesso provvedeva a consegnare, dopo averla a sua volta recuperate dai sui fornitori (...) o dopo essersele procurate presentando false ricette mediche (...). Trattasi di condotta, peraltro, che non richiede il dolo specifico, come si desume dalla lettera della legge (...)». In applicazione della nuova fattispecie incriminatrice, in quanto piu' favorevole, l'imputato dovrebbe percio' essere mandato assolto per difetto dell'elemento soggettivo. 14. Ritiene tuttavia il Collegio di sollevare questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, dell'art. 586-bis, comma 7, del codice penale, come introdotto dall'art. 2, comma 1, lettera d), decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, nella parte in cui - sostituendo l'art. 9, comma 7, legge 14 dicembre 2000, n. 376, abrogato dall'art. 7, comma 1, lettera n) del medesimo decreto legislativo n. 21 del 2018 - prevede il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti». 15. In via preliminare, si osserva che la questione risulta ammissibile. 15.1. In linea di principio, sono inammissibili le questioni di legittimita' costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell'ordinamento della norma incriminatrice abrogata, a cio' ostandovi il principio consacrato nell'art. 25, comma 2, della Costituzione, che riserva al solo legislatore la definizione dell'area di cio' che e' penalmente rilevante. Questa regola pero' non e' assoluta perche' patisce alcune eccezioni. Tra queste, ai fini che qui interessano, va segnalata l'ipotesi in cui sia censurato lo scorretto esercizio del potere legislativo da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a cio' essere autorizzato dalla legge delega; in tal caso, come recentemente affermato dalla Corte costituzionale, «qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una incriminatrice, preesistente (...) la dichiarazione di illegittimita' costituzionale della prima non potra' che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata» (sentenza n. 37 del 2019). Piu' in particolare, come ribadito in una piu' recente decisione (sentenza n. 189 del 2019), sono ammissibili le questioni di legittimita' costituzionale che censurano una disposizione abrogativa contenuta in un decreto legislativo, e la contestuale introduzione di una nuova disposizione incriminatrice, la cui area applicativa si assume non estendersi - in asserito contrasto con il criterio di delega - a tutte le ipotesi gia' coperte dalla previgente incriminazione; con conseguente illegittimo effetto modificativo delle scelte di penalizzazione compiute dal Parlamento. 15.2. Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione deve ritenersi percio' ammissibile, in quanto oggetto di censura e', appunto, lo scorretto esercizio del potere legislativo da parte del Governo, che ha parzialmente abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a cio' essere autorizzato dalla legge delega, come si avra' modo di esporre. 16. La questione appare anche rilevante. Come si e' anticipato, in applicazione della vigente (in quanto piu' favorevole) disposizione di cui all'art. 586-bis, comma 7, del codice penale, l'imputato dovrebbe essere assolto per difetto del dolo specifico; per contro, il motivo dovrebbe essere respinto, ove si applicasse la fattispecie contemplata dall'abrogato art. 9, comma 7, legge 14 dicembre 2000, n. 376, che, come detto, non prevedeva il dolo specifico. 17. A parere del Collegio, la questione appare non manifestamente infondata, in quanto la parziale abolitio criminis della fattispecie oggetto di incriminazione da parte dell'abrogato art. 9, comma 7, legge 14 dicembre 2000, n. 376, nei termini dinanzi precisati, non trova riscontro nella delega conferita al Governo dall'art. 1, comma 85, lettera q), legge 23 giugno 2017, n. 103. Invero, tale disposizione autorizzava l'attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell'effettivita' della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perche' l'intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai principi costituzionali, attraverso l'inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell'ordine pubblico, della salubrita' e integrita' ambientale, dell'integrita' del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato». Il tenore della delega appare chiaro: il Governo era autorizzato semplicemente a trasferire all'interno del codice penale, in attuazione del principio della cd. «riserva di codice», talune figure criminose gia' contemplate da disposizioni di legge, tra cui, ai fini che qui rilevano, quelle ad oggetto la «tutela della salute». E difatti all'abrogazione dell'art. 9, legge n. 376 del 2000 ha fatto seguito l'introduzione, nel codice penale, dell'art. 586, fattispecie che, appunto, e' inserita nel capo I, titolo II, libro II, che raggruppa i «delitti conto la vita e l'incolumita' individuale». Che l'intenzione del legislatore fosse quella di una mera traslazione della fattispecie di cui all'art. 9, legge n. 376 del 2000 all'interno del codice penale e' confermata sia dall'identita' della pena comminata, sia dal disposto dell'art. 8 decreto legislativo n. 21 del 2018, il quale stabilisce che «dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i richiami alle disposizioni abrogate dall'art. 7, ovunque presenti, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del codice penale come indicato dalla tabella A allegata al presente decreto»; nell'indicata tabella, il riferimento all'art. 9, legge 14 dicembre 2000, n. 376 trova corrispondenza nell'art. 586-bis del codice penale, a conferma l'assenza di qualsivoglia intento abrogativo della previgente norma incriminatrice. 18. Nondimeno, come si e' piu' volte evidenziato, non vi e' piena corrispondenza tra la fattispecie di cui all'abrogato art. 9, comma 7, legge n. 376 del 2000 e quella, ad essa corrispondente, contemplata dal vigente art. 586-bis, comma 7, del codice penale, la quale prevede, in aggiunta, il dolo specifico del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», senza che cio' trovi legittimazione nella legge delega. In altri termini, reputa il Collegio che il Governo abbia fatto un uso scorretto della delega conferita dall'art. 1, comma 85, lettera q), legge n. 103 del 2017, in quanto, nel trasferire nel codice penale, rubricato al comma 7 dell'art. 586-bis, la figura delittuosa gia' oggetto di incriminazione da parte dell'art. 9, comma 7, legge n. 376 del 2000, ha operato, mediante l'aggiunta del dolo specifico, una parziale abolitio criminis. 19. Del resto, a parere de Collegio, l'indicata abolitio criminis risulta anche in contrasto con la ratio della legge delega. E' di intuitiva evidenza, infatti, che il bene salute, oggetto di tutela da parte dell'art. 586-bis del codice penale, e' messo in pericolo, dalla mera assunzione di sostanze «dopanti»: e cio' indipendentemente dal «fine di alterare le competizioni agonistiche degli atleti». In altri termini, la norma censurata rende lecito il commercio di sostanze dopanti destinato alla cerchia degli sportivi che non gareggino in competizioni agonistiche, la cui salute verrebbe comunque posta in pericolo, senza che tale scelta di politica criminale, gravida di conseguenze in relazione alla tutela del bene ch si vuole proteggere - la salute pubblica, appunto -, trovi una fonte di legittimazione nella legge delega conferita al Governo, la quale risultava esclusivamente finalizzata all'esercizio di un'attivita' materiale di mera traslazione all'interno del codice penale delle fattispecie di reato gia' contemplate da norme e extracodicistiche. Viceversa, al momento della sua attuazione, il potere esecutivo e' intervenuto sulla portata del precetto di cui all'art. 9; comma 7, legge n. 376 del 2000 limitandone l'ambito di applicazione, sia pure con riferimento al solo elemento soggettivo, cosi' determinando una parziale abolitio criminis delle condotte di commercio clandestino di sostanze «dopanti» gia' sorrette da dolo, ma non finalizzate all'alterazione delle prestazioni agonistiche degli atleti. Tanto si e' verificato malgrado l'assenza di qualsivoglia principio e criterio direttivo espressamente contenuto nella legge di delega, cio' che ha peraltro compromesso la sua dichiarata finalita' di contribuire alla tutela della salute umana, assicurando una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni penali diretti a preservarla. 20. La soluzione della questione di legittimita' costituzionale e' pregiudiziale rispetto allo scrutinio del quarto motivo di ricorso. 21. Per le ragioni sin qui esposte, il Collegio, ai sensi l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, ritiene di sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 586-bis, comma 7, del codice penale, introdotto dall'art. 2, comma 1, lettera d), decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, nella parte in cui - sostituendo l'art. 9, comma 7, legge 14 dicembre 2000, n. 376, abrogato dall'art. 7, comma 1, lettera n) del medesimo decreto legislativo n. 21 del 2018 - prevede, il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti». Il processo deve essere per l'effetto sospeso e gli atti trasmessi alla Corte costituzionale.