ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  33,  comma
3,  della  legge  5  febbraio  1992,   n.   104   (Legge-quadro   per
l'assistenza,  l'integrazione  sociale  e  i  diritti  delle  persone
handicappate),  promosso  dal  Tribunale  ordinario  di  Livorno  nel
procedimento vertente tra B.D. e l'Azienda USL 6 di Livorno ed altro,
con ordinanza del 15 settembre 2014, iscritta al n. 232 del  registro
ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 53, prima serie speciale, dell'anno 2014. 
    Visto  l'atto  di  costituzione  dell'Istituto  nazionale   della
previdenza  sociale  (INPS),  nonche'  l'atto   di   intervento   del
Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 5 luglio 2016 il Giudice relatore
Alessandro Criscuolo; 
    uditi l'avvocato Antonietta Coretti per l'INPS e l'avvocato dello
Stato  Gabriella  Palmieri  per  il  Presidente  del  Consiglio   dei
ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 15 settembre 2014, il  Tribunale  ordinario
di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 33, comma 3, della  legge  5
febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza,  l'integrazione
sociale e i diritti  delle  persone  handicappate),  come  modificato
dall'art. 24, comma 1, lettera a), della legge 4  novembre  2010,  n.
183  (Deleghe  al  Governo  in  materia  di   lavori   usuranti,   di
riorganizzazione di enti, di  congedi,  aspettative  e  permessi,  di
ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per  l'impiego,  di  incentivi
all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro
pubblico e di controversie di lavoro), per violazione degli artt.  2,
3 e 32 della Costituzione. 
    L'art. 33, comma 3,  della  legge  n.  104  del  1992,  rubricato
«Agevolazioni» prevede, nel testo modificato dal cosiddetto Collegato
lavoro, che: «A  condizione  che  la  persona  handicappata  non  sia
ricoverata a  tempo  pieno,  il  lavoratore  dipendente,  pubblico  o
privato, che assiste persona con handicap in situazione di  gravita',
coniuge, parente o affine entro il secondo  grado,  ovvero  entro  il
terzo grado qualora  i  genitori  o  il  coniuge  della  persona  con
handicap in situazione di gravita' abbiano compiuto i  sessantacinque
anni di eta' oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti
o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire  di  tre  giorni  di
permesso mensile  retribuito  coperto  da  contribuzione  figurativa,
anche in maniera continuativa. Il predetto diritto  non  puo'  essere
riconosciuto a piu' di un lavoratore dipendente per l'assistenza alla
stessa  persona  con  handicap  in  situazione   di   gravita'.   Per
l'assistenza  allo  stesso  figlio  con  handicap  in  situazione  di
gravita', il diritto e' riconosciuto ad entrambi  i  genitori,  anche
adottivi, che possono fruirne alternativamente». 
    Ad avviso del Tribunale rimettente, la norma contrasterebbe con i
citati parametri costituzionali «nella parte in cui  non  include  il
convivente more uxorio tra i soggetti  beneficiari  dei  permessi  di
assistenza al portatore di handicap in situazione di gravita'». 
    1.1.- Il giudizio principale ha ad oggetto il ricorso proposto da
B.D., dipendente della Azienda USL 6 di  Livorno,  nei  confronti  di
quest'ultima per vedersi riconosciuto il  diritto  ad  usufruire  dei
permessi di assistenza di cui all'art. 33, comma 3,  della  legge  n.
104 del 1992 a favore del proprio compagno, convivente more uxorio  e
portatore di handicap gravissimo e irreversibile (morbo di Parkinson)
e, al contempo, per contrastare la pretesa della  USL  di  recuperare
nei suoi confronti - in tempo e in denaro - le ore di permesso di cui
aveva usufruito per l'assistenza gia' prestata al proprio  convivente
nel periodo  2003-2010,  su  autorizzazione  della  stessa  USL,  poi
revocata  dalla  Azienda,  per  l'assenza  di  legami  di  parentela,
affinita' o coniugio con l'assistito. 
    In particolare - riferisce il Tribunale rimettente - con  ricorso
depositato in data 23 aprile 2013, la  ricorrente  chiedeva,  in  via
principale, che si accertasse e si dichiarasse il proprio diritto  di
usufruire dei permessi di assistenza previsti dall'art. 33, comma  3,
della legge n. 104 del 1992 e, conseguentemente,  si  condannasse  la
Azienda USL di Livorno a consentire alla medesima  di  usufruire  dei
detti permessi a  favore  del  convivente  P.F.,  conformemente  alla
domanda presentata  in  data  9  giugno  2011;  si  accertasse  e  si
dichiarasse l'insussistenza  del  diritto  della  USL  a  recuperare,
attraverso importi trattenuti in busta  paga  e  ore  di  lavoro,  il
goduto periodo di permessi ex art. 33, comma 3, della  legge  n.  104
del 1992, e, per l'effetto, si condannasse l'Azienda ospedaliera:  a)
a restituire ad essa istante le somme indebitamente trattenute per il
recupero  delle  ore  di  permesso  fruite  nel  periodo   2003-2010,
maggiorate della rivalutazione  monetaria  e  degli  interessi  dalla
trattenuta al saldo; b) a remunerare le ore di lavoro svolte  per  il
recupero delle ore di permesso godute nel  periodo  2003-2010,  oltre
rivalutazione  monetaria  e  interessi.  In   via   subordinata,   la
ricorrente chiedeva che fosse  sollevata  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 33, comma 3, della legge n.  104  del  1992,
nella parte in cui non  include  il  convivente  more  uxorio  tra  i
beneficiari del permesso mensile  retribuito,  per  violazione  degli
artt. 2, 3, 32 e 38 Cost. nonche' dell'art. 177 (recte:  117)  Cost.,
in relazione agli artt. 1, 3, 7, 20 e  21  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza  il  7  dicembre
2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    L'Azienda USL 6 di Livorno  si  costituiva  nel  giudizio  a  quo
chiedendo il rigetto delle domande. 
    Il rimettente precisa che, con  sentenza  non  definitiva  dell'8
gennaio 2014, accoglieva la domanda di  accertamento  negativo  della
ricorrente  dichiarando  l'insussistenza  del  diritto   dell'Azienda
ospedaliera di recuperare, attraverso  importi  trattenuti  in  busta
paga ed ore di lavoro, i gia' usufruiti periodi di permesso  ex  art.
33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 e, per l'effetto  condannava
la USL alla restituzione  in  favore  della  ricorrente  delle  somme
indebitamente trattenute nonche' al pagamento, in suo favore, di  una
somma pari alla retribuzione ad essa spettante per le ore  di  lavoro
svolto in esecuzione del piano di  recupero  predisposto  dalla  USL,
oltre accessori di legge. 
    Chiamato in causa, su richiesta della USL,  l'Istituto  nazionale
della  previdenza  sociale  (INPS)   si   costituiva   nel   giudizio
principale, chiedendo il rigetto della domanda della ricorrente. 
    2.- In punto di rilevanza,  il  Tribunale  ordinario  di  Livorno
osserva che il giudizio principale - avente ad oggetto la domanda  di
accertamento del diritto della ricorrente, con decorrenza dal  giugno
2011, a fruire dei permessi retribuiti di assistenza  in  favore  del
disabile grave, convivente more uxorio - non  possa  essere  definito
indipendentemente dalla  risoluzione  della  sollevata  questione  di
legittimita' costituzionale. 
    Il giudice a quo ritiene che, alla luce della normativa  vigente,
non possa  farsi  luogo  ad  una  interpretazione  costituzionalmente
orientata della norma censurata. 
    Ad avviso del  rimettente,  il  dettato  normativo,  tanto  nella
formulazione precedente che in quella successiva alla modifica di cui
all'art. 24, comma 1, lettera  a),  della  legge  n.  183  del  2010,
applicabile al  giudizio  principale,  e'  chiaro  nell'escludere  il
convivente  more  uxorio  dal  novero  dei  fruitori   dei   permessi
retribuiti di assistenza, precludendo l'estensione, in via esegetica,
a quest'ultimo dei benefici in questione. 
    Il  Tribunale  a  quo  esclude,  peraltro,   che   sussistano   i
presupposti per una disapplicazione parziale del censurato  art.  33,
comma 3, attesa la ritenuta inesistenza nell'ordinamento  dell'Unione
europea di disposizioni, rilevanti  nella  fattispecie,  che  abbiano
efficacia diretta  (non  e',  al  riguardo,  ritenuta  pertinente  la
sentenza della  Corte  di  giustizia,  12  dicembre  2013,  in  causa
C-267/12, Hay contro Credit agricole mutuel de  Charente-Maritime  et
des Deux-Sevres, avente ad oggetto il diritto al congedo matrimoniale
di  coloro  che  hanno  stipulato  un  cosiddetto  patto  civile   di
solidarieta'). 
    3.-  In  punto  di  non  manifesta  infondatezza,  il   Tribunale
ordinario di Livorno dubita, in riferimento agli  artt.  2,  3  e  32
Cost., della legittimita' costituzionale dell'art. 33, comma 3, della
legge n. 104 del 1992, «nella parte in cui non include il  convivente
more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza  al
portatore di handicap in situazione di gravita'». 
    Il Tribunale a quo  ricorda  che  la  Corte  costituzionale,  con
ordinanza n. 35 del 2009, ha dichiarato manifestamente  inammissibile
analoga  questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata   dal
Tribunale di Savona. 
    Il rimettente ritiene che la diversita'  delle  fattispecie  e  i
mutamenti normativi intervenuti medio tempore rendano rilevante e non
manifestamente    infondata    la    prospettata     questione     di
costituzionalita'. 
    Il  giudice  a  quo   osserva   che   nel   giudizio   principale
costituiscono  circostanze  incontestate  che  P.F.,  non  ricoverato
presso istituti specializzati o strutture sanitarie, sia un  soggetto
gravemente handicappato, con necessita' di assistenza  continua;  che
la ricorrente e P.F. convivano stabilmente dall'ottobre del 2002; che
la ricorrente sia  l'unica  persona  ad  assistere  il  compagno  nei
continui  ricoveri  ospedalieri,  nella  riabilitazione   motoria   e
logopedistica; che il figlio di P.F. viva con la madre,  dalla  quale
il primo e' divorziato dal  2002,  e  abbia  con  il  padre  rapporti
saltuari non prestandogli assistenza; che gli altri parenti o  affini
di P.F. vivano lontani e non abbiano  mai  prestato  assistenza  allo
stesso; che P.F. non abbia, dunque, parenti o affini, entro il  terzo
grado, idonei a provvedere alla sua assistenza  e  a  garantirgli  il
diritto alla salute. 
    Il rimettente sottolinea come, a seguito della  citata  pronuncia
di  manifesta  inammissibilita'  della   Corte   costituzionale,   il
legislatore, modificando l'art. 33, comma 3, della legge n.  104  del
1992, in forza dell'art. 24, comma 1, lettera a), della legge n.  183
del 2010, abbia escluso espressamente la convivenza quale presupposto
per la concessione del beneficio,  subordinando  la  fruizione  dello
stesso alla sola esistenza di un vincolo  di  matrimonio,  parentela,
affinita' (entro il secondo grado e, in casi  particolari,  entro  il
terzo grado) tra il lavoratore dipendente  che  domanda  il  permesso
retribuito e la persona disabile necessitante di assistenza. 
    Il giudice a quo rileva che  il  mutato  quadro  normativo  e  il
numero crescente di interventi legislativi  e  giurisprudenziali  (da
ultimo, Corte  di  cassazione,  sezione  prima  civile,  sentenza  22
gennaio 2014, n. 1277) hanno  attribuito  sempre  maggiore  rilevanza
alla famiglia di fatto. 
    Inoltre - osserva il rimettente -  la  legge  n.  104  del  1992,
significativamente   rubricata   «Legge-quadro   per    l'assistenza,
l'integrazione sociale e i diritti delle persone  handicappate»,  nel
rafforzare gli strumenti volti a  sostenere  il  disabile  e  il  suo
nucleo familiare, ha attribuito alla famiglia un ruolo essenziale nei
confronti  della  persona  con   handicap   grave,   garantendo   una
molteplicita'  di  funzioni  (assistenza,  affetto  e   solidarieta')
altrimenti   difficilmente   attuabili   nella   loro   pienezza   ed
effettivita'. 
    Il Tribunale a quo evidenzia come, dal tenore letterale dell'art.
33 della legge n. 104 del 1992, il  concetto  di  famiglia  preso  in
considerazione dalla  norma  non  sia  quello  di  famiglia  nucleare
tutelata dall'art. 29 Cost. quanto quello di  famiglia  estesa  nella
quale sono ricompresi i parenti e gli affini  sino  al  terzo  grado,
anche se non conviventi con l'assistito. 
    La famiglia che viene in  rilievo  nell'art.  33  -  aggiunge  il
rimettente - e' dunque quella intesa  come  «formazione  sociale»  ai
sensi dell'art. 2 Cost.,  strumento  di  attuazione  e  garanzia  dei
diritti fondamentali dell'uomo e luogo  deputato  all'adempimento  di
doveri inderogabili di solidarieta' politica, economica e sociale. 
    Da questa premessa il giudice a quo desume «una discrasia tra  la
norma in parola, nella parte in cui non attribuisce alcun diritto  di
assistenza al convivente more uxorio, e i  principi  sanciti  a  piu'
riprese dalla giurisprudenza nazionale (tanto costituzionale  che  di
legittimita') e sovranazionale in punto di tutela della  famiglia  di
fatto retta dalla convivenza more  uxorio  e  dei  diritti  e  doveri
connessi all'appartenenza a tale formazione sociale». 
    Il rimettente richiama, al riguardo, sul piano sovranazionale, la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti  dell'uomo  in  merito
all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,  n.  848
sulla  tutela  del  diritto  alla   vita   familiare,   intesa   come
ricomprensiva non solo delle relazioni basate sul matrimonio ma anche
di altri legami familiari di fatto (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e
Kopf contro Austria). 
    A questo indirizzo corrisponde - prosegue il giudice a quo  -  un
orientamento giurisprudenziale nazionale, sia costituzionale  che  di
legittimita', che valorizza il riconoscimento ai  sensi  dell'art.  2
Cost. delle formazioni sociali, nelle quali va ricondotta «ogni forma
di comunita', semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il
libero sviluppo della persona  nella  vita  di  relazione»  (sentenza
della Corte costituzionale n. 138 del  2010;  sulla  convivenza  more
uxorio, quale  formazione  sociale,  sono  richiamate,  altresi',  la
sentenza della Corte costituzionale n. 404 del  1988  e  la  sentenza
della Corte di cassazione, sezione prima civile, n. 1277 del 2014). 
    Nella  nozione  di  formazione  sociale,  la  giurisprudenza  sia
costituzionale che di legittimita'  -  ricorda  il  rimettente  -  ha
ricondotto la stabile convivenza tra due persone, anche dello  stesso
sesso (sono richiamate la sentenza della Corte costituzionale n.  138
del 2010 e la sentenza  della  Corte  di  cassazione,  sezione  prima
civile, 15 marzo 2012, n. 4184). 
    In  particolare,  il  rimettente   sottolinea   come   la   Corte
costituzionale, sin dagli anni '80, abbia affermato espressamente che
l'art. 2 Cost. e' riferibile  altresi'  «alle  convivenze  di  fatto,
purche' caratterizzate da un grado accertato di stabilita'» (sentenza
n. 237 del 1986). 
    Anche nella giurisprudenza di legittimita' - osserva il giudice a
quo - si rinvengono significative pronunce in merito  alla  rilevanza
di formazione sociale della convivenza more uxorio, fonte di  diritti
e doveri morali e sociali del  convivente  nei  confronti  dell'altro
(sono richiamate, con riguardo all'affermazione della responsabilita'
aquiliana nei rapporti interni alla convivenza, Corte di  cassazione,
sezione prima civile, sentenza 10 maggio 2005, n. 9801; nelle lesioni
arrecate  da  terzi,  Corte  di  cassazione,  sezione  terza  civile,
sentenze, 21 marzo 2013, n. 7128; 16 settembre 2008,  n.  23725;  con
riguardo alla rilevanza  della  convivenza  del  coniuge  separato  o
divorziato ai fini  dell'assegno  di  mantenimento  o  di  quello  di
divorzio, Corte di cassazione,  sezione  prima  civile,  sentenze  12
marzo 2012, n. 3923; 11 agosto 2011, n. 17195;  10  agosto  2007,  n.
17643;  10  novembre  2006,  n.  24056;  con  riguardo  alla   tutela
possessoria, Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 21
marzo 2013, n. 7214). 
    Il  Tribunale  a  quo  rileva,  altresi',   come   nella   stessa
legislazione nazionale, ferma la diversita' dei rapporti personali  e
patrimoniali nascenti dalla convivenza di  fatto  rispetto  a  quelli
originati dal matrimonio, siano  emersi  segnali  nel  senso  di  una
sempre maggiore rilevanza della famiglia di fatto. 
    Avuto   riguardo   al    richiamato    quadro    legislativo    e
giurisprudenziale sulla cosiddetta famiglia di fatto, ad  avviso  del
rimettente, l'art.  33,  comma  3,  della  legge  n.  104  del  1992,
nell'escludere dal novero  dei  possibili  beneficiari  dei  permessi
retribuiti il convivente more uxorio, violerebbe l'art. 2 Cost.,  non
consentendo alla persona affetta da  handicap  grave  di  beneficiare
della piena ed effettiva assistenza  nell'ambito  di  una  formazione
sociale che la stessa ha contribuito  a  creare  e  che  e'  sede  di
svolgimento della propria personalita'. 
    La norma in oggetto  contrasterebbe  anche  con  l'art.  3  Cost.
stante la  irragionevole  disparita'  di  trattamento,  in  punto  di
assistenza da prestarsi attraverso  i  permessi  retribuiti,  tra  il
portatore di handicap inserito in una stabile famiglia di fatto e  il
soggetto in  identiche  condizioni  facente  parte  di  una  famiglia
fondata sul matrimonio, diversita' che non trova ragione - secondo il
Tribunale a quo - nella ratio della norma che e' quella di garantire,
attraverso la previsione delle agevolazioni, la tutela  della  salute
psico-fisica della persona affetta da handicap grave (art. 32 Cost.),
nonche'  la  tutela  della  dignita'  umana  e  quindi  dei   diritti
inviolabili dell'uomo di cui  all'art.  2  Cost.,  beni  primari  non
collegabili geneticamente ad un preesistente rapporto  di  matrimonio
ovvero di parentela o affinita'. 
    Il giudice a quo precisa che il dubbio di  costituzionalita'  non
riguarda la perfetta equiparabilita' della  convivenza  di  fatto  al
rapporto di coniugio, ma la ragionevolezza, ex art.  3  Cost.,  della
diversita'  di  trattamento  per  quanto  attiene  alla   particolare
disciplina dei diritti di assistenza alle persone con handicap. 
    Nel caso di specie - ad avviso del rimettente - non  rileverebbe,
la diversita' rispetto al rapporto di coniugio della convivenza  more
uxorio, fondata sulla affectio  quotidiana,  liberamente  e  in  ogni
istante revocabile, di ciascuna  delle  parti,  in  quanto  la  norma
censurata non e' finalizzata ad assicurare a colui  che  assiste  una
persona con handicap grave un trattamento pensionistico o  di  natura
patrimoniale,  bensi',  a  garantire,  attraverso  la  previsione  di
agevolazioni, la tutela del soggetto disabile. 
    Il Tribunale a quo ritiene, quindi, che, in considerazione  della
riferibilita' dell'art. 2  Cost.  anche  alle  convivenze  di  fatto,
purche' caratterizzate da un  grado  accertato  di  stabilita'  (sono
richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 310 del  1989  e
n. 237 del 1986) nonche' della riconducibilita' dei  diritti  sottesi
alla norma censurata nel novero  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo
presidiati dall'art. 2 Cost., non siano ragionevoli la diversita'  di
trattamento denunciata e il conseguente vuoto di tutela. 
    4.- Con  memoria  depositata  in  data  12  gennaio  2015  si  e'
costituito in giudizio l'INPS chiedendo che la sollevata questione di
legittimita' costituzionale sia dichiarata non fondata. 
    Preliminarmente, l'INPS eccepisce il  difetto  di  legittimazione
passiva nel giudizio a quo, stante la pacifica  natura  pubblica  del
rapporto di lavoro che lega la ricorrente  all'USL  di  Livorno,  con
conseguente  obbligo  di  corresponsione  dell'indennita'  ai   sensi
dell'art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992  esclusivamente  a
carico dell'amministrazione pubblica  di  riferimento.  Al  riguardo,
l'Istituto precisa che  solo  per  i  lavoratori  dipendenti  privati
l'indennita' e' anticipata dal datore di lavoro e poi a  quest'ultimo
rimborsata  dall'ente  previdenziale  attraverso   il   sistema   del
conguaglio con i contributi allo stesso dovuti. 
    A sostegno della non fondatezza della questione, l'INPS  richiama
la giurisprudenza costituzionale  che  ritiene  non  assimilabili  la
famiglia  di  fatto  e   quella   fondata   sul   matrimonio,   l'una
caratterizzata dall'affectio quotidiana, liberamente e in  ogni  caso
revocabile, e l'altra  dalla  stabilita',  certezza,  reciprocita'  e
corrispettivita' dei diritti e dei doveri  da  essa  scaturenti,  con
conseguente ragionevolezza della non automatica  parificazione  delle
due situazioni  e  dunque  della  diversita'  di  trattamento  fra  i
rispettivi regimi (sentenza n. 2 del 1998; in materia  previdenziale,
sentenze n. 86 del 2009 e n. 461 del 2000). 
    In particolare - osserva  l'INPS  -  la  mancata  inclusione  del
convivente more uxorio tra  i  beneficiari  dei  permessi  retribuiti
mensili troverebbe una ragionevole giustificazione  nella  necessaria
correlazione tra l'erogazione dei fondi pubblici e la preesistenza di
un rapporto giuridico certo qual e' quello della famiglia fondata sul
matrimonio. 
    L'Istituto esclude, altresi', la violazione del «principio  della
tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona  umana»
(sentenza n. 461 del 2000), in quanto,  da  un  lato,  l'ostacolo  al
riconoscimento del permesso retribuito dipende dalla autonoma  scelta
dei  conviventi  di  non  conformarsi  allo  statuto  della  famiglia
legittima  e,  dall'altro,  tale  beneficio  di  carattere  meramente
economico  risulta  di  difficile   inquadramento   tra   i   diritti
inviolabili dell'uomo presidiati dall'art. 2 Cost. Peraltro - precisa
l'INPS - il mancato riconoscimento del permesso mensile di assistenza
al convivente di fatto non  vulnererebbe  neanche  indirettamente  il
diritto di salute del disabile, potendo beneficiare della prestazione
in esame parenti ed affini, esistenti nel caso di specie. 
    In  ultimo,  l'Istituto   sottolinea   l'inammissibilita'   della
pronuncia di carattere additivo in quanto «le esigenze solidaristiche
evidenziate dal rimettente possono trovare la sede idonea  alla  loro
realizzazione nell'attivita' del legislatore e non gia' nel  giudizio
di legittimita' costituzionale» (sentenza n. 461 del 2000). 
    5.-  Con  memoria  depositata  in  data  13  gennaio   2015,   e'
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   la
sollevata questione di legittimita' costituzionale sia dichiarata non
fondata. 
    In primo luogo, la  difesa  statale  ritiene  non  meritevole  di
pregio la  censura  di  violazione  dell'art.  3  Cost.  per  assunta
disparita' di trattamento tra il coniuge e il convivente more uxorio.
Sul  punto,  deduce  la  non  assimilabilita',   per   giurisprudenza
costituzionale, della convivenza more uxorio  al  vincolo  coniugale,
considerato il  diverso  fondamento  rispettivamente  nell'art.  2  e
nell'art. 29 Cost., nonche' la diversita' dell'una  dall'altra  forma
di vita comune tra  uomo  e  donna,  tale  da  giustificare  una  non
uniformita' di trattamento tra i rispettivi regimi (sentenze n. 140 e
n. 86 del 2009; n. 8 del 1996; ordinanza n. 7 del 2010). 
    L'Avvocatura generale sottolinea come il legislatore abbia inteso
correlare il diritto ai permessi retribuiti agli  obblighi  giuridici
di assistenza che si impongono nell'ambito della famiglia fondata sul
matrimonio. Al riguardo, la difesa statale rileva anche che la  Corte
costituzionale ha evidenziato l'essenziale ruolo della famiglia nella
cura e nella socializzazione del soggetto disabile (sentenza  n.  350
del  2003),  estendendo  l'ambito   di   applicazione   delle   varie
disposizioni  dirette  ad  assicurare   particolare   assistenza   al
portatore di handicap sempre nell'ambito dell'istituto della famiglia
legittima (con riguardo all'istituto del congedo straordinario -  che
si assume abbia la stessa funzione e ratio della  norma  censurata  -
sono richiamate le sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009;  n.  158
del 2007  e  n.  233  del  2005).  L'istituto  del  permesso  mensile
retribuito,   ugualmente   al   congedo   straordinario   -   osserva
l'Avvocatura generale - troverebbe un corrispettivo  nei  particolari
obblighi giuridici che il coniuge assume con il matrimonio e non solo
in un generale dovere di solidarieta' sociale. 
    Da qui la ritenuta non  contrarieta'  della  norma  censurata  al
principio di eguaglianza, ai principi costituzionali che  riconoscono
le formazioni sociali e al diritto alla salute, stante la particolare
idoneita' della famiglia fondata  sul  matrimonio  ad  assicurare  le
forme di assistenza riconosciute ed incentivate dal legislatore nella
sua discrezionalita'. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Livorno, in funzione di giudice del
lavoro, dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 33,  comma
3,  della  legge  5  febbraio  1992,   n.   104   (Legge-quadro   per
l'assistenza,  l'integrazione  sociale  e  i  diritti  delle  persone
handicappate), come modificato dall'art. 24,  comma  1,  lettera  a),
della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di
lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative
e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per  l'impiego,  di
incentivi   all'occupazione,   di   apprendistato,   di   occupazione
femminile, nonche' misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in
tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro) «nella parte  in
cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti  beneficiari
dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione  di
gravita'», per violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione. 
    L'art. 33, comma 3,  della  legge  n.  104  del  1992,  rubricato
«Agevolazioni», nel testo modificato dal cosiddetto Collegato lavoro,
prevede che: «A  condizione  che  la  persona  handicappata  non  sia
ricoverata a  tempo  pieno,  il  lavoratore  dipendente,  pubblico  o
privato, che assiste persona con handicap in situazione di  gravita',
coniuge, parente o affine entro il secondo  grado,  ovvero  entro  il
terzo grado qualora  i  genitori  o  il  coniuge  della  persona  con
handicap in situazione di gravita' abbiano compiuto i  sessantacinque
anni di eta' oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti
o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire  di  tre  giorni  di
permesso mensile  retribuito  coperto  da  contribuzione  figurativa,
anche in maniera continuativa. Il predetto diritto  non  puo'  essere
riconosciuto a piu' di un lavoratore dipendente per l'assistenza alla
stessa  persona  con  handicap  in  situazione   di   gravita'.   Per
l'assistenza  allo  stesso  figlio  con  handicap  in  situazione  di
gravita', il diritto e' riconosciuto ad entrambi  i  genitori,  anche
adottivi, che possono fruirne alternativamente». 
    Ad  avviso   del   giudice   rimettente,   la   norma   censurata
nell'escludere dal novero  dei  possibili  beneficiari  dei  permessi
retribuiti il convivente more uxorio, si porrebbe  in  contrasto  con
l'art. 2 Cost., in quanto non consentirebbe alla persona  affetta  da
handicap grave di beneficiare della  piena  ed  effettiva  assistenza
nell'ambito di una formazione sociale che la stessa ha contribuito  a
creare e che e' sede di svolgimento della propria  personalita';  con
l'art. 3 Cost., unitamente agli artt. 2 e 32 Cost.,  poiche'  darebbe
luogo ad una irragionevole disparita' di  trattamento,  in  punto  di
assistenza da prestarsi attraverso  i  permessi  retribuiti,  tra  il
portatore di handicap inserito in una stabile famiglia di fatto e  il
soggetto in  identiche  condizioni  facente  parte  di  una  famiglia
fondata sul matrimonio.  Tale  diversita',  infatti,  non  troverebbe
ragione  nella  ratio  della  norma  che  e'  quella  di   garantire,
attraverso la previsione delle agevolazioni, la tutela  della  salute
psico-fisica della persona affetta  da  handicap  grave  ex  art.  32
Cost., nonche' la tutela della dignita' umana e  quindi  dei  diritti
inviolabili dell'uomo di cui  all'art.  2  Cost.,  beni  primari  non
collegabili geneticamente ad un preesistente rapporto  di  matrimonio
ovvero di parentela o affinita'. 
    2.- Il Tribunale rimettente sottopone all'esame di  questa  Corte
una richiesta di pronuncia additiva volta a colmare una lacuna  nella
legislazione, ritenuta contraria ai principi costituzionali invocati. 
    2.1.- Il giudice a quo e' chiamato a decidere  sulla  domanda  di
accertamento del diritto della ricorrente ad usufruire  dei  permessi
di assistenza di cui all'art. 33, comma 3, della  legge  n.  104  del
1992,  conformemente  all'istanza  presentata  da  quest'ultima  alla
Azienda USL di Livorno nel giugno del 2011. 
    La questione e' rilevante, in quanto la norma applicabile ratione
temporis al giudizio principale e', dunque, l'art. 33, comma 3, della
legge n. 104 del  1992,  come  modificato  dal  cosiddetto  Collegato
lavoro, senza che rilevi la successiva novella  di  cui  all'art.  6,
comma 1, lettera a) del decreto legislativo 18 luglio  2011,  n.  119
(Attuazione dell'art. 23 della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante
delega al Governo per il  riordino  della  normativa  in  materia  di
congedi,  aspettative  e  permessi),  disciplinante,  peraltro,   una
fattispecie particolare - quella del possibile  cumulo  del  permessi
nel caso di assistenza a piu' persone in situazione di handicap grave
- non ricorrente nel caso di specie. 
    3.- Nel merito, la questione e' fondata. 
    3.1.-  Per  un  adeguato  inquadramento  della  stessa,  occorre,
preliminarmente,  ricostruire  la  ratio  legis   dell'istituto   del
permesso mensile retribuito di cui all'art. 33, comma 3, della  legge
n. 104 del 1992, alla luce  dei  suoi  presupposti  e  delle  vicende
normative che lo hanno caratterizzato. 
    Invariate sono rimaste nel tempo le condizioni oggettive  per  il
riconoscimento del  permesso  mensile  retribuito  ravvisabili  nella
situazione di disabilita' grave, ai sensi dell'art. 3, comma 3, della
legge n. 104 del 1992, riconosciuta, con  certificazione  o  verbale,
dalla apposita Commissione Medica Integrata ex art. 4, comma 1, della
legge n. 104 del 1992, nonche' - fatte salve specifiche  eccezioni  -
nel mancato ricovero a tempo  pieno  del  portatore  di  handicap  da
assistere. 
    La formulazione originaria dell'art. 33, comma 3, della legge  n.
104 del 1992 riconosceva il  diritto  a  fruire  dei  tre  giorni  di
permesso mensile, anche in  maniera  continuativa,  alla  lavoratrice
madre o, in alternativa  al  lavoratore  padre,  anche  adottivi,  di
minore con handicap in situazione di gravita' che avesse  compiuto  i
tre anni  di  eta',  nonche'  a  colui  (lavoratore  dipendente)  che
assistesse una  persona  con  handicap  in  situazione  di  gravita',
parente o affine entro il terzo grado, convivente. 
    L'art. 19, comma 1, lettera a), della legge 8 marzo 2000,  n.  53
(Disposizioni per il sostegno della maternita'  e  della  paternita',
per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei
tempi delle citta'), modificando l'art. 33 della  legge  n.  104  del
1992, ha previsto la  copertura  da  «contribuzione  figurativa»  dei
giorni di  permesso  retribuito  di  cui  al  comma  3  dello  stesso
articolo. 
    L'art. 20  della  medesima  legge  n.  53  del  2000  ha  sancito
l'applicabilita' delle disposizioni dell'art. 33 della legge  n.  104
del 1992 «ai genitori ed ai familiari  lavoratori,  con  rapporto  di
lavoro pubblico o privato, che assistono con  continuita'  e  in  via
esclusiva un parente o un affine entro il terzo  grado  portatore  di
handicap, ancorche' non convivente». 
    Dalla lettura congiunta dell'art. 33 della legge n. 104 del  1992
con  l'art.  20  della  legge  n.  53   del   2000,   la   prevalente
giurisprudenza  amministrativa  (ex  plurimis,  Consiglio  di  Stato,
sezione quarta, 22 maggio 2012, n. 2964; Consiglio di Stato,  sezione
sesta, 1° dicembre 2010, n. 8382)  ha  desunto  la  eliminazione  del
requisito della "convivenza" anche per i permessi mensili  retribuiti
di cui al comma 3 dell'art. 33, nonche'  l'introduzione  dei  diversi
requisiti della "continuita' ed esclusivita'" dell'assistenza ai fini
della concessione delle agevolazioni in questione. 
    L'art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183  del  2010  ha
modificato sensibilmente la portata  dell'art.  33,  comma  3,  della
legge n. 104 del 1992. 
    In particolare, il legislatore, nel ridefinire la  categoria  dei
lavoratori legittimati a fruire dei permessi per assistere persone in
situazione di handicap grave, ha ristretto la platea dei beneficiari. 
    Infatti,  se,  da  un  lato,  ha  eliminato  la  limitazione  del
compimento del terzo anno di eta' del bambino per  la  fruizione  del
permesso  mensile  retribuito  da  parte  del  lavoratore  dipendente
genitore del minore in situazione di  disabilita'  grave  (potendo  i
genitori, in forza  della  modifica,  fruire,  alternativamente,  del
permesso mensile retribuito anche per assistere  figli  portatori  di
handicap in eta' inferiore ai tre anni), dall'altro, ha  riconosciuto
il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile al  lavoratore
dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con  handicap  in
situazione di gravita', coniuge, parente o affine  entro  il  secondo
grado. 
    Solo in particolari situazioni l'agevolazione in  questione  puo'
essere estesa ai parenti e agli affini di terzo grado  delle  persone
da assistere. 
    Infatti, l'estensione  del  diritto  a  fruire  dei  benefici  in
questione ai parenti e affini di terzo grado e'  stata  prevista  nei
casi in cui il coniuge o i genitori della persona  affetta  da  grave
disabilita': a) abbiano compiuto i sessantacinque anni  di  eta';  b)
siano affetti da patologie invalidanti; c) siano deceduti o mancanti. 
    L'art. 24 della legge n. 183 del 2010, inoltre, se  da  un  lato,
nel novellare l'art. 20, comma 1, della legge  n.  53  del  2000,  ha
eliminato   i   requisiti   della   "continuita'   ed   esclusivita'"
dell'assistenza  per  fruire   dei   permessi   mensili   retribuiti,
dall'altro, nel modificare l'art. 33, comma 3, della legge n. 104 del
1992, ha introdotto il principio del "referente  unico"  per  ciascun
disabile, ovvero del riconoscimento del permesso mensile retribuito a
non piu' di un lavoratore dipendente  per  l'assistenza  alla  stessa
persona con handicap  in  situazione  di  gravita',  fatta  salva  la
possibilita'   per   i   genitori,   anche   adottivi,   di   fruirne
alternativamente, per l'assistenza dello  stesso  figlio  affetto  da
grave disabilita'. Nella formulazione dell'art.  33,  comma  3,  come
sostituito dall'art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183  del
2010, e' stato, peraltro, espunto espressamente  il  requisito  della
"convivenza". 
    Il  legislatore  e'  intervenuto  nuovamente  nella  materia  dei
permessi mensili retribuiti spettanti per l'assistenza a persone  con
disabilita' grave, in  sede  di  attuazione  della  delega  contenuta
nell'art. 23 della legge n.  183  del  2010.  Tale  delega  e'  stata
attuata dal d.lgs. n. 119 del 2011, in particolare dall'art. 6. 
    L'art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs.  n.  119  del  2011  ha
aggiunto un periodo al comma 3 dell'art. 33 della legge  n.  104  del
1992, relativo alla  disciplina  della  particolare  fattispecie  del
cumulo dei permessi mensili retribuiti  in  capo  al  dipendente  che
presti assistenza nei confronti di  piu'  persone  in  situazione  di
handicap grave,  allorquando  ricorrano  determinate  situazioni  ivi
elencate. 
    3.2.- Quanto all'ammontare e  alle  modalita'  di  godimento  dei
permessi mensili retribuiti ex art. 33, comma 3, della legge  n.  104
del  1992,  l'indennita'  -  fruibile  in  maniera   continuativa   o
frazionata - e' pari all'intero ammontare della retribuzione ed e'  a
carico dell'ente assicuratore; viene anticipata dal datore di  lavoro
ed e' portata  a  conguaglio  con  gli  apporti  contributivi  dovuti
all'ente assicuratore (ai sensi dell'art. 43 del decreto  legislativo
26 marzo 2001,  n.  151,  recante  «Testo  unico  delle  disposizioni
legislative in materia di tutela e sostegno della maternita' e  della
paternita', a norma dell'articolo 15 della legge  8  marzo  2000,  n.
53», nel quale sono contenute le disposizioni dell'art. 8 della legge
9 dicembre 1977, n. 903, recante «Parita' di trattamento tra uomini e
donne in materia di lavoro», abrogato dall'art. 86 del d.lgs. n.  151
del 2001). 
    Inoltre, i periodi di fruizione dei permessi ex art. 33, comma 3,
della legge n. 104 del  1992,  sono  computabili  nell'anzianita'  di
servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla  tredicesima
mensilita' (ai sensi dell'art. 34, comma 5, del  d.lgs.  n.  151  del
2001,  richiamato  dall'art.  43,  comma  2,  del  medesimo   decreto
legislativo). 
    Il permesso mensile retribuito di cui al censurato art. 33, comma
3,  e',  dunque,  espressione  dello  Stato  sociale  che  eroga  una
provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi  ai
congiunti che si fanno carico dell'assistenza di un parente  disabile
grave. Trattasi di uno  strumento  di  politica  socio-assistenziale,
che, come quello del congedo straordinario di cui all'art. 42,  comma
5, del d.lgs. n. 151 del 2001, e'  basato  sul  riconoscimento  della
cura alle persone con handicap in situazione di gravita' prestata dai
congiunti e sulla  valorizzazione  delle  relazioni  di  solidarieta'
interpersonale ed intergenerazionale. 
    3.3.-  La  tutela  della  salute   psico-fisica   del   disabile,
costituente la finalita' perseguita dalla  legge  n.  104  del  1992,
postula anche  l'adozione  di  interventi  economici  integrativi  di
sostegno alle famiglie «il cui ruolo resta fondamentale nella cura  e
nell'assistenza dei soggetti portatori di handicap» (sentenze n.  203
del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005). 
    Nel novero di tali interventi si iscrive il diritto  al  permesso
mensile retribuito in questione. 
    Infatti, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative
che lo hanno caratterizzato, la ratio legis  dell'istituto  in  esame
consiste nel favorire l'assistenza alla persona affetta  da  handicap
grave in ambito familiare. 
    Risulta, pertanto,  evidente  che  l'interesse  primario  cui  e'
preposta la norma in questione - come gia' affermato da questa  Corte
con riferimento al congedo straordinario di cui all'art. 42, comma 5,
del d.lgs. n. 151  del  2001  -  e'  quello  di  «assicurare  in  via
prioritaria la continuita' nelle cure e nell'assistenza del  disabile
che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'eta'  e
dalla condizione di figlio dell'assistito» (sentenze n. 19 del 2009 e
n. 158 del 2007). 
    Tanto piu' che i soggetti tutelati sono portatori di handicap  in
situazione di gravita', affetti cioe'  da  una  compromissione  delle
capacita' fisiche, psichiche e sensoriali tale da «rendere necessario
un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale  nella
sfera  individuale  o  in  quella  di  relazione»,   secondo   quanto
letteralmente previsto dall'art. 3, comma 3, della legge n.  104  del
1992. 
    L'istituto del permesso mensile retribuito e' dunque in  rapporto
di stretta e diretta correlazione con le finalita'  perseguite  dalla
legge n. 104 del 1992, in particolare  con  quelle  di  tutela  della
salute psico-fisica della persona portatrice di handicap. 
    La salute psico-fisica del disabile  quale  diritto  fondamentale
dell'individuo tutelato dall'art. 32 Cost.,  rientra  tra  i  diritti
inviolabili che la Repubblica riconosce e  garantisce  all'uomo,  sia
come singolo che nelle  formazioni  sociali  ove  si  svolge  la  sua
personalita' (art. 2 Cost.). 
    L'assistenza del disabile e, in particolare,  il  soddisfacimento
dell'esigenza  di  socializzazione,  in  tutte   le   sue   modalita'
esplicative, costituiscono fondamentali  fattori  di  sviluppo  della
personalita' e idonei strumenti di tutela della salute del  portatore
di  handicap,  intesa  nella  sua  accezione  piu'  ampia  di  salute
psico-fisica (sentenze n. 158 del 2007 e n. 350 del 2003). 
    Il  diritto  alla  salute   psico-fisica,   ricomprensivo   della
assistenza e della socializzazione, va dunque garantito  e  tutelato,
al soggetto con handicap in situazione di gravita', sia come  singolo
che in quanto facente parte di una formazione sociale per  la  quale,
ai sensi dell'art. 2 Cost., deve intendersi «ogni forma di comunita',
semplice o complessa,  idonea  a  consentire  e  favorire  il  libero
sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto  di  una
valorizzazione del modello pluralistico» (sentenza n. 138 del 2010). 
    3.4.- Alla luce delle premesse sopra svolte, se tale e' la  ratio
legis della norma in esame, e' irragionevole che nell'elencazione dei
soggetti legittimati a fruire del  permesso  mensile  retribuito  ivi
disciplinato,  non  sia  incluso  il  convivente  della  persona  con
handicap in situazione di gravita'. 
    L'art. 3 Cost. va qui invocato, dunque, non per  la  sua  portata
eguagliatrice, restando  comunque  diversificata  la  condizione  del
coniuge da quella del convivente, ma per la contraddittorieta' logica
della esclusione del convivente dalla previsione  di  una  norma  che
intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile (v.
sia pure per profili diversi, la sentenza n. 404 del 1988). 
    E cio' in particolare -  ma  non  solo  -  nei  casi  in  cui  la
convivenza si fondi su una relazione affettiva, tipica del  "rapporto
familiare",  nell'ambito  della  platea  dei   valori   solidaristici
postulati dalle "aggregazioni" cui fa riferimento l'art. 2 Cost. 
    Questa Corte ha, infatti, piu' volte affermato  che  la  distinta
considerazione  costituzionale  della  convivenza  e   del   rapporto
coniugale non esclude la comparabilita' delle discipline  riguardanti
aspetti particolari dell'una  e  dell'altro  che  possano  presentare
analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell'art.  3
Cost. (sentenze n. 416 e n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004). 
    In questo caso l'elemento unificante tra  le  due  situazioni  e'
dato  proprio  dall'esigenza  di  tutelare  il  diritto  alla  salute
psico-fisica del disabile grave,  nella  sua  accezione  piu'  ampia,
collocabile tra i diritti inviolabili dell'uomo ex art. 2 Cost. 
    D'altra   parte,   ove   cosi'   non   fosse,   il   diritto    -
costituzionalmente presidiato - del portatore di handicap di ricevere
assistenza nell'ambito della  sua  comunita'  di  vita,  verrebbe  ad
essere irragionevolmente compresso, non in ragione di  una  obiettiva
carenza di soggetti portatori di un rapporto  qualificato  sul  piano
affettivo, ma in funzione di un dato  "normativo"  rappresentato  dal
mero rapporto di parentela o di coniugio. 
    3.5.-  Se,  dunque,  l'art.  3  Cost.  e'  violato  per  la   non
ragionevolezza della norma censurata, gli artt. 2 e 32 Cost. lo sono,
quanto al diritto fondamentale alla salute psico-fisica del  disabile
grave, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la
sua personalita'. 
    La norma in questione, nel non  includere  il  convivente  tra  i
soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito, viola,
quindi, gli invocati parametri  costituzionali,  risolvendosi  in  un
inammissibile   impedimento   all'effettivita'   dell'assistenza    e
dell'integrazione. 
    3.6.- Il carattere residuale della fruizione dell'agevolazione in
questione da parte del parente o affine entro il terzo grado,  induce
questa Corte ad includere il convivente tra i  soggetti  beneficiari,
in via ordinaria, del permesso mensile retribuito (coniuge, parente o
affine entro il secondo grado). 
    3.7.- Va, pertanto,  dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992,  nella  parte  in
cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del
permesso  mensile  retribuito  per  l'assistenza  alla  persona   con
handicap in  situazione  di  gravita',  in  alternativa  al  coniuge,
parente o affine entro il secondo grado.