ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 2, lettera l), della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle universita', di personale accademico e reclutamento, nonche' delega al Governo per incentivare la qualita' e l'efficienza del sistema universitario), promosso dal Consiglio di Stato, sezione sesta giurisdizionale, nel procedimento vertente tra il Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca e A. A. ed altri, con ordinanza del 22 gennaio 2015, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 2015. Visto l'atto di costituzione di A. A. ed altri, nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 20 settembre 2016 il Giudice relatore Franco Modugno; uditi gli avvocati Federico Sorrentino e Maria Agostina Cabiddu per A. A. ed altri e l'avvocato dello Stato Federico Basilica per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 22 gennaio 2015, il Consiglio di Stato, sezione sesta giurisdizionale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 6 e 33 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 2, lettera l), della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle universita', di personale accademico e reclutamento, nonche' delega al Governo per incentivare la qualita' e l'efficienza del sistema universitario), «nella parte in cui consente l'attivazione generalizzata ed esclusiva (cioe' con esclusione dell'italiano) di corsi [di studio universitari] in lingua straniera». La disposizione censurata, nell'indicare i vincoli e criteri direttivi che le universita' devono osservare in sede di modifica dei propri statuti, prevede il «rafforzamento dell'internazionalizzazione anche attraverso una maggiore mobilita' dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attivita' di studio e di ricerca e l'attivazione, nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera». Alla luce della predetta previsione, il Senato accademico del Politecnico di Milano (delibera del 21 maggio 2012) ha ritenuto di poter determinare l'attivazione, a partire dall'anno 2014, dei corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca esclusivamente in lingua inglese, sia pur affiancata da un piano per la formazione dei docenti e per il sostegno agli studenti. Alcuni docenti dell'ateneo milanese hanno proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, ottenendo l'annullamento del predetto provvedimento amministrativo (sentenza 23 maggio 2013, n. 1348). Contro la decisione del TAR Lombardia hanno proposto appello il Politecnico di Milano e il Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca. E' in tale sede che il Consiglio di Stato dubita della legittimita' costituzionale della disposizione censurata, ritenendo che essa legittimi l'applicazione che ne e' stata data dal Politecnico di Milano, «giacche' l'attivazione di corso in lingua inglese, nella lettera della norma, non e' soggetta a limitazioni ne' a condizioni». Il rimettente ritiene che tale conclusione sia avvalorata dalla previsione del paragrafo 31 dell'allegato B al decreto del Ministro dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca 23 dicembre 2010, n. 50 (Definizione delle linee generali d'indirizzo della programmazione delle Universita' per il triennio 2010-2012), il quale, in deroga al divieto per le universita' di istituire nuovi corsi di studio posto dal precedente paragrafo 30, consente, al fine di favorire l'internazionalizzazione delle attivita' didattiche, la possibilita' di attivare corsi che ne prevedano l'erogazione «interamente in lingua straniera», sia pure, come ha osservato il TAR Lombardia, nelle sedi nelle quali sia gia' presente un omologo corso. Poiche', peraltro, la legge n. 240 del 2010, successiva al decreto appena ricordato, non contiene una simile condizione, l'applicazione datane dal Politecnico sarebbe, sotto quest'aspetto, legittima. 1.1.- Il Consiglio di Stato ritiene non condivisibili le considerazioni sulle quali si fonda la sentenza impugnata del TAR Lombardia, che ha negato, anzitutto, la produzione ad opera della disposizione censurata di un effetto di abrogazione tacita dell'art. 271 del regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592 (Approvazione del testo unico delle leggi sull'istruzione superiore), il quale prevede che «la lingua italiana e' la lingua ufficiale dell'insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari». Sul punto, la previsione del regio decreto sarebbe superata dalla possibilita' ora riconosciuta di istituire corsi in lingua diversa dall'italiano; cosi' come la congiunzione «anche», contenuta nella disposizione censurata, non varrebbe a sminuirne la portata innovativa, nel senso postulato dal TAR, dato che essa legittima «anche» l'istituzione di corsi in lingua straniera, opzione che appartiene alla libera scelta dell'autonomia universitaria, esercitata dal Politecnico nel senso che si e' detto. 1.2.- Dopo aver cosi' ricostruito la disciplina censurata - la cui applicazione determinerebbe l'accoglimento dell'appello - il Consiglio di Stato manifesta dubbi sulla conformita' a Costituzione della stessa, con riguardo a diversi parametri costituzionali. Essa sarebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., perche' non tiene conto delle diversita' esistenti tra gli insegnamenti e in quanto non si puo' in ogni caso giustificare l'abolizione integrale della lingua italiana per i corsi considerati; con l'art. 6 Cost., dal quale si ricava il principio di ufficialita' della lingua italiana, come affermato dalla Corte costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 159 del 2009 e n. 28 del 1982) e ribadito dalla legislazione ordinaria (art. 1, comma 1, della legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche e storiche); infine, con l'art. 33 Cost., in quanto la possibilita' riservata agli atenei di imporre l'uso esclusivo di una lingua diversa dall'italiano nell'attivita' didattica non sarebbe congruente con il principio della liberta' di insegnamento, compromettendo la ivi compresa libera espressione della comunicazione con gli studenti attraverso l'eliminazione di qualsiasi diversa scelta eventualmente ritenuta piu' proficua da parte dei professori. 2.- Con memoria si sono costituiti i docenti universitari resistenti nel giudizio a quo, i quali hanno rilevato, anzitutto, che il Consiglio di Stato non avrebbe sperimentato la possibilita' di dare al testo legislativo un significato compatibile con i parametri costituzionali: cio' dovrebbe implicare l'inammissibilita' della questione. Tuttavia, il fatto che il Consiglio di Stato abbia considerato impossibile ricavare dalla disposizione censurata altra norma se non quella identificata dal Politecnico di Milano e fatta propria dal Ministero - norma che consente alle universita' di fornire tutti i propri corsi in lingua diversa da quella ufficiale della Repubblica - induce le parti private a ritenere l'intervento della Corte costituzionale non solo necessario, ma anche urgente, al fine di chiarire, in modo vincolante per tutti, quale sia il grado e il concetto stesso di «internazionalizzazione» compatibile con la Costituzione. 2.1.- Nel merito, i docenti rilevano che l'uso alternativo o addirittura esclusivo di una lingua diversa da quella italiana si porrebbe non solo in contrasto con il principio costituzionale dell'ufficialita' della lingua italiana (peraltro ribadito nella legislazione ordinaria e in specifica previsione dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), ma anche con i principi di ragionevolezza, non discriminazione e proporzionalita' ricavabili dall'art. 3 Cost. Tra l'altro, la disposizione censurata avrebbe carattere anche socialmente discriminatorio, in quanto, consentendo alle universita' di prevedere arbitrariamente barriere all'accesso, impedirebbe agli studenti, pure capaci e meritevoli, ma privi di mezzi, di scegliere la sede piu' adatta ai loro progetti di crescita professionale e personale. Quanto alla violazione dell'art. 33 Cost., la difesa dei resistenti nel giudizio a quo sottolinea come la scelta di consentire l'attivazione di corsi in lingua diversa da quella ufficiale incida sia sulle modalita', sia sui contenuti dell'insegnamento, imponendo peraltro - nell'applicazione datane dal Politecnico di Milano - ai docenti che non conoscono la lingua inglese, o che non intendano utilizzarla nelle lezioni, di insegnare - quale che sia la loro specifica competenza - nei soli corsi di laurea triennale, in violazione del complesso di diritti e doveri assunti con l'immissione in ruolo. Cio' che nella memoria di costituzione si contesta radicalmente e', dunque, la «legittimita' di escludere l'italiano dalle proprie Universita'», la possibilita', affidata ai singoli atenei, di bandire la nostra lingua da tutti gli insegnamenti, senza peraltro nemmeno dare seguito alla pure discutibile distinzione tra "scienze dure" e scienze sociali. Con l'ovvia eccezione delle discipline delle classi linguistiche, la lingua dell'insegnamento non e' il fine bensi' un mezzo e, come tale, non puo' essere ragione di discriminazione. L'obbligo di insegnare in una lingua diversa dall'italiano non sarebbe una modalita' di esecuzione della liberta' di insegnamento, ma un vero e proprio ostacolo all'esercizio della liberta', alla diffusione dei contenuti del pensiero che si crea e si trasmette al meglio nella propria lingua materna. Ne' potrebbe a cio' opporsi il principio costituzionale dell'autonomia universitaria, che ha fra i suoi limiti interni proprio la liberta' di insegnamento, corollario imprescindibile della liberta' di arte e scienza. 3.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha prospettato specifiche ragioni di inammissibilita' delle questioni. Il Consiglio di Stato si sarebbe limitato a riprodurre acriticamente le deduzioni delle parti interessate, non avrebbe assolto all'onere di fornire idonea motivazione sulla rilevanza delle questioni e, infine, non avrebbe vagliato possibilita' alternative di interpretare la disposizione in modo conforme a Costituzione. In particolare, la disposizione censurata sarebbe correttamente formulata in termini generali e astratti al fine di assicurare il rispetto delle prerogative, da un lato, del centro di governo del sistema universitario - Ministero dell'istruzione, dell'universita' e della ricerca (MIUR), Consiglio universitario nazionale (CUN) e Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR) - sulle modalita' di attuazione del processo di internazionalizzazione (della didattica e della ricerca) delle universita' italiane, e, dall'altro, dei singoli atenei, alla cui valutazione discrezionale l'ordinamento riconduce il potere di scegliere le modalita' didattiche piu' opportune per assicurare il perseguimento della propria missione formativa come autonomamente prefigurata a livello statutario. La scelta della lingua degli insegnamenti sarebbe pertanto riconducibile alla capacita' di autodeterminazione dei singoli atenei, sottoposta al controllo degli organi centrali di governo in sede di accreditamento dei diversi corsi. La possibilita' di erogare in lingua straniera gli insegnamenti universitari sarebbe soltanto una delle opzioni applicative contemplate dalla disposizione censurata che, se fosse congegnata in materia piu' stringente rispetto all'attuale, porrebbe si' un problema di legittimita' costituzionale, comprimendo le prerogative dei diversi soggetti istituzionali competenti ad esprimersi sull'offerta didattica. Delle molteplici opzioni applicative astrattamente consentite dalla disposizione censurata il rimettente non fa menzione, cosi' palesando, a giudizio della difesa dell'interveniente, il difetto di rilevanza delle questioni. 3.1.- Nel merito, la difesa dell'interveniente sottolinea, tra l'altro, che la Costituzione non predicherebbe una sorta di «riserva assoluta» di ricorso alla lingua nazionale per gli insegnamenti universitari e che, lungi dal minacciare l'identita' nazionale, l'attivazione di corsi di studio in lingua straniera avrebbe lo scopo di inserire le universita' italiane nella rete degli scambi culturali internazionali e, quindi, di arricchire e non di impoverire la cultura italiana. La scelta legislativa contestata risponderebbe, dunque, all'esigenza di favorire una formazione di taglio internazionale, incentivando la mobilita' internazionale degli studenti e accrescendo le capacita' competitive dei laureati in un contesto globale caratterizzato da una prolungata crisi economica. Quanto ai docenti, la disposizione censurata non contrasterebbe con l'art. 33 Cost., sia perche' questi non possono vantare una sorta di «diritto al corso», sia perche' l'attivazione di corsi di studio in lingua straniera rappresenterebbe un «potente strumento» di attuazione della liberta' di insegnamento sancita proprio dal parametro costituzionale evocato dal rimettente. Considerato in diritto 1.- Il Consiglio di Stato, sezione sesta giurisdizionale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 6 e 33 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 2, lettera l), della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle universita', di personale accademico e reclutamento, nonche' delega al Governo per incentivare la qualita' e l'efficienza del sistema universitario), «nella parte in cui consente l'attivazione generalizzata ed esclusiva (cioe' con esclusione dell'italiano) di corsi [di studio universitari] in lingua straniera». La disposizione censurata, nell'indicare i vincoli e i criteri direttivi che le universita' devono osservare in sede di modifica dei propri statuti, prevede il «rafforzamento dell'internazionalizzazione anche attraverso una maggiore mobilita' dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attivita' di studio e di ricerca e l'attivazione, nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera». Dalla predetta disposizione il Politecnico di Milano ha ricavato la norma che consentirebbe alle universita' di fornire tutti i propri corsi in lingua diversa da quella ufficiale della Repubblica, cosi' deliberando l'attivazione, a partire dall'anno 2014, dei corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca esclusivamente in lingua inglese, sia pur affiancata da un piano per la formazione dei docenti e per il sostegno agli studenti. La predetta delibera dell'ateneo milanese e' all'origine del giudizio amministrativo che ha condotto alla rimessione delle presenti questioni di legittimita' costituzionale. 1.1.- La disposizione censurata, per come sopra interpretata, violerebbe: a) l'art. 3 Cost., poiche' permetterebbe una «ingiustificata abolizione integrale della lingua italiana per i corsi considerati», non tenendo peraltro conto delle loro diversita', «tali da postulare, invece, per alcuni di essi, una diversa trasmissione del sapere, maggiormente attinente alla tradizione e ai valori della cultura italiana, della quale il linguaggio e' espressione»; b) l'art. 6 Cost., ponendosi in contrasto con il principio dell'ufficialita' della lingua italiana da esso ricavabile a contrario; c) l'art. 33 Cost., compromettendo la libera espressione della comunicazione con gli studenti, da ritenersi senz'altro compresa nella liberta' di insegnamento. 2.- L'Avvocatura generale dello Stato ha sollevato diverse eccezioni di inammissibilita', che occorre esaminare preliminarmente. 2.1.- Non possono essere accolte le eccezioni che si riferiscono al difetto di motivazione sulla rilevanza e alla presunta riproduzione acritica delle deduzioni delle parti del giudizio a quo. Non puo' condividersi, infatti, il rilievo per cui il rimettente non avrebbe adeguatamente spiegato le ragioni per le quali ritiene di dover applicare la norma della cui legittimita' costituzionale dubita, essendo sufficiente, come piu' volte ribadito nella giurisprudenza costituzionale, che egli proponga una motivazione plausibile con riguardo alla rilevanza della questione, riconoscendosi finanche forme implicite di motivazione al proposito «sempreche', dalla descrizione della fattispecie, il carattere pregiudiziale della stessa questione emerga con immediatezza ed evidenza» (sentenze n. 120 del 2015, n. 201 del 2014 e n. 369 del 1996). E' cio' che nella specie accade, anche per effetto della ricostruzione della disciplina censurata operata dal giudice a quo, la quale, in ragione dell'interpretazione che questi ritiene di darne, imporrebbe l'accoglimento dell'appello. Ne' puo' condividersi l'assunto per cui nella specie le questioni sarebbero motivate solo per relationem, presentando senz'altro l'ordinanza di rimessione quei caratteri di «autosufficienza» che per costante giurisprudenza sono richiesti ai fini dell'esame nel merito. 2.2.- Del pari da respingere e' l'ulteriore eccezione di inammissibilita' sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale il giudice a quo non avrebbe vagliato le possibilita' alternative di interpretare la disposizione in modo conforme a Costituzione. Tale eccezione potrebbe ritenersi fatta propria persino dalla difesa dei resistenti nel giudizio a quo, dal momento che questi ritengono che il tentativo di interpretazione conforme a Costituzione avrebbe potuto essere fruttuoso, come dimostrerebbe proprio l'appellata sentenza del Tribunale amministrativo per la Lombardia che aveva annullato la delibera dell'ateneo milanese, consentendo dunque al Consiglio di Stato di decidere senza interpellare il giudice delle leggi. Tuttavia, sono proprio i resistenti docenti universitari a precisare nella memoria difensiva la necessita' di un intervento nel merito della Corte costituzionale, avendo il Consiglio di Stato considerato impossibile ricavare dalla disposizione censurata altra norma se non quella identificata dal Politecnico di Milano e fatta propria dal Ministero dell'istruzione, ossia la norma che consente alle universita' di fornire tutti i propri corsi in lingua diversa da quella ufficiale della Repubblica. Il punto merita di essere considerato con attenzione, dovendosi rilevare che il giudice a quo ha ritenuto, con adeguata motivazione, che la formulazione legislativa rendesse non implausibile l'applicazione datane dal Politecnico di Milano. Sarebbe, dunque, il modo stesso in cui l'enunciato e' fraseggiato - in ragione, in particolare, della presenza della congiunzione «anche» - a consentire la predetta applicazione e a impedire una soluzione ermeneutica conforme a Costituzione. A fronte di adeguata motivazione circa l'impedimento ad un'interpretazione costituzionalmente compatibile, dovuto specificamente al «tenore letterale della disposizione», questa Corte ha gia' avuto modo di affermare che «la possibilita' di un'ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell'esistenza e della legittimita' di tale ulteriore interpretazione e' questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilita'» (sentenza n. 221 del 2015). Si tratta di orientamento ormai consolidato, in virtu' del quale puo' ben dirsi che «se l'interpretazione prescelta dal giudice rimettente sia da considerare la sola persuasiva, e' profilo che esula dall'ammissibilita' e attiene, per contro, al merito» (sentenze nn. 95 e 45 del 2016, n. 262 del 2015; nonche', nel medesimo senso, sentenza n. 204 del 2016). Se, dunque, «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perche' e' possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)» (sentenza n. 356 del 1996), cio' non significa che, ove sia improbabile o difficile prospettarne un'interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito. Anzi, tale scrutinio, ricorrendo le predette condizioni, si rivela, come nella specie, necessario, pure solo al fine di stabilire se la soluzione conforme a Costituzione rifiutata dal giudice rimettente sia invece possibile. 3.- Nel merito, le questioni di legittimita' costituzionale non sono fondate, nei limiti e nei termini che seguono. 3.1.- La giurisprudenza di questa Corte ha gia' avuto modo di precisare - in relazione al «principio fondamentale» (sentenza n. 88 del 2011) della tutela delle minoranze linguistiche di cui all'art. 6 Cost. - come la lingua sia «elemento fondamentale di identita' culturale e [...] mezzo primario di trasmissione dei relativi valori» (sentenza n. 62 del 1992), «elemento di identita' individuale e collettiva di importanza basilare» (sentenza n. 15 del 1996). Cio' che del pari vale per l'«unica lingua ufficiale» del sistema costituzionale (sentenza n. 28 del 1982) - la lingua italiana - la cui qualificazione, ricavabile per implicito dall'art. 6 Cost. ed espressamente ribadita nell'art. 1, comma 1, della legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche e storiche), oltre che nell'art. 99 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, «non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale», teso a evitare che altre lingue «possano essere intese come alternative alla lingua italiana» o comunque tali da porre quest'ultima «in posizione marginale» (sentenza n. 159 del 2009). La lingua italiana e' dunque, nella sua ufficialita', e quindi primazia, vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunita' nazionale, tutelate anche dall'art. 9 Cost. La progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l'erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione possono insidiare senz'altro, sotto molteplici profili, tale funzione della lingua italiana: il plurilinguismo della societa' contemporanea, l'uso d'una specifica lingua in determinati ambiti del sapere umano, la diffusione a livello globale d'una o piu' lingue sono tutti fenomeni che, ormai penetrati nella vita dell'ordinamento costituzionale, affiancano la lingua nazionale nei piu' diversi campi. Tali fenomeni, tuttavia, non debbono costringere quest'ultima in una posizione di marginalita': al contrario, e anzi proprio in virtu' della loro emersione, il primato della lingua italiana non solo e' costituzionalmente indefettibile, bensi' - lungi dall'essere una formale difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernita' - diventa ancor piu' decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell'identita' della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell'italiano come bene culturale in se'. 3.2.- La centralita' costituzionalmente necessaria della lingua italiana si coglie particolarmente nella scuola e nelle universita', le quali, nell'ambito dell'ordinamento «unitario» della pubblica istruzione (sentenza n. 383 del 1998), sono i luoghi istituzionalmente deputati alla trasmissione della conoscenza «nei vari rami del sapere» (sentenza n. 7 del 1967) e alla formazione della persona e del cittadino. In tale contesto, il primato della lingua italiana si incontra con altri principi costituzionali, con essi combinandosi e, ove necessario, bilanciandosi: il principio d'eguaglianza, anche sotto il profilo della parita' nell'accesso all'istruzione, diritto questo che la Repubblica, ai sensi dell'art. 34, terzo comma, Cost., ha il dovere di garantire, sino ai gradi piu' alti degli studi, ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi; la liberta' d'insegnamento, garantita ai docenti dall'art. 33, primo comma, Cost., la quale, se e' suscettibile di atteggiarsi secondo le piu' varie modalita', «rappresenta pur sempre [...] una prosecuzione ed una espansione» (sentenza n. 240 del 1974) della liberta' della scienza e dell'arte; l'autonomia universitaria, riconosciuta e tutelata dall'art. 33, sesto comma, Cost., che non deve peraltro essere considerata solo sotto il profilo dell'organizzazione interna, ma anche nel «rapporto di necessaria reciproca implicazione» (sentenza n. 383 del 1998) con i diritti costituzionali di accesso alle prestazioni. 4 .- La disposizione censurata, nell'indicare i vincoli e criteri direttivi che le universita' devono osservare in sede di modifica dei propri statuti, prevede, in particolare, che il rafforzamento dell'internazionalizzazione degli atenei possa avvenire «anche» attraverso l'attivazione, nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera. L'obiettivo dell'internazionalizzazione - che la disposizione de qua legittimamente intende perseguire, consentendo agli atenei di incrementare la propria vocazione internazionale, tanto proponendo agli studenti una offerta formativa alternativa, quanto attirando discenti dall'estero - deve essere soddisfatto, tuttavia, senza pregiudicare i principi costituzionali del primato della lingua italiana, della parita' nell'accesso all'istruzione universitaria e della liberta' d'insegnamento. L'autonomia universitaria riconosciuta dall'art. 33 Cost., infatti, deve pur sempre svilupparsi «nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» e, prima ancora, dai diversi principi costituzionali che nell'ambito dell'istruzione vengono in rilievo. Ove si interpretasse la disposizione oggetto del presente giudizio nel senso che agli atenei sia consentito predisporre una generale offerta formativa che contempli intieri corsi di studio impartiti esclusivamente in una lingua diversa dall'italiano, anche in settori nei quali l'oggetto stesso dell'insegnamento lo richieda, si determinerebbe, senz'altro, un illegittimo sacrificio di tali principi. L'esclusivita' della lingua straniera, infatti, innanzitutto estrometterebbe integralmente e indiscriminatamente la lingua ufficiale della Repubblica dall'insegnamento universitario di intieri rami del sapere. Le legittime finalita' dell'internazionalizzazione non possono ridurre la lingua italiana, all'interno dell'universita' italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le e' propria, di vettore della storia e dell'identita' della comunita' nazionale, nonche' il suo essere, di per se', patrimonio culturale da preservare e valorizzare. In secondo luogo, imporrebbe, quale presupposto per l'accesso ai corsi, la conoscenza di una lingua diversa dall'italiano, cosi' impedendo, in assenza di adeguati supporti formativi, a coloro che, pur capaci e meritevoli, non la conoscano affatto, di raggiungere «i gradi piu' alti degli studi», se non al costo, tanto in termini di scelte per la propria formazione e il proprio futuro, quanto in termini economici, di optare per altri corsi universitari o, addirittura, per altri atenei. In terzo luogo, potrebbe essere lesiva della liberta' d'insegnamento, poiche', per un verso, verrebbe a incidere significativamente sulle modalita' con cui il docente e' tenuto a svolgere la propria attivita', sottraendogli la scelta sul come comunicare con gli studenti, indipendentemente dalla dimestichezza ch'egli stesso abbia con la lingua straniera; per un altro, discriminerebbe il docente all'atto del conferimento degli insegnamenti, venendo questi necessariamente attribuiti in base a una competenza - la conoscenza della lingua straniera - che nulla ha a che vedere con quelle verificate in sede di reclutamento e con il sapere specifico che deve essere trasmesso ai discenti. 4.1.- Tuttavia, della disposizione censurata nel presente giudizio e' ben possibile dare una lettura costituzionalmente orientata, tale da contemperare le esigenze sottese alla internazionalizzazione - voluta dal legislatore e perseguibile, in attuazione della loro autonomia costituzionalmente garantita, dagli atenei - con i principi di cui agli artt. 3, 6, 33 e 34 Cost., parametro quest'ultimo il quale, ancorche' non evocato dal rimettente, e' pertinente allo scrutinio delle odierne questioni di legittimita' costituzionale. Questi principi costituzionali, se sono incompatibili con la possibilita' che intieri corsi di studio siano erogati esclusivamente in una lingua diversa dall'italiano, nei termini dianzi esposti, non precludono certo la facolta', per gli atenei che lo ritengano opportuno, di affiancare all'erogazione di corsi universitari in lingua italiana corsi in lingua straniera, anche in considerazione della specificita' di determinati settori scientifico-disciplinari. E', questa, una opzione ermeneutica che rientra certamente tra quelle consentite dal portato semantico dell'art. 2, comma 2, lettera l), della legge n. 240 del 2010 - nel cui testo non compare, del resto, alcun riferimento al carattere di esclusivita' dei corsi in lingua straniera - e che evita l'insorgere dell'antinomia normativa con i piu' volte evocati principi costituzionali: una offerta formativa che preveda che taluni corsi siano tenuti tanto in lingua italiana quanto in lingua straniera non li comprime affatto, ne' tantomeno li sacrifica, consentendo, allo stesso tempo, il perseguimento dell'obiettivo dell'internazionalizzazione. 4.2.- E' solo il caso di precisare che quanto sinora affermato e' riferito soltanto all'ipotesi di intieri corsi di studio universitari. La disposizione qui scrutinata, a dimostrazione di come l'internazionalizzazione sia obiettivo in vario modo perseguibile e, comunque sia, da perseguire, consente altresi' l'erogazione di singoli insegnamenti in lingua straniera. Solo con un eccesso di formalismo e di severita' potrebbe affermarsi che, anche con riferimento a questi ultimi, i principi costituzionali di cui agli artt. 3, 6, 33 e 34 Cost. impongano agli atenei di erogarli a condizione che ve ne sia uno corrispondente in lingua italiana. E' ragionevole invece che, in considerazione delle peculiarita' e delle specificita' dei singoli insegnamenti, le universita' possano, nell'ambito della propria autonomia, scegliere di attivarli anche esclusivamente in lingua straniera. Va da se' che, perche' questa facolta' offerta dal legislatore non diventi elusiva dei principi costituzionali, gli atenei debbono farvi ricorso secondo ragionevolezza, proporzionalita' e adeguatezza, cosi' da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, cosi' come del principio d'eguaglianza, del diritto all'istruzione e della liberta' d'insegnamento.