ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  580  del
codice  penale,  promosso  dalla  Corte  di  assise  di  Milano,  nel
procedimento penale a carico di M. C., con ordinanza del 14  febbraio
2018, iscritta al n. 43 del  registro  ordinanze  2018  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  11,  prima   serie
speciale, dell'anno 2018. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  M.  C.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nella udienza pubblica del 24  settembre  2019  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    uditi gli avvocati Filomena Gallo e Vittorio Manes per  M.  C.  e
l'avvocato Generale dello Stato Gabriella Palmieri per il  Presidente
del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 14 febbraio  2018,  la  Corte  d'assise  di
Milano  ha  sollevato  questioni   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 580 del codice penale: 
    a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio
in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a  prescindere
dal loro  contributo  alla  determinazione  o  al  rafforzamento  del
proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt.  2,  13,
primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e  8
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; 
    b) «nella parte in cui prevede che le  condotte  di  agevolazione
dell'esecuzione  del  suicidio,  che  non   incidano   sul   percorso
deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con  la  pena
della reclusione da 5  a  10  [recte:  12]  anni,  senza  distinzione
rispetto alle condotte di istigazione», per  ritenuto  contrasto  con
gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. 
    Con riguardo alle questioni sub a),  il  riferimento  all'art.  3
(anziche'   all'art.   2)   Cost.   che   compare   nel   dispositivo
dell'ordinanza di rimessione deve considerarsi frutto di mero  errore
materiale, alla luce del tenore complessivo della motivazione e delle
«[c]onclusioni» che precedono immediatamente il dispositivo stesso. 
    1.1.- Secondo quanto riferito dal giudice  a  quo,  le  questioni
traggono origine dalla vicenda di F. A., il quale, a  seguito  di  un
grave incidente stradale avvenuto il  13  giugno  2014,  era  rimasto
tetraplegico e  affetto  da  cecita'  bilaterale  corticale  (dunque,
permanente).  Non  era  autonomo  nella  respirazione   (necessitando
dell'ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche
asportazioni di muco), nell'alimentazione  (venendo  nutrito  in  via
intraparietale)  e  nell'evacuazione.  Era  percorso,  altresi',   da
ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze,  che
non potevano essere completamente lenite farmacologicamente,  se  non
mediante sedazione profonda. Conservava, pero', intatte  le  facolta'
intellettive. 
    All'esito di lunghi e ripetuti ricoveri  ospedalieri  e  di  vari
tentativi di riabilitazione  e  di  cura  (comprensivi  anche  di  un
trapianto di cellule  staminali  effettuato  in  India  nel  dicembre
2015), la sua condizione era risultata irreversibile. 
    Aveva percio' maturato, a poco  meno  di  due  anni  di  distanza
dall'incidente,  la  volonta'  di  porre  fine  alla  sua  esistenza,
comunicandola ai propri cari. Di fronte ai tentativi  della  madre  e
della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per  dimostrare  la
propria irremovibile determinazione aveva intrapreso  uno  "sciopero"
della fame e della parola, rifiutando per  alcuni  giorni  di  essere
alimentato e di parlare. 
    Di seguito a cio', aveva preso contatto nel maggio 2016,  tramite
la propria fidanzata, con organizzazioni  svizzere  che  si  occupano
dell'assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe  condizioni,
dalla legislazione elvetica. 
    Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato
nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilita' di
sottoporsi  in  Italia  a   sedazione   profonda,   interrompendo   i
trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale. 
    Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in  Svizzera  per  il
suicidio assistito, l'imputato aveva accettato  di  accompagnarlo  in
automobile presso la struttura prescelta. Inviata a  quest'ultima  la
documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la  piena
capacita' di intendere e di volere, F. A. aveva  alfine  ottenuto  da
essa il "benestare" al suicidio assistito, con fissazione della data.
Nei  mesi  successivi  alla  relativa   comunicazione,   egli   aveva
costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli
amici e poi  pubblicamente  (tramite  un  filmato  e  un  appello  al
Presidente della Repubblica)  e  affermando  «di  viverla  come  "una
liberazione"». 
    Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano  (ove
risiedeva) in  Svizzera,  a  bordo  di  un'autovettura  appositamente
predisposta, con alla guida l'imputato e, al seguito,  la  madre,  la
fidanzata e la madre di quest'ultima. 
    In  Svizzera,  il  personale  della  struttura  prescelta   aveva
novamente verificato le sue condizioni di salute, il suo  consenso  e
la sua capacita' di assumere in  via  autonoma  il  farmaco  che  gli
avrebbe  procurato  la  morte.  In  quegli   ultimi   giorni,   tanto
l'imputato,  quanto  i  familiari,  avevano  continuato  a  restargli
vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal  proposito
di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato
in Italia. 
    Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio
2017): azionando con la  bocca  uno  stantuffo,  l'interessato  aveva
iniettato nelle sue vene il farmaco letale. 
    Di  ritorno  dal  viaggio,  M.  C.  si  era   autodenunciato   ai
carabinieri. 
    A seguito di ordinanza di "imputazione coatta", adottata ai sensi
dell'art. 409 del codice di  procedura  penale  dal  Giudice  per  le
indagini preliminari del Tribunale  ordinario  di  Milano,  egli  era
stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte rimettente  per  il
reato di cui all'art. 580 cod. pen., tanto  per  aver  rafforzato  il
proposito  di  suicidio  di  F.  A.,  quanto  per  averne   agevolato
l'esecuzione. 
    Il giudice a quo esclude,  peraltro,  la  configurabilita'  della
prima ipotesi accusatoria. Alla luce delle prove  assunte  nel  corso
dell'istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe, infatti,  maturato  la
decisione   di   rivolgersi   all'associazione   svizzera   prima   e
indipendentemente dall'intervento dell'imputato. 
    La Corte rimettente ritiene,  invece,  che  l'accompagnamento  in
auto di F. A. presso la clinica elvetica integri, in base al  diritto
vivente, la fattispecie dell'aiuto al suicidio, in quanto  condizione
per la realizzazione dell'evento. L'unica  sentenza  della  Corte  di
cassazione che si e' occupata del tema ha, infatti, affermato che  le
condotte di agevolazione, incriminate dalla norma  censurata  in  via
alternativa rispetto  a  quelle  di  istigazione,  debbono  ritenersi
percio'  stesso  punibili  a  prescindere  dalle  loro  ricadute  sul
processo deliberativo dell'aspirante suicida. La medesima sentenza ha
precisato, altresi', che, alla luce del dettato normativo  (in  forza
del quale e' punito chiunque agevola «in qualsiasi modo» l'esecuzione
dell'altrui proposito di suicidio), la nozione  di  aiuto  penalmente
rilevante deve essere intesa nel senso piu' ampio, comprendendo  ogni
tipo  di  contributo  materiale  all'attuazione  del  progetto  della
vittima  (fornire  i  mezzi,  offrire  informazioni  sul  loro   uso,
rimuovere  ostacoli   o   difficolta'   che   si   frappongono   alla
realizzazione del proposito e via dicendo, ovvero anche  omettere  di
intervenire,  qualora  si  abbia  l'obbligo  giuridico  di   impedire
l'evento) (Corte di cassazione,  sezione  prima  penale,  sentenza  6
febbraio-12 marzo 1998, n. 3147). 
    1.2.- Su questo presupposto, la Corte d'assise  milanese  dubita,
tuttavia, della legittimita' costituzionale  della  norma  censurata,
anzitutto nella parte in  cui  incrimina  le  condotte  di  aiuto  al
suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o  a
rafforzare il proposito della vittima. 
    Il  giudice  a  quo  rileva  come  la   disposizione   denunciata
presupponga che il suicidio  sia  un  atto  intriso  di  elementi  di
disvalore,  in  quanto  contrario  al  principio  di   sacralita'   e
indisponibilita' della vita in  correlazione  agli  obblighi  sociali
dell'individuo,  ritenuti  preminenti  nella   visione   del   regime
fascista. 
    La disposizione dovrebbe essere, pero', riletta alla  luce  della
Costituzione: in particolare, del principio personalistico  enunciato
dall'art. 2 - che pone l'uomo e non lo Stato  al  centro  della  vita
sociale - e di quello di  inviolabilita'  della  liberta'  personale,
affermato dall'art. 13; principi alla luce dei quali la vita -  primo
fra tutti i diritti  inviolabili  dell'uomo  -  non  potrebbe  essere
«concepita  in  funzione  di  un  fine  eteronomo  rispetto  al   suo
titolare». Di  qui,  dunque,  anche  la  liberta'  della  persona  di
scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza. 
    Il diritto all'autodeterminazione individuale, previsto dall'art.
32  Cost.  con  riguardo  ai  trattamenti  terapeutici,   e'   stato,
d'altronde, ampiamente valorizzato prima dalla  giurisprudenza  -  in
particolare, con le pronunce sui  casi  Welby  (Giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale ordinario di Roma,  sentenza  23  luglio-17
ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima
civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) - e poi dal  legislatore,
con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme  in  materia  di
consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento),  che
sancisce  in  modo  espresso  il  diritto  della  persona  capace  di
rifiutare  qualsiasi  tipo  di   trattamento   sanitario,   ancorche'
necessario  per  la  propria  sopravvivenza   (compresi   quelli   di
nutrizione  e  idratazione  artificiale),  nonche'  il   divieto   di
ostinazione irragionevole nelle cure, individuando  come  oggetto  di
tutela da parte dello Stato «la  dignita'  nella  fase  finale  della
vita». 
    La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo.  Essa  avrebbe  conosciuto
una  evoluzione,  il  cui  approdo   finale   sarebbe   rappresentato
dall'esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che
riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla  vita  e
il diritto al rispetto della vita privata), del  diritto  di  ciascun
individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria  vita
finira'». 
    A  fronte  di  cio',  il  bene  giuridico  protetto  dalla  norma
denunciata andrebbe oggi identificato,  non  gia'  nel  diritto  alla
vita, ma nella liberta' e consapevolezza della decisione del soggetto
passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta. 
    In quest'ottica, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio
che non  abbiano  inciso  sul  percorso  deliberativo  della  vittima
risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13, primo  comma,
e 117 Cost. In tale ipotesi, infatti,  la  condotta  dell'agevolatore
rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di  quanto  deciso
da un soggetto che esercita una liberta'  costituzionale,  risultando
quindi inoffensiva. 
    1.3.- La Corte d'assise milanese censura,  per  altro  verso,  la
norma denunciata nella parte in cui punisce le condotte di  aiuto  al
suicidio, non rafforzative del proposito dell'aspirante suicida,  con
la stessa severa pena - reclusione da cinque a dieci [recte:  dodici]
anni - prevista per le condotte di istigazione. 
    La disposizione violerebbe, per questo  verso,  l'art.  3  Cost.,
unitamente al principio di proporzionalita' della pena  al  disvalore
del fatto, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27,  terzo
comma, Cost. 
    Le  condotte  di  istigazione  al  suicidio  sarebbero,  infatti,
certamente piu' incisive, anche sotto il profilo causale, rispetto  a
quelle di chi  abbia  semplicemente  contribuito  alla  realizzazione
dell'altrui    autonoma    determinazione.    Del    tutto    diverse
risulterebbero, altresi', nei due casi, la volonta' e la personalita'
del partecipe. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilita'  delle  questioni
sotto plurimi profili: per difetto di rilevanza, avendo il rimettente
gia' escluso, alla luce dell'istruttoria svolta, che il comportamento
dell'imputato sia valso a rafforzare il proposito di suicidio  di  F.
A.;  per   richiesta   di   un   avallo   interpretativo   e   omessa
sperimentazione dell'interpretazione  conforme  a  Costituzione,  non
preclusa dall'esistenza di  un'unica  pronuncia  di  segno  contrario
della Corte di cassazione risalente al 1998,  inidonea  a  costituire
diritto vivente; per richiesta, infine, di una pronuncia manipolativa
in materia rimessa alla  discrezionalita'  del  legislatore  -  quale
quella dell'individuazione dei fatti da sottoporre  a  pena  e  della
determinazione del relativo trattamento sanzionatorio - e in  assenza
di una soluzione costituzionalmente obbligata. 
    Nel  merito  -  ad  avviso  dell'interveniente  -  le   questioni
risulterebbero, comunque sia, infondate. 
    Erroneo risulterebbe il riferimento alla disciplina di  cui  alla
legge n. 219 del 2017, posto che  il  riconoscimento  del  diritto  a
rifiutare le cure non implicherebbe affatto  quello  di  ottenere  un
aiuto al suicidio, non potendo il paziente chiedere, in ogni caso, al
medico  trattamenti  contrari   alla   legge   o   alla   deontologia
professionale. 
    Quanto alla denunciata violazione delle disposizioni della  CEDU,
come interpretate dalla Corte  di  Strasburgo,  quest'ultima  ha,  in
realta', affermato che l'art. 2 della Convenzione, dato il suo tenore
letterale, deve essere interpretato nel senso che esso  contempla  il
diritto alla vita e non il suo opposto. Esso non conferisce,  quindi,
il «diritto a morire», ne' con l'intervento della pubblica autorita',
ne' con l'assistenza di una terza persona (Corte europea dei  diritti
dell'uomo, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito). 
    Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto assoluto di
aiuto al suicidio sarebbe, inoltre, del tutto compatibile con  l'art.
8 della Convenzione, restando affidata al  margine  di  apprezzamento
dei singoli Stati la valutazione se l'eventuale liberalizzazione  del
suicidio assistito possa far sorgere rischi  di  abuso  a  danno  dei
pazienti piu' anziani e vulnerabili. 
    L'incriminazione dell'aiuto  al  suicidio  risulterebbe,  d'altra
parte, intrinsecamente ragionevole, anche qualora si ritenga che alle
sue  finalita'  di  tutela  non  resti  estranea   la   liberta'   di
autodeterminazione del titolare del  bene  protetto.  Tale  liberta',
quando si orienti nel senso di porre  fine  alla  propria  esistenza,
dovrebbe  essere,  infatti,  «assicurata  usque  ad  vitae   supremum
exitum»: ottica nella quale l'esecuzione di  quell'estremo  proposito
dovrebbe rimanere riservata esclusivamente all'interessato, cosi'  da
assicurare  fino  all'ultimo  istante  l'efficacia  di  un  possibile
ripensamento. 
    Quanto,  poi,  alla  censurata   omologazione   del   trattamento
sanzionatorio delle condotte di  istigazione  e  di  agevolazione  al
suicidio, essa non contrasterebbe con i parametri evocati, potendo il
giudice valorizzare, comunque sia, la diversa gravita' delle condotte
stesse in sede di determinazione della pena nell'ambito della cornice
edittale,  ovvero  ai  fini   del   riconoscimento   di   circostanze
attenuanti. 
    3.- Si e' costituito, altresi', M. C., imputato  nel  giudizio  a
quo, il quale, con una successiva memoria - contestate  le  eccezioni
di  inammissibilita'  dell'Avvocatura  generale  dello  Stato  -   ha
rilevato come, di la' dalla generica  formulazione  del  petitum,  le
questioni debbano ritenersi radicate sul caso di specie. 
    Alla  luce  dello  sviluppo   argomentativo   dell'ordinanza   di
rimessione,  i  dubbi  di  legittimita'   costituzionale   dovrebbero
reputarsi circoscritti, in particolare, alle ipotesi di  agevolazione
del suicidio di un soggetto che  versi  «in  uno  stato  di  malattia
irreversibile che produce gravi sofferenze, essendo  tenuto  in  vita
grazie a presidi medici in assenza dei quali andrebbe  incontro,  sia
pure in modo lento e doloroso per se' e per i suoi  cari,  alla  fine
della propria esistenza». 
    In tali termini, le questioni risulterebbero pienamente fondate. 
    3.1.- Al riguardo, la parte costituita osserva come, nel  disegno
del legislatore del codice penale del 1930, la norma censurata  fosse
destinata a proteggere la vita,  intesa  come  bene  non  liberamente
disponibile da parte del  suo  titolare.  Nella  visione  dell'epoca,
infatti, la tutela dell'individuo era secondaria  rispetto  a  quella
della collettivita' statale: il suicidio era visto,  di  conseguenza,
in termini  negativi,  come  l'atto  di  chi,  togliendosi  la  vita,
sottraeva forza lavoro e cittadini alla Patria.  Non  ritenendosi  di
dover sanzionare il suicida (neppure qualora cio' fosse materialmente
possibile, ossia nel  caso  di  semplice  tentativo),  si  apprestava
quindi una tutela di tipo indiretto, punendo chi avesse  contribuito,
sul piano psicologico o materiale, alla realizzazione  del  proposito
di suicidio altrui. 
    Con l'entrata in vigore della  Costituzione,  tuttavia,  il  bene
della vita dovrebbe essere riguardato unicamente in  una  prospettiva
personalistica, come interesse del suo titolare volto a consentire il
pieno sviluppo  della  persona,  secondo  il  disposto  dell'art.  3,
secondo comma, Cost. Di qui la maggiore attenzione verso la  liberta'
di autodeterminazione individuale,  anche  nelle  fasi  finali  della
vita, specie quando si tratti di persone che versano in condizioni di
eccezionale  sofferenza:  atteggiamento  che  ha   trovato   la   sua
espressione emblematica nella  sentenza  della  Corte  di  cassazione
relativa al caso di Eluana Englaro (Cass., n. 21748 del 2007). 
    Di  fondamentale  rilievo,  in   questa   cornice,   risulterebbe
l'intervento normativo realizzato con la legge n. 219  del  2017,  la
quale, nel quadro della valorizzazione del  principio  costituzionale
del consenso informato, ha «positivizzato» il diritto del paziente di
rifiutare le cure e di "lasciarsi morire". 
    3.2.- Tale  assetto  normativo  renderebbe  ancor  piu'  evidente
l'incoerenza dell'art. 580 cod. pen.,  nella  parte  in  cui  punisce
anche la mera agevolazione del  suicidio  di  chi  abbia  liberamente
maturato il relativo proposito al fine di porre termine a  uno  stato
di grave e cronica sofferenza, provocato anche dalla somministrazione
di presidi medico-sanitari non voluti sul proprio corpo. 
    Per questo verso, la norma censurata si porrebbe in contrasto con
il «principio personalista», di cui all'art. 2 Cost., e con quello di
inviolabilita'  della  liberta'  personale,  affermato  dall'art.  13
Cost.:  precetto  costituzionale,   quest'ultimo,   che,   unitamente
all'art. 32 Cost. (non  evocato  nel  dispositivo  dell'ordinanza  di
rimessione, ma ripetutamente richiamato in motivazione), assicura  la
piena liberta' dell'individuo di scegliere quali interferenze esterne
ammettere sul proprio corpo e di tutelare, in questo  senso,  la  sua
dignita'. 
    Emblematico,  al  riguardo,  risulterebbe  il  caso  oggetto  del
giudizio a quo, nel quale il soggetto che aveva liberamente deciso di
concludere la propria esistenza - senza essere peraltro in  grado  di
provvedervi  autonomamente  -  risultava  sottoposto  a   trattamenti
sanitari molto invasivi, la cui interruzione, ove  pure  accompagnata
dalla sedazione profonda, lo avrebbe portato  alla  morte  solo  dopo
diversi giorni, generando  un  prolungato  stato  di  sofferenza  nei
familiari. 
    La liberta' di rifiuto di simili presidi, senza che  la  dignita'
del malato sia vulnerata con l'avvio di una fine  lenta  e  dolorosa,
esigerebbe il riconoscimento della possibilita'  di  accedere,  anche
tramite l'aiuto di terzi, a un farmaco letale. 
    La  norma  censurata  violerebbe,  in  quest'ottica,   anche   il
principio di ragionevolezza,  imponendo  un  sacrificio  assoluto  di
liberta' di primario rilievo  costituzionale,  senza  distinguere  le
condotte realmente lesive del bene protetto da quelle volte invece  a
consentire  l'attuazione  del  diritto  all'autodeterminazione  nelle
scelte  di  fine  vita,  non  realizzabili  da  parte   del   diretto
interessato. 
    3.3.- La norma denunciata si porrebbe in contrasto,  ancora,  con
l'art. 8 CEDU e, di conseguenza, con l'art. 117, primo comma, Cost. 
    Nella  prospettiva  della  Corte   EDU,   infatti,   il   diritto
all'autodeterminazione individuale, anche con  riguardo  alle  scelte
inerenti  il  fine  vita,  costituisce  il  terreno  su  cui   poggia
l'interpretazione del citato art. 8 della Convenzione, che prevede il
«diritto al rispetto della vita privata e familiare».  Cio'  comporta
che  le  interferenze  statali  su  tale  diritto  possono  ritenersi
legittime solo entro i limiti indicati dal paragrafo 2  dello  stesso
art. 8, cioe' solo a condizione che  siano  normativamente  previste,
oltre che necessarie e  proporzionate  rispetto  a  uno  degli  scopi
indicati dalla predetta disposizione. 
    Al riguardo, verrebbe in rilievo, come leading case, la  sentenza
Pretty contro Regno Unito del 2002, con la quale si e'  ritenuto  che
la previsione di un generale divieto di  aiuto  al  suicidio  non  si
ponesse,  nella  specie,   in   contrasto   con   il   canone   della
proporzionalita' dell'interferenza statale, di cui al citato art.  8,
paragrafo 2, CEDU,  in  quanto  l'ordinamento  penale  britannico  e'
improntato al principio di flessibilita'. In quel  sistema,  infatti,
vige un regime di azione penale  discrezionale  e  non  e',  inoltre,
previsto  un  minimo  edittale  di  pena  per  l'aiuto  al  suicidio,
cosicche' e' consentito al giudice di parametrare  o  addirittura  di
escludere la risposta punitiva, in rapporto al concreto disvalore del
fatto. 
    Lo standard  di  proporzionalita'  desumibile  dall'art.  8  CEDU
apparirebbe, per converso, apertamente  violato  dall'art.  580  cod.
pen., che stabilisce un divieto  generalizzato  e  incondizionato  di
agevolazione dell'altrui proposito  suicida,  in  un  sistema,  quale
quello italiano, governato dal regime di obbligatorieta'  dell'azione
penale, prevedendo, per di piu', una pena minima edittale  di  cinque
anni di reclusione. 
    3.4.- La norma denunciata vulnererebbe,  ancora,  i  principi  di
offensivita' e di proporzionalita' e la  funzione  rieducativa  della
pena, ponendosi cosi' in contrasto con  gli  artt.  13,  25,  secondo
comma - anche in riferimento all'art. 3 -, e 27, terzo comma, Cost. 
    L'art. 580  cod.  pen.  rappresenterebbe,  infatti,  una  ipotesi
eccezionale di incriminazione del concorso in un fatto lecito altrui,
giustificabile - anche per quanto attiene al particolare rigore della
risposta punitiva - solo sulla  base  di  una  anacronistica  visione
statalista del bene giuridico della vita: visione inconciliabile, per
le ragioni indicate, con l'attuale assetto costituzionale. 
    In questa prospettiva, la condotta di chi si limiti ad  agevolare
la realizzazione di un proposito di  suicidio  liberamente  formatosi
dovrebbe  essere  considerata  come  un  «comportamento   "penalmente
inane"»,  essendo  volta  a   garantire   il   diritto   fondamentale
all'autodeterminazione sulle scelte del fine  vita,  riferite  a  una
esistenza ritenuta - per circostanze oggettive - non  piu'  dignitosa
dal suo titolare. 
    3.5.- Evidente sarebbe  anche  la  violazione  del  principio  di
eguaglianza, sotto plurimi profili. 
    La norma censurata determinerebbe,  infatti,  una  disparita'  di
trattamento tra chi e' in grado di porre fine alla  propria  vita  da
solo, senza bisogno di aiuto esterno, e chi, invece,  e'  fisicamente
impossibilitato a farlo per  la  gravita'  delle  proprie  condizioni
patologiche, con conseguente discriminazione a  scapito  proprio  dei
casi maggiormente meritevoli di considerazione. 
    Irragionevolmente  discriminatoria  risulterebbe,  inoltre,   una
disciplina penale che riconosca la liceita'  dell'interruzione  delle
cure con esito letale,  e  dunque  la  non  antigiuricidita'  di  una
condotta attiva di interruzione di un decorso causale  immediatamente
salvifico, punendo invece la condotta attiva  di  agevolazione  della
causazione immediata della morte in condizioni analoghe. 
    La violazione  del  principio  di  eguaglianza-ragionevolezza  si
apprezzerebbe anche all'interno della  struttura  della  fattispecie,
che vede equiparate quoad poenam condotte - la  determinazione  e  il
rafforzamento del proposito suicidario, da un  lato,  e  la  semplice
agevolazione, dall'altro  -  caratterizzate  da  un  coefficiente  di
offensivita' radicalmente diverso. 
    Una simile irragionevole equiparazione si risolverebbe  anche  in
un difetto di proporzionalita' del trattamento sanzionatorio, atta  a
compromettere la funzione rieducativa della pena. 
    3.6.- Sulla base di tali considerazioni, la parte  costituita  ha
chiesto,  quindi,  che  l'art.  580  cod.   pen.   venga   dichiarato
costituzionalmente  illegittimo  «nella  parte  in  cui  punisce   la
condotta  di  chi  abbia  agevolato  l'esecuzione   della   volonta',
liberamente formatasi, della  persona  che  versi  in  uno  stato  di
malattia irreversibile  che  produce  gravi  sofferenze,  sempre  che
l'agevolazione sia strumentale al suicidio di chi,  alternativamente,
avrebbe potuto darsi la morte  rifiutando  i  trattamenti  sanitari»;
ovvero, in subordine, «nella parte in cui prevede che le condotte  di
agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione  del
proposito suicidario siano punite allo stesso modo della  istigazione
al suicidio». 
    4.- Sono intervenuti, inoltre, ad  opponendum,  il  Centro  Studi
«Rosario Livatino», la libera associazione di volontariato «Vita  e'»
e il Movimento per la vita italiano. 
    Tali interventi sono stati  dichiarati  inammissibili  da  questa
Corte con ordinanza pronunciata all'udienza pubblica del  23  ottobre
2018. 
    5.- In esito alla medesima udienza, questa Corte  ha  pronunciato
l'ordinanza n. 207 del 2018, con la quale: 
    a) ha rilevato come - pur in assenza di una espressa  indicazione
in tal senso da parte del giudice a quo - le questioni  attinenti  al
trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa  dell'aiuto  al
suicidio debbano ritenersi logicamente subordinate a quelle attinenti
al suo ambito applicativo; 
    b) ha ritenuto  non  fondate  le  eccezioni  di  inammissibilita'
formulate dall'Avvocatura generale dello Stato; 
    c) ha escluso che - contrariamente  a  quanto  sostenuto  in  via
principale dal rimettente - l'incriminazione dell'aiuto al  suicidio,
ancorche' non rafforzativo del proposito della vittima  sia,  di  per
se', incompatibile con la Costituzione: essa si giustifica,  infatti,
in un'ottica di tutela del diritto alla vita, specie  delle  «persone
piu' deboli e vulnerabili»; 
    d) ha  individuato,  nondimeno,  una  circoscritta  area  di  non
conformita'   costituzionale   della   fattispecie,    corrispondente
segnatamente ai casi in cui l'aspirante suicida si identifichi  (come
nel caso oggetto del giudizio a quo) in una persona «(a)  affetta  da
una patologia irreversibile e  (b)  fonte  di  sofferenze  fisiche  o
psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c)
tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno  vitale,  ma  resti
(d) capace di prendere decisioni  libere  e  consapevoli»:  evenienza
nella quale il divieto indiscriminato di aiuto al  suicidio  «finisce
[...] per limitare la liberta' di autodeterminazione del malato nella
scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a  liberarlo  dalle
sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma,  Cost.,
imponendogli in ultima  analisi  un'unica  modalita'  per  congedarsi
dalla vita, senza che tale limitazione  possa  ritenersi  preordinata
alla tutela di altro interesse costituzionalmente  apprezzabile,  con
conseguente lesione del principio della dignita' umana, oltre che dei
principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle  diverse
condizioni soggettive»; 
    e) ha escluso, tuttavia, di poter porre rimedio  -  «almeno  allo
stato» - «al riscontrato vulnus»,  tramite  una  pronuncia  meramente
ablativa riferita ai pazienti  che  versino  nelle  condizioni  sopra
indicate: in assenza  di  una  disciplina  legale  della  prestazione
dell'aiuto verrebbero,  infatti,  a  crearsi  situazioni  gravide  di
pericoli di  abuso  nei  confronti  dei  soggetti  in  condizioni  di
vulnerabilita'; tale disciplina dovrebbe,  d'altro  canto,  investire
una serie  di  profili,  variamente  declinabili  in  base  a  scelte
discrezionali, spettanti in linea di principio al legislatore; 
    f) ha escluso, pero', al tempo stesso, di  poter  ricorrere  alla
tecnica  decisoria  precedentemente  adottata   in   casi   similari,
costituita dalla dichiarazione di  inammissibilita'  delle  questioni
accompagnata da un monito al  legislatore  per  l'introduzione  della
disciplina necessaria, alla quale dovrebbe fare seguito, nel caso  il
cui  il  monito   resti   senza   riscontro,   la   declaratoria   di
incostituzionalita': tale tecnica, infatti, ha «l'effetto di lasciare
in vita - e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per  un  periodo
di  tempo  non  preventivabile  -  la  normativa   non   conforme   a
Costituzione»; effetto che «non puo' considerarsi consentito nel caso
in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei
valori da esso coinvolti»; 
    g) ha ritenuto, percio', di dover percorrere una via alternativa:
facendo leva, cioe', sui «propri  poteri  di  gestione  del  processo
costituzionale», questa Corte  ha  rinviato  il  giudizio  in  corso,
fissando una nuova discussione delle  questioni  all'udienza  del  24
settembre  2019,  «in  esito  alla  quale  potra'   essere   valutata
l'eventuale sopravvenienza di una legge  che  regoli  la  materia  in
conformita' alle segnalate esigenze di tutela». In questo modo, si e'
lasciata pur sempre al Parlamento  la  possibilita'  di  assumere  le
necessarie decisioni rimesse  alla  sua  discrezionalita',  evitando,
pero', che la norma  censurata  potesse  trovare  applicazione  medio
tempore (il giudizio a quo e' rimasto, infatti, sospeso, mentre negli
altri giudizi i giudici hanno avuto  modo  di  valutare  se  analoghe
questioni fossero rilevanti e non manifestamente infondate). 
    6.- In prossimita' della nuova udienza, la  parte  costituita  ha
depositato una ulteriore memoria, rilevando come l'invito rivolto  al
Parlamento da questa Corte non  sia  stato  accolto.  Nessun  seguito
hanno,  infatti,  avuto  le  proposte  di   legge   presentate,   che
prospettavano, peraltro, soluzioni sensibilmente diverse tra loro. 
    A  fronte   di   cio',   la   dichiarazione   di   illegittimita'
costituzionale dell'art. 580 cod. pen., nei contorni  gia'  tracciati
dall'ordinanza  n.  207   del   2018,   non   sarebbe   ulteriormente
procrastinabile:  e  cio'  per  ragioni  radicate,  oltre   che   nei
fondamentali diritti del malato  e  nella  sua  dignita',  anche  nei
diritti inviolabili dell'imputato, il quale  si  vedrebbe  altrimenti
infliggere  una   sanzione   penale   sulla   base   di   una   norma
incostituzionale per cause «ordinamentali a lui non addebitabili». Il
principio di leale collaborazione istituzionale, al  quale  e'  stata
accordata la priorita' in una prima fase, non potrebbe,  dunque,  che
recedere, allo stato,  dinanzi  alle  esigenze  di  ripristino  della
costituzionalita' violata. 
    Ne' gioverebbe obiettare che il mantenimento di una  "cintura  di
protezione" penalmente presidiata e'  giustificata,  nell'ipotesi  in
esame, da esigenze di tutela del bene supremo della  vita  umana.  Le
funzioni di prevenzione generale e speciale continuerebbero, infatti,
a essere assolte dall'art. 580 cod. pen., quale risultante  all'esito
della pronuncia di accoglimento, stante la verificabilita'  ex  post,
da  parte  del  giudice  penale,  della  sussistenza  delle   quattro
condizioni lato sensu scriminanti indicate dall'ordinanza n. 207  del
2018: condizioni la cui coesistenza risulterebbe largamente idonea  a
evitare che la dichiarazione di incostituzionalita' possa preludere a
una vanificazione della tutela dei soggetti vulnerabili. 
    In questa cornice, una sentenza di  «accoglimento  manipolativo»,
che inserisca tali condizioni nel  testo  dell'art.  580  cod.  pen.,
rappresenterebbe  una  «garanzia  di  certezza   in   senso   pieno»,
risultando percio' preferibile tanto a una  pronuncia  interpretativa
di rigetto, quanto a una sentenza additiva di  principio:  decisione,
quest'ultima, che farebbe gravare  sul  singolo  giudice  l'impropria
responsabilita' di ricavare la regola attuativa del  principio  posto
dalla Corte costituzionale, quando invece l'art. 25,  secondo  comma,
Cost. impone che i confini della norma  penale  siano  determinati  e
precisi. 
    A fronte dell'inerzia legislativa,  la  Corte  potrebbe,  d'altra
parte,  ricercare  in  norme  gia'  vigenti  nell'ordinamento  idonei
criteri ai quali parametrare l'accertamento preventivo dei  requisiti
di liceita' del suicidio assistito. Cio'  particolarmente  alla  luce
dei piu' recenti orientamenti  della  giurisprudenza  costituzionale,
dai quali emerge una  netta  attenuazione  della  tesi  per  cui  gli
interventi di accoglimento manipolativo esigerebbero  l'esistenza  di
strette "rime obbligate": ritenendosi, di contro, sufficiente, a  tal
fine,  che  il  sistema  offra  «precisi  punti  di  riferimento»   e
«soluzioni gia' esistenti». 
    Nella  specie,  la  Corte  potrebbe  utilmente   attingere   alla
disciplina delle modalita' di raccolta della volonta' di  revoca  del
consenso alle cure, di cui all'art. 1, comma 5, della  legge  n.  219
del 2017. I passaggi procedurali  prefigurati  da  tale  disposizione
risponderebbero a molte delle esigenze di regolamentazione  poste  in
evidenza dall'ordinanza n. 207 del 2018: in particolare, che  sia  un
medico a verificare ex ante,  all'interno  dell'alleanza  terapeutica
con  il  paziente,  le  condizioni  indicate  da   detta   ordinanza,
attestando  il  suo  controllo  mediante  idonea   documentazione   e
prospettando le possibili alternative al suicidio assistito, compresa
la possibilita' di ridurre le sofferenze tramite, ad esempio, le cure
palliative. 
    La parte costituita conclude, pertanto, chiedendo che l'art.  580
cod. pen. sia dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella  parte
in cui prevede che l'aiuto al  suicidio  sia  punibile  anche  se  la
persona che ha inteso porre fine alla propria vita e' "(a) affetta da
una patologia irreversibile e  (b)  fonte  di  sofferenze  fisiche  o
psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c)
tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno  vitale,  ma  resti
(d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli"». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  La  Corte  d'assise  di  Milano  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 580 del codice penale, che prevede il  reato
di istigazione o aiuto al suicidio, sotto due distinti profili. 
    1.1.- La Corte rimettente pone in discussione, in primo luogo, il
perimetro applicativo della disposizione censurata, lamentando che  -
secondo il diritto vivente - essa incrimini le condotte di  aiuto  al
suicidio «in alternativa alle condotte di istigazione  e,  quindi,  a
prescindere  dal   loro   contributo   alla   determinazione   o   al
rafforzamento del proposito di suicidio». 
    La disposizione denunciata  violerebbe,  per  questo  verso,  gli
artt. 2 e 13, primo comma,  della  Costituzione,  i  quali,  sancendo
rispettivamente il «principio personalistico» - che  pone  l'uomo,  e
non  lo  Stato,  al  centro  della  vita  sociale  -  e   quello   di
inviolabilita' della liberta' personale, riconoscerebbero la liberta'
della persona di autodeterminarsi anche in  ordine  alla  fine  della
propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba aver luogo. 
    La medesima disposizione si porrebbe, altresi', in contrasto  con
l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e  8  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, i quali,
nel salvaguardare, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto
al  rispetto  della  vita  privata,   comporterebbero   -   in   base
all'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo  -  che
l'individuo abbia il diritto di «decidere con quali  mezzi  e  a  che
punto la propria vita finira'» e che  l'intervento  repressivo  degli
Stati in questo campo possa avere soltanto la  finalita'  di  evitare
rischi   di   indebita   influenza   nei   confronti   di    soggetti
particolarmente vulnerabili. 
    Alla luce di tutti i  parametri  evocati,  risulterebbe,  dunque,
ingiustificata  la   punizione   delle   condotte   di   agevolazione
dell'altrui suicidio che  costituiscano  mera  attuazione  di  quanto
autonomamente deciso da chi esercita la liberta' in questione,  senza
influire in alcun modo sul percorso psichico  del  soggetto  passivo,
trattandosi di condotte non lesive del bene giuridico tutelato. 
    1.2.-  La  Corte  milanese  contesta,  in   secondo   luogo,   il
trattamento  sanzionatorio  riservato  alle  condotte  in  questione,
censurando l'art. 580 cod. pen. «nella parte in cui  prevede  che  le
condotte  di  agevolazione  dell'esecuzione  del  suicidio,  che  non
incidano sul  percorso  deliberativo  dell'aspirante  suicida,  siano
sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni,
senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione». 
    Sotto questo profilo, la norma censurata si porrebbe in contrasto
con l'art. 3 Cost., essendo le condotte di  istigazione  al  suicidio
certamente piu' gravi, sotto il profilo causale, rispetto a quelle di
chi abbia semplicemente contribuito  alla  realizzazione  dell'altrui
autonoma determinazione di  porre  fine  alla  propria  esistenza,  e
risultando del  tutto  diverse,  nei  due  casi,  la  volonta'  e  la
personalita' dell'agente. 
    Sarebbero violati, inoltre, gli artt. 13, 25,  secondo  comma,  e
27, terzo comma, Cost., in forza dei quali la liberta' dell'individuo
puo' essere sacrificata solo  a  fronte  della  lesione  di  un  bene
giuridico  non  altrimenti  evitabile  e  la  sanzione  deve   essere
proporzionata  alla  lesione  provocata,  cosi'   da   prevenire   la
violazione e provvedere alla rieducazione del reo. 
    2.- Con l'ordinanza  n.  207  del  2018,  questa  Corte  ha  gia'
formulato una serie di rilievi e tratto una serie di  conclusioni  in
ordine al thema decidendum. Gli uni e le altre sono, in questa  sede,
confermati. A  essi  si  salda,  in  consecuzione  logica,  l'odierna
decisione. 
    2.1.-  Con  la  citata  ordinanza,  questa  Corte  ha   rilevato,
anzitutto, come tra le questioni sollevate intercorra un rapporto  di
subordinazione implicita: interrogarsi sul  quantum  della  pena  ha,
infatti, un  senso  solo  ove  le  condotte  avute  di  mira  restino
penalmente rilevanti e, dunque, solo in caso di mancato  accoglimento
delle questioni volte  a  ridisegnare  i  confini  applicativi  della
fattispecie criminosa. 
    Ha  ritenuto,  altresi',  infondate  le  plurime   eccezioni   di
inammissibilita' formulate dall'Avvocatura generale dello Stato,  ivi
compresa  quella  di  omessa   sperimentazione   dell'interpretazione
conforme   a   Costituzione,   rilevando    come    la    prospettata
interpretazione  adeguatrice  risulti  incompatibile  con  il  tenore
letterale della norma censurata. 
    2.2.- Nel merito, questa Corte ha escluso che - contrariamente  a
quanto  sostenuto  in  via   principale   dal   giudice   a   quo   -
l'incriminazione dell'aiuto al suicidio, ancorche'  non  rafforzativo
del proposito della vittima, possa ritenersi di per se' in  contrasto
con la Costituzione. 
    Per sostenere  il  contrasto,  non  e'  pertinente,  infatti,  il
riferimento  del  rimettente  al  diritto  alla  vita,   riconosciuto
implicitamente -  come  «primo  dei  diritti  inviolabili  dell'uomo»
(sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l'esercizio  di
tutti gli altri - dall'art.  2  Cost.  (sentenza  n.  35  del  1997),
nonche', in modo esplicito, dall'art. 2 CEDU. 
    «Dall'art. 2 Cost. - non diversamente  che  dall'art.  2  CEDU  -
discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo:
non quello - diametralmente opposto - di riconoscere all'individuo la
possibilita' di ottenere dallo Stato o da terzi un  aiuto  a  morire.
Che dal diritto alla vita, garantito  dall'art.  2  CEDU,  non  possa
derivare il diritto di rinunciare  a  vivere,  e  dunque  un  vero  e
proprio diritto a morire, e' stato, del  resto,  da  tempo  affermato
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, proprio in relazione  alla
tematica dell'aiuto al suicidio  (sentenza  29  aprile  2002,  Pretty
contro Regno Unito)» (ordinanza n. 207 del 2018). 
    Neppure, poi, e' possibile desumere  la  generale  inoffensivita'
dell'aiuto al suicidio da un generico diritto  all'autodeterminazione
individuale, riferibile anche al bene  della  vita:  diritto  che  il
rimettente  ricava  dagli  artt.  2  e  13,  primo  comma,  Cost.   A
prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore  del
1930, la ratio  dell'art.  580  cod.  pen.  puo'  essere  agevolmente
scorta, alla luce del vigente quadro  costituzionale,  nella  «tutela
del diritto alla  vita,  soprattutto  delle  persone  piu'  deboli  e
vulnerabili, che  l'ordinamento  penale  intende  proteggere  da  una
scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve
allo scopo, di perdurante attualita',  di  tutelare  le  persone  che
attraversano difficolta'  e  sofferenze,  anche  per  scongiurare  il
pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo  e
irreversibile del suicidio subiscano  interferenze  di  ogni  genere»
(ordinanza n. 207 del 2018). 
    Le medesime considerazioni valgono, altresi', ad escludere che la
norma censurata si ponga, sempre e comunque  sia,  in  contrasto  con
l'art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun  individuo  al
rispetto della propria vita privata: conclusione, questa,  confermata
dalla pertinente  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo. 
    2.3.- All'interno del petitum principale del  rimettente,  questa
Corte  ha  individuato,  nondimeno,  una  circoscritta  area  di  non
conformita'    costituzionale    della     fattispecie     criminosa,
corrispondente segnatamente ai casi in  cui  l'aspirante  suicida  si
identifichi - come nella vicenda oggetto del giudizio a quo - in  una
persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e  (b)  fonte  di
sofferenze  fisiche   o   psicologiche,   che   trova   assolutamente
intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti
di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni  libere
e consapevoli» (ordinanza n. 207 del 2018). 
    Si tratta di «situazioni inimmaginabili all'epoca in cui la norma
incriminatrice  fu  introdotta,  ma  portate  sotto  la   sua   sfera
applicativa dagli sviluppi della scienza medica e  della  tecnologia,
spesso  capaci  di  strappare  alla  morte  pazienti  in   condizioni
estremamente compromesse, ma non di restituire loro  una  sufficienza
di funzioni vitali». In tali casi, l'assistenza di  terzi  nel  porre
fine alla sua vita puo' presentarsi al malato come l'unico  modo  per
sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a  un  mantenimento
artificiale in vita non piu' voluto e  che  egli  ha  il  diritto  di
rifiutare in  base  all'art.  32,  secondo  comma,  Cost.  Parametro,
questo, non evocato nel dispositivo nell'ordinanza di rimessione,  ma
piu' volte richiamato in motivazione. 
    Nei casi considerati - ha osservato questa Corte -  la  decisione
di accogliere la morte potrebbe essere gia' presa dal  malato,  sulla
base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti
dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di
sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione  a  sedazione
profonda continua. Cio', in forza della legge 22  dicembre  2017,  n.
219 (Norme  in  materia  di  consenso  informato  e  di  disposizioni
anticipate di trattamento), la cui disciplina recepisce  e  sviluppa,
nella  sostanza,  le  conclusioni  alle  quali  era  gia'   pervenuta
all'epoca la giurisprudenza ordinaria  -  in  particolare  a  seguito
delle sentenze sui casi Welby (Giudice dell'udienza  preliminare  del
Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre  2007,  n.
2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza
16 ottobre 2007, n. 21748) - nonche' le indicazioni di  questa  Corte
riguardo  al  valore  costituzionale  del  principio   del   consenso
informato del paziente al trattamento sanitario proposto  dal  medico
(ordinanza n. 207 del 2018):  principio  qualificabile  come  vero  e
proprio diritto della persona,  che  trova  fondamento  nei  principi
espressi negli artt. 2, 13 e 32 Cost. (sentenze n. 253 del 2009 e  n.
438 del 2008). 
    La citata legge n. 219 del 2017 riconosce,  infatti,  ad  «[o]gni
persona capace di agire»  il  diritto  di  rifiutare  o  interrompere
qualsiasi trattamento sanitario, ancorche'  necessario  alla  propria
sopravvivenza,  comprendendo  espressamente  nella  relativa  nozione
anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art.  1,
comma 5): diritto inquadrato nel contesto della «relazione di cura  e
di fiducia» tra paziente e medico. In ogni caso, il medico «e' tenuto
a rispettare la  volonta'  espressa  dal  paziente  di  rifiutare  il
trattamento sanitario o di rinunciare al  medesimo»,  rimanendo,  «in
conseguenza di cio', [...] esente da responsabilita' civile o penale»
(art. 1, comma 6). 
    Integrando le  previsioni  della  legge  15  marzo  2010,  n.  38
(Disposizioni per garantire l'accesso alle  cure  palliative  e  alla
terapia del dolore) - che tutela e  garantisce  l'accesso  alle  cure
palliative  e  alla  terapia  del  dolore  da  parte  del   paziente,
inserendole nell'ambito dei livelli essenziali  di  assistenza  -  la
legge n. 219 del 2017 prevede che la  richiesta  di  sospensione  dei
trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie
palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente  (art.
2, comma 1). Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che  il
medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla  sedazione
palliativa profonda continua  in  associazione  con  la  terapia  del
dolore,  per  fronteggiare  sofferenze  refrattarie  ai   trattamenti
sanitari. Disposizione, questa, che «non  puo'  non  riferirsi  anche
alle sofferenze provocate al paziente dal suo  legittimo  rifiuto  di
trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione,  l'idratazione
o l'alimentazione artificiali: scelta  che  innesca  un  processo  di
indebolimento  delle  funzioni  organiche  il   cui   esito   -   non
necessariamente rapido - e' la morte» (ordinanza n. 207 del 2018). 
    La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di
mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni  sopra
descritte  trattamenti  diretti,  non  gia'  ad  eliminare   le   sue
sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto,  il  paziente,  per
congedarsi dalla vita, e' costretto a subire un processo piu' lento e
piu' carico di sofferenze per le persone che gli  sono  care.  Ne  e'
testimonianza il caso oggetto del  giudizio  principale,  nel  quale,
«[s]econdo quanto ampiamente dedotto dalla  parte  costituita,  [...]
l'interessato  richiese  l'assistenza  al  suicidio,   scartando   la
soluzione dell'interruzione dei trattamenti di  sostegno  vitale  con
contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione  che  pure
gli era stata prospettata),  proprio  perche'  quest'ultima  non  gli
avrebbe assicurato una  morte  rapida.  Non  essendo  egli,  infatti,
totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la  morte  sarebbe
sopravvenuta  solo  dopo   un   periodo   di   apprezzabile   durata,
quantificabile in alcuni giorni: modalita' di porre fine alla propria
esistenza che egli  reputava  non  dignitosa  e  che  i  propri  cari
avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo» (ordinanza n. 207 del
2018). 
    Al riguardo, occorre in  effetti  considerare  che  la  sedazione
profonda  continua,  connessa  all'interruzione  dei  trattamenti  di
sostegno vitale - sedazione che rientra  nel  genus  dei  trattamenti
sanitari - ha come effetto l'annullamento totale e  definitivo  della
coscienza e della volonta' del soggetto sino al momento del  decesso.
Si comprende, pertanto, come  la  sedazione  terminale  possa  essere
vissuta da taluni come una soluzione non accettabile. 
    Nelle ipotesi configurate  nel  dettaglio  all'inizio  di  questo
punto 2.3. vengono messe in discussione, d'altronde, le  esigenze  di
tutela che  negli  altri  casi  giustificano  la  repressione  penale
dell'aiuto al suicidio. Se,  infatti,  il  fondamentale  rilievo  del
valore della vita non esclude l'obbligo di  rispettare  la  decisione
del  malato  di   porre   fine   alla   propria   esistenza   tramite
l'interruzione dei trattamenti sanitari - anche quando cio'  richieda
una condotta attiva, almeno sul  piano  naturalistico,  da  parte  di
terzi  (quale  il  distacco  o  lo  spegnimento  di  un  macchinario,
accompagnato  dalla  somministrazione  di  una   sedazione   profonda
continua e di una terapia del dolore) - non  vi  e'  ragione  per  la
quale il medesimo valore debba  tradursi  in  un  ostacolo  assoluto,
penalmente presidiato, all'accoglimento della richiesta del malato di
un aiuto che valga a sottrarlo  al  decorso  piu'  lento  conseguente
all'anzidetta interruzione dei presidi di  sostegno  vitale.  Quanto,
poi, all'esigenza di proteggere le persone piu' vulnerabili,  e'  ben
vero  che  i  malati  irreversibili  esposti   a   gravi   sofferenze
appartengono solitamente a tale categoria di soggetti.  Ma  e'  anche
agevole osservare che, se chi e' mantenuto in vita da un  trattamento
di sostegno artificiale e' considerato dall'ordinamento in  grado,  a
certe condizioni, di prendere la  decisione  di  porre  termine  alla
propria esistenza tramite l'interruzione di tale trattamento, non  si
vede la ragione  per  la  quale  la  stessa  persona,  a  determinate
condizioni, non possa ugualmente decidere di  concludere  la  propria
esistenza con l'aiuto di altri. 
    La  conclusione  e'  dunque  che  entro   lo   specifico   ambito
considerato, il divieto assoluto di aiuto  al  suicidio  finisce  per
limitare ingiustificatamente nonche' irragionevolmente la liberta' di
autodeterminazione del malato nella scelta  delle  terapie,  comprese
quelle finalizzate a liberarlo  dalle  sofferenze,  scaturente  dagli
artt. 2, 13 e  32,  secondo  comma,  Cost.,  imponendogli  in  ultima
analisi un'unica modalita' per congedarsi dalla vita. 
    2.4.- Con la stessa ordinanza n. 207 del 2018,  questa  Corte  ha
ritenuto, peraltro, di non poter porre rimedio - «almeno allo  stato»
- «al riscontrato vulnus», tramite una pronuncia meramente  ablativa,
riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate. Una
simile soluzione avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di
altri valori costituzionalmente protetti, lasciando «del tutto  priva
di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in
tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilita' etico-sociale
e rispetto al quale vanno con fermezza  preclusi  tutti  i  possibili
abusi». 
    In assenza di una specifica disciplina  della  materia,  infatti,
«qualsiasi soggetto - anche non esercente una professione sanitaria -
potrebbe lecitamente offrire, a  casa  propria  o  a  domicilio,  per
spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti
che lo desiderino,  senza  alcun  controllo  ex  ante  sull'effettiva
sussistenza, ad esempio, della loro  capacita'  di  autodeterminarsi,
del carattere libero e informato della  scelta  da  essi  espressa  e
dell'irreversibilita'  della  patologia   da   cui   sono   affetti».
Conseguenze, quelle ora indicate, delle quali «questa Corte non  puo'
non farsi carico» (ordinanza n. 207 del 2018). 
    Una regolazione della materia, intesa ad evitare simili  scenari,
gravidi  di  pericoli  per  la  vita  di  persone  in  situazione  di
vulnerabilita',  e'  suscettibile  peraltro  di   investire   plurimi
profili, ciascuno dei quali,  a  sua  volta,  variamente  declinabile
sulla base di scelte discrezionali: «come, ad esempio,  le  modalita'
di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza  dei
quali  una  persona  possa  richiedere  l'aiuto,  la  disciplina  del
relativo "processo medicalizzato", l'eventuale riserva  esclusiva  di
somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale,
la possibilita' di una obiezione di coscienza del personale sanitario
coinvolto nella procedura». 
    La  disciplina  potrebbe  essere  inoltre  «introdotta,  anziche'
mediante una mera modifica della disposizione penale di cui  all'art.
580 cod. pen., in questa  sede  censurata,  inserendo  la  disciplina
stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in
modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro  della  "relazione
di  cura  e  di  fiducia  tra  paziente  e  medico",   opportunamente
valorizzata dall'art. 1 della legge medesima» (ordinanza n.  207  del
2018). Potrebbe prospettarsi, ancora, l'esigenza di  «introdurre  una
disciplina ad hoc per le  vicende  pregresse»,  anch'essa  variamente
calibrabile. 
    Deve quindi, infine, essere sottolineata l'esigenza  di  adottare
opportune cautele  affinche'  «l'opzione  della  somministrazione  di
farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la  morte
del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da
parte  delle  strutture  sanitarie,  a  offrire  sempre  al  paziente
medesimo concrete possibilita' di accedere a cure palliative  diverse
dalla sedazione profonda continua, ove  idonee  a  eliminare  la  sua
sofferenza [...] in accordo con l'impegno assunto dallo Stato con  la
citata legge n. 38 del 2010». Il coinvolgimento  in  un  percorso  di
cure palliative deve costituire,  infatti,  «un  pre-requisito  della
scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo  da  parte  del
paziente» (come gia' prefigurato dall'ordinanza n. 207 del 2018). 
    Peraltro, nel parere del 18 luglio 2019  («Riflessioni  bioetiche
sul suicidio medicalmente assistito»), il Comitato nazionale  per  la
bioetica,  pur  nella  varieta'  delle   posizioni   espresse   sulla
legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, ha  sottolineato,
all'unanimita',  che  la  necessaria  offerta   effettiva   di   cure
palliative e di terapia del dolore - che oggi sconta «molti  ostacoli
e difficolta', specie nella disomogeneita' territoriale  dell'offerta
del SSN, e nella mancanza di  una  formazione  specifica  nell'ambito
delle professioni sanitarie» - dovrebbe rappresentare,  invece,  «una
priorita' assoluta per le politiche della sanita'». 
    Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire  l'aiuto  al
suicidio senza avere prima assicurato l'effettivita' del diritto alle
cure palliative. 
    2.5.- Questa Corte ha rilevato, da ultimo, come, in casi  simili,
essa abbia dichiarato l'inammissibilita' della  questione  sollevata,
accompagnandola con un monito al legislatore per l'introduzione della
disciplina necessaria a rimuovere il vulnus costituzionale: pronuncia
alla quale, ove il monito fosse rimasto  senza  riscontro,  ha  fatto
seguito, di norma, una declaratoria di incostituzionalita'. 
    Tale soluzione e'  stata  ritenuta,  tuttavia,  non  percorribile
nella specie. 
    La ricordata tecnica decisoria ha «l'effetto di lasciare in  vita
- e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di  tempo
non preventivabile - la normativa non  conforme  a  Costituzione.  La
eventuale   dichiarazione    di    incostituzionalita'    conseguente
all'accertamento dell'inerzia legislativa  presuppone,  infatti,  che
venga sollevata una nuova questione di  legittimita'  costituzionale,
la quale puo', peraltro, sopravvenire anche a  notevole  distanza  di
tempo dalla  pronuncia  della  prima  sentenza  di  inammissibilita',
mentre nelle more la disciplina in discussione continua  ad  operare.
Un simile effetto non puo' considerarsi consentito nel caso in esame,
per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da
esso coinvolti» (ordinanza n. 207 del 2018). 
    Questa Corte ha ritenuto, quindi, di  dover  procedere  in  altro
modo. Facendo leva  sui  «propri  poteri  di  gestione  del  processo
costituzionale», ha fissato, cioe', una nuova udienza di  trattazione
delle questioni, a undici  mesi  di  distanza  (segnatamente,  al  24
settembre 2019): udienza in esito alla quale  avrebbe  potuto  essere
valutata l'eventuale sopravvenienza di una  legge  regolatrice  della
materia in conformita' alle segnalate esigenze di tutela. 
    In questo modo, si e' lasciata al Parlamento la  possibilita'  di
assumere le necessarie decisioni rimesse alla  sua  discrezionalita',
ma si e'  evitato  che,  nel  frattempo,  la  norma  potesse  trovare
applicazione. Il giudizio a quo e' rimasto, infatti, sospeso. 
    3.- Deve pero' ora prendersi atto di come  nessuna  normativa  in
materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza. Ne', d'altra
parte, l'intervento del legislatore risulta imminente. 
    I plurimi progetti di legge pure presentati in materia, di  vario
taglio, sono rimasti, infatti, tutti senza seguito. 
    Il relativo esame -  iniziato  presso  la  Camera  dei  deputati,
quanto alle proposte di legge A.C. 1586 e abbinate - si e',  infatti,
arrestato alla fase della trattazione in commissione, senza  che  sia
stato  possibile  addivenire  neppure  all'adozione   di   un   testo
unificato. 
    4.- In assenza di ogni determinazione da  parte  del  Parlamento,
questa Corte non puo'  ulteriormente  esimersi  dal  pronunciare  sul
merito  delle  questioni,   in   guisa   da   rimuovere   il   vulnus
costituzionale gia' riscontrato con l'ordinanza n. 207 del 2018. 
    Non e' a cio' d'ostacolo la circostanza che - per quanto rilevato
nella medesima ordinanza e come poco sopra ricordato -  la  decisione
di illegittimita' costituzionale faccia emergere specifiche  esigenze
di disciplina che, pur  suscettibili  di  risposte  differenziate  da
parte del legislatore, non possono comunque sia essere disattese. 
    Il rinvio disposto all'esito della precedente  udienza  risponde,
infatti, con diversa tecnica, alla stessa logica  che  ispira,  nella
giurisprudenza  di  questa  Corte,  il  collaudato  meccanismo  della
"doppia  pronuncia"  (sentenza  di  inammissibilita'   "con   monito"
seguita,  in  caso  di  mancato  recepimento  di   quest'ultimo,   da
declaratoria di incostituzionalita'). Decorso un congruo  periodo  di
tempo, l'esigenza di  garantire  la  legalita'  costituzionale  deve,
comunque  sia,  prevalere  su  quella   di   lasciare   spazio   alla
discrezionalita' del legislatore per la  compiuta  regolazione  della
materia, alla quale spetta la priorita'. 
    Come piu' volte si e' avuto modo di rilevare, «posta di fronte  a
un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa -  tanto
piu' se attinente  a  diritti  fondamentali  -  la  Corte  e'  tenuta
comunque a porvi rimedio» (sentenze n. 162 del  2014  e  n.  113  del
2011; analogamente  sentenza  n.  96  del  2015).  Occorre,  infatti,
evitare che l'ordinamento presenti zone franche immuni dal  sindacato
di legittimita' costituzionale: e cio'  «specie  negli  ambiti,  come
quello penale, in cui e' piu' impellente l'esigenza di assicurare una
tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi  dalle  scelte  del
legislatore» (sentenza n. 99 del 2019). 
    Risalente,   nella   giurisprudenza   di   questa    Corte,    e'
l'affermazione per cui non  puo'  essere  ritenuta  preclusiva  della
declaratoria di illegittimita' costituzionale delle leggi la  carenza
di disciplina - reale o apparente - che da essa  puo'  derivarne,  in
ordine a determinati rapporti (sentenza n. 59 del 1958). Ove,  pero',
i vuoti di disciplina, pure in se' variamente colmabili, rischino  di
risolversi a loro volta - come nel caso di specie - in  una  menomata
protezione  di  diritti  fondamentali  (suscettibile   anch'essa   di
protrarsi nel tempo, nel perdurare dell'inerzia legislativa),  questa
Corte puo'  e  deve  farsi  carico  dell'esigenza  di  evitarli,  non
limitandosi a un annullamento "secco" della  norma  incostituzionale,
ma ricavando dalle  coordinate  del  sistema  vigente  i  criteri  di
riempimento costituzionalmente necessari, ancorche' non  a  contenuto
costituzionalmente  vincolato,  fin  tanto  che  sulla  materia   non
intervenga il Parlamento (in questo senso, sentenze n. 40  del  2019,
n. 233 e 222 del 2018 e n. 236 del 2016). 
    5.- Cio' posto, per quanto attiene ai  contenuti  della  presente
decisione,   questa   Corte   ha   gia'   puntualmente   individuato,
nell'ordinanza n. 207 del 2018, le situazioni in rapporto alle  quali
l'indiscriminata   repressione   penale   dell'aiuto   al   suicidio,
prefigurata dall'art. 580 cod. pen., entra in frizione con i precetti
costituzionali evocati. Si tratta in specie - come si e' detto -  dei
casi  nei  quali  venga  agevolata  l'esecuzione  del  proposito   di
suicidio, autonomamente  e  liberamente  formatosi,  di  una  persona
tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale  e  affetta  da  una
patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche  o  psicologiche
che ella  trova  intollerabili,  ma  pienamente  capace  di  prendere
decisioni libere e consapevoli. 
    Quanto, poi, all'esigenza di evitare che la  sottrazione  pura  e
semplice di tale condotta alla  sfera  di  operativita'  della  norma
incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori
protetti, generando il pericolo di abusi «per la vita di  persone  in
situazioni di vulnerabilita'» (ordinanza n. 207 del 2018), gia'  piu'
volte questa Corte, in passato, si e' fatta carico  dell'esigenza  di
scongiurare esiti  similari:  in  particolare,  subordinando  la  non
punibilita' dei fatti che venivano di volta in volta  in  rilievo  al
rispetto di specifiche  cautele,  volte  a  garantire  -  nelle  more
dell'intervento   del   legislatore   -   un   controllo   preventivo
sull'effettiva esistenza  delle  condizioni  che  rendono  lecita  la
condotta. 
    Cio' e' avvenuto, ad  esempio,  in  materia  di  aborto,  con  la
sentenza n. 27 del 1975 (la quale dichiaro'  illegittimo  l'art.  546
cod. pen., nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse
essere interrotta quando l'ulteriore gestazione implicasse «danno,  o
pericolo,  grave,  medicalmente  accertato  nei  sensi  di   cui   in
motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della  madre»);
ovvero, piu' di recente,  in  materia  di  procreazione  medicalmente
assistita, con le sentenze n. 96 e n. 229 del 2015  (le  quali  hanno
dichiarato illegittime, rispettivamente, le disposizioni che negavano
l'accesso alle relative tecniche alle coppie  fertili  portatrici  di
gravi malattie genetiche, trasmissibili al nascituro,  «accertate  da
apposite strutture pubbliche», e  la  disposizione  che  puniva  ogni
forma di selezione eugenetica  degli  embrioni,  senza  escludere  le
condotte di selezione volte a  evitare  l'impianto  nell'utero  della
donna di embrioni affetti da gravi malattie  genetiche  trasmissibili
accertate nei predetti modi). 
    Nell'odierno  frangente,   peraltro,   un   preciso   «punto   di
riferimento» (sentenza n. 236 del 2016) gia' presente nel  sistema  -
utilizzabile ai fini  considerati,  nelle  more  dell'intervento  del
Parlamento - e' costituito dalla disciplina racchiusa negli artt. 1 e
2 della legge n. 219 del 2017: disciplina piu' volte richiamata,  del
resto, nella stessa ordinanza n. 207 del 2018. 
    La declaratoria di incostituzionalita' attiene, infatti, in  modo
specifico ed esclusivo all'aiuto al suicidio  prestato  a  favore  di
soggetti  che  gia'  potrebbero  alternativamente  lasciarsi   morire
mediante la rinuncia  a  trattamenti  sanitari  necessari  alla  loro
sopravvivenza, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge ora citata:
disposizione che, inserendosi nel piu' ampio tessuto delle previsioni
del  medesimo  articolo,  prefigura  una  "procedura   medicalizzata"
estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo. 
    Il riferimento a tale procedura - con le integrazioni di  cui  si
dira' in seguito - si presta a dare  risposta  a  buona  parte  delle
esigenze di disciplina poste in evidenza nell'ordinanza  n.  207  del
2018. 
    Cio' vale, anzitutto, con riguardo alle  «modalita'  di  verifica
medica della sussistenza dei presupposti in presenza  dei  quali  una
persona possa richiedere l'aiuto». Mediante la procedura in questione
e',   infatti,   gia'   possibile   accertare   la    capacita'    di
autodeterminazione del paziente e il  carattere  libero  e  informato
della scelta espressa. L'art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017
riconosce, infatti, il diritto all'interruzione  dei  trattamenti  di
sostegno vitale in corso alla persona «capace di agire» e  stabilisce
che la relativa richiesta debba essere espressa nelle forme  previste
dal precedente comma 4 per il consenso informato.  La  manifestazione
di volonta' deve essere,  dunque,  acquisita  «nei  modi  e  con  gli
strumenti piu' consoni alle condizioni del  paziente»  e  documentata
«in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per  la  persona
con  disabilita',  attraverso  dispositivi  che  le   consentano   di
comunicare», per poi essere inserita nella  cartella  clinica.  Cio',
«[f]erma restando la possibilita' per il paziente  di  modificare  la
propria volonta'»: il che, peraltro, nel caso dell'aiuto al suicidio,
e'  insito  nel  fatto  stesso  che   l'interessato   conserva,   per
definizione, il dominio sull'atto  finale  che  innesca  il  processo
letale. 
    Lo stesso art. 1, comma 5, prevede, altresi', che il medico debba
prospettare al paziente  «le  conseguenze  di  tale  decisione  e  le
possibili  alternative»,  promovendo  «ogni  azione  di  sostegno  al
paziente  medesimo,  anche  avvalendosi  dei  servizi  di  assistenza
psicologica». In questo  contesto,  deve  evidentemente  darsi  conto
anche del carattere irreversibile della patologia: elemento  indicato
nella cartella clinica e  comunicato  dal  medico  quando  avvisa  il
paziente circa le conseguenze legate all'interruzione del trattamento
vitale e sulle «possibili alternative». Lo stesso deve dirsi  per  le
sofferenze fisiche o psicologiche: il promovimento  delle  azioni  di
sostegno al  paziente,  comprensive  soprattutto  delle  terapie  del
dolore,  presuppone  una  conoscenza  accurata  delle  condizioni  di
sofferenza. 
    Il  riferimento  a  tale  disciplina  implica,   d'altro   canto,
l'inerenza anche della materia considerata alla relazione tra  medico
e paziente. 
    Quanto all'esigenza  di  coinvolgimento  dell'interessato  in  un
percorso di cure palliative, l'art. 2 della legge  n.  219  del  2017
prevede che debba essere sempre garantita al paziente  un'appropriata
terapia del dolore e  l'erogazione  delle  cure  palliative  previste
dalla legge n. 38 del 2010 (e da questa incluse, come gia' ricordato,
nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza). Tale  disposizione
risulta  estensibile  anch'essa  all'ipotesi   che   qui   interessa:
l'accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza,
spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause  della  volonta'  del
paziente di congedarsi dalla vita. 
    Similmente a quanto gia' stabilito da questa Corte con le  citate
sentenze n. 229 e n. 96 del 2015, la verifica  delle  condizioni  che
rendono legittimo l'aiuto al suicidio deve restare peraltro  affidata
- in attesa della declinazione che potra' darne il  legislatore  -  a
strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A queste ultime
spettera' altresi' verificare le relative modalita' di esecuzione, le
quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di
persone vulnerabili, da garantire  la  dignita'  del  paziente  e  da
evitare al medesimo sofferenze. 
    La  delicatezza  del   valore   in   gioco   richiede,   inoltre,
l'intervento di un organo collegiale  terzo,  munito  delle  adeguate
competenze, il quale possa garantire la tutela  delle  situazioni  di
particolare   vulnerabilita'.   Nelle   more   dell'intervento    del
legislatore,   tale   compito   e'   affidato   ai   comitati   etici
territorialmente competenti.  Tali  comitati  -  quali  organismi  di
consultazione e di riferimento per i problemi  di  natura  etica  che
possano  presentarsi  nella  pratica  sanitaria  -   sono,   infatti,
investiti di funzioni consultive intese a  garantire  la  tutela  dei
diritti e dei valori della persona in confronto alle  sperimentazioni
cliniche di medicinali o, amplius, all'uso di  questi  ultimi  e  dei
dispositivi medici (art. 12, comma 10, lettera c, del d.l. n. 158 del
2012; art. 1 del decreto del Ministro della salute 8  febbraio  2013,
recante «Criteri per la composizione e il funzionamento dei  comitati
etici»): funzioni che involgono  specificamente  la  salvaguardia  di
soggetti vulnerabili e che  si  estendono  anche  al  cosiddetto  uso
compassionevole di medicinali nei confronti di  pazienti  affetti  da
patologie per le  quali  non  siano  disponibili  valide  alternative
terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del  Ministro  della  salute  7
settembre  2017,  recante   «Disciplina   dell'uso   terapeutico   di
medicinale sottoposto a sperimentazione clinica»). 
    6.- Quanto, infine,  al  tema  dell'obiezione  di  coscienza  del
personale sanitario, vale osservare che la presente  declaratoria  di
illegittimita' costituzionale si limita a  escludere  la  punibilita'
dell'aiuto al suicidio  nei  casi  considerati,  senza  creare  alcun
obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta  affidato,
pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o
no, a esaudire la richiesta del malato. 
    7.- I requisiti procedimentali dianzi indicati, quali  condizioni
per la non punibilita' dell'aiuto al suicidio prestato  a  favore  di
persone che versino  nelle  situazioni  indicate  analiticamente  nel
precedente  punto  2.3.,  valgono  per  i   fatti   successivi   alla
pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale  della
Repubblica. 
    In  quanto  enucleate  da  questa  Corte  solo  con  la  presente
sentenza, in attesa dell'intervento del  legislatore,  le  condizioni
procedimentali in questione non possono essere richieste, tal  quali,
in rapporto ai fatti anteriormente commessi, come quello oggetto  del
giudizio a quo, che precede la stessa entrata in vigore  della  legge
n. 219  del  2017.  Rispetto  alle  vicende  pregresse,  infatti,  le
condizioni in parola non risulterebbero, in pratica, mai puntualmente
soddisfatte. 
    Cio' impone una diversa scansione del contenuto  della  pronuncia
sul piano temporale. 
    Riguardo ai fatti anteriori  la  non  punibilita'  dell'aiuto  al
suicidio rimarra' subordinata, in specie, al fatto che l'agevolazione
sia stata prestata con modalita' anche diverse da quelle indicate, ma
idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti. 
    Occorrera' dunque che le condizioni del richiedente che valgono a
rendere lecita la prestazione dell'aiuto -  patologia  irreversibile,
grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da  trattamenti  di
sostegno  vitale  e  capacita'  di  prendere   decisioni   libere   e
consapevoli - abbiano formato oggetto di verifica in  ambito  medico;
che la volonta' dell'interessato sia stata manifestata in modo chiaro
e  univoco,  compatibilmente  con  quanto  e'  consentito  dalle  sue
condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia  in
ordine a queste  ultime,  sia  in  ordine  alle  possibili  soluzioni
alternative,  segnatamente  con  riguardo   all'accesso   alle   cure
palliative  ed,  eventualmente,  alla  sedazione  profonda  continua.
Requisiti tutti la  cui  sussistenza  dovra'  essere  verificata  dal
giudice nel caso concreto. 
    8.-  L'art.  580  cod.  pen.  deve  essere  dichiarato,   dunque,
costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt.  2,  13  e
32,  secondo  comma,  Cost.,  nella  parte  in  cui  non  esclude  la
punibilita' di chi, con le modalita' previste dagli artt. 1 e 2 della
legge n. 219 del 2017  -  ovvero,  quanto  ai  fatti  anteriori  alla
pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale  della
Repubblica, con modalita' equivalenti nei sensi  dianzi  indicati  -,
agevola l'esecuzione  del  proposito  di  suicidio,  autonomamente  e
liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita  da  trattamenti
di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di
sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa  intollerabili,  ma
pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli,  sempre
che  tali  condizioni  e  le  modalita'  di  esecuzione  siano  state
verificate  da  una  struttura  pubblica   del   servizio   sanitario
nazionale,  previo  parere  del   comitato   etico   territorialmente
competente. 
    L'ulteriore questione sollevata in via principale per  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt.  2  e  8
CEDU, resta assorbita. 
    Parimente assorbite restano le questioni  subordinate,  attinenti
alla misura della pena. 
    9.- Questa Corte non puo' fare a meno, peraltro, di ribadire  con
vigore l'auspicio  che  la  materia  formi  oggetto  di  sollecita  e
compiuta  disciplina  da  parte  del  legislatore,  conformemente  ai
principi precedentemente enunciati.