ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  4  del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in  materia  di
contratto di lavoro a tempo  indeterminato  a  tutele  crescenti,  in
attuazione della legge  10  dicembre  2014,  n.  183),  promossi  dal
Tribunale ordinario di Bari, in funzione di giudice del  lavoro,  con
ordinanza del 18 aprile 2019, e dal Tribunale ordinario di  Roma,  in
funzione di giudice del lavoro, con  ordinanza  del  9  agosto  2019,
iscritte, rispettivamente, ai numeri 214 e 235 del registro ordinanze
2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  49,
prima serie speciale, dell'anno 2019 e n. 1,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2020. 
    Visto l'atto di costituzione di A. P.; 
    uditi il Giudice relatore Silvana Sciarra e gli avvocati Gianluca
Loconsole e Amos Andreoni per A. P.,  nell'udienza  pubblica  del  23
giugno 2020, svolta, ai sensi  del  decreto  della  Presidente  della
Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettere a) e d), in  collegamento
da remoto, su richiesta  degli  avvocati  Amos  Andreoni  e  Gianluca
Loconsole, pervenuta in data 9 giugno 2020; 
    udito  il  Giudice  relatore  Silvana  Sciarra  nella  camera  di
consiglio del 24 giugno 2020,  svolta  ai  sensi  del  decreto  della
Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a); 
    deliberato nella camera di consiglio del 24 giugno 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 aprile 2019,  iscritta  al  n.  214  del
registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Bari, in  funzione
di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,  4,
primo comma, 35, primo comma, e 24 della Costituzione,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 4  del  decreto  legislativo  4
marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di  lavoro  a
tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge  10
dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui prevede un criterio legato
alla   sola   anzianita'   di   servizio   per   la    determinazione
dell'indennita'  da  corrispondere  nell'ipotesi   di   licenziamento
viziato dal punto di vista formale o procedurale. 
    1.1.- Con sentenza non definitiva, il giudice a quo ha escluso il
ricorrere di ipotesi di nullita' o di illegittimita' sostanziale  del
licenziamento e ha riscontrato  soltanto  vizi  formali,  consistenti
nella mancata contestazione di uno degli addebiti  e,  per  tutte  le
violazioni,  nell'inosservanza   della   previsione   del   contratto
collettivo,  che  impone,  al  momento  della   contestazione   degli
addebiti, di comunicare per iscritto al lavoratore il  termine  entro
il quale potra' presentare gli argomenti a propria difesa. 
    Il  giudizio  e'  proseguito  unicamente  per  la  determinazione
dell'indennita' da corrispondere per  il  licenziamento  viziato  dal
punto di  vista  formale  o  procedurale  e,  in  tale  contesto,  il
rimettente  ha  sollevato  d'ufficio  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art.  4  del  d.lgs.  n.  23  del  2015,  che  la
disciplina. 
    La disposizione censurata - argomenta il rimettente - non sarebbe
stata travolta dalla sentenza n. 194 del 2018 di questa Corte, che ha
dichiarato inammissibile per difetto di  rilevanza  la  questione  di
legittimita' costituzionale sollevata a tale riguardo  dal  Tribunale
di  Roma  e  ha  scrutinato  soltanto  la  distinta  fattispecie  del
licenziamento intimato senza giusta causa o senza giustificato motivo
oggettivo o soggettivo (art. 3 del d.lgs. n. 23  del  2015).  Ne'  si
potrebbe sperimentare una interpretazione adeguatrice, a  fronte  del
tenore letterale inequivocabile della previsione censurata. 
    1.2.- In merito alla rilevanza  della  questione,  il  rimettente
evidenzia che la modesta anzianita'  di  servizio  della  lavoratrice
implicherebbe il riconoscimento di un'indennita' non  superiore  alla
soglia minima delle due mensilita'. La declaratoria di illegittimita'
costituzionale consentirebbe, per contro, di valutare  altri  fattori
idonei  «ad   aumentare   detta   misura»,   e,   segnatamente,   «le
notevolissime  dimensioni  dell'impresa  convenuta  in   termini   di
fatturato e l'elevatissimo numero di dipendenti occupati (nell'ordine
di migliaia), nonche' la non trascurabile  entita'  della  violazione
commessa dalla societa' datrice». 
    1.3.- In punto di non manifesta infondatezza, il giudice  a  quo,
nel richiamare diffusamente le motivazioni della sentenza n. 194  del
2018, assume che esse siano pertinenti anche per  l'omologo  criterio
di quantificazione dell'indennita' fissato dall'art. 4 del d.lgs.  n.
23 del 2015. 
    Il meccanismo di determinazione dell'indennita' parametrato  alla
sola anzianita' di servizio si porrebbe anzitutto  in  contrasto  con
l'art. 3 Cost., sotto un duplice profilo. 
    In  violazione  del  principio  di  eguaglianza,   una   siffatta
predeterminazione  dell'indennita'   omologherebbe   situazioni   che
possono essere - e sono, nell'esperienza concreta - diverse. Difatti,
«anche le violazioni procedurali  possiedono  diverse  gradazioni  di
gravita', e anche un licenziamento illegittimo per questioni di forma
puo' produrre pregiudizi differenziati in base alle condizioni  delle
parti, all'anzianita' del lavoratore, alle dimensioni dell'azienda». 
    Sarebbe violato anche il canone di ragionevolezza, in quanto  «il
diritto  a  essere  licenziati  solo   all'esito   di   un   regolare
procedimento disciplinare, o comunque in virtu' di  un  provvedimento
chiaro,  espresso,  specifico,  motivato,  non  riceverebbe  adeguata
tutela   da   un   meccanismo   risarcitorio   che   consentisse   di
predeterminare in maniera fissa l'importo dell'indennita' sulla  base
del solo criterio dell'anzianita' del dipendente». Tale  rimedio  non
sarebbe neppure «congruo rispetto  alla  finalita'  di  dissuadere  i
datori di lavoro dal porre in essere licenziamenti affetti da vizi di
forma». 
    Il giudice a quo denuncia la  violazione  degli  artt.  4,  primo
comma, e 35, primo comma, Cost., in quanto «una tutela  inadeguata  a
fronte di un licenziamento illegittimo sotto il profilo  procedurale»
si  rivelerebbe  «lesiva  del  diritto  al  lavoro  quanto  l'analoga
inadeguata tutela, ormai dichiarata incostituzionale, prevista per  i
licenziamenti illegittimi sotto il profilo sostanziale». 
    La  disposizione  censurata,  nel  prevedere  una  «irragionevole
modalita' di calcolo dell'indennita'», sarebbe lesiva anche dell'art.
24 Cost., che tutela le «garanzie procedurali poste  dall'ordinamento
a presidio di un regolare e legittimo licenziamento disciplinare». 
    2.- Con atto depositato il 20 dicembre 2019, si e' costituita  la
parte ricorrente nel giudizio principale, chiedendo di accogliere  la
questione di legittimita' costituzionale sollevata dal  Tribunale  di
Bari. 
    La parte ne sostiene l'ammissibilita', in  quanto  il  rimettente
avrebbe descritto in maniera  esaustiva  la  fattispecie  concreta  e
avrebbe  offerto  una  motivazione   plausibile   sull'applicabilita'
dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, riguardante i vizi formali del
licenziamento e caratterizzato da un tenore letterale inequivocabile,
che non si presta a un'interpretazione adeguatrice. 
    La questione, nel merito, sarebbe fondata, in quanto  «la  misura
fissa dell'indennita'» impedirebbe al giudice di valutare l'effettivo
pregiudizio subito e di attribuire rilievo non solo all'anzianita' di
servizio, ma anche al comportamento e alle condizioni delle parti. 
    Secondo la parte, la predeterminazione legislativa, in  contrasto
con il principio di eguaglianza, equipara  situazioni  oggettivamente
diverse e, nel dar luogo a  «una  quantificazione  tanto  modesta  ed
evanescente»,  lede  «il  diritto  al  lavoro,  come   strumento   di
realizzazione della persona  e  mezzo  di  emancipazione  sociale  ed
economico», irriducibile alla mera dimensione  economica  e  tutelato
dalla Carta fondamentale come  «principio  di  struttura,  necessario
alla individuazione e definizione dell'ordinamento italiano vigente»,
per il suo ruolo di «sintesi fra il principio personalistico [...]  e
quello solidarista». 
    La parte ritiene viziata  da  contraddittorieta'  intrinseca  una
disciplina  che  appiattisce  il  regime  sanzionatorio  sull'aspetto
dell'anzianita' di servizio, senza tener conto della  «situazione  di
bisogno» e delle «caratteristiche individuali», relative  ai  carichi
di famiglia e all'eta', e cosi' penalizza proprio  i  «soggetti  piu'
deboli nel mercato del lavoro». 
    2.1.- In vista dell'udienza pubblica, la parte ha depositato  una
memoria illustrativa e ha chiesto, in via preliminare,  di  ammettere
la discussione pubblica e, nel merito, di  accogliere  la  questione,
estendendo   la   declaratoria   di   illegittimita'   costituzionale
all'enunciato «non superiore a dodici mensilita'». 
    La parte segnala che, con decisione  dell'11  febbraio  2020,  il
Comitato europeo dei diritti sociali ha ritenuto  contraria  all'art.
24 della  Carta  sociale  europea  riveduta,  con  annesso,  fatta  a
Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge
9 febbraio 1999, n.  30,  la  fissazione  di  un  tetto  massimo  che
svincoli le indennita', come quella prevista dal censurato art. 4 del
d.lgs. n. 23 del 2015, dal danno subito. 
    Secondo l'orientamento del Comitato europeo dei diritti  sociali,
il rimedio compensatorio, ove previsto in alternativa  rispetto  alla
reintegrazione,  rappresenta  una  adeguata  forma   di   riparazione
soltanto quando assicura un  ristoro  tendenzialmente  integrale  del
danno  provocato   dal   licenziamento   illegittimo.   Quanto   alla
legislazione italiana, il Comitato europeo  dei  diritti  sociali  ha
escluso  che  il  meccanismo  conciliativo  e  la  previsione   della
risarcibilita' di danni ulteriori (danno morale  o  danno  biologico,
arrecati dal licenziamento illegittimo) rendano dissuasivo il sistema
sanzionatorio. 
    Gli  orientamenti  del  Comitato  europeo  dei  diritti  sociali,
proprio per la peculiare autorevolezza che anche questa Corte  mostra
di riconoscere loro,  ben  potrebbero  e  dovrebbero  «esercitare  un
proprio effetto conformativo, per quanto soft, anche  ai  fini  della
determinazione   del   quantum   dell'indennita'   risarcitoria   per
licenziamento illegittimo». 
    La parte evidenzia che l'indennita' per il licenziamento  affetto
da vizi formali e procedurali si attesta sulle  dodici  mensilita'  e
non e' stata modificata dall'art. 3, comma 1,  del  decreto-legge  12
luglio  2018,  n.  87  (Disposizioni  urgenti  per  la  dignita'  dei
lavoratori e delle imprese),  convertito,  con  modificazioni,  nella
legge 9 agosto 2018, n. 96, che ha  elevato  a  trentasei  mensilita'
l'ammontare massimo dell'indennita' per il licenziamento  affetto  da
vizi sostanziali. Tale discrasia renderebbe ancor piu'  irragionevole
la disparita' di trattamento tra le due discipline. 
    La  violazione  dell'art.  3   Cost.,   oltre   che   sul   piano
dell'arbitraria disparita' di trattamento con la disciplina  prevista
dall'art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, si  coglierebbe  sul  versante
dell'irragionevolezza intrinseca di una  disciplina  che  prevede  un
tetto massimo di dodici mensilita' per la violazione del fondamentale
obbligo di motivazione del licenziamento  e  delle  altre  regole  di
garanzia del lavoratore, che prescrivono la  pubblicita'  del  codice
disciplinare, la preventiva contestazione degli addebiti, l'esercizio
del diritto di difesa del lavoratore. 
    Sulla base di tali considerazioni e in linea  con  i  riferimenti
dell'ordinanza di rimessione all'esigenza  di  adeguato  ristoro  del
pregiudizio  subito,  si  chiede  a  questa   Corte   di   dichiarare
l'illegittimita' consequenziale dell'art. 4  del  d.lgs.  n.  23  del
2015, nella  parte  in  cui  sancisce  il  tetto  massimo  di  dodici
mensilita', anziche' di trentasei mensilita'. Ad avviso della  parte,
difatti, l'accoglimento della  questione,  nei  circoscritti  termini
prospettati dal rimettente, implica che il sistema si ricomponga  «in
modo nuovamente incostituzionale per persistente violazione dell'art.
3 Cost.». 
    3.- Con ordinanza del 9 agosto  2019,  iscritta  al  n.  235  del
registro ordinanze 2019, il Tribunale ordinario di Roma, in  funzione
di giudice del lavoro, ha sollevato, per violazione degli artt. 3, 4,
primo comma, e 35, primo  comma,  Cost.,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015,  «limitatamente
alle  parole  "di  importo  pari   a   una   mensilita'   dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto per ogni anno di servizio"». 
    3.1.- Il rimettente espone che gli addebiti mossi  al  lavoratore
integrano grave violazione del rapporto fiduciario e  degli  obblighi
fondamentali inerenti al rapporto  di  lavoro  e  che,  pertanto,  in
ragione della loro gravita', giustificano il licenziamento  intimato.
Tale licenziamento, tuttavia, sarebbe  viziato  dal  punto  di  vista
formale. Il datore di lavoro, in violazione delle garanzie apprestate
dall'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300  (Norme  sulla  tutela
della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale  e
dell'attivita'  sindacale,  nei  luoghi  di  lavoro   e   norme   sul
collocamento), avrebbe ignorato le difese del lavoratore, ritenendole
erroneamente tardive. 
    Secondo il giudice a quo, il caso di specie e' regolato dall'art.
4 del d.lgs. n. 23 del 2015, che prevede, al pari del precedente art.
3, dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza  n.  194
del   2018,   «un   criterio   di   commisurazione    dell'indennita'
automaticamente legato all'anzianita' di servizio» e non si presta  a
un'interpretazione costituzionalmente orientata. 
    3.2.- Il rimettente ritiene che l'art. 4 del  d.lgs.  n.  23  del
2015 incorra nelle medesime censure che questa  Corte,  con  riguardo
all'indennita' dovuta per i vizi sostanziali  del  licenziamento,  ha
accolto con la richiamata sentenza n. 194 del 2018. 
    Il licenziamento viziato sotto il profilo formale  o  procedurale
si  tradurrebbe   nell'inosservanza   di   disposizioni   imperative,
preordinate a garantire il principio di civilta' giuridica  "audiatur
et altera pars", e si configurerebbe pur sempre come «un illecito che
deve dar  luogo  ad  un  risarcimento  "adeguato  e  personalizzato",
ancorche' forfettizzato». 
    Il rimettente denuncia la violazione  dell'art.  3  Cost.  e,  in
particolare,    il     contrasto     con     il     «principio     di
uguaglianza/ragionevolezza». La disposizione censurata  sanzionerebbe
«in modo uguale violazioni non solo produttive di  danni  differenti,
ma  di  gravita'  che  possono  essere,  a  loro  volta,  del   tutto
differenti» e, soprattutto nei casi di anzianita' di servizio  «assai
modesta», non rappresenterebbe «una adeguata dissuasione  del  datore
di lavoro dal licenziare ingiustamente (o comunque in  violazione  di
legge)»  e  neppure   garantirebbe   un   risarcimento   adeguato   e
personalizzato, necessario anche nel  caso  di  violazione  di  norme
imperative attinenti alla forma e alla procedura. 
    Il   meccanismo   di   predeterminazione    dell'indennita'    si
risolverebbe  in  un  ristoro  inadeguato  del  danno  prodotto   dal
licenziamento e in una  dissuasione  inefficace  e  pregiudicherebbe,
pertanto,    l'interesse    del    lavoratore     alla     stabilita'
dell'occupazione, tutelato dalla Carta fondamentale. 
    4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non  e'  intervenuto
nei giudizi. 
    5.- All'udienza pubblica, svoltasi in collegamento da  remoto  ai
sensi del decreto della Presidente della Corte del  20  aprile  2020,
punto 1), lettere a) e d), la parte costituita nel giudizio di cui al
reg. ord. n. 214 del  2019  ha  insistito  per  l'accoglimento  delle
conclusioni di merito formulate nella memoria illustrativa. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Bari (reg. ord. n. 214 del 2019)  e
il Tribunale ordinario di Roma (reg. ord. n. 235 del 2019),  entrambi
in  funzione  di  giudici  del  lavoro,  dubitano,   in   riferimento
complessivamente agli artt. 3, 4, primo comma, 24 e 35, primo  comma,
della Costituzione, della legittimita' costituzionale dell'art. 4 del
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in  materia  di
contratto di lavoro a tempo  indeterminato  a  tutele  crescenti,  in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in  cui
prevede, per il licenziamento intimato in violazione del requisito di
motivazione o della procedura di cui all'art. 7 della legge 20 maggio
1970, n. 300 (Norme  sulla  tutela  della  liberta'  e  dignita'  dei
lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale,  nei
luoghi di lavoro e norme sul collocamento), la condanna del datore di
lavoro  al  pagamento  di   una   indennita'   non   assoggettata   a
contribuzione  previdenziale  «di  importo  pari  a  una   mensilita'
dell'ultima  retribuzione  di  riferimento   per   il   calcolo   del
trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» e attribuisce
cosi'   rilievo   esclusivo,   ai    fini    della    quantificazione
dell'indennita', al criterio dell'anzianita' di servizio. 
    1.1.- Il Tribunale di Bari  reputa  il  «congegno  automatico  di
quantificazione   dell'indennita'»   lesivo    dei    «principi    di
ragionevolezza e  di  uguaglianza  sanciti  dall'art.  3  Cost.».  Un
siffatto meccanismo, per un verso, non terrebbe conto delle  «diverse
gradazioni di gravita'» delle violazioni procedurali  e  dei  diversi
pregiudizi che il licenziamento illegittimo per  questioni  di  forma
arreca «in base  alle  condizioni  delle  parti,  all'anzianita'  del
lavoratore,  alle  dimensioni  dell'azienda».  Per  altro  verso,  il
meccanismo automatico di calcolo non garantirebbe una adeguata tutela
al «diritto  a  essere  licenziati  solo  all'esito  di  un  regolare
procedimento disciplinare, o comunque in virtu' di  un  provvedimento
chiaro, espresso, specifico,  motivato»  e  neppure  sarebbe  congruo
«rispetto alla finalita' di dissuadere i datori di lavoro  dal  porre
in essere licenziamenti affetti da vizi di forma». 
    Il giudice a quo denuncia la  violazione  degli  artt.  4,  primo
comma, e 35, primo comma, Cost.,  sul  presupposto  che  «una  tutela
inadeguata a fronte di un licenziamento illegittimo sotto il  profilo
procedurale e'  altrettanto  lesiva  del  diritto  al  lavoro  quanto
l'analoga  inadeguata  tutela,  ormai  dichiarata   incostituzionale,
prevista  per  i   licenziamenti   illegittimi   sotto   il   profilo
sostanziale». 
    Ad avviso del rimettente, «l'irragionevole modalita'  di  calcolo
dell'indennita'» contrasta anche con l'art. 24 Cost., che  impone  di
apprestare idonee garanzie procedurali «a presidio di un  regolare  e
legittimo licenziamento disciplinare». 
    1.2.- Anche il Tribunale di Roma censura l'art. 4 del  d.lgs.  n.
23 del  2015,  poiche'  stabilisce  «un  criterio  di  commisurazione
dell'indennita' automaticamente legato all'anzianita' di servizio»  e
trascura di considerare «una pluralita' di fattori di correlazione al
danno sofferto». 
    La  commisurazione  dell'indennita'  alla  sola   anzianita'   di
servizio      contrasterebbe      con      il      «principio      di
uguaglianza/ragionevolezza» (art. 3 Cost.), perche' sanzionerebbe «in
modo uguale violazioni non solo produttive di danni differenti, ma di
gravita' che possono essere, a loro volta, del tutto  differenti»  e,
nei casi di anzianita' di servizio modesta, non rappresenterebbe «una
adeguata  dissuasione   del   datore   di   lavoro   dal   licenziare
ingiustamente (o comunque in violazione di legge)» e non garantirebbe
«un adeguato ristoro al concreto pregiudizio». 
    Per le medesime ragioni, l'indennita' determinata in modo «rigido
e fisso» non sarebbe rispettosa neppure delle  garanzie  riconosciute
dagli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost. 
    1.3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non e' intervenuto
nei giudizi. 
    2.- In ragione  dell'identita'  della  disposizione  censurata  e
dell'omogeneita' delle censure, i giudizi devono essere riuniti,  per
essere trattati congiuntamente  e  per  essere  decisi  con  un'unica
sentenza. 
    3.- I rimettenti muovono dalla corretta premessa che la questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015,
dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza con la sentenza  n.
194 del 2018, possa essere riproposta in un diverso  giudizio,  senza
essere preclusa dalla pronuncia in rito di questa Corte. 
    Con riguardo alla necessita' di applicare la previsione citata, i
giudici a quibus svolgono un'argomentazione puntuale, che consente di
ricostruire la fattispecie concreta e di cogliere  la  rilevanza  del
dubbio di costituzionalita'. 
    3.1.- Il Tribunale di Bari, dopo aver escluso la  sussistenza  di
vizi sostanziali del  licenziamento,  ha  ravvisato  vizi  di  natura
esclusivamente  formale  e   procedurale,   consistenti   nell'omessa
contestazione  di  un  addebito  e   nell'omessa   comunicazione   al
lavoratore del termine  entro  il  quale,  per  tutti  gli  addebiti,
avrebbe potuto presentare le proprie difese. 
    Il rimettente ha accertato i vizi in esame con una  sentenza  non
definitiva  e  ha  disposto  la  prosecuzione  del  giudizio  per  la
determinazione dell'indennita'. In tale contesto, il giudice a quo ha
sollevato d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale della
disciplina  applicabile,  non  senza  illustrare  le  ragioni  che  -
nell'ipotesi  di  accoglimento  delle  censure  -   condurrebbero   a
riconoscere  una  indennita'  piu'   cospicua   rispetto   a   quella
parametrata alla sola anzianita' di servizio (pari, nella  specie,  a
un anno). 
    3.2.-  Il  Tribunale  di  Roma,  all'esito  di  una   delibazione
sommaria,  che  riconosce  di  poter  mutare  re   melius   perpensa,
disattende l'eccezione pregiudiziale di  decadenza  dall'impugnazione
del  licenziamento  e  reputa  infondate  le   doglianze   sui   vizi
sostanziali dedotti dal lavoratore. 
    Il licenziamento, pur  sorretto  da  giusta  causa,  risulterebbe
viziato sotto il profilo formale, in quanto il datore di  lavoro  non
avrebbe tenuto in alcun conto le difese del lavoratore,  sull'erroneo
presupposto che fossero tardive. Il giudice a quo ritiene,  pertanto,
allo stato degli atti, di dovere applicare  la  disciplina  sui  vizi
formali del licenziamento e di non  poter  definire  la  controversia
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
costituzionale. 
    La motivazione in punto di rilevanza non  appare  implausibile  e
supera, pertanto, il vaglio di ammissibilita'. 
    3.3.- Entrambi i rimettenti riferiscono  di  avere  esplorato  la
possibilita' di una interpretazione adeguatrice e di averla  ritenuta
impraticabile,   alla   luce   dell'univoco   dato   testuale   della
disposizione censurata. 
    Anche da questo punto di vista, la questione non presenta profili
di inammissibilita', poiche' e' stata consapevolmente  esclusa  -  da
entrambi i rimettenti -  la  praticabilita'  di  una  interpretazione
costituzionalmente orientata. 
    4.- Al fine di delimitare il tema del decidere devoluto all'esame
di questa Corte, occorre rilevare  che,  nella  memoria  illustrativa
depositata in vista dell'udienza, la parte costituita nel giudizio di
cui  al  reg.  ord.  n.  214  del  2019  ha  chiesto  di   dichiarare
l'illegittimita' costituzionale, in via consequenziale,  dell'art.  4
del d.lgs. n. 23 del 2015, nella  parte  in  cui  fissa  l'indennita'
nell'ammontare  massimo  di   dodici   mensilita'.   Anche   per   il
licenziamento affetto da vizi  formali  o  procedurali,  si  dovrebbe
incrementare la soglia massima fino  alle  trentasei  mensilita'  che
oggi stabilisce, per il licenziamento intimato senza giusta  causa  o
senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo, l'art. 3 del d.lgs.
n. 23 del 2015, cosi' come  modificato  dall'art.  3,  comma  1,  del
decreto-legge 12 luglio 2018, n.  87  (Disposizioni  urgenti  per  la
dignita'  dei  lavoratori   e   delle   imprese),   convertito,   con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96. 
    Prospettata nei termini di  una  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale in  via  consequenziale,  la  richiesta  della  parte,
ribadita anche nel corso  dell'udienza  di  discussione  pubblica  da
remoto, adombra, in realta', una diversa  questione  di  legittimita'
costituzionale, che  verte  sul  trattamento  difforme,  quanto  alle
soglie, tra vizi formali e vizi sostanziali.  Ne'  si  puo'  ritenere
identica la questione sulla scorta del dato - posto  in  risalto  nel
corso dell'udienza - che non mutano la  disposizione  censurata  e  i
parametri evocati e che viene pur sempre in  rilievo  il  tema  della
adeguatezza della tutela. 
    Se il Tribunale di Bari non contesta il trattamento differenziato
che  il  legislatore  ha  scelto  di  riservare  ai  vizi  formali  e
procedurali del licenziamento rispetto a quelli sostanziali  e  -  su
questo presupposto - propone incidente di costituzionalita', la parte
privata dubita della conformita' a Costituzione di tale disparita' di
trattamento e chiede a questa Corte di assimilare, quanto alla tutela
indennitaria, la disciplina  dei  vizi  formali  e  quella  dei  vizi
sostanziali. 
    La  diversa  prospettiva  in  cui  si  collocano   i   dubbi   di
costituzionalita' avanzati  dal  rimettente  e  dalla  parte  privata
avvalora la novita' delle censure che quest'ultima ha formulato nella
memoria illustrativa. Tali censure travalicano e tendono ad  ampliare
irritualmente  il   tema   del   decidere,   cosi'   come   tracciato
dall'ordinanza  di  rimessione,  e,  pertanto,  secondo  la  costante
giurisprudenza di questa Corte (fra le  molte,  sentenza  n.  26  del
2020, punto 4.3. del Considerato in diritto), non devono essere prese
in considerazione. 
    Lo scrutinio di questa Corte e' dunque circoscritto ai profili di
illegittimita' costituzionale denunciati dai rimettenti. 
    5.- Le questioni sollevate da entrambi i rimettenti sono fondate,
con riferimento agli artt. 3, 4, primo  comma,  e  35,  primo  comma,
Cost. 
    6.- Occorre, in primo luogo,  raffigurare  nella  sua  evoluzione
piu' recente il quadro normativo in  cui  si  colloca  la  disciplina
censurata. 
    6.1.- La legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia  di
riforma del mercato del lavoro in una prospettiva  di  crescita),  ha
riservato un'autonoma disciplina alle conseguenze  sanzionatorie  dei
vizi formali e ha  modulato  le  tutele,  in  ragione  della  diversa
gravita' di tali vizi. 
    Nell'intervenire sull'art. 18, primo e secondo comma, della legge
n. 300 del 1970, la legge citata ha  conferito  autonomo  rilievo  al
licenziamento intimato in forma orale, disponendo, a prescindere  dal
numero di lavoratori occupati, la reintegrazione del lavoratore e  il
risarcimento del danno, pari a «un'indennita' commisurata  all'ultima
retribuzione globale di fatto maturata dal giorno  del  licenziamento
sino  a  quello   dell'effettiva   reintegrazione,   dedotto   quanto
percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di  altre
attivita' lavorative» e comunque non inferiore  a  cinque  mensilita'
della retribuzione globale di fatto. 
    L'art. 2, commi 1, ultimo periodo, e 2,  del  d.lgs.  n.  23  del
2015, nel confermare tale linea di tendenza, puntualizza che, per  il
licenziamento intimato in forma orale,  l'indennita'  e'  commisurata
non piu' all'ultima retribuzione  globale  di  fatto,  ma  all'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto. 
    Regole  diverse  vigono  per  gli  altri  vizi  formali   e,   in
particolare, per l'ipotesi di  «licenziamento  dichiarato  inefficace
per violazione del requisito di motivazione di  cui  all'articolo  2,
comma  2,  della  legge  15  luglio  1966,  n.  604,   e   successive
modificazioni, della procedura di cui all'articolo 7  della  presente
legge, o della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15  luglio
1966, n. 604, e  successive  modificazioni»,  prevista  nel  caso  di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo. 
    La legge n. 92 del 2012  (art.  1,  comma  42,  lettera  b),  nel
modificare l'art. 18, sesto comma, dello statuto dei  lavoratori,  ha
previsto  una  tutela  prettamente  indennitaria,  che  ha  carattere
residuale, in quanto  si  applica  soltanto  quando  il  giudice  non
accerti anche il difetto di giustificazione del licenziamento. 
    Il giudice, in tale fattispecie, dichiara risolto il rapporto  di
lavoro  e  attribuisce  al  lavoratore  «un'indennita'   risarcitoria
onnicomprensiva  determinata,  in  relazione  alla   gravita'   della
violazione formale o procedurale commessa dal datore di  lavoro,  tra
un minimo di sei  e  un  massimo  di  dodici  mensilita'  dell'ultima
retribuzione globale di fatto, con onere di specifica  motivazione  a
tale riguardo». 
    La tutela indennitaria definita dallo statuto dei  lavoratori  e'
applicabile, dal punto di vista soggettivo,  «al  datore  di  lavoro,
imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede,  stabilimento,
filiale, ufficio o reparto autonomo  nel  quale  ha  avuto  luogo  il
licenziamento occupa alle sue dipendenze piu' di quindici  lavoratori
o piu' di cinque se si tratta di imprenditore  agricolo,  nonche'  al
datore di lavoro, imprenditore o non  imprenditore,  che  nell'ambito
dello stesso comune occupa piu' di quindici dipendenti e  all'impresa
agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa piu'  di  cinque
dipendenti,  anche  se  ciascuna  unita'  produttiva,   singolarmente
considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al  datore  di
lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa piu' di  sessanta
dipendenti» (art. 18, ottavo comma, della legge n. 300 del 1970). 
    Nell'assetto della legge n. 92 del 2012, il datore di lavoro  che
non raggiunga le dimensioni di cui all'art. 18, ottavo  comma,  dello
statuto dei lavoratori, e sia assoggettato, pertanto, al regime della
tutela  obbligatoria,  dovra'  corrispondere,  nell'ipotesi  di  vizi
formali   diversi   dall'inosservanza   della   forma   scritta   del
licenziamento, una indennita' determinata secondo le regole dell'art.
8 della legge n. 604 del 1966, in un «importo compreso tra un  minimo
di 2,5 ed un massimo di 6 mensilita' dell'ultima retribuzione globale
di fatto, avuto riguardo al  numero  dei  dipendenti  occupati,  alle
dimensioni dell'impresa, all'anzianita' di servizio del prestatore di
lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti»,  accresciuto
in rapporto all'anzianita' di servizio (Corte di cassazione,  sezione
lavoro, sentenza 5 settembre 2016, n. 17589). 
    6.2.- L'art. 4 del  d.lgs.  n.  23  del  2015,  applicabile  agli
operai, agli impiegati o quadri,  assunti  con  contratto  di  lavoro
subordinato a tempo indeterminato  a  decorrere  dal  7  marzo  2015,
riproduce in gran parte le disposizioni dell'art.  18,  sesto  comma,
dello statuto dei lavoratori, cosi' come novellato dalla legge n.  92
del 2012. 
    La tutela, anche nel nuovo regime, ha carattere residuale  e  non
si applica quando il giudice ravvisi i presupposti del  licenziamento
discriminatorio, nullo, intimato in forma orale o carente  di  giusta
causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo. 
    La previsione regola la sola ipotesi del licenziamento  «intimato
con violazione del requisito di motivazione di  cui  all'articolo  2,
comma 2, della legge n.  604  del  1966  o  della  procedura  di  cui
all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970». 
    Ove riscontri i vizi indicati, il  giudice  dichiara  estinto  il
rapporto di lavoro e condanna «il datore di lavoro  al  pagamento  di
un'indennita'  non  assoggettata  a  contribuzione  previdenziale  di
importo pari a una mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del trattamento di fine  rapporto  per  ogni  anno  di
servizio, in misura comunque non inferiore a due e  non  superiore  a
dodici mensilita'». 
    L'art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2015 dispone  che  l'importo  della
indennita' sia dimezzato, nel caso  di  «piccole  imprese»,  che  non
raggiungano i requisiti dimensionali  dell'art.  18,  ottavo  e  nono
comma, dello statuto dei lavoratori. 
    7.- Le prescrizioni formali, la cui  violazione  la  disposizione
censurata ha inteso sanzionare con la tutela indennitaria,  rivestono
una essenziale funzione di garanzia, ispirata a  valori  di  civilta'
giuridica.  Nell'ambito  della  disciplina  dei   licenziamenti,   il
rispetto della forma e delle procedure assume un rilievo ancora  piu'
pregnante,  poiche'  segna  le  tappe  di  un  lungo  cammino   nella
progressiva attuazione dei principi costituzionali. 
    L'obbligo  di  motivazione,  inizialmente   subordinato   a   una
specifica  richiesta  del  lavoratore,  ha  assunto  caratteri   piu'
stringenti, in seguito alle novita' introdotte dall'art. 1, comma 37,
della legge n.  92  del  2012.  Il  datore  di  lavoro  e',  infatti,
obbligato a dar conto in maniera  sollecita  e  circostanziata  delle
giustificazioni per l'applicazione della sanzione piu' grave, secondo
il principio di buona fede che permea ogni  rapporto  obbligatorio  e
vincola le parti a comportamenti univoci e trasparenti. 
    L'obbligo  di  motivazione,  che  ha  il  suo  corollario   nella
immutabilita' delle ragioni del licenziamento, e' tratto qualificante
di una disciplina volta a delimitare il potere unilaterale del datore
di lavoro, al fine di comprimere ogni manifestazione arbitraria dello
stesso. 
    Le previsioni dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970, richiamate
dalla disposizione oggi censurata, assegnano  un  ruolo  centrale  al
principio del contraddittorio, piu' che mai  cruciale  nell'esercizio
di un potere privato che  si  spinge  fino  a  irrogare  la  sanzione
espulsiva (sentenza n. 204 del 1982, punto 11.1. del  Considerato  in
diritto). La conoscibilita' delle norme disciplinari,  la  preventiva
contestazione dell'addebito, il  diritto  del  lavoratore  di  essere
sentito,  non  sono  vuote  prescrizioni  formali,  ma  concorrono  a
tutelare la  dignita'  del  lavoratore,  come  traspare  anche  dalla
collocazione sistematica della norma nel Titolo I dello  statuto  dei
lavoratori, denominato «Della liberta' e  dignita'  del  lavoratore».
Dopo questo  intervento  del  legislatore,  il  potere  disciplinare,
nient'affatto dimidiato ne' tanto meno sospeso, assume le cadenze  di
un procedimento: esso si estrinseca nel rispetto di precise regole  e
si snoda attraverso fasi successive (sentenza n. 204 del 1982,  punto
11.1. del Considerato in diritto). 
    Le garanzie sancite dall'art. 2 della legge n.  604  del  1966  e
dall'art. 7 dello statuto  dei  lavoratori,  consistono  nell'imporre
alle parti di esternare le contrapposte ragioni, al fine di  chiarire
i  punti  controversi  e  favorire,   ove   possibile,   composizioni
stragiudiziali. Tali garanzie preludono a un esercizio piu'  efficace
del diritto  di  difesa  nel  corso  della  fase  giudiziale  che  il
lavoratore puo' scegliere di instaurare successivamente. 
    La  violazione  delle   prescrizioni   formali   e   procedurali,
all'origine di un possibile e  piu'  ampio  contenzioso  riferito  al
recesso del datore di lavoro, rischia di disperdere gli  elementi  di
prova  che  si  possono  acquisire  nell'immediatezza  dei  fatti   e
attraverso  un  sollecito   contraddittorio   e   incide,   pertanto,
sull'effettivita' del diritto di difesa del lavoratore. 
    8.- L'obbligo di motivazione e la regola del contraddittorio sono
riconducibili al principio di  tutela  del  lavoro,  enunciato  dagli
artt. 4 e 35 Cost.,  che  impone  al  legislatore  di  circondare  di
«doverose garanzie» e di  «opportuni  temperamenti»  il  recesso  del
datore di lavoro (sentenza n. 45 del 1965, punto 4.  del  Considerato
in diritto), come questa Corte ha ribadito da ultimo  nella  sentenza
n. 194 del 2018 (punto 9.1. del Considerato in diritto). 
    Anche i vincoli di forma e  di  procedura  rientrano  nell'ambito
delle  garanzie  prescritte  dalle  norme   ora   richiamate,   lette
congiuntamente, proprio perche' volte ad ampliare il perimetro  delle
tutele che circonda la persona del lavoratore. 
    Questa  Corte  ha  affermato,  sin  da   epoca   risalente,   che
l'inosservanza del principio del contraddittorio  e  delle  scansioni
procedurali imposte dall'art. 7 dello statuto  dei  lavoratori  «puo'
incidere sulla sfera morale e professionale  del  lavoratore  e  crea
ostacoli o addirittura impedimenti alle nuove occasioni di lavoro che
il licenziato deve poi necessariamente trovare. Tanto piu'  grave  e'
il pregiudizio che si verifica se il  licenziato  non  sia  posto  in
grado di difendersi  e  fare  accertare  l'insussistenza  dei  motivi
"disciplinari",  peraltro  unilateralmente  mossi  e  addebitati  dal
datore di lavoro» (sentenza n. 427 del 1989). 
    Il contraddittorio «esprime un valore essenziale per  la  persona
del lavoratore» (sentenza n. 364 del 1991, punto 2.  del  Considerato
in diritto) e anche l'obbligo di  motivazione  risponde  ad  analoghe
esigenze di tutela. La violazione di tale obbligo, difatti, non  solo
preclude in radice il dispiegarsi del contraddittorio, ma reca offesa
alla dignita' del lavoratore, esposto all'irrogazione della  sanzione
espulsiva senza  avere  adeguata  cognizione  delle  ragioni  che  la
giustificano. 
    9.- La disciplina del licenziamento affetto da vizi di forma e di
procedura, proprio per gli interessi di  rilievo  costituzionale  che
sono stati richiamati,  deve  essere  incardinata  nel  rispetto  dei
principi di eguaglianza e di ragionevolezza, cosi' da  garantire  una
tutela adeguata. 
    La  prudente  discrezionalita'  del  legislatore,   pur   potendo
modulare la tutela in chiave eminentemente monetaria,  attraverso  la
predeterminazione dell'importo  spettante  al  lavoratore,  non  puo'
trascurare la valutazione della specificita' del  caso  concreto.  Si
tratta di una  valutazione  tutt'altro  che  marginale,  se  solo  si
considera  la  vasta  gamma  di  variabili  che  vedono  direttamente
implicata  la  persona  del  lavoratore.  Nel  rispetto  del  dettato
costituzionale, la predeterminazione  dell'indennita'  deve  tendere,
con ragionevole approssimazione, a rispecchiare tale  specificita'  e
non puo' discostarsene in misura apprezzabile, come avviene quando si
adotta un meccanismo rigido e uniforme. 
    10.-  La  disciplina   censurata   non   attua   un   equilibrato
contemperamento tra i diversi interessi in gioco. 
    11.- Entrambi i rimettenti prendono le mosse  dalla  sentenza  n.
194 del 2018, con cui questa  Corte  ha  dichiarato  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella
parte in cui determinava l'indennita' per il  licenziamento  intimato
senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo
in un «importo pari a  due  mensilita'  dell'ultima  retribuzione  di
riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per  ogni
anno di servizio». 
    Le censure ricalcano in gran parte le argomentazioni svolte nella
citata  sentenza  di  questa  Corte   circa   il   carattere   rigido
dell'indennita',  lesivo   dei   principi   di   eguaglianza   e   di
ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto al lavoro (artt. 4  e  35
Cost.),  tutelato  dalla  Costituzione  in  tutte  le  sue  forme   e
applicazioni. 
    11.1.- Le ragioni su cui questa Corte ha fondato la  declaratoria
di illegittimita' costituzionale dell'art. 3 del  d.lgs.  n.  23  del
2015 devono essere ripercorse lungo una linea di continuita', al fine
di  esaminare   la   disciplina   dell'indennita'   dovuta   per   il
licenziamento affetto da vizi formali e procedurali. 
    11.2.- Anche la fattispecie oggi scrutinata si  caratterizza  per
un criterio di determinazione dell'indennita' commisurato  alla  sola
anzianita' di servizio e oscillante  tra  un  limite  minimo  di  due
mensilita' e un insuperabile limite massimo di dodici mensilita'. 
    11.3.-  Al  dato  significativo   dell'identita'   del   criterio
congegnato dal legislatore, si affianca la considerazione della ratio
decidendi della pronuncia di questa Corte, che serve a  orientare  la
soluzione dell'odierno dubbio di costituzionalita'. 
    Nel giudizio deciso con la sentenza n. 194 del 2018,  le  censure
non riguardavano le soglie fissate dal legislatore, ma il «meccanismo
di determinazione» dell'indennita', in quanto «rigido  e  automatico»
(punto 3. del Considerato in diritto).  Partendo  da  tali  premesse,
questa Corte ha ritenuto ininfluenti le  innovazioni  introdotte  dal
d.l. n. 87 del 2018, come convertito, giacche' esse si limitavano  ad
apportare correttivi alle soglie stabilite dal legislatore (innalzate
da quattro a sei mensilita' nel minimo e da ventiquattro a  trentasei
mensilita' nel massimo), senza incidere sul meccanismo denunciato dal
rimettente e senza  mutare,  pertanto,  i  termini  essenziali  delle
questioni proposte. 
    La  carenza  di  giustificazione  del  licenziamento  sul   piano
sostanziale rende  piu'  stridenti  i  profili  di  contrasto  con  i
parametri costituzionali evocati e fa emergere,  con  ancor  maggiore
evidenza, l'irragionevolezza intrinseca  del  criterio  adottato  dal
legislatore, per la rigidita' che lo caratterizza. 
    11.4.- Non puo' condurre a diverse conclusioni la differenza  che
intercorre tra i vizi  meramente  formali  o  procedurali  e  i  vizi
sostanziali del licenziamento.  Essa,  difatti,  si  riverbera  sulla
diversa modulazione dell'indennita' sancita dalla legge, ma non  vale
a rendere ragionevole e adeguato un criterio che si presta a  censure
di irragionevolezza intrinseca. Un  sistema  che,  solo  per  i  vizi
formali,   lasci   inalterato   un   criterio    di    determinazione
dell'indennita' imperniato sulla  sola  anzianita'  di  servizio  non
potrebbe che accentuare le sperequazioni e la frammentarieta' di  una
disciplina  dei  licenziamenti,  gia'  attraversata   da   molteplici
distinzioni. 
    12.-  L'anzianita'  di  servizio,  svincolata  da  ogni  criterio
correttivo, e' inidonea a esprimere  le  mutevoli  ripercussioni  che
ogni licenziamento produce nella sfera personale e  patrimoniale  del
lavoratore e non presenta neppure una ragionevole correlazione con il
disvalore del licenziamento affetto da vizi  formali  e  procedurali,
che il legislatore ha inteso  sanzionare.  Tale  disvalore  non  puo'
esaurirsi nel mero calcolo aritmetico della anzianita' di servizio. 
    La disciplina censurata  prescinde  da  altri  fattori  non  meno
significativi, gia' presi in considerazione dal legislatore, come  la
diversa gravita' delle violazioni ascrivibili al  datore  di  lavoro,
valorizzata dalla legislazione del 2012 nell'area della tutela  reale
(art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, come  modificato
dalla legge n. 92 del 2012), o i piu' flessibili criteri  del  numero
degli occupati, delle dimensioni dell'impresa,  del  comportamento  e
delle condizioni delle parti (art. 8 della legge n.  604  del  1966),
applicabili  nell'ambito  della  tutela  obbligatoria,   cosi'   come
definito dalla stessa legge n. 92 del 2012. 
    Nell'appiattire la valutazione del giudice sulla  verifica  della
sola anzianita' di  servizio,  la  disposizione  in  esame  determina
un'indebita omologazione di situazioni che, nell'esperienza concreta,
sono  profondamente  diverse  e  cosi'  entra  in  conflitto  con  il
principio di eguaglianza. 
    13.- L'art. 3 Cost. e'  violato  anche  sotto  il  profilo  della
ragionevolezza, che questa Corte, nell'ambito  della  disciplina  dei
licenziamenti, ha declinato come necessaria adeguatezza  dei  rimedi,
nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi  in
gioco e  della  specialita'  dell'apparato  di  tutele  previsto  dal
diritto del lavoro (sentenza n. 194 del 2018, punti 12.1. e 12.2. del
Considerato in diritto). 
    Il legislatore, pur potendo adattare secondo  una  pluralita'  di
criteri, anche in  considerazione  delle  diverse  fasi  storiche,  i
rimedi  contro   i   licenziamenti   illegittimi,   e'   chiamato   a
salvaguardarne la complessiva adeguatezza, che consenta di attribuire
il  doveroso  rilievo   al   fatto,   in   se'   sempre   traumatico,
dell'espulsione del lavoratore. 
    L'adeguatezza deve essere valutata alla luce della  molteplicita'
di funzioni che contraddistinguono  l'indennita'  disciplinata  dalla
legge.  Alla  funzione  di  ristoro  del  pregiudizio  arrecato   dal
licenziamento  illegittimo  si  affianca,   infatti,   anche   quella
sanzionatoria e dissuasiva (sentenza n. 194 del 2018, punto 12.3. del
Considerato in diritto). 
    In un prudente bilanciamento tra gli interessi costituzionalmente
rilevanti,  l'esigenza   di   uniformita'   di   trattamento   e   di
prevedibilita' dei costi di un atto, che l'ordinamento qualifica  pur
sempre come illecito, non puo' sacrificare in maniera  sproporzionata
l'apprezzamento delle  particolarita'  del  caso  concreto,  peraltro
accompagnato  da  vincoli  e  garanzie  dirette  ad  assicurarne   la
trasparenza e il fondamento razionale. 
    13.1.- La disposizione censurata entra  in  collisione  con  tali
principi. 
    Sul  versante  dei  licenziamenti  viziati  dal  punto  di  vista
formale, all'arretrare della tutela riferita alla reintegrazione  del
lavoratore licenziato corrisponde un progressivo  affievolirsi  della
tutela  indennitaria,  che  non  basta  ad  attuare  un   equilibrato
contemperamento degli interessi in conflitto. Nel disegno complessivo
prospettato dal legislatore un criterio  ancorato  in  via  esclusiva
all'anzianita' di servizio non fa che accentuare la marginalita'  dei
vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor  piu'  la  funzione  di
garanzia di fondamentali valori di civilta' giuridica, orientati alla
tutela della dignita' della persona del lavoratore. 
    L'incongruenza di una misura uniforme e immutabile si  coglie  in
maniera ancor piu' evidente nei casi di un'anzianita'  modesta,  come
quelli esaminati  nei  giudizi  principali.  In  queste  ipotesi,  si
riducono in  modo  apprezzabile  sia  la  funzione  compensativa  sia
l'efficacia    deterrente    della    tutela    indennitaria.     Ne'
all'inadeguatezza del ristoro riconosciuto  dalla  legge  puo'  porre
sempre rimedio la  misura  minima  dell'indennita',  fissata  in  due
mensilita'. 
    Un meccanismo di tal fatta, pertanto, non compensa il pregiudizio
arrecato  dall'inosservanza  di  garanzie  fondamentali   e   neppure
rappresenta una sanzione efficace, atta a  dissuadere  il  datore  di
lavoro dal  violare  le  garanzie  prescritte  dalla  legge.  Proprio
perche'  strutturalmente  inadeguato,  il  congegno   delineato   dal
legislatore lede il canone di ragionevolezza. 
    14.- I rimedi previsti dalla disposizione censurata,  in  ragione
dell'inadeguatezza che li contraddistingue, si rivelano lesivi  anche
della tutela del lavoro in tutte le sue forme e  applicazioni  (artt.
4,  primo  comma,  e  35,  primo   comma,   Cost.).   Tali   principi
costituzionali, gia' richiamati da questa Corte nella sentenza n. 194
del 2018 (punto  13.  del  Considerato  in  diritto),  devono  essere
ribaditi anche per la giusta procedura di  licenziamento,  diretta  a
salvaguardare pienamente la dignita' della persona del lavoratore. 
    15.-   Si    deve,    pertanto,    dichiarare    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 4 del d.lgs. n. 23 del  2015,  limitatamente
alle  parole  «di  importo  pari   a   una   mensilita'   dell'ultima
retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine
rapporto per ogni anno di servizio». 
    Restano assorbite le censure di violazione  dell'art.  24  Cost.,
formulate dal solo Tribunale di Bari. 
    16.- Nel rispetto dei limiti minimo e massimo  oggi  fissati  dal
legislatore, il giudice, nella determinazione dell'indennita', terra'
conto innanzitutto dell'anzianita' di servizio,  che  rappresenta  la
base  di  partenza  della  valutazione.  In  chiave  correttiva,  con
apprezzamento congruamente  motivato,  il  giudice  potra'  ponderare
anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a  rendere
la determinazione dell'indennita' aderente  alle  particolarita'  del
caso concreto. 
    Ben potranno venire in rilievo,  a  tale  riguardo,  la  gravita'
delle violazioni, enucleata dall'art. 18, sesto comma, dello  statuto
dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92 del 2012,  e  anche
il  numero   degli   occupati,   le   dimensioni   dell'impresa,   il
comportamento e le condizioni delle  parti,  richiamati  dall'art.  8
della legge n. 604 del 1966, previsione applicabile ai  vizi  formali
nell'ambito della tutela obbligatoria ridefinita dalla  stessa  legge
n. 92 del 2012. 
    17.- Spetta alla responsabilita' del legislatore, anche alla luce
delle indicazioni  enunciate  in  piu'  occasioni  da  questa  Corte,
ricomporre  secondo  linee  coerenti  una  normativa  di   importanza
essenziale,  che  vede  concorrere  discipline   eterogenee,   frutto
dell'avvicendarsi di interventi frammentari.