ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  12,  primo
comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione  in  legge  del
decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5, e  nuove  norme  in  favore  dei
mutilati ed invalidi civili) e dell'art. 38, comma 4, della legge  28
dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per  la  formazione  del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)»,
promosso  dalla  Corte  d'appello  di  Torino,  sezione  lavoro,  nel
procedimento vertente tra S. B., in persona del suo tutore V.  B.,  e
l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS),  con  ordinanza
del 3 giugno 2019, iscritta al n. 240 del registro ordinanze  2019  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  2,  prima
serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visti gli atti di costituzione di  S.  B.,  in  persona  del  suo
tutore V. B., e  dell'Istituto  nazionale  della  previdenza  sociale
(INPS), nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri; 
    udito il Giudice relatore Mario  Rosario  Morelli  ai  sensi  del
decreto della Presidente della Corte del 20 aprile  2020,  punto  1),
lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione  orale,
in data 23 giugno 2020; 
    deliberato nella camera di consiglio del 23 giugno 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Nel corso di  un  giudizio  civile  -  promosso,  tramite  il
(padre) suo tutore, da una donna di anni 47, affetta  da  tetraplegia
spastica prenatale, invalida al lavoro al 100  per  cento,  la  quale
lamentava che la pensione di inabilita' da lei percepita (ex art.  12
della legge 30 marzo 1971, n. 118, recante «Conversione in legge  del
decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5, e  nuove  norme  in  favore  dei
mutilati ed  invalidi  civili»)  fosse  «largamente  insufficiente  a
garantirle il soddisfacimento dei bisogni primari  della  vita»,  per
cui  chiedeva  condannarsi  il  convenuto  Istituto  nazionale  della
previdenza sociale (INPS) a pagarle la  pensione  di  inabilita'  «in
misura non inferiore» al minimo previsto dall'art. 38 della legge  28
dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per  la  formazione  del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria  2002)»
ovvero «in misura non inferiore all'assegno sociale», di cui all'art.
3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335  (Riforma  del  sistema
pensionistico obbligatorio e complementare) e, «comunque,  in  misura
tale da assicurarle il proprio  decoroso  mantenimento»  -  la  Corte
d'appello di Torino, sezione lavoro, adita in sede di gravame avverso
la sentenza del Tribunale sfavorevole alla ricorrente, ha  sollevato,
con   l'ordinanza   in   epigrafe,    questioni    di    legittimita'
costituzionale: 
    1) del predetto art. 12, primo comma,  della  legge  n.  118  del
1971, «nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente inabile,
affetto da gravissima disabilita' e privo di ogni  residua  capacita'
lavorativa,  una  pensione  di  inabilita'  [...]   insufficiente   a
garantire  il  soddisfacimento  delle  minime  esigenze  vitali,   in
relazione agli artt. 3, 38, comma 1, 10, comma 1,  e  117,  comma  1,
Cost.»; 
    2) dell'art. 38, comma 4, della legge n.  448  del  2001,  «nella
parte in cui subordina  il  diritto  degli  invalidi  civili  totali,
affetti da gravissima disabilita' e privi di ogni  residua  capacita'
lavorativa, all'incremento previsto dal comma 1 al raggiungimento del
requisito anagrafico del 60° anno di eta', in relazione agli artt.  3
e 38, comma 1, Cost.». 
    1.1.- In punto di  rilevanza,  la  Corte  torinese  premette  che
risulta documentalmente  provato  che  l'appellante,  in  conseguenza
della patologia di cui soffre, «e' costretta a vivere su una sedia  a
rotelle, e' totalmente dipendente da terzi per il compimento di tutti
gli atti  della  vita  (lavarsi,  vestirsi,  alimentarsi,  coricarsi,
ecc.), dispone di limitatissime funzioni intellettive, comunicative e
relazionali, non essendo neppure in grado di parlare ed  esprimere  i
propri bisogni». 
    Sottolinea, quindi, come la stessa  -  a  parte  l'indennita'  di
accompagnamento, che assolve pero' a funzione (compensativa)  diversa
da quella di sostentamento - di non altro, a tal fine,  disponga  che
della pensione di inabilita', ammontante, nel 2018,  ad  euro  282,55
per tredici  mensilita',  oltre  alla  maggiorazione  di  euro  10,33
mensili di cui all'art. 70, comma 6, della legge 23 dicembre 2000, n.
388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)». 
    E  un  tale  complessivo  importo  -  ne  inferisce  il  Collegio
rimettente - non e' certamente sufficiente a garantire all'appellante
«il soddisfacimento dei piu' elementari bisogni di vita». 
    1.2.- Da qui, dunque, sempre secondo il giudice  a  quo,  la  non
manifesta  infondatezza,  della  (prima)  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 12, primo comma,  della  legge  n.  118  del
1971, per contrasto: 
    a) con l'art. 38, primo comma, Cost., poiche' «[l]a necessita' di
contemperare  il  diritto  dei  cittadini  inabili  privi  dei  mezzi
necessari per vivere e, come nel caso,  anche  della  benche'  minima
capacita' di guadagno, di conseguire dallo  Stato  quanto  necessario
per  soddisfare  le   esigenze   elementari   della   vita   con   le
disponibilita' finanziarie  e  con  il  principio,  pure  di  rilievo
costituzionale, [...] di assicurare  l'equilibrio  di  bilancio»  non
potrebbe spingersi fino al punto di  ritenere  conformi  al  precetto
costituzionale evocato  disposizioni,  come  quella  denunciata,  che
«assicurino ai soggetti in  questione  provvidenze  in  concreto  del
tutto inidonee a garantire l'effettivo soddisfacimento  delle  minime
esigenze vitali»; 
    b) con l'art. 3  Cost.,  atteso  che  -  stante  la  riconosciuta
"assimilabilita'" (in ragione della  comune  funzione  assistenziale)
della  pensione  di  inabilita'   all'assegno   sociale   (ammontante
all'epoca ad euro 458 mensili), di cui all'art.  3,  comma  6,  della
legge n. 335 del 1995 -  sarebbe  irragionevole  e  discriminante  il
«trattamento  di  ammontare  sensibilmente  inferiore»  riservato  al
soggetto inabile; 
    c) con gli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma,  Cost.,  in
relazione agli artt. 4 e 28 della Convenzione delle Nazioni Unite sui
diritti delle persone con disabilita', adottata il 13 dicembre  2006,
ratificata dallo Stato italiano con legge 3 marzo 2009, n. 18, e  cui
ha aderito anche l'Unione europea (decisione del Consiglio n. 2010/48
del 26 novembre 2009), e agli artt. 26 e 34 della Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla quale
il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, entrato  in  vigore  l'1
dicembre  2009,  «ha  conferito  il  medesimo  valore  giuridico  dei
trattati». Atteso che la norma impugnata risulterebbe inevitabilmente
non in linea con gli obblighi  di  protezione  sociale  dei  disabili
assunti dall'Italia sul  piano  internazionale  e  comunitario,  come
considerati nelle richiamate fonti interposte. 
    1.2.1.- Al fine della reductio ad  legitimitatem  del  denunciato
primo comma dell'art. 12 della legge n.  118  del  1971  -  conclude,
quindi,  la  Corte   rimettente   -   «[s]i   rinvengono   d'altronde
nell'ordinamento  diverse  disposizioni  di  legge   che,   pur   non
individuando  direttamente  l'ammontare  della  pensione  idoneo   ad
assicurare al pensionato mezzi adeguati  alle  esigenze  della  vita,
forniscono ciononostante  indicazioni  significative  in  tal  senso:
[...] ad esempio il nuovo testo dell'art. 545, comma 7, c.p.c. [...],
che ha stabilito l'impignorabilita' delle somme dovute  a  titolo  di
pensione, di indennita' che tengono luogo  di  pensione  o  di  altri
assegni di quiescenza "per un ammontare  corrispondente  alla  misura
massima mensile dell'assegno sociale aumentato della  meta'"  nonche'
il gia' citato art. 38 della legge n. 448 del 2001 che  ha  disposto,
in  presenza  di  determinati  requisiti  reddituali   e   di   eta',
l'incremento "al milione" di diversi  trattamenti  pensionistici  dei
soggetti disagiati "fino a garantire un reddito proprio pari a 516,46
euro al mese per tredici mensilita'». 
    1.3.- Quanto alla seconda questione  sollevata,  osserva  poi  la
Corte torinese che l'art. 38, comma 4, della legge n. 448 del 2001  -
«laddove subordina il diritto degli invalidi civili totali, anche  se
in condizioni di gravissima  disabilita'  e  privi  di  ogni  residua
capacita'   lavorativa,   all'incremento   in   esso   previsto    al
raggiungimento del requisito di 60 anni  di  eta'»  -  violi,  a  sua
volta, gli artt. 3 e 38, primo comma, Cost. 
    2.- In questo giudizio incidentale  si  e'  costituita  la  parte
attrice appellante nel procedimento  principale.  La  cui  pretesa  -
sottolinea, in premessa, il suo difensore - «e'  propriamente  quella
di vedersi garantita quella "misura minima essenziale", sancita dalla
Corte costituzionale nella propria giurisprudenza, ossia l'erogazione
di un importo che le consenta di vivere decorosamente». 
    2.1.- Nell'aderire alla prospettazione della Corte rimettente  in
ordine alla illegittimita' costituzionale dell'art. 12, primo  comma,
della legge n. 118 del 1971, osserva, quindi, detta parte come  «[l]a
scelta operata dal legislatore di  trattare  gli  invalidi  con  meno
favore rispetto agli  anziani  [sia]  ancora  piu'  grave  quando  si
riferisce ad invalidi assoluti, che dovrebbero  evidentemente  essere
fatti oggetto di un trattamento di maggior favore (e  non  viceversa,
come invece accade)»,  e  cio'  renderebbe  manifesta  la  violazione
dell'art. 3 Cost. 
    Ricorda poi, con riferimento all'art. 38 Cost., come,  nella  sua
formulazione originaria, l'art.  12  della  legge  n.  118  del  1971
garantisse agli inabili un importo (lire 234.000 annue) ben superiore
a    quello    (lire     156.000     annue)     riconosciuto     agli
ultrasessantacinquenni privi di reddito. E  cio'  in  linea  «con  lo
spirito dei costituenti», ispiratore dell'art. 38, con cui si sarebbe
posta, invece, in contrasto la legislazione successiva. 
    Argomenta ancora, con riferimento al vulnus che  la  disposizione
censurata arrecherebbe ai parametri internazionali, come cio' sia  in
particolare evidenziato dal Report pubblicato il 6 ottobre  2016  dal
Comitato per l'applicazione in Italia della Convenzione delle Nazioni
Unite sui diritti dei disabili, nel quale «il  Comitato  si  dichiara
preoccupato dalla mancanza di standard minimi di  assistenza  sociale
("Minimum  Standards  of  Social  Assistance")  nel  nostro  paese  e
raccomanda di velocizzare il processo di adozione  e  attuazione  dei
suddetti standard». 
    Sostiene, infine, che il denunciato art. 12 della  legge  n.  118
del 1971 - attuando  un  trattamento  sfavorevole  nei  confronti  di
appartenenti ad una categoria protetta (quella appunto dei  disabili)
- violi, con cio', anche il «principio di non  discriminazione»,  che
«e', invero, uno dei cardini della costruzione comunitaria,  sia  sul
piano economico che su quello sociale, ed e' sancito sia nella  carta
di  Nizza  (art.  21)  che  nella  Convenzione  Europea  dei  Diritti
dell'Uomo (art. 14)». 
    2.2.- La difesa della parte costituita condivide anche le censure
rivolte dal Collegio rimettente all'art. 38, comma 4, della legge  n.
448  del  2001,  per  il  profilo  del  (non  ragionevole)  requisito
anagrafico cui e' subordinato l'incremento (cosiddetto "incremento al
milione") ivi previsto, «in quanto il percettore  della  pensione  di
inabilita' con eta' inferiore ai 60 anni si trova in  una  situazione
di inabilita' lavorativa che non e' certo meritevole di minor  tutela
rispetto a quella in cui si troverebbe al compimento del sessantesimo
anno di eta'». 
    3.- Si e' costituito anche l'INPS, che, in  via  preliminare,  ha
eccepito l'inammissibilita' delle  questioni  sollevate  che,  a  suo
avviso, tenderebbero a «ottenere una risposta che rientra nella sfera
propria del legislatore», prospettando una  «radicale  trasformazione
delle norme censurate». 
    3.1.- Nel merito, la questione relativa all'art. 12  della  legge
n. 118 del 1971, sempre  secondo  la  difesa  dell'Istituto,  sarebbe
manifestamente infondata perche' basata sull'erroneo presupposto  che
la pensione di inabilita' sia assimilabile all'assegno sociale di cui
all'art. 3, comma 6, della legge n. 335  del  1995  e  alla  pensione
sociale di cui all'art.  26  della  legge  30  aprile  1969,  n.  153
(Revisione degli ordinamenti pensionistici  e  norme  in  materia  di
sicurezza sociale). Cio' che contrasterebbe, invece, con  l'«evidente
disomogeneita'» dei trattamenti comparati, «ulteriormente  avvalorata
dalla diversa modulazione dei limiti di reddito che, nel  trattamento
assistenziale dell'assegno sociale, sono meno  favorevoli  di  quelli
previsti per l'attribuzione del beneficio di  invalidita',  rilevando
anche quello del coniuge  e  alla  [recte:  dalla]  diversita'  delle
componenti del reddito prese in esame ai fini della  sussistenza  del
requisito utile al diritto». Mentre la preferenza, che la  rimettente
lamenta irragionevolmente accordata ai cittadini di anni superiori ai
(65  poi)  67,  sarebbe  giustificata  dal  fatto  che  la  vecchiaia
costituisce un'autonoma condizione bisognosa di tutela  nel  disposto
dell'art. 38 Cost. 
    3.2.- Analoghi motivi di infondatezza sussisterebbero, ad  avviso
dell'INPS,  con  riguardo  alla  questione  che  ha  ad  oggetto   la
cosiddetta "integrazione al milione", di cui all'art.  38,  comma  4,
della legge n. 448 del 2001, trattandosi  di  «maggiorazione  sociale
[che] nasce come forma particolare di  incremento  ed  e'  misura  di
natura assistenziale autonoma e distinta dalla pensione  (quindi  non
comparabile con l'istituto della integrazione  al  minimo)  la  quale
continua ad essere  regolata  e  corrisposta  in  base  alla  propria
normativa». 
    4.- E' altresi' intervenuto in questo giudizio il Presidente  del
Consiglio dei ministri. 
    L'Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e  difende,
ha nell'ordine eccepito: 
    - l'inammissibilita' delle  questioni  sollevate  «per  invasione
della sfera riservata alla discrezionalita' del legislatore»; 
    - l'inammissibilita', per incertezza del petitum  (non  essendone
chiaro il verso caducatorio o manipolativo) e per mancata indicazione
del rapporto (di alternativita' o di subordinazione) tra le  suddette
questioni; 
    - l'infondatezza di entrambe le questioni nel merito. 
    4.1.- Quanto alle censure rivolte alla disposizione relativa alla
pensione  di  inabilita',  sostiene,  infatti,  l'Avvocatura  che  la
rimettente  non  avrebbe  indicato  in  modo  chiaro  quale   sarebbe
l'importo  ragionevole  ed  adeguato  di  tale   emolumento,   stante
l'incerta ed erronea  evocazione  di  plurimi  tertia  comparationis,
facenti     riferimento     «all'assegno     sociale     per      gli
ultrasessantacinquenni (nel 2019, euro 458 mensili),  al  nuovo  art.
545, comma 7, c.p.c.  (che  prevede  l'impignorabilita'  delle  somme
dovute a titolo di pensione, indennita' a titolo  di  pensione  o  di
altri assegni di quiescenza  per  un  ammontare  corrispondente  alla
misura massima mensile dell'assegno sociale aumentato della  meta'  -
quindi all'incirca di euro 687 mensili), all'incremento della  stessa
pensione di inabilita' previsto per gli ultrasessantenni (euro 516,46
per 13 mensilita') o alla maggiorazione al milione [di  lire]  per  i
titolari di assegno o pensione sociale giunti  al  settantesimo  anno
d'eta' (per il 2020, euro 648,26 per 13 mensilita')». 
    L'ordinanza di rimessione avrebbe poi, comunque, errato nel porre
a raffronto tre misure di carattere assistenziale, quali la  pensione
di  inabilita',  l'assegno  sociale  e  la   maggiorazione   sociale,
introdotte per rispondere a distinte situazioni di fragilita' sociale
non comparabili tra loro. 
    Non avrebbe, inoltre, tenuto conto della globalita' delle  misure
approntate  dal  legislatore  a  tutela  della  disabilita',  con  la
previsione  di  forme  di  sostegno,  anche  non  economico,  atte  a
garantire  un  effettivo  diritto  al  mantenimento  e  un'assistenza
materiale adeguata rispetto alle minime esigenze di vita dei soggetti
non autosufficienti. 
    4.2.- Quanto alla seconda questione, il Presidente del  Consiglio
sottolinea come il censurato art. 38 della legge n. 448  del  2001  -
prevedente, con decorrenza dal primo gennaio  2002,  una  particolare
maggiorazione in favore dei pensionati ultrasettantenni  titolari  di
prestazioni previdenziali e assistenziali  di  importo  inferiore  al
milione delle vecchie lire - gia' rechi una  disposizione  di  favore
per i soggetti totalmente invalidi, ai quali  la  maggiorazione  puo'
essere concessa con un anticipo di ben 10 anni rispetto a  tutti  gli
altri titolari di prestazioni previdenziali e assistenziali. 
    Andrebbe,  infine,  adeguatamente   considerata   l'esigenza   di
contemperare  i  valori  costituzionali,  in  tesi  incisi,  con   il
principio  di  bilancio,  che   costituisce   anch'esso   un   valore
costituzionale. Ne' una simile comparazione potrebbe, in  ogni  caso,
prescindere dall'entita' delle risorse che il bilancio  riserva  alla
tutela della disabilita' nel suo  complesso,  ivi  incluse  tutte  le
prestazioni di carattere assistenziale e sanitario. 
    5.- Fuori termine, hanno presentato opinione, a titolo  di  amici
curiae, la formazione sociale senza scopo di lucro ULCES - Unione per
la lotta contro l'emarginazione  sociale;  la  Fondazione  Promozione
sociale onlus; la Federazione  italiana  Prader  -  Willi  -  Sezione
Piemonte; La Scintilla - Associazione genitori  ragazzi  handicappati
Collegno e  Grugliasco  e  la  redazione  della  rivista  Prospettive
assistenziali, edita dall'Associazione promozione sociale Aps. 
    6.-  Nell'imminenza  dell'udienza,  sia  la  difesa  della  parte
appellante nel giudizio a quo, sia  l'Avvocatura  dello  Stato  hanno
depositato ulteriori memorie. 
    6.1.- Nel contestare partitamente le argomentazioni  dell'INPS  e
del Governo la difesa della disabile, tra l'altro, sostiene che: 
    - non sarebbe  condivisibile  la  tesi  dell'asserita  diversita'
della pensione di inabilita' rispetto  all'assegno  sociale,  poiche'
«[c]io' che conta, al fine dello scrutinio di costituzionalita' sotto
il profilo della ragionevolezza, e' che entrambi gli emolumenti  sono
diretti a soddisfare il bisogno di persone che non sono in  grado  di
procurarsi da sole i mezzi per vivere. E' irrilevante, invece, che le
rispettive  platee  dei   destinatari   siano   state   eventualmente
individuate con diversi criteri reddituali»; 
    -  analoghe  considerazioni  varrebbero  per  l'integrazione   al
minimo; 
    - non fondato sarebbe, poi, l'argomento per cui la Convenzione di
New York porrebbe obiettivi di risultato ma non mirerebbe a garantire
al disabile una propria autonomia economica, non essendo  sostenibile
che «una pensione (quella di inabilita') manifestamente insufficiente
al   sostentamento   della   persona,   inferiore    agli    standard
internazionali e per di  piu'  sensibilmente  inferiore  rispetto  ad
analoghi emolumenti dell'ordinamento nazionale, sia coerente  con  la
tutela del disabile sotto l'aspetto della protezione delle  effettive
condizioni di esistenza, della dignita' e della non  discriminazione.
L'inadeguatezza della pensione di inabilita' lascia  il  disabile  in
una miserabile condizione di poverta'»; 
    - errata sarebbe anche  la  tesi  per  cui  il  mantenimento  del
disabile sia a carico della famiglia e, solo in  via  sussidiaria,  a
carico  dello  Stato,  poiche'  «la  disabilita'  non   deve   essere
considerata come una "disgrazia familiare" ma come  l'oggetto  di  un
intervento pubblico a tutela di  una  situazione  di  inferiorita'  e
bisogno elevata a diritto soggettivo fondamentale». 
    6.2.- L'Avvocatura  dello  Stato,  a  sua  volta,  ribadisce  che
«l'intervento additivo richiesto dal rimettente  attiene  alla  sfera
della discrezionalita' del legislatore  perche'  rientra  nell'ambito
della generale politica sociale ed esclusivamente ad esso legislatore
spetta la scelta delle varie soluzioni possibili». 
    Torna a sottolineare l'erroneita'  della  censura  fondata  dalla
Corte rimettente «solo sull'aspetto quantitativo della prestazione di
invalidita' civile, [...]  perdendo  di  vista  la  globalita'  delle
misure approntate dal legislatore a tutela della disabilita'». 
    Conclude che l'esigenza di completezza della tutela «e' destinata
a  soccombere  "di  fronte  alla  limitatezza  delle   disponibilita'
finanziarie  che  e'  possibile   destinare   nel   quadro   di   una
programmazione generale degli interventi di carattere  assistenziale"
(cfr. Corte cost. 248/11, Corte cost. 111/05)». 
    7.- L'INPS ha depositato memorie fuori termine. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza in epigrafe - emessa nel corso  del  giudizio
di cui si e' riferito nel Ritenuto in fatto - la Corte  d'appello  di
Torino,  sezione  lavoro,   ha   sollevato   duplice   questione   di
legittimita' costituzionale: 
    a) dell'art. 12, primo comma, della legge 30 marzo 1971,  n.  118
(Conversione in legge del decreto-legge 30  gennaio  1971,  n.  5,  e
nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili), «nella  parte
in  cui  attribuisce  al  soggetto  totalmente  inabile,  affetto  da
gravissima disabilita' e privo di ogni residua capacita'  lavorativa,
una  pensione  di  inabilita'  [...]  insufficiente  a  garantire  il
soddisfacimento delle minime esigenze vitali, in relazione agli artt.
3, 38, comma 1, 10, comma 1, e 117, comma 1, Cost.»; 
    b) dell'art. 38, comma 4, della legge 28 dicembre 2001,  n.  448,
recante «Disposizioni  per  la  formazione  del  bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)»,  «nella  parte  in
cui subordina il diritto degli invalidi  civili  totali,  affetti  da
gravissima disabilita' e privi di ogni residua capacita'  lavorativa,
all'incremento previsto dal comma 1 al raggiungimento  del  requisito
anagrafico del 60° anno di eta', in relazione  agli  artt.  3  e  38,
comma 1, Cost.». 
    2.- Pregiudiziale al vaglio di legittimita' costituzionale  delle
disposizioni cosi' censurate e' l'esame delle  plurime  eccezioni  di
inammissibilita'    delle    correlative     questioni,     formulate
dall'Avvocatura generale dello Stato e (la prima di esse anche) dalla
difesa dell'INPS. 
    2.1.- Eccepisce in primo luogo, infatti, l'Avvocatura dello Stato
che quanto richiesto dalla rimettente a questa Corte  -  e  cioe'  di
«intervenire a modificare la  misura  della  pensione  di  inabilita'
ovvero ad eliminare il requisito anagrafico per l'applicazione  delle
maggiorazioni previste dall'art. 38, comma  4,  della  L.  448/01»  -
«esorbiti  dal  mero  controllo  di  conformita'  alla  Costituzione,
invadendo  il  campo  delle  scelte  e  della  discrezionalita'   del
legislatore». 
    E,  sulla  stessa  linea,  sostiene  la  difesa  dell'INPS,   che
«entrambe le questioni tendono ad ottenere una risposta  che  rientra
nella sfera propria del legislatore». 
    2.1.1.- Questa eccezione - in quanto rivolta alla  prospettazione
stessa delle questioni, per sostenerne (in via pregiudiziale appunto)
l'ostativita' ex se ad una delibazione delle formulate censure -  e',
in tali termini, non fondata. 
    La Corte rimettente non contesta,  infatti,  la  discrezionalita'
del legislatore nell'individuazione delle misure necessarie -  e,  in
questo caso, nell'importo della pensione - a tutela dei disabili. 
    Denuncia, invece,  con  riguardo  al  disposto  del  primo  comma
dell'art. 12 della legge n. 118 del 1971, che l'importo pensionistico
ivi previsto, per la sua  inadeguatezza  ad  assicurare  al  disabile
anche il «minimo vitale», vada al di la' del limite  delle  garanzie,
essenziali e insopprimibili, dovute a  tale  categoria  di  soggetti:
limite non valicabile dal legislatore. E, sotto tale profilo,  chiede
di sindacare la citata disposizione,  alla  luce  anche  di  maggiori
importi di (a suo avviso) omogenee forme di sussidio,  indicati  come
«grandezze predate» agli effetti dell'intervento richiesto  a  questa
Corte. Cio' che dunque esclude l'inammissibilita', prima facie, della
questione. 
    Allo stesso modo, per quanto attiene all'art. 38 della  legge  n.
448 del 2001, la rimettente non revoca in  dubbio  la  pertinenza  di
tale disposizione all'area  della  discrezionalita'  legislativa,  ma
dell'esercizio di tale discrezionalita' chiede  un  controllo,  nella
prospettiva di una asserita manifesta irragionevolezza  della  scelta
normativa che ne e' conseguita. 
    2.2.- La sola  Avvocatura  dello  Stato  contesta,  poi,  ancora,
l'ammissibilita' delle questioni sollevate, sotto il duplice  profilo
dell'asserito carattere "ancipite" ed "incerto" del suo petitum. 
    Sostiene,  infatti,  che  il  Collegio  a  quo  abbia  posto  due
questioni  di  legittimita'   costituzionale,   aventi   ad   oggetto
«disposizioni eterogenee», in termini di irrisolta  alternativita'  e
senza chiarire  il  verso  -  meramente  ablativo  o  manipolativo  -
dell'intervento  richiesto  a   questa   Corte   sulle   disposizioni
censurate. 
    Neppure   tali   ulteriori   eccezioni   sono   suscettibili   di
accoglimento. 
    2.2.1.- Per costante indirizzo di questa Corte, «l'alternativita'
del  petitum  che  rende  ancipite,  e  pertanto  inammissibile,   la
questione di legittimita'  costituzionale  e'  quella  che  non  puo'
essere sciolta per via interpretativa, e che  si  configura,  quindi,
come un'alternativita' irrisolta» (da ultimo sentenze n. 75 e  n.  58
del 2020; ordinanza n. 104 del 2020). 
    Nel caso in esame, la motivazione complessiva  dell'ordinanza  di
rimessione - pur non recando una formale  e  testuale  qualificazione
delle due questioni sollevate, rispettivamente, come "principale" (la
prima) e "subordinata" (la seconda) -  fa,  comunque,  emergere,  con
chiara  evidenza,  il  nesso  sequenziale  che  ne  caratterizza   la
prospettazione, nel senso che  la  questione  relativa  all'art.  38,
comma 4, della legge. n. 448 del 2001 e' logicamente  subordinata  al
rigetto  di  quella  sollevata,  in  via  prioritaria,  con  riguardo
all'art. 12, primo comma, della  legge  n.  118  del  1971.  Il  che,
appunto, esclude l'asserito carattere ancipite del petitum. 
    2.2.2.- Neppure e' ravvisabile l'eccepita  incertezza  in  ordine
all'intervento richiesto dalla Corte torinese. 
    Infatti, dagli  argomenti  utilizzati  dall'ordinanza  si  evince
chiaramente che, sia per l'art. 12 della legge n. 118 del  1971,  sia
per l'art. 38 della legge n. 448 del  2001,  il  giudice  a  quo  non
invoca la pura cancellazione di dette norme dall'ordinamento,  bensi'
la  loro  modificazione,  rispettivamente,  nel  senso   dell'aumento
dell'importo riconosciuto a titolo di pensione di  inabilita'  ovvero
nel senso di eliminare il requisito anagrafico per l'applicazione del
cosiddetto "incremento al milione" ai soggetti totalmente invalidi. 
    3.- Con la questione proposta in via principale il Collegio a quo
dubita,  come  detto,   della   legittimita'   costituzionale   della
disposizione di cui al primo comma dell'art. 12 della  legge  n.  118
del 1971, nella parte  in  cui  attribuisce  al  soggetto  totalmente
inabile, affetto da gravissima disabilita' e privo  di  ogni  residua
capacita' lavorativa, una pensione di  inabilita'  di  importo  pari,
nell'anno 2018, ad euro 282,55, nell'anno 2019,  ad  euro  285,66  e,
nell'anno 2020, ad euro 286,81. 
    Tale disposizione si porrebbe,  infatti,  in  contrasto  con  gli
artt. 3, 38, primo comma, nonche' con gli artt. 10,  primo  comma,  e
117, primo comma,  Cost.,  questi  ultimi  in  relazione  agli  artt.
(evocati solo in motivazione all'ordinanza  di  rimessione)  4  e  28
della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle  persone  con
disabilita', adottata il 13 dicembre  2006,  ratificata  dallo  Stato
italiano con legge 3 marzo 2009,  n.  18,  e  cui  ha  aderito  anche
l'Unione europea (decisione del Consiglio n. 2010/48 del 26  novembre
2009), e agli artt. 26 e 34, in particolare terzo comma, della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea  (CDFUE),  proclamata  a
Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007,
essendone l'effetto quello di disconoscere agli inabili al lavoro  il
diritto  ad  un  mantenimento  adeguato,  in  ragione  della   misura
insufficiente  della   pensione   di   inabilita'   loro   spettante,
irragionevolmente  inferiore  rispetto  alla  misura  riconosciuta  a
titolo di assegno sociale e a titolo di incremento della pensione  di
invalidita' civile per gli ultrasessantenni e, comunque,  inidonea  a
liberare l'inabile dalla condizione di bisogno  in  cui  versa  ed  a
garantirne condizioni di vita almeno dignitose. 
    3.1.- La norma cosi' denunciata testualmente  dispone  che  «[a]i
mutilati ed invalidi civili di eta' superiore agli anni 18,  nei  cui
confronti [...] sia accertata una totale  inabilita'  lavorativa,  e'
concesso a carico dello Stato e a  cura  del  Ministero  dell'interno
[ora: dell'INPS], una pensione di inabilita' di  lire  234.000  annue
[attualmente di euro 3.728,53] da  ripartire  in  tredici  mensilita'
[...]». 
    Il  limite  di  reddito  personale  per  potere  usufruire  della
pensione e' pari, per il 2020, ad euro 16.982,49 ed  e'  riferito  al
titolare della pensione e non anche al coniuge. 
    Al compimento dell'eta' anagrafica per la maturazione del diritto
all'assegno sociale, l'importo della pensione  di  inabilita'  civile
viene adeguato all'importo dell'assegno sociale e il soggetto non  e'
piu'  sottoposto  alla  verifica  della  sussistenza  dei   requisiti
sanitari. 
    3.2.- Nel motivare il sospetto di  illegittimita'  costituzionale
della   riferita   disposizione,   nei   vari   profili   della   sua
prospettazione (come  piu'  ampiamente  in  narrativa  indicati),  il
Collegio  rimettente  muove,  in  ogni  caso,  dall'assunto  che   il
trattamento  pensionistico  riconosciuto   al   soggetto   totalmente
invalido «non e' certamente sufficiente,  per  comune  esperienza,  a
garantire il soddisfacimento dei piu' elementari bisogni della  vita,
come alimentarsi, vestirsi e reperire una  abitazione».  E  perviene,
conclusivamente, a chiedere a questa Corte di individuare un  importo
diverso e costituzionalmente adeguato della suddetta pensione,  anche
alla luce delle provvidenze di piu' elevato importo (in  particolare,
l'assegno sociale di cui all'art. 3, comma 6, della  legge  8  agosto
1995, n. 335, recante «Riforma del sistema pensionistico obbligatorio
e complementare»), predisposte dal legislatore in favore di  soggetti
versanti in analoghe condizioni di bisogno economico ed  utilizzabili
come misure di riferimento. 
    3.3.- E' condivisibile quanto esposto in premessa dal  giudice  a
quo. 
    L'importo mensile della pensione di inabilita', di  attuali  euro
286,81,  e'  innegabilmente,  e  manifestamente,   insufficiente   ad
assicurare agli  interessati  il  "minimo  vitale"  e  non  rispetta,
dunque, il limite invalicabile del nucleo essenziale e  indefettibile
del «diritto al mantenimento», garantito ad «ogni  cittadino  inabile
al lavoro» dall'art. 38, primo comma, Cost. 
    La semplice comparazione con gli importi riconosciuti  per  altre
provvidenze, avvinte da analoga matrice assistenziale  e  prospettate
come grandezze di raffronto, conferma che la misura della pensione di
inabilita' non e' idonea a soddisfare la soglia (non  gia'  del  solo
minimo "adeguato" riconosciuto ai lavoratori  dall'art.  38,  secondo
comma, Cost., ma) dello stesso minimo  vitale  per  far  fronte  alle
esigenze primarie e minute della  quotidianita'  -  ossia  alle  pure
esigenze  alimentari  -  quale  nucleo  indefettibile   di   garanzie
spettanti agli inabili totali al lavoro. 
    Detti valori di comparazione sono rappresentati: a)  dall'assegno
sociale per gli ultrasessantasettenni, pari nel 2020 ad  euro  459,83
mensili; b)  dall'impignorabilita'  relativa  delle  somme  dovute  a
titolo di pensione, indennita'  a  titolo  di  pensione  o  di  altri
assegni di quiescenza, di cui al novellato art. 545,  settimo  comma,
cod. proc. civ., per un ammontare corrispondente alla misura  massima
mensile dell'assegno sociale  aumentato  della  meta',  pari,  sempre
nell'anno 2020, ad euro  689,74  mensili;  c)  dall'incremento  della
stessa pensione di inabilita' previsto per gli ultrasessantenni, pari
attualmente  ad  euro  651,51  per  tredici  mensilita';   d)   dalla
cosiddetta maggiorazione al milione  per  i  titolari  di  assegno  o
pensione sociale giunti al settantesimo anno di eta', pari sempre per
l'anno 2020 ad euro 648,26 per tredici  mensilita';  e)  dal  reddito
cittadinanza, quale misura assistenziale temporanea, il cui ammontare
corrisponde all'attualita' ad euro 500,00 mensili, oltre euro  280,00
per eventuali voci accessorie. 
    3.4.- Non rileva in contrario che agli invalidi  civili  «che  si
trovano nell'impossibilita' di deambulare senza l'aiuto permanente di
un accompagnatore o, non  essendo  in  grado  di  compiere  gli  atti
quotidiani della vita, abbisognano  di  un'assistenza  continua»  sia
concessa anche l'indennita' di  accompagnamento  di  cui  all'art.  1
della legge 11 febbraio 1980, n. 18  (Indennita'  di  accompagnamento
agli invalidi civili  totalmente  inabili),  la  cui  misura  mensile
ammonta ad euro 520,29 per l'anno 2020. 
    Diversa e', infatti, la funzione cui, rispettivamente,  assolvono
la pensione di inabilita' e l'indennita' di accompagnamento, le quali
sono rispettivamente volte (la prima) a sopperire alla condizione  di
bisogno di  chi,  a  causa  dell'invalidita',  non  e'  in  grado  di
procacciarsi i necessari mezzi di sostentamento,  e  (la  seconda)  a
consentire ai soggetti non autosufficienti  (in  ambito  familiare  e
senza aggravio per le strutture  pubbliche)  condizioni  esistenziali
compatibili con la dignita' della persona umana (sentenza n. 346  del
1989). 
    Tanto implica  che,  mentre  la  pensione  di  inabilita'  civile
rientra tra le provvidenze destinate al sostentamento della  persona,
nonche' alla salvaguardia di condizioni di vita  accettabili  per  il
contesto familiare in cui il disabile si trova inserito (sentenza  n.
40 del 2013), l'indennita' di accompagnamento, in  quanto  diretta  a
consentire ai soggetti non  autosufficienti  condizioni  esistenziali
compatibili con la dignita' della persona umana  ex  artt.  2  e  38,
primo  comma,   Cost.,   costituisce   una   provvidenza   specifica,
funzionalmente diversa  ed  "aggiuntiva"  rispetto  alle  prestazioni
assistenziali connesse  alle  invalidita'.  Essa,  dunque,  non  puo'
essere negata per il fatto che, a determinare il richiesto  stato  di
invalidita' civile assoluta, concorrano menomazioni - come la cecita'
parziale - che danno  diritto  ad  autonome  prestazioni,  in  quanto
contrasta con il  principio  di  eguaglianza  concedere  o  meno  una
prestazione  assistenziale  a  soggetti  che   ne   siano   parimenti
bisognevoli,  a  seconda  che  fruiscano  o   meno   di   provvidenze
preordinate ad altri fini (sentenza n. 346 del 1989). 
    Il che e' confermato anche dalla Corte regolatrice, per la  quale
l'indennita' di accompagnamento ha presupposti diversi rispetto  alla
pensione di  inabilita',  essendo  finalizzata  all'assistenza  della
persona  non  autosufficiente,  senza  riferimento   alla   capacita'
lavorativa (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 21  gennaio
2005, n. 1268; sezione lavoro, sentenza 28 agosto 2000, n. 11295),  e
destinata a svolgere una funzione di sostegno alla famiglia, cosi' da
agevolare la permanenza in essa di soggetti bisognevoli  di  continuo
controllo, evitandone il ricovero in istituti pubblici di assistenza,
con conseguente diminuzione della spesa sociale (Corte di cassazione,
sezione lavoro, sentenza 23 dicembre 2011, n. 28705). 
    3.5.- Cio' dunque rilevato - quanto alla manifesta  inadeguatezza
dell'emolumento pensionistico in questione rispetto  all'esigenza  di
garantire i  mezzi  necessari  per  vivere  alle  persone  totalmente
inabili al lavoro - non puo', pero', chiedersi a questa  Corte  anche
una diretta e  autonoma  rideterminazione  del  correlativo  importo,
poiche' un tale intervento manipolativo  invaderebbe  l'ambito  della
discrezionalita', che - nel rispetto del «limite invalicabile» di non
incidenza sul nucleo essenziale e indefettibile del diritto in  gioco
-  resta,   comunque,   riservata   al   legislatore,   cui   compete
l'individuazione delle misure necessarie a tutela dei  diritti  delle
persone disabili (ex plurimis, sentenze n. 275 del 2016,  n.  80  del
2010, n. 251 del 2008).  Attesa  anche  la  pluralita'  di  soluzioni
prospettate come possibili dalla Corte  rimettente,  in  correlazione
alle varie  (per  di  piu'  solo  latamente  omogenee)  grandezze  di
riferimento, la scelta tra le quali  e'  pur  sempre  demandata  alla
discrezionalita' del legislatore (sentenze n. 166 del 2017, n. 88 del
1992 e n. 769 del 1988). 
    In particolare, la misura della pensione di inabilita'  non  puo'
essere   equiparata   all'importo   dell'assegno   sociale,    attesa
l'eterogeneita'  strutturale  e  funzionale  dei  sussidi   posti   a
confronto. Infatti, l'assegno  sociale  costituisce  una  prestazione
assistenziale,    erogata    agli     ultrasessantacinquenni     (ora
sessantasettenni), istituita in attuazione dell'art. 38 Cost. per far
fronte al «particolare stato  di  bisogno  derivante  dall'indigenza,
risultando altre prestazioni - assistenza  sanitaria,  indennita'  di
accompagnamento -  preordinate  a  soccorrere  lo  stato  di  bisogno
derivante da grave invalidita' o non autosufficienza, insorte  in  un
momento nel quale non vi e' piu' ragione  per  annettere  significato
alla riduzione della capacita' lavorativa, elemento che, per  contro,
caratterizza le prestazioni  assistenziali  in  favore  dei  soggetti
infrasessantacinquenni» (sentenze n. 12 del 2019 e n. 400 del  1999).
E nello stesso senso  la  pregressa  pensione  sociale  -  sostituita
appunto dall'assegno sociale - consiste in una prestazione di  natura
assistenziale, che mira a soccorrere i cittadini  anziani  sprovvisti
dei mezzi necessari per vivere (sentenza n. 31 del 1986). 
    3.6.- La questione sollevata in via principale (ancorche' non  in
limine,  ma  in  esito  all'effettuato  scrutinio   di   legittimita'
costituzionale della norma denunciata) e',  pertanto,  inammissibile,
per il  profilo  ostativo  della  discrezionalita'  legislativa,  cui
restano, appunto,  riservate  le  variabili  della  sua  reductio  ad
legitimitatem. 
    4.- Stante il mancato accoglimento della questione  che  precede,
viene di conseguenza in esame quella  sollevata  in  via  subordinata
dalla Corte rimettente, avente ad oggetto l'art. 38, comma  4,  della
legge n. 448 del 2001. 
    4.1.- Il citato art. 38 nel suo complesso: 
    -  prevede,  al  comma  1,  che  le  «maggiorazioni  sociali  dei
trattamenti  pensionistici»,   ivi   di   seguito   elencati,   siano
incrementate, «a favore dei soggetti  di  eta'  pari  o  superiore  a
settanta anni», «fino a garantire un  reddito  proprio  pari  a  euro
516,46 al mese [cosiddetto "incremento al milione" di lire]»; 
    - aggiunge, al comma 4, che il beneficio incrementativo di cui al
comma 1 e' concesso anche ai «soggetti di eta'  pari  o  superiore  a
sessanta anni che risultino invalidi civili totali [...]»; 
    - precisa, al comma 5, che « l'incremento di cui al  comma  1  e'
concesso in base alle seguenti condizioni:  a)  il  beneficiario  non
possieda redditi propri  su  base  annua  pari  o  superiori  a  euro
6.713,98; b)  il  beneficiario  non  possieda,  se  coniugato  e  non
effettivamente e legalmente separato, redditi propri per  un  importo
annuo pari o superiore a euro 6.713,98,  ne'  redditi,  cumulati  con
quello del coniuge, per un importo annuo  pari  o  superiore  a  euro
6.713,98 incrementati dell'importo  annuo  dell'assegno  sociale;  c)
qualora i redditi posseduti risultino inferiori ai limiti di cui alle
lettere a) e b), l'incremento e' corrisposto in misura  tale  da  non
comportare  il  superamento  dei  limiti  stessi;  d)  per  gli  anni
successivi al 2002, il limite di reddito annuo di  euro  6.713,98  e'
aumentato in misura pari all'incremento dell'importo del  trattamento
minimo  delle  pensioni  a  carico  del  Fondo  pensioni   lavoratori
dipendenti, rispetto all'anno precedente»; 
    - esclude, al comma 6, che il reddito della  casa  di  abitazione
venga in rilievo ai fini della concessione della maggiorazione. 
    4.1.1.- L'art. 39, comma 4, della legge 27 dicembre 2002, n. 289,
recante «Disposizioni  per  la  formazione  del  bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2003)»  ha  poi  stabilito
che «[i]l comma 1 dell'articolo 38 della legge 28 dicembre  2001,  n.
448, si interpreta nel  senso  che  l'incremento  delle  pensioni  in
favore  dei   soggetti   disagiati,   comprensivo   della   eventuale
maggiorazione  sociale,   non   puo'   superare   l'importo   mensile
determinato dalla differenza fra l'importo di 516,46 euro e l'importo
del  trattamento  minimo,  ovvero  della  pensione  sociale,   ovvero
dell'assegno sociale». 
    Il comma 8 dello stesso art. 39 della legge n. 289  del  2002,  a
sua volta, ha disposto che «[l]a lettera d) del comma 5 dell'articolo
38 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, si interpreta nel senso che,
per gli anni successivi  al  2002,  sono  aumentati  in  misura  pari
all'incremento dell'importo del trattamento minimo delle  pensioni  a
carico del Fondo pensioni lavoratori  dipendenti,  rispetto  all'anno
precedente, il limite di reddito annuo di 6.713,98 euro  e  l'importo
di 516,46 euro di cui al comma 1 del predetto articolo». 
    Infine, l'art. 5, comma 5, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81
(Disposizioni  urgenti  in  materia  finanziaria),  convertito,   con
modificazioni, in legge 3 agosto 2007, n. 127, ha disposto che «[c]on
effetto dal 1° gennaio 2008, l'incremento delle pensioni in favore di
soggetti disagiati di cui all'articolo 38, commi  da  1  a  5,  della
legge 28 dicembre 2001, n. 448, e' concesso  secondo  i  criteri  ivi
stabiliti, tenuto conto anche di quanto  previsto  dall'articolo  39,
commi 4, 5 e 8,  della  legge  27  dicembre  2002,  n.  289,  fino  a
garantire un reddito proprio pari a 580  euro  al  mese  per  tredici
mensilita' e, con effetto dalla medesima data, l'importo  di  cui  al
comma 5, lettere a) e b), del medesimo articolo 38  e'  rideterminato
in 7.540 euro. Per gli anni successivi al 2008 il limite  di  reddito
annuo di 7.540  euro  e'  aumentato  in  misura  pari  all'incremento
dell'importo del trattamento minimo delle pensioni a carico del Fondo
pensioni lavoratori dipendenti, rispetto all'anno precedente». 
    4.1.2.-  Pertanto,  alla  stregua   dei   riferiti   criteri   di
aggiornamento, l'importo della maggiorazione sociale per gli invalidi
civili che godono della  pensione  di  inabilita',  per  effetto  del
raggiungimento della soglia anagrafica di sessanta anni, e' pari, per
l'anno 2019, ad euro 649,45 e, per l'anno 2020, ad euro  651,51,  per
tredici mensilita'; mentre i  limiti  reddituali  che  consentono  di
usufruire del beneficio sono rispettivamente: per  l'anno  2019  euro
8.442,85 per il pensionato solo ed euro 14.396,72 per  il  pensionato
coniugato e per l'anno 2020 euro 8.469,63 per il pensionato  solo  ed
euro 14.447,42 per il pensionato coniugato. 
    4.2.-  Secondo  il  Collegio  a  quo,  la  condizione  anagrafica
(raggiungimento del sessantesimo anno di eta') stabilita, sub comma 4
dall'art. 38  della  legge  n.  448  del  2001,  per  la  concessione
dell'incremento agli invalidi civili  totali,  sarebbe  irragionevole
«allorche' l'invalido, come nel caso ben prima del compimento del 60°
anno di eta',  si  trovi  in  ragione  delle  patologie  sofferte  in
condizioni di gravissima disabilita' e  privo  della  benche'  minima
capacita' di guadagno». 
    Ed  ulteriormente  irragionevole  e  discriminatoria  sarebbe  la
disposizione denunciata laddove ai titolari di assegno  (o  pensione)
sociale concede l'incremento in questione per il solo  raggiungimento
del  settantesimo  anno  di  eta'  «anche  se  esenti  da   patologie
invalidanti» mentre «un soggetto totalmente inabile di eta'  compresa
fra 18 e 59 anni che si trovi per di piu' in condizioni di gravissima
disabilita' [...] viene a percepire una pensione di invalidita'  pari
a poco piu' della meta'». 
    4.3.- La  questione  e'  fondata,  in  relazione  ad  entrambi  i
parametri costituzionali evocati dal  rimettente,  nei  sensi  e  nel
termine di seguito riportati. 
    Il  censurato  requisito   anagrafico   di   sessanta   anni   e'
effettivamente  irragionevole,  in  quanto  il  soggetto   totalmente
invalido di eta' inferiore si trova in una situazione  di  inabilita'
lavorativa che non e' certo meritevole di  minor  tutela  rispetto  a
quella in cui si troverebbe al compimento del  sessantesimo  anno  di
eta'. 
    Inoltre, se e' ragionevole che, nei confronti di altri percettori
di assegni (o pensioni) sociali, la situazione di maggior  bisogno  e
la correlata necessita' di ulteriore sostegno economico,  in  assenza
di loro compromissioni invalidanti, sia correlata all'ingresso in una
fascia di eta' avanzata, non ragionevole  e'  invece  che  la  stessa
correlazione (sia pure rispetto ad una inferiore  fascia  anagrafica)
sia  mantenuta  anche  con  riguardo  ai  titolari  di  pensione   di
inabilita', totalmente incapaci  al  lavoro,  la  cui  condizione  di
precarieta', fisica ed economica, e' certamente  preesistente  e  non
puo' ritenersi inverata solo al compimento del sessantesimo  anno  di
eta'. 
    Le minorazioni fisio-psichiche, tali da importare  un'invalidita'
totale, non sono, infatti, diverse nella fase anagrafica compresa tra
i diciotto anni (ovvero quando sorge  il  diritto  alla  pensione  di
invalidita') e i cinquantanove, rispetto alla fase  che  consegue  al
raggiungimento del sessantesimo anno di eta', poiche' la  limitazione
discende, a monte, da una condizione patologica intrinseca e non  dal
fisiologico e sopravvenuto invecchiamento. E cosi',  con  riferimento
al caso da cui origina la  questione,  la  difficolta'  deriva  dalla
diagnosticata tetraplegia spastica neonatale,  essendo  l'interessata
incapace, non solo a svolgere i piu' elementari atti quotidiani della
vita (come lavarsi, vestirsi, alimentarsi), ma anche a comunicare con
l'esterno, condizione questa dipendente dalla menomazione pregressa e
non  dal  superamento  di  determinate  soglie  anagrafiche.  E  cio'
diversamente   dalle   condizioni   che   legittimano    l'incremento
dell'assegno sociale al raggiungimento del settantesimo anno di  eta'
per gli aventi diritto all'assegno sociale  ai  sensi  dell'art.  38,
comma 1, della  legge  n.  448  del  2001:  in  questa  evenienza  e'
ragionevole ritenere che lo stato di bisogno di una persona  sana  si
aggravi   fisiologicamente   con   l'anzianita',   ossia    con    il
raggiungimento del settantesimo anno di eta'. 
    4.3.1.- Decisivo e assorbente e' poi, comunque,  il  rilievo  che
l'assegno riconosciuto agli inabili, ex art. 12 della  legge  n.  118
del 1971, e', per quanto innanzi detto,  largamente  insufficiente  a
garantire loro i mezzi necessari per  vivere.  Per  cui  l'avere  (la
norma censurata) escluso i titolari di tale  inadeguato  assegno,  in
eta' compresa dai diciotto ai cinquantanove anni,  dalla  platea  dei
soggetti beneficiari del cosiddetto "incremento al  milione"  innesca
un ulteriore profilo di contrasto - in particolare del suo comma 4  -
con gli artt. 3 e 38, primo comma, Cost. 
    4.4.- Va, pertanto,  dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 38, comma 4, della legge n. 448 del 2001,  nella  parte  in
cui, con riferimento agli  invalidi  civili  totali,  dispone  che  i
benefici incrementativi di cui al comma 1 sono concessi «ai  soggetti
di eta' pari o superiore a sessanta anni» anziche'  «ai  soggetti  di
eta' superiore a diciotto anni». 
    5.-  L'estensione  del  beneficio  incrementativo  agli  invalidi
civili - che ne  consegue  -  e'  ovviamente  subordinata  alle  piu'
stringenti condizioni reddituali di cui alle  lettere  a)  e  b)  del
comma 5 dello stesso art. 38 della legge n. 448 del 2001 e spetta nei
limiti di cui alla lettera c) della medesima disposizione. 
    6.- La maggior spesa  a  carico  dello  Stato,  che  la  presente
pronuncia comporta, non si risolve - come  in  tesi  dell'INPS  -  in
«violazione dell'art. 81 della Costituzione», poiche', nella  specie,
vengono in gioco diritti incomprimibili della persona. 
    Cio', in  linea  di  principio  e  sia  pur  con  piu'  attenuata
declinazione, e' riconosciuto anche  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, che  ritiene  «condivisibile  l'affermazione  secondo  cui  il
vincolo di bilancio non puo' avere prevalenza  assoluta  sugli  altri
principi costituzionali»; e, in coerenza con tale  premessa,  auspica
un "contemperamento" dei valori  costituzionali  sottesi  alla  norma
denunciata «con il principio di  bilancio  costituente  anch'esso  un
valore costituzionale». 
    Questa Corte ha gia' avuto del resto  modo  di  chiarire  che  le
scelte allocative di bilancio proposte dal Governo  e  fatte  proprie
dal Parlamento, pur presentando natura altamente discrezionale  entro
il limite dell'equilibrio di bilancio,  vedono  naturalmente  ridotto
tale  perimetro  di  discrezionalita'  dalla  garanzia  delle   spese
costituzionalmente necessarie, inerenti all'erogazione di prestazioni
sociali incomprimibili (ex plurimis, sentenze n. 62 del 2020, n.  275
e n. 10 del 2016). 
    Cio' comporta che il legislatore deve provvedere  tempestivamente
alla copertura degni oneri derivanti dalla  pronuncia,  nel  rispetto
del vincolo  costituzionale  dell'equilibrio  di  bilancio  in  senso
dinamico (sentenze n. 6 del 2019, n. 10 del 2015, n. 40 del 2014,  n.
266 del 2013, n. 250 del 2013, n. 213 del 2008). 
    7.- E nella prospettiva, appunto, del "contemperamento dei valori
costituzionali" - che viene qui in  rilievo  non  gia'  nel  contesto
dello scrutinio di costituzionalita' della  norma  denunciata  ed  al
fine dell'esito dello stesso, bensi' nella fase  successiva  relativa
alla delimitazione diacronica degli  effetti  della  decisione  -  la
Corte ritiene, in questo caso, di graduare gli effetti temporali  del
decisum, facendoli decorrere (solo) dal giorno successivo a quello di
pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale. 
    La tecnica decisoria della sentenza con effetto  "ex  nunc",  che
viene qui adottata, appartiene alla giurisprudenza di questa Corte, a
partire dalla sentenza n. 10  del  2015  (nello  stesso  senso  anche
sentenze n. 246 del 2019, n. 74 e n. 71 del 2018). 
    Nella prima citata pronuncia si e' infatti  chiarito  che  «cosi'
come  la  decisione  di  illegittimita'  costituzionale  puo'  essere
circoscritta solo ad alcuni aspetti della disposizione  sottoposta  a
giudizio - come avviene ad  esempio  nelle  pronunce  manipolative  -
similmente la modulazione dell'intervento della Corte puo' riguardare
la dimensione temporale  della  normativa  impugnata,  limitando  gli
effetti della declaratoria di illegittimita' costituzionale sul piano
del tempo». E si e' appunto precisato che «sono proprio  le  esigenze
dettate dal ragionevole bilanciamento tra  i  diritti  e  i  principi
coinvolti»  -   vagliate   alla   luce   di   principi   di   stretta
proporzionalita'  e  di  effettivita'  dei  suddetti  diritti   -   a
determinare la  scelta  di  una  tale  tecnica  decisoria.  La  quale
«risulta,  quindi,  costituzionalmente  necessaria  allo   scopo   di
contemperare tutti i principi e i diritti in gioco, [...]  garantendo
il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarieta',  che,  per
il loro carattere fondante, occupano una posizione  privilegiata  nel
bilanciamento con gli altri valori costituzionali  (sentenza  n.  264
del 2012)». 
    8.- Peraltro, l'estensione pro futuro del cosiddetto  "incremento
al milione" agli invalidi civili totali  e'  coerente  anche  con  la
logica  del  giudizio  incidentale  poiche'  l'accoglimento  ex  nunc
risponde comunque  all'interesse  della  parte  che  ha  attivato  il
processo principale ed e' dunque rilevante al  fine  della  decisione
che dovra' adottare il giudice rimettente. 
    9.- Resta ovviamente ferma la possibilita' per il legislatore  di
rimodulare, ed eventualmente di coordinare in un quadro  di  sistema,
la disciplina delle misure assistenziali vigenti,  purche'  idonee  a
garantire agli invalidi civili totali l'effettivita' dei diritti loro
riconosciuti  dalla  Costituzione.  Infatti,   l'eliminazione   della
barriera anagrafica che condiziona l'adeguamento della  misura  della
pensione di inabilita' al soddisfacimento delle esigenze primarie  di
vita, non costituendo una opzione costituzionalmente obbligata, resta
soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore, purche'
nel rispetto del principio di proporzionalita' (sentenze  n.  40  del
2019 e n. 222 del 2018) e dell'effettivita' dei suddetti diritti.