ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  41-bis,
commi 2 e 2-quater,  della  legge  26  luglio  1975,  n.  354  (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), come modificato dall'art.  2,
comma 25, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni
in  materia  di  sicurezza  pubblica),  promosso   dalla   Corte   di
cassazione, sezione prima penale, nel procedimento relativo a S.  N.,
con ordinanza del 2 novembre 2020, iscritta al  n.  12  del  registro
ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di   S.   N.,   nonche'   l'atto
d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del  21  settembre  2021  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    uditi gli avvocati Piera Farina e Valerio Vianello Accorretti per
S. N. e l'avvocato dello Stato Maurizio Greco per il  Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 21 settembre 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 2 novembre 2020 (r.o. n. 12 del  2021),  la
Corte di cassazione, sezione prima penale, ha sollevato questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 41-bis,  commi  2  e  2-quater,
della  legge  26  luglio  1975,  n.   354   (Norme   sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), come modificato dall'art. 2, comma 25,  lettera  f),
della legge 15  luglio  2009,  n.  94  (Disposizioni  in  materia  di
sicurezza pubblica), in riferimento agli artt. 3, 25, 27, 111 e  117,
primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con  legge  4  agosto  1955,  n.  848,  e
all'art.  4  del  Protocollo  n.  7  alla  stessa  CEDU,  adottato  a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso  esecutivo  con  la
legge 9 aprile  1990,  n.  98,  nella  parte  in  cui  consentono  la
sospensione delle normali regole di trattamento per gli internati  in
esecuzione di misure di sicurezza, con applicazione obbligatoria, nei
loro confronti, delle misure di restrizione e controllo indicate  nel
citato comma 2-quater dello stesso art. 41-bis. 
    1.1.- Nell'ampia premessa in fatto del proprio provvedimento,  la
Corte di cassazione ricostruisce la sequenza delle misure cautelari e
dei provvedimenti di esecuzione adottati,  nel  corso  di  quasi  due
decenni,  a  carico  del  ricorrente.  Ricorda  in  particolare  come
quest'ultimo, dichiarato delinquente abituale (art.  103  del  codice
penale), sia stato assoggettato alla misura di sicurezza  della  casa
di lavoro, per la durata prevista di due anni, con provvedimento  del
Magistrato di sorveglianza di Milano, deliberato il 25  ottobre  2013
ed eseguito a far tempo dal 6 gennaio 2016. 
    La  misura  e'  stata  in  seguito  due  volte   prorogata,   per
complessivi  tre  anni,  dal  Magistrato  di  sorveglianza  di  Udine
(ordinanze del 26 ottobre 2017 e del 20 novembre 2019),  con  termine
finale di conseguenza fissato al 6 gennaio 2021  (data  successiva  a
quella dell'ordinanza di rimessione). 
    Nel frattempo l'interessato, a partire gia' dal 31  luglio  2010,
era stato assoggettato al regime differenziato di cui all'art. 41-bis
ordin. penit., prorogato, da ultimo,  con  un  decreto  del  Ministro
della giustizia in data 24 luglio 2018. 
    Tale ultimo provvedimento e' stato impugnato innanzi al Tribunale
di sorveglianza di Roma, sostenendosi, tra l'altro, che la disciplina
del citato art. 41-bis sarebbe costituzionalmente  illegittima  nella
parte in cui risulta applicabile anche  alle  persone  internate  per
l'esecuzione di una misura di sicurezza. 
    Con ordinanza del 12 dicembre 2019, il Tribunale di  sorveglianza
di Roma ha respinto il reclamo, dando conto dei fatti  che  avrebbero
giustificato  un  giudizio  di  grave  e   perdurante   pericolosita'
criminale   dell'interessato.   Sulla   questione   di   legittimita'
costituzionale, il Tribunale -  secondo  la  sintesi  proposta  nella
odierna  ordinanza  di  rimessione  -   avrebbe   negato   l'asserita
equiparazione tra pena e  misura  di  sicurezza,  quale  portato  del
regime speciale di cui all'art. 41-bis ordin. penit., osservando come
l'interessato abbia sempre ottenuto incarichi lavorativi  nell'ambito
della struttura penitenziaria di riferimento. 
    1.2.- Segnala la Corte rimettente  che,  con  i  motivi  posti  a
sostegno  dell'impugnazione  di  legittimita',   il   ricorrente   ha
nuovamente sostenuto  che  l'art.  41-bis  ordin.  penit.,  posto  in
relazione agli artt. 208 e 216 cod. pen., violerebbe gli artt. 3, 27,
terzo comma, e 117, primo comma,  Cost.,  quest'ultimo  in  relazione
all'art. 3 CEDU. 
    Escludendo  o  fortemente  limitando   il   perseguimento   degli
obiettivi trattamentali tipici della misura di  sicurezza  detentiva,
la   disciplina   censurata   darebbe   luogo   ad   un   trattamento
sostanzialmente punitivo. Tra l'altro, la preclusione di accesso alle
licenze  specificamente   regolate   dall'art.   53   ordin.   penit.
discriminerebbe ingiustamente gli internati soggetti alla  disciplina
dell'art. 41-bis rispetto agli altri  internati,  ed  impedirebbe  di
conseguire   eventuali   valutazioni    positive    del    magistrato
sull'efficacia risocializzante della misura di sicurezza. Vi  sarebbe
dunque  l'applicazione   di   una   sanzione   nell'assenza   di   un
corrispondente titolo  di  condanna,  dopo  l'estinzione  della  pena
legalmente prevista ed inflitta per il reato commesso, con  modalita'
esecutive prive di valenza rieducativa, e con durata indeterminata. 
    1.3.- Posta l'ampia premessa della quale si e' detto, la Corte di
cassazione considera rilevanti, e non  manifestamente  infondate,  le
questioni di seguito indicate. 
    1.3.1.- In via preliminare, la rimettente osserva che i motivi di
ricorso proposti dall'interessato, ammissibili solo nella prospettiva
della  violazione  di  legge,  non  potrebbero  essere  accolti.   Il
provvedimento impugnato  sarebbe  infatti  corredato,  riguardo  alla
pericolosita' dell'instante, da una motivazione completa e  coerente,
sviluppata in piena autonomia rispetto a quella contenuta nel decreto
ministeriale di proroga del  trattamento  differenziale.  Per  questa
ragione, secondo la Corte di cassazione, assumono rilevanza  decisiva
le questioni di legittimita' costituzionale sollevate:  le  sole  che
potrebbero determinare, per il caso di accoglimento, un provvedimento
favorevole al ricorrente. 
    1.3.2.- In punto di  non  manifesta  infondatezza,  la  Corte  di
cassazione esordisce affermando che, con l'entrata  in  vigore  della
Costituzione e con la progressiva affermazione  dei  suoi  contenuti,
sarebbe sfumata la distinzione funzionale, in origine netta, tra pena
e misura di sicurezza. Per la prima, la  funzione  rieducativa  ormai
sovrasterebbe quelle  di  retribuzione  e  prevenzione  speciale  (e'
citata la sentenza di questa Corte n.  149  del  2018).  Quanto  alla
seconda, la funzione di prevenzione  speciale  non  passerebbe  tanto
dall'effetto restrittivo della misura, quanto  (o  anche)  dalla  sua
valenza  rieducativa,  poiche'   l'obiettivo   di   riduzione   della
pericolosita'    sarebbe    perseguito    mediante    una    compiuta
risocializzazione dell'interessato (sono citate le sentenze di questa
Corte, n. 19 del 1974, n. 168 del 1972 e n. 68 del 1967). 
    Sanzioni penali e misure di sicurezza presenterebbero  cosi'  una
comune funzione di prevenzione, attuata per mezzo della  rieducazione
(sentenza n. 291 del 2013). Tanto che - osserva la  rimettente  -  la
legge di ordinamento penitenziario riferisce anche agli internati  le
garanzie fondamentali stabilite per le persone private della liberta'
(art. 1), ed estende nei loro confronti la procedura di  osservazione
e  individualizzazione  del  trattamento  su  cui  e'  imperniata  la
funzione  rieducativa  della  misura  restrittiva  (art.   13).   Una
simmetria, quest'ultima, ribadita anche  nel  regolamento  accessorio
alla disciplina dell'ordinamento penitenziario (art. 1, comma 2,  del
d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, concernente «Regolamento recante norme
sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e  limitative
della liberta'»). 
    La progressiva (parziale) omologazione delle funzioni non esclude
per  altro  -  sempre  secondo  la  Corte  di  cassazione  -  che  la
finalizzazione rieducativa sia dominante per le misure di  sicurezza,
che non potrebbero, invece, svolgere  una  funzione  retributiva.  Se
dunque, nella loro  esecuzione,  sono  molte  le  analogie  tra  pene
detentive da un lato, e misure  di  sicurezza  detentive  dall'altro,
restano comunque significative differenze. Non a caso il  legislatore
ha previsto che le seconde vengano eseguite in istituti (o sezioni di
istituti) diversi da quelli per l'esecuzione  delle  sanzioni  penali
(artt. 62 e 64 ordin. penit.); e non a caso il  trattamento  per  gli
internati s'incentra soprattutto su di una misura loro riservata,  la
cosiddetta licenza di fine esperimento (art. 53  ordin.  penit.),  ed
anche la disciplina delle misure alternative comuni a  condannati  ed
internati si segnala per qualche significativa differenza (e'  citato
il comma 2 dell'art. 50 ordin.  penit.,  che  esonera  gli  internati
dalla necessita' che una certa quota di pena venga eseguita prima del
possibile accesso alla semiliberta'). 
    1.3.3.- L'applicazione del regime differenziato ex art. 41-bis  -
secondo la rimettente  -  annulla  o  comprime  intollerabilmente  la
possibilita' di fruizione del trattamento generalmente riservato agli
internati. 
    In  primo  luogo,  la  giurisprudenza  di  legittimita'   avrebbe
chiarito che  l'applicazione  delle  restrizioni  indicate  al  comma
2-quater della  citata  disposizione  -  resa  obbligatoria  dopo  la
modifica attuata ex art. 2, comma 25, lettera f), della legge  n.  94
del 2009 - riguarda anche gli internati. Cio' sulla base di argomenti
che  la  Corte  rimettente  riassume  e  richiama  adesivamente.   In
particolare, non potrebbe giustificare seri dubbi  il  fatto  che  il
comma 2-quater si riferisca in  esordio  ai  soli  «detenuti»,  senza
specifica  menzione  degli  «internati».  Tale  menzione  e'  infatti
presente  nella  successiva  descrizione  di  alcune   delle   misure
restrittive applicabili  presso  le  strutture  di  cui  al  comma  2
dell'art.  41-bis,  cui  d'altronde  sono   destinati,   sempre   per
disposizione testuale, anche gli  internati.  Dunque,  posto  che  le
misure di rigore,  comprese  alcune  di  quelle  regolate  dal  comma
2-quater, potrebbero  essere  adottate  anche  nell'esecuzione  delle
misure di sicurezza detentive, non resterebbe che concludere  per  la
piena applicazione agli  internati  della  disciplina  differenziale,
anche per conseguire il risultato, altrimenti non  assicurato,  della
piena applicazione del principio  di  legalita'  (con  corrispondente
eliminazione della discrezionalita' amministrativa nella scelta delle
restrizioni: e' citata la sentenza di questa Corte n. 190 del 2010). 
    Da questa lettura conseguirebbe che,  nei  casi  di  applicazione
dell'art.  41-bis  ordin.  penit.,  il  trattamento   delle   persone
assoggettate  a  misura  di  sicurezza  sarebbe  identico  a   quello
riservato  ai  condannati,  sia  riguardo  al   regime   della   vita
intramuraria, sia  con  riferimento  alla  fruizione  di  benefici  e
trattamenti risocializzanti. 
    Proprio  una   siffatta   equiparazione   costituirebbe   ragione
essenziale  di   illegittimita'   costituzionale   della   disciplina
censurata. Ricorda il giudice a quo che la Corte europea dei  diritti
dell'uomo,  trattando   di   una   misura   di   sicurezza   regolata
dall'ordinamento   tedesco   in   termini   simili   a   quelli   che
caratterizzano le misure nazionali, avrebbe  gia'  stabilito  che  si
tratta di una vera e propria pena, cui  vanno  riferite  le  garanzie
previste dall'art. 7 CEDU  (sentenza  17  dicembre  2009,  M.  contro
Germania).  Al  tempo  stesso,  la  Corte   di   Strasburgo   avrebbe
stigmatizzato l'assenza di contenuti specifici nel trattamento  degli
internati. 
    Di qui l'assunto che le norme censurate, proprio in  ragione  del
loro effetto di parificazione tra regime della pena  e  regime  della
misura di sicurezza, contrasterebbero con gli artt.  3  e  25  Cost.,
nonche' con l'art. 117, primo comma, Cost. in  relazione  all'art.  7
CEDU. 
    1.3.4.- Un ulteriore profilo di censura emerge, secondo la  Corte
di cassazione, considerando i diversi effetti che l'applicazione  del
regime differenziato produce  sul  condannato  e  sull'internato  con
riguardo alla durata della  "pena"  (tale  dovendosi  considerare  in
entrambi i casi la restrizione di liberta'). 
    Infatti, il trattamento regolato dall'art. 41-bis  ordin.  penit.
incide sulla qualita' del regime esecutivo  concernente  il  detenuto
ristretto in esecuzione della pena, ma non sulla relativa durata, che
e' quella stabilita dal giudice della cognizione in proporzione  alla
gravita' del fatto, e salve oltretutto  le  diminuzioni  connesse  al
beneficio della liberazione anticipata. L'internato, invece, non puo'
valersi - nel periodico riesame della propria pericolosita' (art. 208
cod. pen.) - delle valutazioni eventualmente positive  connesse  agli
specifici  istituti  trattamentali,  e  vede  cosi'  consolidarsi  le
premesse per un prolungamento a  tempo  indeterminato  della  propria
condizione restrittiva. 
    E' vero -  riconosce  la  rimettente  -  che  il  legislatore  ha
introdotto limiti massimi di durata dell'applicazione delle misure di
sicurezza personali (art. 1, comma  1-quater,  del  decreto-legge  31
marzo 2014, n.  52,  recante  «Disposizioni  urgenti  in  materia  di
superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari», convertito,  con
modificazioni, nella legge 30 maggio  2014,  n.  81).  Nondimeno,  si
tratta di limiti molto ampi,  in  quanto  corrispondenti  al  massimo
edittale della pena detentiva stabilita per il piu' grave tra i reati
commessi. In ogni caso, la durata della  misura  di  sicurezza  resta
indeterminata e non determinabile  fino  al  raggiungimento  di  quel
limite, e tale durata e' spesso molto superiore a quella  della  pena
in concreto inflitta per il reato commesso. 
    Vi sarebbe dunque una lesione del principio  di  proporzionalita'
del trattamento sanzionatorio, in ragione della paralisi (connessa al
trattamento differenziato) dei meccanismi ordinari  di  rivalutazione
della pericolosita', con un effetto  di  reciproca  interferenza:  la
proroga della misura indurrebbe quella del trattamento differenziale,
la quale a sua  volta  precluderebbe  la  sperimentazione  di  misure
risocializzanti, e  dunque  implicherebbe  una  nuova  proroga  della
misura medesima. 
    In questa situazione, la Corte rimettente prospetta  una  lesione
degli artt. 3 e 25 Cost., nonche' dell'art. 117, primo  comma,  Cost.
in relazione all'art. 7 CEDU, lamentando la violazione del  principio
di proporzionalita' e predeterminazione della  pena.  Ma  rappresenta
inoltre, collegando il primo comma dell'art. 117 Cost. anche all'art.
4, paragrafo 1, Prot.  n.  7  CEDU,  un  asserito  contrasto  con  il
principio ne bis in idem: sostanziandosi in una "pena",  infatti,  la
misura di sicurezza si aggiunge alla reclusione, spesso  (o  comunque
potenzialmente) prolungandone  la  durata  ben  oltre  il  doppio,  e
comunque duplicando la pena per uno stesso fatto (proprio in  ragione
- assume la rimettente - della analogia de facto  instaurata  tra  le
modalita' esecutive dell'una  e  dell'altra  misura  privativa  della
liberta'). 
    2.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio con atto depositato  il  2  marzo  2021,  chiedendo  che  le
questioni sollevate dalla Corte di cassazione  siano  dichiarate  non
fondate. 
    2.1.- L'Avvocatura generale condivide le  notazioni  del  giudice
rimettente sulla progressiva assimilazione delle  funzioni  assegnate
dall'ordinamento alla pena e alla  misura  di  sicurezza,  sul  piano
della  prevenzione  speciale,  e  riguardo  alla  centralita'   della
rieducazione quale strumento per il contenimento della  pericolosita'
sociale gia' espressa dagli interessati. 
    Peraltro - si rileva - l'applicazione del regime differenziale ex
art. 41-bis ordin. penit. non assolve, ne' quando applicato  in  fase
di esecuzione della pena ne' quando riferito agli internati,  ad  una
funzione retributiva.  Essa  e'  invece  strumentale  proprio  ad  un
contenimento immediato ed efficace della pericolosita' attribuita  ad
esponenti della criminalita' organizzata che  non  abbiano  reciso  i
vincoli con il contesto delinquenziale  di  riferimento,  di  talche'
sarebbe perfettamente logico che la sospensione del trattamento possa
essere disposta tanto nei confronti  dei  detenuti,  quanto  riguardo
agli internati.  Una  analogia  di  funzione  che  -  sempre  secondo
l'Avvocatura  generale  -  giustifica   l'ampia   coincidenza   delle
restrizioni implicate dalla misura adottata ex art. 41-bis. 
    Peraltro, la specificita' del trattamento dovuto  agli  internati
non  sarebbe  davvero  annullata.  Resta  infatti  impregiudicata  la
normativa che  impone  l'esecuzione  delle  misure  di  sicurezza  in
appositi istituti, cosi' come e' conservata la possibilita'  per  gli
interessati  di  effettuare  prestazioni   lavorative   (possibilita'
concretatasi nel caso di specie). 
    Quanto poi alla giurisprudenza sovranazionale, il rimettente  non
avrebbe correttamente colto il senso della pronuncia della  Corte  di
Strasburgo nel caso M. contro Germania (supra, punto 1.3.3.). In quel
contesto si lamentava l'applicazione retroattiva di una nuova e  piu'
severa disciplina della durata massima prevista  per  una  misura  di
sicurezza detentiva, e l'assimilazione di questa alla pena era  stata
strumentale   solo   all'applicazione   della   garanzia    di    non
retroattivita' prevista dall'art. 7 CEDU (prevedibilita' del  rischio
penale). Tuttavia - sempre secondo il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri - la Corte EDU aveva confermato la legittimita' della misura
originariamente imposta, alla luce di  quanto  stabilito  all'art.  5
CEDU, che consente restrizioni necessarie a prevenire la  commissione
di specifici reati: una finalita' certamente sottesa al provvedimento
adottato sulla base dell'art. 41-bis  dell'ordinamento  penitenziario
nazionale. 
    Anche in successive occasioni la Corte di Strasburgo avrebbe  poi
ribadito  la  compatibilita'  convenzionale  di  misure  adottate  in
conseguenza di una pronuncia di condanna e di un ragionevole giudizio
di pericolosita', sia pure per un periodo  non  eccedente  la  durata
massima stabilita dalla legge nel momento della sua  adozione  (Corte
EDU, sentenza 21 ottobre 2010, Grosskopf contro Germania  e  sentenza
10 maggio 2011, Schmidt contro Germania). 
    2.2.- Non fondato sarebbe anche - secondo l'Avvocatura generale -
l'assunto  del  rimettente  secondo  cui  il   regime   differenziale
precluderebbe la risocializzazione  dell'internato,  destinandolo  ad
una ripetuta proroga della misura  di  sicurezza  applicata.  Per  un
verso, le restrizioni  sarebbero  giustificate  dalle  condizioni  di
grave pericolosita' che legittimano il decreto ministeriale  ex  art.
41-bis ord. penit. Per altro verso, il provvedimento in questione non
implica  che  siano  interrotte  le  attivita'  di   osservazione   e
trattamento regolate all'art. 13 ordin. penit., o che sia preclusa la
partecipazione dell'internato  (come  del  detenuto)  alle  attivita'
indicate nell'art.  27  ordin.  penit.  Le  limitazioni  indotte  dal
decreto riguarderebbero essenzialmente i contatti con altri  detenuti
o con l'esterno, restando dunque giustificate da  pressanti  esigenze
di prevenzione speciale. 
    Come piu'  volte  ritenuto  dalla  stessa  Corte  di  cassazione,
quindi, non avrebbe alcun fondamento la tesi  della  incompatibilita'
del regime differenziale con la finalizzazione rieducativa, tesi  che
peraltro dovrebbe per coerenza essere estesa, ove davvero  risultasse
fondata, anche ai detenuti in esecuzione  di  pena  (sono  citate  le
sentenze della Cassazione: sezione prima penale, 9 marzo - 1°  giugno
2011, n. 22083 e sezione prima penale, 27 novembre  2017  -  8  marzo
2018, n. 10619). 
    L'applicazione dell'art. 41-bis nei confronti degli internati non
sortirebbe alcun effetto di automatica protrazione  della  misura  di
sicurezza, ne' varrebbe, di  per  se',  a  rendere  indeterminata  la
durata della misura stessa.  Il  collegamento  tra  permanenza  della
misura  e  attuale  pericolosita'  dell'interessato  e'  un   profilo
strutturale dell'istituto e della sua funzione, cio' che  vale  anche
in senso favorevole per la persona giudicata pericolosa al momento di
adozione della medesima misura, che infatti non deve essere  eseguita
quando, nelle more, la  pericolosita'  sia  cessata  (art.  208  cod.
pen.). 
    2.3.- Non fondata sarebbe anche, infine, la questione riferita al
principio ne bis in idem, avuto riguardo all'art. 4 Prot. n. 7 CEDU. 
    Esclusa la duplicazione di "pena" quale effetto  di  un  presunto
automatismo nella protrazione  della  misura,  l'Avvocatura  generale
osserva  che,  nella  giurisprudenza  di  Strasburgo,  il   parametro
convenzionale non sarebbe mai stato considerato incompatibile con  un
sistema di doppio binario centrato sulla concorrenza di pene e misure
di sicurezza. Come ritenuto dalla  stessa  Corte  di  cassazione  (e'
citata la sentenza della sezione prima penale, 16  maggio  2017  -  6
novembre 2017, n. 50458), la diversita' di presupposti e funzioni dei
provvedimenti  applicativi  vale   ad   escludere   una   sostanziale
duplicazione del trattamento punitivo. D'altra parte, il principio ne
bis in idem non  osta  alla  concomitanza  di  piu'  procedimenti,  e
neppure all'applicazione di misure  punitive  tra  loro  concorrenti,
dovendosi piuttosto stabilire, in concreto, se uno stesso  fatto  sia
stato punito piu' volte. 
    3.- Con atto depositato in data 2 marzo 2021 si e' costituita nel
giudizio la parte ricorrente nel procedimento principale. 
    3.1.- Dopo una sintesi del provvedimento di rimessione e dei suoi
antecedenti,  la  parte   osserva   che   ciascuno   degli   istituti
considerati, cioe' la misura di sicurezza detentiva ed il trattamento
differenziato  ex   art.   41-bis,   sarebbero   «al   limite   della
costituzionalita'»,  in  quanto  fondati  su  mere   presunzioni   ed
inefficaci nella  prospettiva  della  risocializzazione.  Il  «limite
della costituzionalita'» sarebbe per altro certamente superato  dalla
contemporanea applicazione  dei  due  istituti  nei  confronti  della
stessa persona, posto che la misura di sicurezza esplicata in  regime
differenziale vanificherebbe ogni possibilita'  di  recupero  sociale
dell'interessato   (escludendolo   ad   esempio   dall'accesso   alla
semiliberta',  normalmente  possibile  per  gli   internati)   e   si
trasformerebbe, di conseguenza, in una pena priva di  termine  finale
(salvo il limite generale di durata massima). 
    La  stessa  Corte  di  cassazione  avrebbe   indicato   come   la
pericolosita' sociale che legittima l'applicazione  della  misura  di
sicurezza  debba  essere  accertata  in  concreto  (sono  citate   le
sentenze, sezione prima penale, 28 dicembre 1994 - 24 marzo 1995,  n.
6224, e 2 - 23 marzo 2010, n. 11055), e anche  questa  Corte  avrebbe
escluso il ricorso ad una «logica presuntiva» nella valutazione delle
condizioni utili per la sospensione del trattamento  ex  art.  41-bis
ord. penit. (e' citata l'ordinanza n. 220 del 2010). 
    La giurisprudenza di legittimita' (Corte di  cassazione,  sezione
prima penale, sentenza 30 gennaio - 20  febbraio  2008,  n.  7791)  e
quella di Strasburgo avrebbero poi chiarito che  le  restrizioni  dei
diritti fondamentali dei detenuti devono essere applicate secondo  un
criterio di proporzionalita' e funzionalita'  effettiva  alla  tutela
degli interessi pubblici in bilanciamento. 
    La normativa censurata implica - secondo la parte - che  su  base
presuntiva (confliggente per  inciso  con  l'opposta  presunzione  di
conseguimento    dell'obiettivo    di    rieducazione    in     esito
all'applicazione della pena: e' citata la sentenza di questa Corte n.
291 del 2013) si determina una impropria  interferenza  (ed  anzi  un
«corto   circuito»)   tra   valutazione   amministrativa   pertinente
all'organizzazione carceraria e valutazione giudiziale  in  punto  di
perdurante pericolosita'. 
    La stessa accessibilita' di residue misure rieducative,  come  la
prestazione  di  lavoro,   resterebbe   solo   teorica,   posto   che
l'applicazione dell'art. 41-bis ordin. penit. implica la  restrizione
in cella dell'interessato per  21  o  22  ore  al  giorno,  cosi'  da
trasformare il riferimento alla  "casa  di  lavoro"  in  «un  vero  e
proprio inganno linguistico». 
    La preclusione poi delle licenze  previste  dall'art.  53  ordin.
penit., cui appartiene una  specifica  finalita'  di  sperimentazione
circa l'andamento dei primi contatti con  l'ambiente  esterno,  priva
l'internato della stessa possibilita' di esibire, innanzi al  giudice
della misura di sicurezza, esempi positivi di  cessazione  della  sua
pericolosita'. 
    3.2.- Sussisterebbe anche, sempre secondo la difesa della  parte,
la  denunciata  violazione  dell'art.  4  Prot.   n.   7   CEDU.   La
trasformazione in "pena" della misura  di  sicurezza  -  che  sarebbe
stata gia' certificata dalla Corte di Strasburgo, in base ai «criteri
Engel», con la piu'  volte  citata  sentenza  M.  contro  Germania  -
implica per se'  stessa  una  duplicazione  indebita  della  risposta
sanzionatoria, in violazione del principio ne bis in idem,  il  quale
d'altronde «occupa un posto di  rilievo  nel  sistema  di  protezione
della Convenzione» (Corte EDU, grande camera, sentenza 8 luglio 2019,
Mihalache contro Romania). 
    3.3.- Ricorda da ultimo la parte che il quadro critico  delineato
dalla Corte suprema con l'ordinanza  di  rimessione  era  gia'  stato
denunciato, nel 2017, dal Garante nazionale dei diritti delle persone
detenute  o  private  della  liberta'  personale,  il  quale  avrebbe
sollecitato le autorita' responsabili ad evitare  che  le  misure  di
sicurezza eseguite dopo la fine  della  pena  siano  accompagnate  da
provvedimenti ex art.  41-bis  ordin.  penit.,  proprio  al  fine  di
consentire una  ragionevole  attuazione  del  percorso  utile  a  far
cessare la  pericolosita'  sociale  degli  interessati  e  dunque  ad
interrompere la perdurante restrizione della loro liberta'. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 2 novembre 2020 (r.o. n. 12 del  2021),  la
Corte di cassazione, sezione prima penale, ha sollevato questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 41-bis,  commi  2  e  2-quater,
della  legge  26  luglio  1975,  n.   354   (Norme   sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), come modificato dall'art. 2, comma 25,  lettera  f),
della legge 15  luglio  2009,  n.  94  (Disposizioni  in  materia  di
sicurezza pubblica), in riferimento agli artt. 3, 25, 27, 111 e  117,
primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con  legge  4  agosto  1955,  n.  848,  e
all'art.  4  del  Protocollo  n.  7  alla  stessa  CEDU,  adottato  a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso  esecutivo  con  la
legge 9 aprile 1990, n. 98. 
    Le indicate  disposizioni  sono  censurate  nella  parte  in  cui
consentono l'applicazione del regime differenziale, con le misure  di
restrizione e controllo indicate al comma 2-quater  del  citato  art.
41-bis, anche nei confronti di persone internate per l'esecuzione  di
una misura di sicurezza detentiva. 
    1.1.- La  sospensione  delle  regole  trattamentali  disposta  in
esecuzione dell'art. 41-bis  ordin.  penit.  -  nella  prospettazione
della rimettente - implica che i condannati ad una pena  detentiva  e
gli internati siano sottoposti a un identico  regime  esecutivo.  Per
gli uni e per gli altri non sarebbe possibile l'accesso  alle  misure
alternative  o  premiali  previste   dalla   legge   sull'ordinamento
penitenziario (salvo il caso, per  i  detenuti  in  esecuzione  della
pena, della liberazione anticipata), e tutti sarebbero soggetti  alle
stesse   restrizioni,   assai   rigorose,   nei    colloqui,    nella
corrispondenza, nella stessa vita intramuraria. 
    Negli specifici casi in questione, quindi, la misura di sicurezza
assumerebbe la sostanza di una vera e propria pena. Nella prospettiva
del giudice a quo, cio' dovrebbe comportare, per  un  verso,  che  la
misura in esame sia circondata da tutte le  corrispondenti  garanzie.
Per altro  verso,  tuttavia,  proprio  la  previsione  di  un  regime
identico  per  le  due  fattispecie  di  restrizione  della  liberta'
risulterebbe costituzionalmente illegittima, perche' irragionevole. 
    Nel sistema del cosiddetto "doppio binario", infatti,  le  misure
di sicurezza personali assommerebbero,  ad  una  franca  esigenza  di
prevenzione speciale, una prevalente funzione risocializzante,  senza
assolvere  a  compiti  di  retribuzione   e   prevenzione   generale,
riferibili piuttosto  alla  pena.  Per  questa  ragione,  nel  regime
trattamentale ordinario,  si  rilevano  tra  condannati  e  internati
differenze significative, che riguardano il luogo di  esecuzione  dei
provvedimenti  restrittivi  (artt.  62  e  64  ordin.   penit.),   la
possibilita' di accedere alla misura della semiliberta' (che per  gli
internati puo' essere disposta in  ogni  tempo:  art.  50,  comma  2,
ordin.  penit.),  la  previsione  di  strumenti  speciali  (come   le
cosiddette licenze «di esperimento»,  previste  dall'art.  53  ordin.
penit. per i soli internati). 
    Tali differenze, funzionali rispetto al diverso  ruolo  assegnato
dalla stessa Costituzione a pena e  misura  di  sicurezza,  sarebbero
appunto  annullate  in  seguito   all'applicazione   agli   internati
dell'art. 41-bis ord. penit., in lesione anzitutto dell'art. 3  Cost.
Questa indebita parificazione del trattamento determinerebbe poi  una
violazione di quanto disposto all'art. 7 CEDU, nella  lettura  datane
dalla Corte di Strasburgo, che, con la sentenza 17 dicembre 2009,  M.
contro Germania, avrebbe  sottolineato  la  necessita'  di  contenuti
specifici  del  trattamento  degli  internati  rispetto   al   regime
esecutivo della pena. Di qui l'ipotizzata  lesione  anche  del  primo
comma dell'art. 117 Cost. 
    1.2.-  L'asserita  identita'  del  trattamento  per  detenuti  ed
internati  implicherebbe  poi,  secondo  la  Corte   di   cassazione,
ulteriori profili di contrasto  tra  la  disciplina  censurata  ed  i
parametri costituzionali gia' evocati. 
    Infatti, mentre la sospensione delle regole trattamentali  dovuta
all'applicazione dell'art. 41-bis  ordin.  penit.  non  incide  sulla
durata della pena inflitta al detenuto, in applicazione dei  principi
di colpevolezza e proporzionalita', altrettanto  non  potrebbe  dirsi
riguardo  all'ampiezza  temporale  della  restrizione  indotta  dalla
misura di sicurezza, determinata dalla permanenza della condizione di
pericolosita' sociale (salvo un limite  massimo  di  durata  comunque
molto elevato). Si determinerebbe, infatti, una sorta di spirale  tra
mancanza di offerta risocializzante e perdurare della  pericolosita':
da una parte,  l'assenza  di  occasioni  rieducative  -  dovuta  alla
soggezione al regime differenziale  -  impedirebbe  all'internato  di
maturare  e  comunque  di  dimostrare  significativi  progressi   nel
trattamento; dall'altra, la carenza di fattori utili ad una  concreta
revisione del giudizio  di  pericolosita'  condurrebbe  alla  proroga
necessitata della misura di sicurezza, e dunque ad una rottura  della
relazione che dovrebbe invece sussistere (secondo quanto la Corte EDU
avrebbe affermato con la decisione  gia'  citata)  tra  durata  della
restrizione e gravita'  del  fatto,  nei  suoi  profili  oggettivi  e
soggettivi. 
    In definitiva, verrebbe ad essere eseguita una pena inflitta  «al
di fuori del  giusto  processo  di  cognizione»,  in  violazione  del
principio di proporzionalita' e in assenza degli strumenti  necessari
alla finalizzazione rieducativa della sanzione penale. 
    Di qui la violazione congiunta, secondo la Corte  di  cassazione,
degli artt. 3, 25, 27, 111 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in
relazione all'art. 7 CEDU. 
    1.3.- Infine, a partire dalla "sostanza di pena" della misura  di
sicurezza eseguita con applicazione dell'art. 41-bis  ordin.  penit.,
il rimettente prospetta un'ulteriore violazione dell'art. 117,  primo
comma, Cost., in relazione all'art. 4, paragrafo 1, Prot. n. 7  CEDU,
che stabilisce, in ambito convenzionale, il principio ne bis in  idem
per il diritto punitivo. Infatti, trasformata in una pena, la  misura
di sicurezza si aggiungerebbe alla  sanzione  detentiva  inflitta  in
esito al giudizio di cognizione, senza apprezzabili distinzioni,  ne'
sul piano funzionale, ne' su quello esecutivo, dunque  con  l'effetto
di duplicare indebitamente il trattamento punitivo. 
    2.- Le sollevate questioni  di  legittimita'  costituzionale,  in
disparte gli esiti di  inammissibilita'  relativi  a  due  specifiche
censure, risultano non fondate, nei sensi di cui alla motivazione che
segue. 
    3.- Tutte tali questioni si basano, in effetti, su un  preciso  e
comune  presupposto  interpretativo:  la  sospensione  delle  normali
regole di trattamento, prevista dall'art. 41-bis ordin. penit.,  puo'
riguardare, oltre che i detenuti in esecuzione  di  pena,  anche  gli
internati  per  l'esecuzione  di  una  misura  di   sicurezza.   Piu'
esattamente ancora, il giudice a quo presuppone  che  gli  internati,
una  volta  sottoposti   al   regime   sospensivo,   debbano   essere
necessariamente assoggettati a tutte le misure predisposte  dall'art.
41-bis, comma 2-quater, lettere dalla a) alla f). 
    L'applicabilita' agli internati della sospensione delle ordinarie
regole trattamentali viene affermata, dal giudice  rimettente,  sulla
base di una plausibile lettura della  legislazione  vigente.  In  tal
senso depone, innanzitutto, gia' la disposizione  introduttiva  della
relativa disciplina, cioe' il comma 2 dell'art. 41-bis ordin. penit.,
ai sensi del quale il Ministro della  giustizia  ha  la  facolta'  di
sospendere, in tutto o  in  parte,  nei  confronti  dei  «detenuti  o
internati» per taluno dei delitti di contesto  mafioso  previsti  dal
primo periodo del comma 1 dell'art. 4-bis ordin.  penit.  (o  per  le
analoghe fattispecie citate nello stesso art. 41-bis), l'applicazione
delle regole  di  trattamento  penitenziario  che  possano  porsi  in
concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza. 
    E' bensi' vero che il medesimo riferimento agli  internati  manca
nel comma  2-bis,  relativo  alla  procedura  di  applicazione  della
misura, ma il  dato  non  e'  decisivo,  in  quanto  la  disposizione
contiene un generico rinvio al profilo  criminale  e  alla  posizione
rivestita  da  un  «soggetto»   in   seno   ad   una   organizzazione
delinquenziale. 
    Del resto, il successivo  comma  2-ter  (poi  abrogato  ad  opera
dell'art. 2, comma 25,  lettera  e,  della  legge  n.  94  del  2009,
relativo alla revoca del decreto ministeriale  e  alla  procedura  di
sindacato  giudiziale   sul   relativo   provvedimento,   menzionava,
espressamente  e  disgiuntamente,   le   istanze   del   detenuto   e
dell'internato.  Quel  che  piu'  conta,  anche  il   vigente   comma
2-quinquies attribuisce testualmente anche all'internato  il  diritto
di  reclamo  contro   il   provvedimento   applicativo   del   regime
differenziale, mentre il comma 2-septies regola in modo specifico  la
partecipazione dello stesso internato all'udienza camerale. 
    L'assoggettamento al  regime  differenziale  degli  internati  in
misura di sicurezza detentiva (nel caso in  esame:  casa  di  lavoro)
comporta indubbiamente, a loro carico, tutte le connesse  restrizioni
nell'accesso alle misure alternative alla detenzione e,  soprattutto,
agli specifici benefici propri  della  condizione  di  internato.  Si
tratta, del resto, di preclusioni che l'art. 4-bis, comma  1,  ordin.
penit. collega alla particolare natura dei reati commessi, e  proprio
da questi stessi  reati  dipende  -  sia  per  i  condannati  a  pena
detentiva, sia per gli internati  in  esecuzione  di  una  misura  di
sicurezza detentiva - l'applicabilita' dell'art. 41-bis del  medesimo
ordinamento. 
    Da questo punto  di  vista,  l'internato  assoggettato  a  regime
differenziale, cosi' come il detenuto nella medesima condizione,  non
puo' essere ammesso a fruire della semiliberta', mentre resta per  lo
stesso internato  indifferente  la  perdurante  applicabilita'  della
liberazione anticipata, beneficio nei suoi confronti non  applicabile
a prescindere dalla sottoposizione al regime speciale. 
    Allo stesso modo, nonostante l'Avvocatura dello Stato adombri  la
tesi contraria, all'internato soggetto  al  regime  di  cui  all'art.
41-bis  ordin.  penit.   non   risultano   applicabili   le   licenze
sperimentali disciplinate  dall'art.  53  del  medesimo  ordinamento,
anche  per  la  vistosa  incompatibilita'   logico-pratica   tra   la
condizione di quasi completa  liberta'  tipica  della  licenza  e  le
restrizioni dei movimenti e dei contatti imposte dal  comma  2-quater
del medesimo art. 41-bis. 
    4.- Acquisito che il regime  differenziale  ben  puo'  riguardare
anche gli internati, si tratta ancora di verificare, tuttavia, se  il
provvedimento ministeriale di cui al comma 2 dell'art. 41-bis  ordin.
penit. debba inevitabilmente presentare identita' di contenuto  e  di
effetti, tanto se adottato nei confronti di detenuti in esecuzione di
pena, quanto se invece applicato agli internati. 
    In tale verifica e' guida essenziale  il  penultimo  periodo  del
comma 2 dell'art.  41-bis  ordin.  penit.,  a  tenore  del  quale  la
sospensione  delle  regole  ordinarie  di  trattamento  penitenziario
comporta «le restrizioni necessarie»  per  il  soddisfacimento  delle
ricordate esigenze di ordine e sicurezza e per impedire  collegamenti
con le associazioni criminali. 
    Il riferimento testuale alla "necessita'" delle restrizioni evoca
criteri di proporzionalita' e congruita' nella identificazione  delle
misure, poiche' suggerisce che esse siano quelle (e solo quelle)  che
tali si evidenzino nella situazione considerata,  in  relazione  alla
specifica  condizione  del  soggetto.  Ben  vero  che   la   modifica
intervenuta sul comma 2-quater - per mezzo della citata legge  n.  94
del  2009  -  implica  ormai  contenuti  inderogabili   del   decreto
ministeriale che - in riferimento ai detenuti - applica,  in  ciascun
singolo caso,  il  regime  differenziale,  prevedendo  l'introduzione
"obbligatoria" di tutte le misure indicate al medesimo comma 2-quater
dell'art. 41-bis ordin. penit. Nondimeno,  e'  significativo  che  il
legislatore della novella ricordata, pur  essendo  intervenuto  anche
sul comma 2 (lettere b e c dell'art. 2,  comma  25,  della  legge  di
riforma),  non  ha  modificato  il  riferimento  al  principio  della
"necessita'" della restrizione imposta all'interessato, e  dunque  ai
conseguenti  criteri   di   proporzionalita'   e   congruita'   nella
identificazione, in concreto, delle misure. 
    Conserva   quindi    pieno    significato    la    giurisprudenza
costituzionale  che  ha  interpretato  la  disciplina  qui  censurata
bilanciando le esigenze di prevenzione speciale, che  essa  persegue,
con l'indispensabile finalizzazione rieducativa delle  pene  e  delle
stesse misure di sicurezza. Secondo  criteri  di  proporzionalita'  e
congruita', il legislatore, l'autorita' amministrativa  e  la  stessa
autorita'  giudiziaria,  nell'ambito  delle  rispettive   competenze,
devono quindi verificare se, in ogni caso  concreto,  le  restrizioni
imposte a norma dell'art. 41-bis ordin. penit. siano  legittimate  da
una duplice e determinante condizione: da un lato, come e' ovvio,  la
necessita'  effettiva  ed  attuale  d'un  regime  differenziale   per
l'interessato; dall'altro, la miglior scelta possibile,  quanto  alle
modalita' esecutive, al fine di favorire l'attuazione di un  efficace
programma individuale di recupero. 
    Gia' negli anni immediatamente successivi alle  prime  previsioni
di trattamento differenziale, ragionando della sua  applicazione  nei
confronti dei condannati a pene detentive sulla base della disciplina
allora vigente, questa Corte aveva chiarito che, permanendo in capo a
tali soggetti un diritto alla liberta' personale (sentenza n. 349 del
1993), le determinazioni ministeriali dovevano considerarsi  soggette
al sindacato del giudice ordinario (sentenza n. 410  del  1993),  non
solo con riferimento all'esistenza dei presupposti  legittimanti,  ma
anche con riguardo  al  corretto  esercizio  della  discrezionalita',
tanto  nella  scelta  delle  misure,  quanto  nella  loro  congruenza
rispetto alle esigenze del caso concreto: un sindacato,  quindi,  sui
limiti  "esterni"  ed  "interni"  al  potere   di   imposizione   del
trattamento differenziale (cosi', in particolare, la sentenza n.  351
del 1996). 
    Nella  sentenza  n.  376  del  1997,  era   stato   ulteriormente
sottolineato come le  restrizioni  apportate  riguardo  all'ordinario
regime  di  carcerazione  dovessero  essere  congrue  rispetto   alle
specifiche finalita' di ordine e sicurezza nel caso concreto, secondo
una valutazione pienamente  sindacabile  dall'autorita'  giudiziaria,
mentre restavano (e  restano)  comunque  vietate  misure  restrittive
concretanti un trattamento contrario al senso di umanita', o tali  da
vanificare del tutto la finalita' rieducativa della pena: quindi,  in
particolare,  l'applicazione  del  regime  differenziato   non   puo'
precludere  la  partecipazione  della  persona  reclusa  alle   varie
attivita' di  valenza  risocializzante,  «le  quali  semmai  dovranno
essere organizzate, per  i  detenuti  soggetti  a  tale  regime,  con
modalita' idonee ad impedire quei contatti e quei collegamenti i  cui
rischi il provvedimento ministeriale tende ad evitare. L'applicazione
dell'art. 41-bis non puo' dunque equivalere [...] a  riconoscere  una
categoria di detenuti che "sfuggono, di fatto, a qualunque  tentativo
di risocializzazione"». 
    Soprattutto - si era aggiunto  nella  sentenza  appena  citata  -
doveva (e deve) essere escluso che il decreto  ministeriale  ex  art.
41-bis  ordin.  penit.  neutralizzi  il  contenuto   precettivo   del
precedente  art.  13,  che  obbliga  alla   individualizzazione   del
trattamento di ciascun detenuto o  internato.  Nel  testo  originario
della norma, ed ancor piu' secondo il  testo  novellato  mediante  il
decreto  legislativo  2  ottobre  2018,  n.  123,  recante   «Riforma
dell'ordinamento penitenziario, in attuazione delle  deleghe  di  cui
all'articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i),  l),  m),  o),
r), t) e u) della legge 23 giugno 2017, n. 103», sono del resto  rese
obbligatorie attivita' fondamentali ai fini del reinserimento sociale
dell'interessato,  tra  le  quali  l'osservazione  scientifica  della
personalita' (da cominciare all'ingresso in istituto e da  proseguire
per tutta la durata della restrizione) e  la  predisposizione  di  un
programma individualizzato di rieducazione, da monitorare  attraverso
una raccolta sistematica di documenti e informazioni. 
    Ben vero - come gia' accennato - che queste (ed  altre  analoghe)
prese di posizione della  giurisprudenza  costituzionale  miravano  a
contenere   l'ampia   discrezionalita'   (sia    ministeriale,    sia
dell'amministrazione penitenziaria) allora  consentita  nella  scelta
delle misure finalizzate a contenere la pericolosita' individuale dei
detenuti, e quindi a limitare, nella  massima  misura  possibile,  le
interferenze di tali misure con i programmi di  rieducazione.  E  ben
vero, come pure accennato, che il quadro e'  sensibilmente  mutato  a
far tempo dall'entrata in vigore della  ricordata  legge  n.  94  del
2009, che ha previsto l'introduzione generalizzata  e  "obbligatoria"
delle rigorose limitazioni  alle  relazioni  interne  ed  esterne  al
carcere indicate al comma 2-quater  dell'art.  41-bis  ordin.  penit.
(restrizione qualitativa e quantitativa  dei  colloqui,  sorveglianza
dei medesimi, gruppi ristretti di socialita', ridottissima  incidenza
percentuale del tempo da trascorrere all'esterno,  visti  di  censura
sulla corrispondenza, eccetera).  A  tali  limitazioni,  prima  della
legge n. 94 del 2009, il comma 2-quater si riferiva stabilendo che il
decreto ministeriale «puo'  comportare»  la  loro  applicazione;  nel
testo vigente si legge, invece,  che  il  provvedimento  ministeriale
«prevede»  dette  limitazioni.  Un  intervento   che,   per   unanime
ammissione  degli   interpreti,   ha   sottratto   le   misure   alla
discrezionalita' dell'amministrazione. 
    Nondimeno, la valenza dei principi gia' affermati da questa Corte
resta pienamente attuale. Tanto questo e' vero che piu' volte,  anche
di recente, e' stata valutata l'effettiva funzionalita' di alcune fra
le restrizioni elencate  al  comma  2-quater  rispetto  all'obiettivo
della  prevenzione  di  contatti  tra  l'interessato  e   determinate
organizzazioni criminali. Si e' ribadito,  in  particolare,  che  «in
base all'art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., e' possibile sospendere
solo   l'applicazione   di   regole   e   istituti   dell'ordinamento
penitenziario che risultino in concreto contrasto con  le  richiamate
esigenze di ordine e sicurezza» e si e'  negata  la  legittimita'  di
«misure che, a causa del loro contenuto, non  siano  riconducibili  a
quelle concrete esigenze, poiche'  si  tratterebbe  in  tal  caso  di
misure palesemente incongrue o inidonee rispetto alle  finalita'  del
provvedimento che assegna il detenuto al  regime  differenziato».  In
base a queste considerazioni e' intervenuta, con la  sentenza  n.  97
del 2020, una dichiarazione di parziale illegittimita' costituzionale
della norma in esame, nella parte in cui non limitava il  divieto  di
scambiare  oggetti  a  detenuti  appartenenti  a  diversi  gruppi  di
socialita'. Un provvedimento analogo,  mutatis  mutandis,  era  stato
preso con la sentenza n. 186 del 2018, relativamente  al  divieto  di
cuocere cibi, posto dall'art. 41-bis,  comma  2-quater,  lettera  f),
ordin. penit. 
    I principi costituzionali di riferimento, soprattutto gli artt. 3
e 27, terzo comma, Cost., condizionano, dunque, la stessa  previsione
in astratto di misure  restrittive  "obbligatorie"  per  il  soggetto
raggiunto da un decreto ministeriale ex art. 41-bis, comma 2,  ordin.
penit.:  tali  misure  devono  perseguire  gli  obiettivi  di  ordine
pubblico stabiliti dal legislatore, ma al tempo stesso il trattamento
restrittivo - si tratti di esecuzione della pena  o  di  internamento
per misura di sicurezza -  deve  conservare  una  concreta  efficacia
rieducativa. 
    Cio' vuol dire che, in assenza delle  condizioni  indicate,  puo'
essere posta in dubbio ed eventualmente negata (come  gia'  avvenuto)
la compatibilita' costituzionale di  singole  prescrizioni.  Ma  vuol
dire che anche l'interpretazione da  operarsi  su  tali  prescrizioni
deve essere orientata verso soluzioni che ne garantiscano la  miglior
compatibilita' con i precetti  costituzionali  di  riferimento  nella
materia in esame. 
    5.- Nella medesima direzione non  puo'  considerarsi  secondaria,
per  la  risoluzione  delle   odierne   questioni   di   legittimita'
costituzionale, la circostanza che proprio il nuovo  testo  dell'art.
41-bis, comma 2-quater, ordin. penit. non contenga,  se  non  in  due
occasioni,  alcun  esplicito   riferimento   agli   internati   quali
destinatari necessari delle varie misure elencate nelle lettere dalla
a) alla f). 
    In questa disposizione, infatti, gli internati vengono menzionati
solo  incidentalmente  e  non  come   persone   assoggettabili   alle
restrizioni. In  un  primo  caso,  essi  sono  citati  come  soggetti
"passivi"  di  una  regola  contenitiva  sicuramente  indirizzata  ai
detenuti in esecuzione di pena  (lettera  a,  volta  a  impedire  che
questi ultimi entrino  in  contatto  con  appartenenti  alla  propria
organizzazione, o ad organizzazioni alleate, anche quando  si  tratti
di persone ristrette in esecuzione di una misura di  sicurezza);  nel
secondo caso, compaiono in un mero riferimento riassuntivo al divieto
di comporre  le  rappresentanze  «dei  detenuti  e  degli  internati»
(lettera d). 
    Resta quindi significativo,  gia'  sul  piano  testuale,  che  la
disposizione qui in esame si apra con un esclusivo riferimento  a  «i
detenuti», a differenza di quanto accade per il  comma  2  e  per  le
disposizioni successive al comma 2-quater (dal nuovo comma 2-quater.1
fino  al  comma  2-septies),  tutte  caratterizzate  dalla  citazione
espressa ed affiancata di detenuti ed internati. 
    Anche sulla base di tale rilievo,  ben  puo'  ritenersi  che  gli
internati, pur soggetti in  generale  al  regime  differenziato,  non
devono necessariamente  essere  sottoposti  a  tutte  le  restrizioni
elencate nel comma 2-quater (la medesima lettura  e'  avanzata  anche
dal Garante nazionale dei diritti delle persone  detenute  o  private
della liberta' personale, in  un  proprio  Rapporto  tematico  del  7
gennaio 2019). 
    Inoltre, con valenza sistematica decisiva, la necessita'  che  la
legge consenta margini discrezionali piu' ampi nella selezione  delle
misure restrittive da applicarsi agli internati - in quanto assegnati
a una casa di lavoro o ad una colonia agricola - risulta  dalle  gia'
ricordate direttive di cui al comma 2 dell'art. 41-bis ordin. penit.,
che si riferiscono alle (sole) restrizioni effettivamente necessarie,
in concreto, per  il  soddisfacimento  delle  esigenze  di  ordine  e
sicurezza pubblica, in un  contesto  che  preservi  la  funzionalita'
risocializzante del trattamento restrittivo in questione. 
    In conformita' agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., deve essere
percio' prescelta un'interpretazione della disciplina  censurata  che
consenta  l'applicazione  delle  sole  restrizioni  proporzionate   e
congrue alla condizione del soggetto cui il regime  differenziale  di
volta in volta si  riferisce.  Cosi',  trattandosi  di  un  internato
assegnato ad una casa di lavoro, le restrizioni derivanti  dalla  sua
soggezione all'art. 41-bis ordin. penit. devono adattarsi, nei limiti
del possibile, alla necessita' di organizzare un programma di lavoro,
e, a sua volta,  l'organizzazione  del  lavoro  deve  adattarsi  alle
restrizioni (quelle necessarie) della socialita' e della possibilita'
di movimento nella struttura. Ad esempio, devono essere  identificate
attivita'  professionali  compatibili  con  gli  effettivi  spazi  di
socialita' e mobilita' a disposizione  degli  internati  soggetti  al
regime  differenziale,  modulando  opportunamente  l'applicazione   a
costoro della  «limitazione  della  permanenza  all'aperto»  disposta
dalla lettera f) del comma 2-quater del citato art. 41-bis. 
    In  definitiva,  secondo  l'interpretazione  qui  affermata,  gli
internati in regime differenziale restano esclusi  dall'accesso  alla
semiliberta' ed alle licenze sperimentali, non potendo  uscire  dalla
struttura in cui sono collocati, ma, quanto  alla  socialita'  ed  ai
movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilita' di
lavorare. 
    6.- Venuta meno  la  premessa  interpretativa  che  la  Corte  di
cassazione ha posto a fondamento delle proprie censure,  ne  consegue
la non fondatezza del primo gruppo di questioni sollevate. 
    6.1. - Ad un tale  giudizio  si  perviene  facilmente,  in  primo
luogo, quanto alla prospettata violazione dell'art. 3 Cost. 
    A causa della comune sottoposizione al  regime  differenziale  di
detenuti e internati, il rimettente lamenta l'indebita equiparazione,
quanto a regime esecutivo e a contenuto trattamentale, di due misure,
pena e misura di sicurezza, che devono restare in effetti distinte. 
    L'interpretazione  qui   accolta   della   disciplina   censurata
smentisce l'assunto. Senza negare  che  il  regime  differenziale  si
renda applicabile a detenuti e internati, le modalita' restrittive di
esecuzione della misura  di  sicurezza  devono  risultare  congrue  e
proporzionate  alla  natura  di  questa,  e  percio'  differenziarsi,
rispetto al trattamento dei condannati nel  medesimo  regime,  quanto
serve a garantire la specifica condizione degli internati in casa  di
lavoro (o in  colonia  agricola),  pur  restando  necessario  che  la
garanzia di svolgimento di un'attivita' lavorativa non  vanifichi  le
speciali  cautele  imposte,   nei   casi   in   esame,   dall'elevata
pericolosita' degli interessati. 
    7.- Dall'interpretazione  qui  accolta  deriva  altresi'  la  non
fondatezza della censura incentrata sull'asserita  lesione  dell'art.
27, terzo comma, Cost. 
    7.1.- Secondo la Corte rimettente, la  soggezione  dell'internato
al regime di cui all'art.  41-bis  ordin.  penit.  vanificherebbe  la
specifica vocazione risocializzatrice della misura di  sicurezza,  ed
in particolare della casa di lavoro,  con  la  conseguenza  che,  non
potendosi mai  conseguire  l'obiettivo  di  rieducazione,  la  stessa
misura  finirebbe  col  trasformarsi  in   una   "pena"   di   durata
potenzialmente infinita. 
    Sulla base della lettura in questa sede proposta della disciplina
censurata, invece, il regime differenziale  puo'  e  deve  modellarsi
sulla  fisionomia  particolare   della   misura   di   sicurezza   in
discussione: si impone cioe' - tanto sul piano della interpretazione,
quanto su  quello  della  concreta  articolazione  delle  restrizioni
imposte al singolo internato - lo  sfruttamento  di  ogni  spazio  di
manovra al fine di garantire allo stesso  internato  la  possibilita'
effettiva  di   svolgere   una   attivita'   lavorativa,   in   vista
dell'obiettivo della risocializzazione. 
    Questa Corte, con la gia' citata sentenza n.  376  del  1997,  ha
affrontato una questione per qualche verso analoga a  quella  ora  in
esame, relativa all'applicabilita'  dell'istituto  della  liberazione
anticipata in  favore  dei  condannati  in  regime  differenziale  di
trattamento. Anche in quel caso  era  stato  prospettato  un  preteso
paradosso del regime speciale: esso in  astratto  concede,  anche  ai
detenuti ex art. 41-bis ordin. penit., la possibilita' di valersi del
beneficio in questione, ma in concreto parrebbe negarla, posto che la
liberazione anticipata dev'essere accordata sulla base della positiva
risposta dell'interessato  a  un'offerta  trattamentale,  che  pero',
proprio a causa del regime in parola, farebbe completamente difetto. 
    Nel ribadire che l'applicazione dell'art.  41-bis  ordin.  penit.
non comporta la eliminazione di qualsiasi programma di trattamento, e
neppure l'esclusione da qualunque concepibile attivita'  rieducativa,
la  sentenza  richiamata  ha  chiarito  che,  nella  valutazione  del
percorso rieducativo, dovra' tenersi conto  anche  della  qualita'  e
quantita'  delle  occasioni  effettivamente  messe   a   disposizione
dell'interessato: «il  giudizio  sulla  partecipazione  all'opera  di
rieducazione non puo' che essere formulato sulla base della  risposta
alle  opportunita'  di  risocializzazione  concretamente  offerte  al
detenuto nel corso del trattamento, poche o tante che siano [...] non
potendosi richiedere la partecipazione a un'opera rieducativa che non
venga  di  fatto  intrapresa,  ne'  far  gravare  sul   detenuto   le
conseguenze della mancata  offerta,  in  concreto,  di  strumenti  di
risocializzazione». 
    Mutatis mutandis, i medesimi principi devono  essere  riaffermati
nel presente caso, quanto  agli  effetti  dell'offerta  trattamentale
sulla pericolosita' sociale dell'internato e alla valutazione che  su
di essa deve essere svolta dal magistrato di sorveglianza. 
    Insieme  alla  interpretazione  qui  accolta   della   disciplina
censurata,  tali  principi  conducono  verso  un  giudizio   di   non
fondatezza della censura ora in esame. 
    8.- Sottolineando l'asserita spirale fra diniego del  trattamento
risocializzante e persistenza della pericolosita' sociale, il giudice
a quo lamenta la concorrente violazione degli artt.  3  e  25  Cost.,
dello stesso art. 27 Cost., dell'art. 117,  primo  comma,  Cost.  (in
relazione all'art. 7 CEDU), nonche' dell'art. 111 Cost. 
    Da una parte, l'assenza di  occasioni  rieducative,  dovuta  alla
soggezione al  regime  differenziale,  impedirebbe  all'internato  di
maturare  e  dimostrare  significativi  progressi  nel   trattamento;
dall'altra, la carenza di elementi utili ad  una  concreta  revisione
del giudizio di pericolosita' condurrebbe  alla  proroga  necessitata
della misura di sicurezza, e dunque ad una  rottura  della  relazione
che  dovrebbe  invece  sussistere  tra  durata  della  restrizione  e
gravita' del fatto commesso, nei suoi profili oggettivi e soggettivi. 
    Non per  tutte  le  censure  indicate,  invero,  e'  offerta  una
motivazione compiuta, e per alcune -  sicuramente  per  la  lamentata
lesione del principio del «giusto processo» ex art. 111  Cost.  quale
fondamento  per  la  legittima  inflizione  di  una   "pena"   -   il
ragionamento    del    rimettente    si    arresta    sulla    soglia
dell'ammissibilita' (ex multis, sentenze n. 154, n. 123 e n.  87  del
2021). 
    Quanto alle censure valutabili nel merito, le asserite lesioni al
principio di legalita', per violazione dei  parametri  costituzionali
nazionali  e  di  quelli  sovranazionali,  risultano   essenzialmente
ancorate alla giurisprudenza europea maturata  sulla  gia'  ricordata
«custodia di sicurezza» regolata dal diritto tedesco. 
    Come detto, il giudice a quo evoca in particolare la sentenza  M.
contro Germania, in cui la Corte EDU aveva accertato, per quanto  qui
piu' direttamente  rileva,  una  violazione  dell'art.  7  CEDU,  sul
presupposto che la misura di sicurezza detentiva, in  base  alla  sua
disciplina  ed  alle  sue  modalita'  di  esecuzione,   deve   essere
considerata una "pena", attratta come  tale  nell'area  di  influenza
della norma convenzionale sul principio di legalita'. 
    Lungi  pero'  dal  trarre  la   conseguenza   di   una   completa
assimilazione tra misura di sicurezza e pena, la Corte di Strasburgo,
nell'affermare la necessita' di un diverso regime per le  due  misure
restrittive, si e' limitata a stabilire  la  necessaria  applicazione
del  principio  di  non  retroattivita'  della  lex  superveniens   a
carattere  peggiorativo  anche  con  riguardo   alla   «custodia   di
sicurezza». Tale principio, nel caso deciso, non era stato osservato,
in  quanto  l'internamento  della  persona  interessata   era   stato
prolungato oltre  il  termine  massimo  decennale  vigente  al  tempo
dell'applicazione della  misura  di  sicurezza,  sulla  base  di  una
riforma sopravvenuta che aveva rimosso  ogni  limite  di  durata  del
trattamento, pur rendendone piu' stringenti i presupposti. 
    La successiva giurisprudenza della Corte EDU ha  confermato  piu'
volte l'incompatibilita' convenzionale dell'applicazione  retroattiva
di norme sfavorevoli in punto  di  durata  massima  della  misura  di
sicurezza (si vedano le sentenze 13 gennaio 2011  nei  casi  Kallweit
contro Germania e Mautes contro  Germania,  nonche'  la  sentenza  14
aprile  2011  nel  caso  Jendrowiak   contro   Germania).   Tuttavia,
esattamente  come  nel  caso  posto   all'origine   della   sequenza,
l'attribuzione alla custodia di sicurezza della  sostanza  di  "pena"
non  ha  mai  indotto  la  Corte  di  Strasburgo  a  dubitare   della
compatibilita' della relativa disciplina con le proiezioni  ulteriori
del principio (convenzionale) di  legalita'.  Cio'  e'  a  dirsi,  in
particolare, per la denunciata indeterminatezza  della  durata  della
misura  e  per  il  connesso  difetto  di  «prevedibilita'»,  a  tale
riguardo, nel momento della condotta antigiuridica. 
    In particolare, la Corte EDU non ha  stabilito  un  principio  di
necessaria predeterminazione di durata della restrizione di sicurezza
ed ha anzi rivenuto nella lettera a) dell'art. 5, paragrafo  1,  CEDU
la norma di legittimazione convenzionale delle  misure  di  sicurezza
(che devono e possono essere applicate  «in  seguito  a  condanna  da
parte di un tribunale competente»),  affermando,  in  punto  di  loro
prevedibilita', che la stessa non resta esclusa per il sol fatto  che
non e' stabilita preventivamente la durata del trattamento, entro  un
termine legalmente dato (in  particolare,  sentenza  9  giugno  2011,
Schmitz contro Germania). 
    Rilievi analoghi vanno compiuti rispetto all'ulteriore  argomento
evocato  dalla  Corte  rimettente,  relativo  all'incongruenza  della
complessiva risposta «sanzionatoria»  rispetto  al  fatto  di  reato,
poiche' all'esecuzione di una pena  (gia'  computata  in  termini  di
proporzionalita') si aggiungerebbe  una  restrizione  della  liberta'
nella forma della misura di sicurezza. 
    Con riferimento  alla  pena,  il  principio  di  proporzionalita'
implica una stretta correlazione tra il fatto, nella  sua  dimensione
oggettiva e soggettiva, e la conseguente punizione.  Con  riferimento
alle misure di sicurezza, invece, la proporzionalita' dipende  da  un
complessivo giudizio di congruita' e non eccessivita'  rispetto  allo
scopo di prevenire  ulteriori  attivita'  criminali  dell'interessato
(sentenza n. 250 del 2018). 
    In particolare, la misura di sicurezza opera se e quando l'autore
del fatto  esprime  una  concreta  pericolosita'  sociale,  che  deve
sussistere, sia nel momento dell'applicazione della misura,  sia  nel
momento della sua esecuzione. Per  quanto  debba  essere  occasionata
dalla commissione di un  reato,  la  misura  non  ha  percio'  alcuna
funzione  retributiva,  mentre  deve  fronteggiare  un  fenomeno   di
pericolosita' ormai considerato per  se'  stesso,  tanto  che,  abbia
trovato o meno  esecuzione,  la  misura  deve  essere  immediatamente
revocata non appena si riscontri la cessazione  della  condizione  di
pericolosita' dell'interessato (si vedano  le  sentenze  n.  291  del
2013, n. 1102 del 1988, n. 249 del 1983 e n.  139  del  1982),  anche
laddove non  sia  ancora  maturato  il  termine  di  «durata  minima»
previsto dalla legge (sentenza n. 110  del  1974,  e  successivamente
sentenza n. 139 del 1982 e ordinanza n. 111 del 1990). 
    Questa regola, di rilievo  centrale  nell'ordinamento,  vale  per
qualunque misura di  sicurezza  personale,  quali  che  ne  siano  le
modalita' di esecuzione. Con particolare  riguardo  ai  casi  qui  in
discussione, qualora il giudice di sorveglianza  dovesse  riscontrare
la cessazione della condizione di pericolosita',  l'esecuzione  della
misura personale dovrebbe essere evitata  o  interrotta,  quand'anche
l'esecuzione  medesima  fosse  stata  disposta  secondo   le   regole
straordinarie dell'art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. 
    Se queste sono le ragioni per cui va escluso il fondamento  delle
questioni di  legittimita'  costituzionale  incentrate  sull'asserita
lesione dei principi di  legalita'  costituzionale  e  convenzionale,
deve   essere   comunque   ribadita,   anche    in    questa    sede,
l'interpretazione affermata  a  proposito  delle  censure  incentrate
sulla lesione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. 
    Infatti, anche i rilievi riferiti alla  presunta  violazione  dei
principi di legalita', costituzionale e convenzionale, si fondano, in
ultima  analisi,  sul  presupposto  interpretativo  che  la  presente
pronuncia esclude. E la presunta "spirale" tra  diniego  dell'offerta
risocializzante e proroga ad libitum della  misura  di  sicurezza  e'
preclusa in radice dal principio  per  il  quale  l'applicazione  del
regime  differenziale   non   annulla   il   dovere   e   il   potere
dell'amministrazione di dare concreta  attuazione  all'attivita'  che
caratterizza la misura di sicurezza della casa di lavoro. 
    Affermato questo principio d'interpretazione, anche la  "spirale"
lamentata non ha ragione di determinarsi, e  dunque  di  produrre  le
trasformazioni che,  nella  stessa  logica  della  Corte  rimettente,
imporrebbero  l'estensione  ai  casi   coinvolti   dalla   disciplina
censurata  di  tutte  le  garanzie  costituzionali  e  sovranazionali
apprestate per la pena. 
    9.- Non supera, infine, la soglia dell'ammissibilita' neppure  la
questione  di  legittimita'  costituzionale  relativa  alla   pretesa
violazione del principio ne bis in  idem,  che  sarebbe  provocata  -
ancora una volta - dalla trasformazione in  "pena"  della  misura  di
sicurezza eseguita a norma dell'art. 41-bis  ordin.  penit.,  con  un
conseguente effetto di duplicazione del trattamento sanzionatorio per
un medesimo fatto. 
    L'ordinanza  di  rimessione,  invero,  non  pone  apertamente  in
discussione la compatibilita' costituzionale del  cosiddetto  sistema
del "doppio binario" (coesistenza di pene e misure di sicurezza), che
del  resto  trova  espresso  riconoscimento,  entro  limiti  la   cui
ricostruzione non rileva in questa sede,  nella  stessa  Costituzione
(in particolare, al terzo comma dell'art. 25). 
    In un contesto  caratterizzato  da  un'articolata  giurisprudenza
europea, a rivelarsi carenti sono,  innanzitutto,  le  prospettazioni
operate dalla Corte di cassazione rimettente  in  punto  di  asserita
duplicazione sanzionatoria dell'idem factum.  E',  anzi,  l'esistenza
stessa  del  preteso  idem  factum  a  non  essere   sufficientemente
argomentata. Come risulta dalla motivazione che precede, e' evidente,
infatti, che la pena detentiva e'  correlata  direttamente  al  reato
connesso, mentre la misura  di  sicurezza  e'  solo  occasionata  dal
medesimo reato,  e  richiede  una  giustificazione  non  direttamente
rilevante per l'esecuzione della pena, cioe' l'attuale e  persistente
pericolosita' del soggetto interessato. 
    Nulla, inoltre, e' detto in  ordine  al  rilievo  di  un  "doppio
binario" procedimentale, il quale, del resto, in materia di misure di
sicurezza e' puramente eventuale (potendo la misura  essere  disposta
anche dal giudice della cognizione). 
    L'assenza  di  tali  verifiche,  il  cui  compimento   condiziona
l'accesso  al  merito  (sentenza  n.   145   del   2020),   determina
l'inammissibilita' della questione proposta  (analogamente,  sentenza
n. 222 del 2019, nonche' ordinanze n. 136  del  2021  e  n.  114  del
2020).