ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  ammissibilita',  ai  sensi  dell'art.  2,  primo
comma,  della  legge  costituzionale  11  marzo  1953,  n.  1  (Norme
integrative della Costituzione concernenti la Corte  costituzionale),
della richiesta di referendum popolare per l'abrogazione del  decreto
legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle  disposizioni
in materia di incandidabilita' e  di  divieto  di  ricoprire  cariche
elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive  di  condanna
per delitti non colposi, a norma dell'articolo  1,  comma  63,  della
legge 6 novembre 2012, n. 190),  giudizio  iscritto  al  n.  173  del
registro referendum. 
    Vista l'ordinanza del 29 novembre 2021, depositata in cancelleria
il successivo 1° dicembre, con la quale  l'Ufficio  centrale  per  il
referendum presso la Corte di cassazione  ha  dichiarato  conforme  a
legge la richiesta; 
    udita nella camera di consiglio del 15 febbraio 2022  la  Giudice
relatrice Daria de Pretis; 
    uditi gli avvocati Sonia Sau per la Regione autonoma  Sardegna  e
Mario Bertolissi per i delegati dei Consigli regionali delle  Regioni
Lombardia,  Basilicata,  Friuli-Venezia  Giulia,  Sardegna,  Liguria,
Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte; 
    deliberato nella camera di consiglio del 16 febbraio 2022. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 29 novembre 2021, depositata il 1° dicembre
2021, l'Ufficio centrale per  il  referendum,  costituito  presso  la
Corte di cassazione, ai sensi dell'art.  12  della  legge  25  maggio
1970, n. 352 (Norme sui  referendum  previsti  dalla  Costituzione  e
sulla iniziativa legislativa del popolo) e successive  modificazioni,
ha dichiarato conforme alle disposizioni di  legge  la  richiesta  di
referendum popolare abrogativo, promossa dai Consigli regionali delle
Regioni  Lombardia,  Basilicata,  Friuli-Venezia  Giulia,   Sardegna,
Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto e Piemonte,  sul  seguente  quesito:
«Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012,
n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita'
e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a
sentenze definitive di condanna per  delitti  non  colposi,  a  norma
dell'art. 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?». 
    2.- L'Ufficio centrale  ha  attribuito  al  quesito  il  seguente
titolo: «Abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di
incandidabilita' e di divieto di  ricoprire  cariche  elettive  e  di
Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non
colposi». 
    3.- Ricevuta comunicazione dell'ordinanza  dell'Ufficio  centrale
per il  referendum,  il  Presidente  della  Corte  costituzionale  ha
fissato, per la conseguente deliberazione, la camera di consiglio del
15 febbraio 2022, disponendo  che  ne  fosse  data  comunicazione  ai
presentatori della  richiesta  di  referendum  e  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri, ai sensi dell'art. 33, secondo  comma,  della
legge n. 352 del 1970. 
    4.- In prossimita' della data fissata per la camera di consiglio,
i Consigli regionali richiedenti hanno depositato una memoria,  nella
quale  argomentano  a   sostegno   dell'ammissibilita'   dell'odierno
quesito. 
    4.1.- In particolare, i promotori, dopo aver ricostruito le varie
fasi del procedimento dinanzi all'Ufficio centrale per il referendum,
si soffermano sul sistema delle limitazioni dell'elettorato  passivo,
precisando che «la richiesta referendaria [...] non ha  nulla  a  che
fare con l'ineleggibilita' e l'incompatibilita'». 
    La difesa dei Consigli regionali ricostruisce poi la  genesi  del
decreto legislativo 31 dicembre  2012,  n.  235  (Testo  unico  delle
disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire
cariche elettive e di Governo conseguenti a  sentenze  definitive  di
condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma  63,
della legge 6 novembre  2012,  n.  190),  illustrando  i  principi  e
criteri direttivi contenuti nella legge di delega 6 novembre 2012, n.
190  (Disposizioni  per  la  prevenzione  e  la   repressione   della
corruzione e dell'illegalita' nella pubblica amministrazione),  e  il
contenuto   delle   varie   disposizioni   del   menzionato   decreto
legislativo. 
    Quanto  alla  disciplina   dell'incandidabilita',   i   promotori
evidenziano come essa sia «figlia del nostro tempo», «[a]  differenza
dell'ineleggibilita' e  dell'incompatibilita',  la  cui  struttura  e
funzione sono state definite ab immemorabili». In particolare, la sua
origine viene ricondotta alla legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme  in
materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali). 
    Al riguardo,  nella  memoria  viene  esaminata  la  ricostruzione
dell'evoluzione legislativa operata da  questa  Corte  nelle  diverse
occasioni in cui e' stata investita di questioni concernenti le norme
in materia di incandidabilita'. I promotori si soffermano  poi  sulle
«numerose  osservazioni  critiche»  formulate  dalla   dottrina   nei
confronti del d.lgs. n. 235 del 2012,  in  quanto  caratterizzato  da
previsioni ora troppo pervasive ora troppo scarne. 
    Viene  inoltre  stigmatizzata  la  «non  uniformita'  di   regime
giuridico tra  cariche  elettive  statali,  da  un  lato,  e  locali,
dall'altro».  Sebbene   questa   Corte   l'abbia   considerata   «non
discriminatoria» in  ragione  della  «prossimita'  dei  cittadini  al
tessuto istituzionale locale e [del]la diffusivita' del  fenomeno  in
tale ambito» (e' citata la sentenza n. 276 del 2016), la  difesa  dei
Consigli regionali ritiene questo  argomento  «di  puro  fatto  e  di
rilevanza schiettamente sociologica»,  che,  in  quanto  tale,  «puo'
essere in ogni momento rovesciato ed oggetto, comunque, di non  poche
perplessita'». 
    4.2.- Quanto alla richiesta referendaria, i  promotori  precisano
che «[n]el caso de quo si provvede in  negativo  [...]  vale  a  dire
senza procedere ad alcuna manipolazione del testo». Viene,  altresi',
richiamato quanto affermato  in  occasione  della  presentazione  del
quesito presso il Senato della Repubblica il 23 giugno  2021,  quando
«si  rilevo'  che  [la  richiesta  referendaria]   "intende   abolire
l'automatismo, lasciando al giudice la decisione, caso per  caso,  se
comminare, oltre alla sanzione penale, anche la  sanzione  accessoria
dell'interdizione d[a]i pubblici  uffici  e  per  quanto  tempo"».  E
ancora vengono richiamate alcune considerazioni sul  quesito,  specie
la' dove si afferma che esso  «manifesta  una  omogeneita'  di  fondo
sotto il profilo effettuale» e che l'intento e' «quello di tornare al
regime dell'incandidabilita' vigente prima del 2012»,  ancorche'  sul
punto la stessa difesa dei Consigli  regionali  concluda  precisando:
«Nessuna reviviscenza, tuttavia». 
    4.3.- I promotori si soffermano poi su alcune vicende giudiziarie
scaturite dall'applicazione del d.lgs. n. 235 del 2012, mettendone in
evidenza taluni effetti negativi (soprattutto quanto  all'automatismo
dell'applicazione della sospensione) e sottolineando come  dall'esame
della giurisprudenza di  questa  Corte  emerga  «l'esistenza  di  uno
spatium deliberandi» del legislatore. 
    Da  cio'  la  difesa  dei  Consigli   regionali   deduce   alcuni
«[c]orollari», aggiungendo che, se e' vero  che  la  ragion  d'essere
dell'istituto dell'incandidabilita' «si  puo'  ricondurre,  in  larga
misura, all'art. 97 Cost.» e quindi «al buon  governo  e  alla  buona
amministrazione»,  e'  altrettanto  vero  che  la  tutela  di  questi
«[v]alori essenziali» «non puo' essere assoluta, nel  senso  che  con
essa vanno bilanciati altri valori,  quando  corrono  il  rischio  di
essere pretermessi a causa di  incongruenze,  la  cui  rilevanza  non
contraddice la ragione». 
    Ancora, si precisa che la richiesta referendaria ha ad oggetto il
d.lgs. n. 235 del 2012 «nella sua  interezza  [...]  perche'  non  e'
frazionabile il relativo contenuto e perche'  necessita  di  una  sua
integrale riformulazione». 
    4.4.- Infine, dopo aver richiamato la  giurisprudenza  di  questa
Corte sull'ammissibilita' del referendum abrogativo e aver  ricordato
che «[s]ono [...] irrilevanti, o comunque non decisive, le  eventuali
dichiarazioni rese dai promotori» (e' citata la sentenza  n.  24  del
2011), questi ultimi illustrano una serie di ragioni per le quali  la
richiesta deve considerarsi ammissibile: il referendum  non  comporta
l'introduzione di una  nuova  e  diversa  disciplina  ma  produce  un
effetto di mera abrogazione, sicche' il quesito non ha  alcun  tratto
propositivo; l'istituto  dell'incandidabilita'  non  e'  previsto  in
Costituzione e ha struttura e funzioni sue proprie; le norme  oggetto
del quesito sono estranee alle materie di cui  all'art.  75,  secondo
comma, Cost.; la richiesta ha  ad  oggetto  un  testo  normativo  che
possiede una matrice razionalmente unitaria, con la  conseguenza  che
una  sua  abrogazione  parziale  creerebbe  evidenti  disparita'   di
trattamento;  il  vuoto  normativo  conseguente  all'abrogazione  non
interferisce con il dettato costituzionale, non  trattandosi  ne'  di
una legge a contenuto costituzionalmente vincolato, ne' di una  legge
costituzionalmente obbligatoria; da  ultimo,  l'inammissibilita'  del
referendum non puo' essere  fatta  discendere  dal  collegamento  tra
alcuni atti sovranazionali e  la  legge  n.  190  del  2012,  poiche'
quest'ultima, di cui il decreto e' attuazione, «ha un contenuto assai
composito ed articolato, e consente una  molteplicita'  di  soluzioni
attuative». 
    5.- La Regione autonoma Sardegna ha, altresi', depositato un atto
di intervento ad adiuvandum, nel  quale,  dopo  aver  ricostruito  la
giurisprudenza di questa Corte  sull'ammissibilita'  del  referendum,
chiede che la richiesta sia dichiarata ammissibile. 
    In particolare, la difesa regionale ritiene  che  «[l]a  proposta
abrogativa oggetto del presente giudizio rientr[i] a pieno titolo tra
quelle ammissibili poiche' mira ad eliminare, in toto, la  disciplina
delle  ipotesi   di   incandidabilita'   alle   elezioni   politiche,
amministrative e del Parlamento  europeo  e  i  divieti  a  ricoprire
incarichi in enti pubblici, ulteriori rispetto a  quelle  determinate
dall'applicazione del codice penale, per coloro che abbiano riportato
condanne definitive per determinati  reati  e  la  sospensione  dalla
carica per i condannati in via definitiva». 
    La Regione aggiunge che, se  la  richiesta  referendaria  dovesse
essere dichiarata  ammissibile  e  approvata  dal  corpo  elettorale,
«nessun principio costituzionale potra' dirsi travolto o  leso  e  il
Governo rimarra' libero, ove lo ritenga opportuno,  di  adottare  una
nuova legge delega e/o  il  Parlamento  di  legiferare  in  materia».
Infine, il quesito sarebbe chiaro e omogeneo. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Oggetto  del  presente  giudizio  e'  l'ammissibilita'  della
richiesta di referendum popolare dichiarata legittima  con  ordinanza
del  29  novembre  2021  dell'Ufficio  centrale  per  il  referendum,
costituito presso la Corte di cassazione. 
    La richiesta di referendum, promossa dai Consigli regionali delle
Regioni  Lombardia,  Basilicata,  Friuli-Venezia  Giulia,   Sardegna,
Liguria, Sicilia, Umbria, Veneto  e  Piemonte,  ha  a  sua  volta  ad
oggetto l'abrogazione dell'intero testo del  decreto  legislativo  31
dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in  materia  di
incandidabilita' e di divieto di  ricoprire  cariche  elettive  e  di
Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non
colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della  legge  6  novembre
2012, n. 190). 
    2.- In via preliminare, si deve rilevare  che,  nella  camera  di
consiglio del 15 febbraio 2022, questa Corte ha disposto,  come  gia'
avvenuto  piu'  volte  in  passato,   di   consentire   ai   soggetti
presentatori  del  referendum  di  illustrare  oralmente  le  memorie
depositate ai sensi dell'art. 33, terzo comma, della legge 25  maggio
1970, n. 352 (Norme sui  referendum  previsti  dalla  Costituzione  e
sulla iniziativa legislativa del popolo). E' stato altresi' deciso di
ammettere gli  scritti  presentati  da  soggetti  diversi  da  quelli
contemplati dalla disposizione citata  e  tuttavia  interessati  alla
decisione sull'ammissibilita' delle richieste referendarie (nel  caso
di specie, la Regione autonoma Sardegna), come contributi  contenenti
argomentazioni ulteriori rispetto a quelle altrimenti a  disposizione
della Corte (ex plurimis: sentenze n. 10 del 2020, n. 5 del 2015,  n.
13 del 2012, n. 28, n. 27, n. 26, n. 25 e n. 24 del 2011, n.  17,  n.
16 e n. 15 del 2008). 
    Tale seconda ammissione, che viene qui confermata, non si traduce
in un diritto di questi soggetti di  partecipare  al  procedimento  -
che, comunque, «deve tenersi, e concludersi,  secondo  una  scansione
temporale definita» (sentenza n. 31 del 2000) - e  di  illustrare  le
relative tesi in camera di consiglio, ma comporta  solo  la  facolta'
della  Corte,  ove  lo  ritenga  opportuno,   di   consentire   brevi
integrazioni orali degli scritti,  come  e'  appunto  avvenuto  nella
camera di consiglio del 15 febbraio 2022, prima che i soggetti di cui
al citato art. 33 illustrassero le rispettive posizioni. 
    3.- Sempre in  via  preliminare,  occorre  definire  il  contesto
normativo nel quale si collocano le disposizioni oggetto del  quesito
referendario. 
    3.1.- Il d.lgs. n. 235 del 2012 e' stato adottato  nell'esercizio
della delega disposta all'art. 1, commi 63, 64 e 65,  della  legge  6
novembre  2012,  n.  190  (Disposizioni  per  la  prevenzione  e   la
repressione  della  corruzione  e  dell'illegalita'  nella   pubblica
amministrazione). 
    Con le disposizioni indicate il legislatore delegante  ha  inteso
affidare al delegato il compito di  predisporre  un  corpus  organico
della normativa concernente le cause ostative all'assunzione  e  allo
svolgimento di tutte le cariche elettive e di governo, riunendo in un
unico testo la disciplina gia' vigente e introducendone nello  stesso
testo una nuova riguardante le  cariche  per  le  quali  dette  cause
ostative non erano previste. Al contempo, il legislatore delegante ha
voluto  escludere  dall'operazione  di  riordino  e  innovazione   la
disciplina delle sanzioni penali accessorie, prevedendo  che  restano
ferme «le disposizioni del codice penale in materia  di  interdizione
perpetua dai pubblici uffici» (art. 1, comma 64, lettera a, legge  n.
190 del 2012). 
    In conformita' con queste indicazioni, il legislatore delegato ha
affermato espressamente (art. 15, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 235
del 2012) l'indipendenza delle ipotesi di incandidabilita' da  quelle
in cui opera l'interdizione temporanea  dai  pubblici  uffici.  E  in
effetti,  nel  decreto  delegato,  l'unico  collegamento  fra  i  due
istituti   e'   rinvenibile    nella    disciplina    della    durata
dell'incandidabilita' alla carica di  parlamentare,  che  l'art.  13,
comma 1, del d.lgs. n. 235 del 2012 commisura al doppio della  durata
dell'interdizione temporanea comminata. 
    Il testo unico adottato nell'esercizio della richiamata delega ha
dunque un carattere in parte compilativo (in particolare, quanto alla
normativa in materia di incandidabilita' nelle elezioni  regionali  e
degli enti locali) e in parte innovativo (in particolare, quanto alla
previsione di ipotesi di incandidabilita' per le elezioni politiche e
per quelle del  Parlamento  europeo,  non  presenti  nella  normativa
precedente). 
    Esso  si  compone  cosi'  di  norme  relative:  alle  ipotesi  di
incandidabilita' alle elezioni della Camera dei deputati e del Senato
della Repubblica e a quelle di membro italiano del Parlamento europeo
(artt. 1-5); alle cause ostative all'assunzione e allo svolgimento di
incarichi di Governo (art.  6);  all'incandidabilita'  alle  elezioni
regionali e alle connesse ipotesi di sospensione e di decadenza dalla
carica (artt. 7-9); all'incandidabilita' alle  elezioni  provinciali,
comunali e circoscrizionali e alle connesse ipotesi di sospensione  e
di decadenza dalla carica (artt.  10-12).  Infine,  gli  artt.  13-18
recano «Disposizioni comuni, transitorie  e  finali»,  e  tra  queste
rileva la previsione dell'art. 17, che  dispone  l'abrogazione  della
preesistente normativa in materia e in particolare degli artt.  58  e
59 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico  delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali) e dell'art. 15 della  legge
19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni  per  la  prevenzione  della
delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di  manifestazione
di pericolosita' sociale). 
    3.2.- La normativa, in parte riordinata e in parte introdotta  ex
novo dal d.lgs. n. 235 del 2012, costituisce il punto  di  arrivo  di
una lunga evoluzione legislativa che ha preso  le  mosse  gia'  prima
dell'entrata in vigore della  Costituzione  repubblicana  ma  che  ha
visto un momento di significativa  svolta  soltanto  nei  primi  anni
Novanta del secolo scorso. 
    Piu' precisamente - anche a non voler risalire alla  legislazione
comunale e provinciale del 1915 - l'art. 7  del  decreto  legislativo
luogotenenziale  7  gennaio  1946,   n.   1   (Ricostituzione   delle
Amministrazioni comunali su base elettiva), si limitava  a  prevedere
che, al di la' degli altri casi  di  ineleggibilita'  (non  legati  a
condanne penali), non poteva «essere nominato sindaco: [...]  chi  fu
condannato per qualsiasi reato commesso nella  qualita'  di  pubblico
ufficiale o  con  abuso  d'ufficio  ad  una  pena  restrittiva  della
liberta' personale superiore a sei mesi,  e  chi  fu  condannato  per
qualsiasi altro delitto alla pena della reclusione non  inferiore  ad
un anno, salvo la riabilitazione ai termini di legge». La  previsione
e' poi confluita dapprima nell'art. 6 del d.P.R. 5  aprile  1951,  n.
203 (Approvazione del Testo Unico delle leggi per la  composizione  e
la  elezione  degli  organi  delle   amministrazioni   comunali),   e
successivamente nell'art. 6 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570  (Testo
unico delle leggi per la composizione  e  la  elezione  degli  organi
delle Amministrazioni comunali). 
    In questo quadro, estremamente circoscritto sia  per  i  soggetti
interessati  che  per  la  tipologia  delle  condanne  e  della  pena
irrogata, si e' inserito l'art. 15 della legge 19 marzo 1990,  n.  55
(Nuove disposizioni per la  prevenzione  della  delinquenza  di  tipo
mafioso e di altre gravi forme  di  manifestazione  di  pericolosita'
sociale), che - come questa Corte ha precisato nelle decisioni in cui
e' stata  chiamata  a  giudicare  sulle  controversie  relative  alla
legittimita' costituzionale di varie disposizioni del d.lgs.  n.  235
del 2012 (sentenze n. 230 e n. 35 del 2021, n. 36 del  2019,  n.  214
del 2017, n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015 e  ordinanza  n.  46  del
2020) -, al fine di «tutelare la  "trasparenza  dell'attivita'  delle
regioni e degli enti locali" (cosi'  il  Titolo  del  Capo  II  della
legge),  [...]  prevedeva   la   sospensione   degli   amministratori
regionali, provinciali  e  comunali  che  risultassero  sottoposti  a
procedimento penale per il delitto  previsto  dall'art.  416-bis  del
codice  penale,  ovvero  a  una  misura  di  prevenzione,  anche  non
definitiva, perche' indiziati di appartenere ad associazioni di  tipo
mafioso. Alla sospensione seguiva la  decadenza  in  conseguenza  del
passaggio in giudicato  della  sentenza  o  della  definitivita'  del
provvedimento di applicazione della misura di prevenzione»  (sentenza
n. 276 del 2016). 
    Nella convinzione che  tale  disciplina  fosse  insufficiente  ad
arginare  il  fenomeno  delle   infiltrazioni   di   stampo   mafioso
all'interno degli organi degli enti territoriali il legislatore si e'
risolto, con la legge 18 gennaio 1992, n. 16  (Norme  in  materia  di
elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), «da un  lato,
attraverso  l'istituto  della  incandidabilita'  alle   elezioni,   a
impedire che persone gravemente indiziate di reati di stampo  mafioso
potessero  ricoprire  cariche  elettive,  dall'altro,   a   estendere
l'ambito dei reati ostativi, comprendendo in esso anche quelli legati
agli stupefacenti  e  alle  armi,  nonche'  alcuni  reati  contro  la
pubblica amministrazione» (sempre sentenza n. 276 del 2016). 
    Come  ricordato  nella  pronuncia  da  ultimo   citata,   «[d]opo
modifiche minori introdotte  dalla  legge  12  gennaio  1994,  n.  30
(Disposizioni modificative della legge  19  marzo  1990,  n.  55,  in
materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti  locali,  e
della legge 17 febbraio 1968, n. 108,  in  materia  di  elezioni  dei
consigli regionali delle regioni a statuto ordinario), la materia  e'
stata sostanzialmente ridisciplinata dalla legge 13 dicembre 1999, n.
475 (Modifiche all'articolo 15 della L.  19  marzo  1990,  n.  55,  e
successive modificazioni). A seguito della sentenza di  questa  Corte
n. 141 del 1996, che dichiaro' illegittimo l'art. 15 della  legge  n.
55 del  1990,  la'  dove  prevedeva  l'incandidabilita'  prima  della
condanna  definitiva  (in  quanto   si   trattava   di   una   misura
irreversibile che, per il suo carattere sproporzionato,  assumeva  "i
caratteri di una sanzione anticipata"), la  legge  n.  475  del  1999
collego' l'incandidabilita' alla condanna  definitiva,  mentre  causa
della sospensione dalla carica rimase la condanna non definitiva;  la
durata della sospensione fu pero' limitata a diciotto mesi. Le  norme
fin qui illustrate sono poi confluite negli artt. 58 e 59 del decreto
legislativo  18  agosto  2000,  n.  267  (Testo  unico  delle   leggi
sull'ordinamento degli enti locali)». 
    La preoccupazione per il permanere di una situazione di  grave  e
diffusa  illegalita'  nella  pubblica  amministrazione   costituisce,
infine, la ragione per la quale la legge delega n. 190  del  2012  ha
previsto una serie di nuove misure per  prevenire  e  reprimere  tali
fenomeni, fra le quali  l'estensione  dell'incandidabilita'  e  della
decadenza ai parlamentari e alle cariche di governo  e  l'ampliamento
dei reati ostativi. Di qui l'adozione del d.lgs. n. 235 del 2012  che
- come anticipato -  ha  riordinato  e  innovato  la  materia,  dando
attuazione alla delega. 
    3.3.-  Su  questa  normativa   si   e'   formata   una   cospicua
giurisprudenza  costituzionale  che,   con   riferimento   sia   alla
disciplina introdotta nel 1990 e nel 1992 (sentenze n. 25  del  2002,
n. 132 del 2001, n. 206 del 1999, n. 295, n. 184 e n. 118 del  1994),
sia segnatamente a quella adottata nel 2012 (sentenze n. 230 e n.  35
del 2021, n. 36 del 2019, n. 214 del 2017, n. 276 del 2016 e  n.  236
del 2015), ha sottolineato, fra  l'altro,  come  le  misure  in  esse
previste non costituissero e non  costituiscano  sanzioni  o  effetti
penali della condanna, e siano piuttosto da ricollegare al venir meno
di un requisito soggettivo per l'accesso alla cariche in questione  o
per il loro mantenimento. 
    Questa Corte ha altresi' precisato che, «se in origine  lo  scopo
della disciplina era  quello  "di  costituire  una  sorta  di  difesa
avanzata dello Stato contro  il  crescente  aggravarsi  del  fenomeno
della  criminalita'  organizzata  e   dell'infiltrazione   dei   suoi
esponenti negli enti locali", avendo come finalita' "la  salvaguardia
dell'ordine e  della  sicurezza  pubblica,  la  tutela  della  libera
determinazione  degli  organi  elettivi,  il  buon  andamento  e   la
trasparenza delle amministrazioni pubbliche"  (sentenza  n.  407  del
1992), successivamente il  carattere  di  diffusa  illegalita'  nella
pubblica  amministrazione  [ha   indotto]   ad   allargare   l'ambito
soggettivo e oggettivo della disciplina,  a  tutela  degli  interessi
costituzionali protetti dagli artt. 54, secondo comma, e 97,  secondo
comma, Cost.» (sentenza n. 276 del 2016, ma nello stesso senso  anche
sentenze n. 230 e n. 35 del 2021, n. 36 del 2019 e n. 236 del 2015). 
    In questo  contesto,  dunque,  legittimamente,  «il  legislatore,
operando le proprie valutazioni discrezionali, ha  ritenuto  che,  in
determinati casi, una condanna penale precluda il mantenimento  della
carica, dando luogo alla decadenza o  alla  sospensione  da  essa,  a
seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva» (sentenza n.
236 del 2015). 
    Al contempo, spetta a questa Corte - nei casi in cui e' investita
di  una  questione  di  legittimita'  costituzionale  -  valutare  la
ragionevolezza  del  bilanciamento  operato   dal   legislatore   tra
l'esigenza di  tutelare  gli  interessi  costituzionalmente  protetti
dagli artt. 97, secondo comma, e 54, secondo comma,  Cost.  e  quelli
sottesi agli artt. 48 e 51 Cost. 
    4.- L'odierno quesito referendario, investendo l'intero d.lgs. n.
235 del 2012, punta  a  rimuovere  dall'ordinamento  l'insieme  delle
disposizioni contenute nel  testo  unico,  senza  che  dall'eventuale
approvazione del quesito referendario possa desumersi la reviviscenza
del quadro normativo preesistente. 
    La costante giurisprudenza di questa Corte nega  la  possibilita'
che   l'abrogazione   referendaria   produca   un   qualche   effetto
ripristinatorio  della  disciplina  previgente,  abrogata  da  quella
oggetto di referendum (in tal senso, tra le piu' recenti, sentenze n.
5 del 2015, n. 12 del 2014, n. 13 del 2012, n. 28 e n. 24 del  2011).
E' appena il caso di segnalare inoltre che, nel caso della  richiesta
referendaria in esame, l'intento dei promotori non e' certo quello di
far rivivere il quadro normativo previgente, delineato in particolare
dall'art. 15 della legge n. 55 del 1990 e dagli artt.  58  e  59  del
d.lgs. n. 267 del 2000, con la conseguenza che una reviviscenza delle
disposizioni previgenti,  quand'anche  non  la  si  volesse  ritenere
necessariamente  esclusa  (come  ritengono  i  promotori,  affermando
espressamente: «Nessuna  reviviscenza,  tuttavia»),  si  porrebbe  in
frontale   contrasto   con   il   chiaro   intento    di    espungere
dall'ordinamento   l'intero   corpus   normativo   in   materia    di
incandidabilita'. 
    5.- Cosi'  delineati  il  contesto  normativo  di  riferimento  e
l'evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia, questa Corte
e' chiamata a giudicare sull'ammissibilita' del quesito  referendario
alla luce dei criteri desumibili dall'art. 75 Cost. e  del  complesso
dei «valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai
temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i  relativi
referendum, al di la' della lettera dell'art. 75 secondo comma Cost.»
(sentenza n. 16 del 1978). 
    Non solo, dunque, la richiesta referendaria non puo' investire le
leggi indicate nell'art. 75 Cost. o comunque riconducibili  ad  esse,
ma il quesito da sottoporre al giudizio  del  corpo  elettorale  deve
consentire una scelta libera e consapevole,  richiedendosi  che  esso
presenti   i    caratteri    della    chiarezza,    dell'omogeneita',
dell'univocita',  nonche'  una  matrice  razionalmente  unitaria.  Al
riguardo, questa Corte ha avuto modo di precisare che  «liberta'  dei
promotori delle richieste di referendum  e  liberta'  degli  elettori
chiamati a valutare le richieste stesse non vanno confuse  fra  loro:
in  quanto  e'  ben  vero  che  la  presentazione   delle   richieste
rappresenta  l'avvio  necessario   del   procedimento   destinato   a
concludersi con la consultazione popolare; ma non e' meno vero che la
sovranita' del popolo non comporta la sovranita' dei promotori e  che
il popolo stesso dev'esser garantito, in questa sede,  nell'esercizio
del suo potere sovrano» (sentenza n. 16 del 1978). 
    Ne consegue l'ulteriore affermazione che il referendum abrogativo
non puo' essere «trasformato - insindacabilmente  -  in  un  distorto
strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano
in sostanza a proporre plebisciti o voti  popolari  di  fiducia,  nei
confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti  o
dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le  iniziative
referendarie» (sentenza n. 16 del 1978).  Non  sono  ammissibili,  in
particolare,  richieste  referendarie  che  siano   «surrettiziamente
propositiv[e]» (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2012, n. 26 del 2011,
n. 33 del 2000 e n. 13 del 1999; nello stesso senso, sentenze  n.  43
del 2003, n. 38 e n. 34 del 2000): si tratta, infatti, di  un'ipotesi
non ammessa  dalla  Costituzione,  perche'  il  referendum  non  puo'
«introdurre   una   nuova   statuizione,   non   ricavabile   ex   se
dall'ordinamento» (sentenza n. 36 del 1997). 
    Agli indicati requisiti questa Corte ne  ha  aggiunti  altri,  in
ragione della specificita' dell'oggetto della richiesta referendaria,
sempre nella prospettiva della  piena  realizzazione  dei  richiamati
«valori di ordine costituzionale». E in questo contesto ha  affermato
che sono sottratte  all'abrogazione  totale  mediante  referendum  le
leggi costituzionalmente necessarie, «la cui  mancanza  creerebbe  un
grave vulnus nell'assetto costituzionale dei poteri dello Stato»  (da
ultimo,  sentenza  n.  10   del   2020),   e   quelle   a   contenuto
costituzionalmente vincolato, «il cui  nucleo  normativo  non  [puo']
venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i
corrispondenti specifici disposti della  Costituzione  stessa  (o  di
altre leggi costituzionali)» (sentenza n. 16 del 1978). 
    Alla luce dei menzionati criteri, questa Corte e' dunque chiamata
a svolgere due ordini  di  valutazioni:  per  un  verso  sul  quesito
referendario, al fine di verificarne la chiarezza, l'univocita' e  la
matrice razionalmente unitaria, e, per altro verso,  sullo  specifico
testo legislativo in esame allo scopo di  accertarne  l'idoneita'  ad
essere oggetto di un referendum abrogativo. 
    6.- Nel caso in esame,  il  quesito  referendario  sottoposto  al
giudizio di ammissibilita' e' chiaro  e  univoco  nell'obiettivo  che
intende perseguire, e risulta dotato  di  una  matrice  razionalmente
unitaria. 
    L'obiettivo dei Consigli  regionali  promotori  e'  di  rimuovere
dall'ordinamento l'intero testo normativo che  disciplina  l'istituto
dell'incandidabilita',  e,  da  questo  punto   di   vista,   proprio
l'interezza del testo investito dal quesito  esclude  ogni  possibile
incertezza sulla portata della sua eventuale abrogazione. 
    D'altro canto, non puo' condurre a un diverso  esito  nemmeno  la
considerazione  che,   trattandosi   dell'intero   corpus   normativo
costituito dal d.lgs. n. 235 del 2012, il quesito potrebbe presentare
un deficit di univocita' e di omogeneita', come «puo' accadere specie
quando il quesito raggiunge "interi testi  legislativi  complessi,  o
ampie porzioni di essi, comprendenti una pluralita'  di  proposizioni
normative eterogenee"» (sentenze n. 26 del 2017 e  n.  12  del  2014;
nello stesso senso, sentenza n. 6 del 2015). 
    A questo riguardo va  innanzitutto  sottolineato  che  l'art.  75
Cost. espressamente stabilisce che la richiesta  referendaria  ha  ad
oggetto «l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un  atto
avente valore di legge», con cio' di per se'  contemplando  anche  la
possibilita'  che  il  referendum  investa  un  testo  articolato   e
complesso, ed escludendo di conseguenza che tali caratteri di un atto
siano pregiudizialmente motivo di inammissibilita' del quesito. 
    Cio' premesso, conviene ricordare che, secondo la  giurisprudenza
costituzionale,  il  requisito  dell'omogeneita'  viene  meno  quando
oggetto del referendum sono piu' testi normativi  o  un  unico  testo
composto  da  molte  parti,  che,  se  pure  uniti   da   un   nesso,
costituiscono «diversi tasselli»,  rispetto  ai  quali  il  cittadino
potrebbe maturare convincimenti diversi (sentenza n.  12  del  2014).
Nondimeno, come  questa  Corte  ha  chiarito,  sussiste  comunque  il
requisito dell'omogeneita' ogniqualvolta  «dalle  norme,  considerate
nella loro struttura e nella  loro  finalita',  e'  dato  trarre  una
"matrice razionalmente unitaria"» (sentenza n. 33 del 1997). 
    Viene in rilievo, a questo proposito, il fatto  che  «il  quesito
referendario deve incorporare l'evidenza del fine intrinseco all'atto
abrogativo, cioe' la puntuale ratio che lo ispira (sentenza n. 29 del
1987), nel senso che dalle norme proposte per l'abrogazione sia  dato
trarre con evidenza "una matrice razionalmente unitaria" (sentenze n.
16  del  1978;   n.   25   del   1981),   "un   criterio   ispiratore
fondamentalmente comune" o "un comune principio, la cui  eliminazione
o  permanenza  viene  fatta  dipendere  dalla  risposta   del   corpo
elettorale" (sentenze n. 22, n. 26, n. 28 del 1981; n. 63, n. 64,  n.
65 del 1990)» (sentenza n. 47 del 1991). 
    Nel caso di specie, e'  agevole  rinvenire  nella  natura  e  nel
contenuto del d.lgs.  n.  235  del  2012,  oggetto  del  quesito,  la
«matrice razionalmente  unitaria»  che  giustifica  l'unicita'  della
richiesta. Premesso che la qualificazione del d.lgs. n. 235 del  2012
come testo unico non costituisce di per se'  elemento  idoneo  a  far
ritenere sussistente il requisito  -  se  non  altro  per  l'evidente
ragione che l'unicita' del testo non esclude che esso  raccolga  piu'
oggetti - risulta invece decisivo l'esame del contenuto  del  decreto
medesimo, emanato sulla base della chiara ed  espressa  intentio  del
legislatore delegante di riunire in un unico  testo  l'insieme  delle
disposizioni in materia di incandidabilita' (art. 1, comma 63,  della
legge n. 190 del 2012). 
    L'individuazione, come oggetto del quesito, dell'intero d.lgs. n.
235 del 2012 e la sua natura di corpus organico  della  normativa  di
cui qui si discute consentono di cogliere  l'esistenza  speculare  di
una matrice razionalmente unitaria del quesito. 
    Al contempo, e simmetricamente, anche la finalita'  dello  stesso
quesito e'  sufficientemente  chiara  e  univoca,  consistendo  nella
rimozione dall'ordinamento (mediante abrogazione) di tutte  le  norme
che prevedono cause ostative all'assunzione  e  allo  svolgimento  di
cariche elettive e di Governo, derivanti da una condanna  penale  per
taluni reati. 
    Per tutte queste ragioni, infine, si deve altresi' escludere  che
il quesito presenti carattere manipolativo o propositivo. In caso  di
abrogazione,    infatti,     verrebbero     semplicemente     rimosse
dall'ordinamento le norme contenute nel d.lgs. n. 235 del 2012, senza
che siano ipotizzabili effetti estensivi di altre discipline. 
    7.- Quanto all'idoneita' dello specifico testo legislativo di cui
qui si discute a essere oggetto di un referendum abrogativo,  occorre
precisare che la richiesta in  esame  non  rientra  in  alcuna  delle
ipotesi  per  le  quali  l'indicazione  testuale  del  secondo  comma
dell'art. 75 Cost. non consente il ricorso all'istituto referendario. 
    Si deve escludere, in particolare, che siano desumibili da  fonti
internazionali - e in particolare, dalle  convenzioni  internazionali
richiamate nell'art. 1 della legge n. 190 del 2012 - obblighi  per  i
singoli Stati di disciplinare la materia dei requisiti  di  moralita'
per ricoprire cariche elettive e  di  governo  nei  termini  puntuali
previsti nella normativa oggetto del quesito referendario. 
    Nessun vincolo specifico in tale senso si rinviene, infatti,  ne'
nella Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo  il  27
gennaio 1999, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  28  giugno
2012, n. 110, ne' nella Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni
Unite  contro  la  corruzione,  adottata  dalla  Assemblea   generale
dell'ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n.  58/4,  firmata  dallo
Stato italiano il 9 dicembre 2003, ratificata e resa esecutiva con la
legge 3 agosto 2009, n. 116. 
    Sotto un diverso profilo, non spetta a  questa  Corte  sindacare,
nell'odierno giudizio,  la  legittimita'  costituzionale,  ne'  delle
disposizioni recate dal d.lgs. n. 235 del 2012 - gia' fatte  oggetto,
del  resto,  di  numerose  questioni  decise  nel  senso  della   non
fondatezza o dell'inammissibilita' con le pronunce sopra richiamate -
ne'  della  normativa  che  residuerebbe   all'esito   dell'eventuale
abrogazione referendaria. 
    7.1.- Occorre soffermarsi da ultimo sul profilo del carattere  in
ipotesi «a contenuto costituzionalmente vincolato» della normativa in
esame, al fine di stabilire se essa  contenga  disposizioni  «il  cui
nucleo normativo non possa venire alterato o  privato  di  efficacia,
senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della
Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)»  (sentenza  n.
16 del 1978). 
    Questa Corte ha  precisato  che  alla  categoria  delle  leggi  a
contenuto costituzionalmente vincolato «possono essere ricondotte due
distinte ipotesi: innanzitutto, le  leggi  ordinarie  che  contengono
l'unica  necessaria  disciplina   attuativa   conforme   alla   norma
costituzionale, di modo che la loro  abrogazione  si  tradurrebbe  in
lesione di quest'ultima (cfr. sentenze  n.  26/1981  e  16/1978);  in
secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad  opera  del
referendum, priverebbe totalmente di  efficacia  un  principio  o  un
organo costituzionale "la cui esistenza e' invece voluta e  garantita
dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)"» (sentenza n.  27  del
1987),  sicche'  la  relativa  normativa   costituisce   «il   nucleo
costituzionale irrinunciabile, un nucleo che [nondimeno] lascia largo
spazio alla discrezionalita' legislativa» (sentenza n. 42 del 2000). 
    7.2.- Stando ai termini della giurisprudenza costituzionale cosi'
ricostruita,    si    deve    concludere     che     la     normativa
sull'incandidabilita' non puo' essere qualificata, ne' come  legge  a
contenuto    costituzionalmente    vincolato,    ne'    come    legge
costituzionalmente necessaria, e cio', beninteso, ancorche'  la  piu'
volte  citata   giurisprudenza   costituzionale   contenga   numerose
indicazioni sulla sua riconducibilita' ai principi di cui agli  artt.
54 e 97 Cost. Tale riconosciuto fondamento non comporta, invero,  ne'
che il contenuto della  normativa  in  esame  sia  costituzionalmente
vincolato, ne', d'altro canto, che, per obbligo costituzionale, debba
necessariamente sussistere una disciplina dell'incandidabilita'. 
    Quanto al primo profilo,  si  deve  osservare  che  la  specifica
disciplina contenuta nel d.lgs. n.  235  del  2012,  anche  se,  come
detto, attua specifici valori  costituzionali,  di  tali  valori  non
concretizza una soluzione vincolata nel suo contenuto. Che la  scelta
operata con essa dal legislatore non costituisca l'unica modalita' di
possibile tutela di quei valori  e'  anzi  radicalmente  escluso  dal
carattere ampiamente discrezionale delle scelte  legislative  che  si
esprimono in materia, scelte che, come questa Corte ha  ripetutamente
affermato, possono essere variamente modulate. 
    Quanto al secondo - ossia  la  riconducibilita'  del  decreto  in
parola alle leggi costituzionalmente necessarie - non  vi  e'  dubbio
che la normativa del d.lgs. 235 del 2012 e' finalizzata a  realizzare
«interessi  costituzionali  protetti  dall'art.  97,  secondo  comma,
Cost., che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici
uffici  in  modo  che   siano   garantiti   il   buon   andamento   e
l'imparzialita' dell'amministrazione, e dall'art. 54, secondo  comma,
Cost., che impone ai cittadini cui sono affidate  funzioni  pubbliche
"il dovere di adempierle con disciplina ed onore"» (sentenza  n.  236
del 2015; negli stessi termini, sentenze n. 276 del 2016, n.  36  del
2019 e n. 35 del 2021). 
    Cio' nondimeno, tali principi convivono  nella  Costituzione  con
altri, di pari rango, quali quelli  enunciati  agli  artt.  48  e  51
Cost., e in particolare con il  «principio  della  rappresentativita'
democratica» (sentenza n. 141 del 1996) e  con  essi  anche  i  primi
devono essere contemperati. 
    Proprio alla luce delle  considerazioni  che  precedono  si  puo'
escludere la natura di legge costituzionalmente necessaria del d.lgs.
n. 235 del 2012, in quanto la disciplina  da  esso  recata,  diretta,
com'e', alla garanzia dei richiamati interessi sottesi agli artt. 97,
secondo comma, e 54, secondo comma, Cost., a fronte dei  contrapposti
interessi sottesi al principio di rappresentativita' democratica, non
identifica quel contenuto di tutela minima che in altre occasioni (si
vedano le sentenze n. 35 del 1997 e 45 del 2005)  ha  portato  questa
Corte  a  escludere  l'ammissibilita'  del  referendum  su  complessi
normativi che, fondandosi  su  un  equilibrato  bilanciamento  tra  i
contrapposti interessi, tale tutela minima erano volti ad apprestare. 
    Da ultimo, e' il caso di  ribadire  che  l'eventuale  abrogazione
referendaria del d.lgs. n. 235  del  2012  non  inciderebbe  comunque
sulla disciplina delle sanzioni  penali  accessorie  e  quindi  sulle
disposizioni del codice penale in materia di interdizione perpetua  o
temporanea dai pubblici uffici. 
    8.-  In  definitiva,  non  ostandovi  alcuna  ragione  di  ordine
costituzionale, la richiesta di  referendum  deve  essere  dichiarata
ammissibile.