IL TRIBUNALE MILITARE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel procedimento penale
  n. 252/1996  a  carico  di  Pes  Elvi',  nato  il 7 ottobre 1964 ad
  Augsburg  (D),  imputato del reato di cui agli artt. 148 n. 2 e 154
  n. 1  c.p.m.p.  perche',  il 14 luglio 1992, condannato dal T.M. di
  Cagliari  per  un  precedente  reato di assenza, non si presentava,
  senza  giusto  motivo,  al  proprio  reparto  o  ad altra autorita'
  militare, rimanendo assente per oltre sei mesi consecutivi e sino a
  tutt'oggi.

                           Fatto e diritto

    Al  termine delle indagini preliminari il p.m. chiedeva il rinvio
  a giudizio di Pes Elvi' per il reato di cui in rubrica.
    All'udienza  preliminare dell'11 giugno 1997 il p.m. chiedeva che
  fosse    solleva    questione    di   legittimita'   costituzionale
  dell'art. 148  c.p.m.p.,  in  relazione  all'art. 8, terzo e quarto
  comma,  legge  15  dicembre  1972,  n. 772,  per  violazione  degli
  artt. 3,  25  e  27  della  Costituzione,  nella  parte  in cui non
  escludeva  la  possibilita' di piu' di una condanna per il militare
  che fosse stato gia' condannato a pena di durata uguale al servizio
  ancora da svolgere.
    Analoga  eccezione  veniva  presentata dalla difesa dell'imputato
  con  riferimento  alla  violazione degli artt. 3, 21, 25 e 27 della
  Costituzione.
    Si   osservava,   innanzitutto,   che,   secondo  un  consolidato
  orientamento giurisprudenziale costituente diritto vivente, i reati
  di  assenza  dal  servizio,  quale quello di diserzione, sono reati
  permanenti per i quali, una volta intervenuta la condanna, viene in
  rilievo  una  nuova contestazione relativa al reato commesso con la
  successiva ed autonoma condotta.
    L'imputato avrebbe dovuto allora essere sottoposto a successive e
  sempre piu' rigorose condanne fino al momento del congedo assoluto,
  cioe'   fino   al   raggiungimento   da   parte  dell'imputato  del
  quarantacinquesimo  anno  di eta'. Si verrebbe, cosi', a realizzare
  il  fenomeno  della cd. "spirale delle condanne" per un unico fatto
  criminoso.
    Tuttavia,  sul  punto, la Corte costituzionale, pronunciandosi in
  riferimento  al  reato  di  rifiuto  del servizio militare previsto
  dall'art. 8, legge n. 772/1972, intendeva proprio evitare l'effetto
  "perverso"  del  susseguirsi  delle  condanne  penali  in quanto in
  contrasto  con  i  valori ed i fini espressi dal combinato disposto
  degli  artt. 3  e 27, comma 3 della Costituzione (v. sentenza Corte
  costituzionale  n. 343/1993), osservando che "l'iincriminazione del
  rifiuto  totale di adempiere l'obbligo di leva, se deve condurre ad
  un sacrificio della liberta' personale, non puo' tuttavia estendere
  questo sacrificio al punto da sottoporre colui che abbia commesso i
  relativi  reati  ad  una  serie  di  condanne  penali cosi' lunga e
  pesante  da  poterne distruggere la sua intima personalita' umana e
  la   speranza  di  una  vita  normale"  (v.  anche  sentenza  Corte
  costituzionale n. 467/1991).
    Si  rilevava anche la particolare situazione normativa che si era
  venuta  a determinare a seguito di successive modifiche del sistema
  regolante   i  reati  di  assenza.  In  primis,  vi  era  la  norma
  dell'art. 377  c.p.m.p.  (caducata  a seguito dell'intervento della
  Corte  costituzionale con sentenza n. 469 del 22 ottobre 1990), che
  vietava  il  giudizio  in contumacia per i reati di diserzione e di
  mancanza  alla  chiamata,  salvo che ne fosse cessata la permanenza
  cosicche' veniva impedita concretamente l'ipotesi di "spirale delle
  condanne".
    Tuttavia, i militari piu' ostinati che omettevano di rientrare al
  reparto  o  di ripresentarsi alle armi autoesentandosi di fatto dal
  servizio  acquisivano  un  ingiustificabile  privilegio  rispetto a
  coloro  che  si  rendevano  nuovamente  disponibili a riprendere il
  servizio.
    Caduta  anche  la  norma  dell'art. 308  c.p.m.p.  che consentiva
  l'arresto  in  flagranza  per  tutti  i reati militari (v. sentenza
  Corte  costituzionale  15  novembre 1989, n. 503) ed in mancanza di
  una  razionalizzazione del sistema si era creata una situazione che
  comportava   il  perpetuarsi  di  condanne  per  fatti  di  assenza
  ontologicamente    unitari,    tanto    che    la   giurisprudenza,
  riconoscendone  il  collegamento,  li  ha  spesso  unificati con il
  vincolo della continuazione.
    In  tale  contesto  interveniva  poi la sentenza n. 43/1997 della
  Corte  medesima  che,  esaminando l'art. 8, legge n. 772/1972 nella
  parte  in  cui consente la ripetuta sottoponibilita' a procedimento
  penale  del  medesimo  soggetto  gia'  condannato  per  i fatti ivi
  previsti,  ne  affermava  l'illegittimita'  costituzionale  proprio
  laddove non era esclusa la possibilita' di piu' di una condanna per
  il  reato di chi rifiutava il servizio militare di leva in tempo di
  pace,  prima  di  assumerlo,  adducendo i motivi di cui all'art. 1,
  legge citata.
    Vi   era  ancora  da  aggiungere  che,  con  altre  pronunce,  la
  n. 409/1989,  e  la  n. 343/1993,  la  Corte  costituzionale  aveva
  affermato   l'identita'  dell'interesse  leso  nelle  due  distinte
  ipotesi di reato, quella prevista dalla normativa sull'obiezione di
  coscienza  e quella relativa ai reati di assenza dal servizio. Cio'
  aveva  determinato  che  la  condanna alla pena della reclusione in
  misura  complessivamente non inferiore al servizio di leva nel caso
  di  diserzione,  comportasse necessariamente l'esonero dal servizio
  militare,  al  pari  di quanto e' previsto per colui che rifiuta il
  servizio  militare  di  leva  per i motivi di cui all'art. 1, legge
  n. 772/1972.
    A  riguardo  la Corte costituzionale aveva sostenuto che non puo'
  essere  percepita  alcuna  differenza  tra  colui  che  rifiuta  il
  servizio  militare di leva adducendo, magari in modo pretestuoso, i
  motivi  di  cui  all'art. 8,  comma 1, legge n. 772/1972 e colui il
  quale  rifiuta  il  servizio  militare di leva senza addurre motivo
  alcuno o adducendone di diversi (come avviene nel caso del reato di
  cui all'art. 148 c.p.m.p.).
    Questo  giudice  reputava  fondato il dubbio di costituzionalita'
  sollevato  dalle  parti  in  riferimento  all'art. 148 c.p.m.p., in
  relazione  all'art. 8,  secondo  e  terzo comma, legge n. 772/1972,
  nella  parte in cui non si escludeva la possibilita' di piu' di una
  condanna  una  volta  che il militare fosse gia' stato condannato a
  pena pari al servizio ancora da svolgere.
    Appariva,  infatti,  leso  il  principio  di  eguaglianza  di cui
  all'art. 8  della  Costituzione, poiche' al militare condannato per
  il   reato  di  cui  all'art. 148,  c.p.m.p.  veniva  riservato  un
  trattamento  ben  deteriore  rispetto  a  chi rifiutava il servizio
  militare, punito ai sensi dell'art. 8, legge n. 772/1972.
    Nella  prima  ipotesi  il  militare  poteva  essere punito per un
  numero  indefinito di volte ed anche l'eventuale riconoscimento del
  vincolo   della   continuazione  tra  le  condanne  successivamente
  sottoposte  a  processo  poteva solo attenuare, ma non annullare le
  conseguenze  del  meccanismo  delle  condanne  a catena. Mentre nel
  secondo  caso,  l'obiettore di coscienza veniva punito con un'unica
  condanna.
    La  notevole  diversita' di trattamento penale tra le due ipotesi
  in considerazione rilevava sotto il profilo della proporzionalita',
  insita  nel principio di uguaglianza (v. sentenza Corte costituzone
  n. 163/1993),  quale  regola implicita che deve essere valutata "in
  relazione  agli effetti pratici prodotti o producibili nei concreti
  rapporti della vita".
    Anche   l'art. 27,   terzo   comma  della  Costituzione  appariva
  vulnerato   da   detto   sistema   normativo,   poiche'  una  serie
  indeterminata di condanne per un fatto sostanzialmente unico veniva
  a  ledere  il  senso di umanita' delle pene, tendendo, invece, alla
  coartazione morale della persona.
    Inoltre,  non  era ravvisabile alcuna finalita' rieducativa nella
  "prova  di  forza"  creatasi  tra  la volonta' dello Stato e quella
  dell'individuo, le cui azioni finirebbero con l'essere guidate solo
  dal  timore  di  riportare  una molteplicita' di condanne a proprio
  carico.
    Si  trasmettevano,  quindi,  gli  atti alla Corte costituzionale,
  affinche'   potesse   decidere   la   questione   di   legittimita'
  costituzionale  ivi  sollevata  e conseguentemente si sospendeva il
  procedimento in corso.
    Con  ordinanza  n. 102, pronunciata dalla Corte costituzionale il
  22  marzo 1999, veniva disposta la restituzione degli atti a questo
  Ufficio in considerazione del mutamento di disciplina in materia di
  obiezione  di  coscienza  intervenuto  con  la legge 8 Luglio 1998,
  n. 230.
    Nella  successiva  udienza  preliminare del 29 settembre 1999, il
  p.m.   chiedeva  che  venisse  sollevata  nuovamente  questione  di
  legittimita'   costituzionale   per  i  motivi  sopra  evidenziati,
  ritenendo   che  la  legge  n. 230/1998  non  avesse  eliminato  la
  discrasia  normativa  gia'  rilevata  sotto  la vigenza della legge
  n. 772/1972.
    La difesa dell'imputato si associava all'eccezione presentata dal
  p.m.
    Questo  giudice  osserva  che non vi e' dubbio che poiche' con la
  legge  citata (a mente dell'art. 23) si e', da un lato, abrogata la
  legge   n. 772/1972   e,  dall'altro,  riformulata  per  intero  la
  normativa  riguardante l'obiezione di coscienza, si debba procedere
  ad  una  nuova  valutazione  della  questione,  non  potendosi piu'
  assumere come tertium comparationis l'art. 8, legge n. 772/1972.
    Quest'ultimo  e'  stato, infatti, sostituito dall'art 14, legge 8
  luglio  1998,  n. 230,  il  quale  in  piu' parti ripete il dettato
  normativo  contenuto  nel  previgente  art. 8,  legge  n. 772/1972,
  prevedendo,  in  particolare, per quanto qui interessa, al comma 5,
  che  "coloro  che  adducendo  motivi  diversi  da  quelli  indicati
  nell'art. 1  o  senza  addurre motivo alcuno, rifiutano totalmente,
  prima  o  dopo averlo assunto, la prestazione del servizio militare
  di  leva,  sono  esonerati dall'obbligo di prestarlo quando abbiano
  espiato  per  il  suddetto  rifiuto la pena della reclusione per un
  periodo  complessivamente non inferiore alla durata del servizio di
  leva",  al  pari  di quanto indicato all'art. 8, terzo comma, legge
  n. 772/1972.
    Deve rilevarsi, altresi', che, se sotto il profilo sanzionatorio,
  per  le  fattispecie  di  reato  di cui al primo comma e al secondo
  comma  dell'art. 14  legge  citata vi e' perfetta identita' di pena
  con  le  ipotesi  criminose  punite  dall'art. 8, legge n. 772/1972
  (reclusione  da  sei  mesi a due anni), il legislatore, ha, invece,
  operato  un  mutamento  in  ordine  all'individuazione  del giudice
  competente a conoscere di tali reati.
    A  mente  dell'art. 1 4, terzo comma, legge citata, e' il pretore
  del  luogo  nel  quale  deve  essere svolto il servizio civile o il
  servizio  militare  fornito di giurisdizione per il reato di cui al
  primo e secondo comma.
    Deve,  pertanto, ritenersi che la questione sollevata sia tuttora
  rilevante, anche alla stregua della normativa sopravvenuta.
    In  particolare,  come  tertium  comparationis  potra'  assumersi
  l'art. 14,  legge  n. 230/1998, anziche' l'art. 8 legge previgente,
  riproducendo l'art. 14 legge citata per la parte che qui interessa,
  il dettato normativo della legge ormai abrogata.