ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio  per  conflitto  di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto a seguito della delibera del 16 settembre 1998 della Camera dei
deputati  relativa  alla  insindacabilita'  delle  opinioni  espresse
dall'on. Vittorio  Sgarbi  nei confronti del dott. Giancarlo Caselli,
promosso  con atto del tribunale di Roma sez. X penale, notificato il
16 giugno  1999,  depositato  in  cancelleria  il  22  successivo  ed
iscritto al n. 20 del registro conflitti 1999.
    Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  9 novembre  1999  il  giudice
relatore Valerio Onida;
    Udito l'avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati.


                          Ritenuto in fatto

    1. - Il tribunale di Roma, davanti al quale pende un procedimento
penale  a  carico  del  deputato  Vittorio  Sgarbi,  ha promosso, con
ordinanza  emessa  il  18 gennaio  1999,  trasmessa a questa Corte il
22 giugno  1999, conflitto di attribuzioni nei confronti della Camera
dei  deputati  in  relazione  alla  deliberazione  di  detta  Camera,
adottata  il 16 settembre 1998, su conforme proposta della Giunta per
le  autorizzazioni  a  procedere, con la quale si e' dichiarato che i
fatti  per  i  quali  e'  in  corso  il  predetto procedimento penale
concernono  opinioni  espresse  dal deputato nell'esercizio delle sue
funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.
    Il   tribunale   premette   che   l'on. Sgarbi   e'  imputato  di
diffamazione  col mezzo della stampa a danno del magistrato Giancarlo
Caselli,  all'epoca  procuratore della Repubblica presso il tribunale
di   Palermo,   per   averne   offeso   la   reputazione,  anche  con
l'attribuzione  di  fatto  determinato,  affermando, in dichiarazioni
rese  alle  agenzie  giornalistiche  ANSA  ed  AGI  rese pubbliche il
27 aprile 1994, in relazione al procedimento penale nei confronti del
sen. Giulio  Andreotti,  indagato  da  quella  procura,  di aver dato
mandato  ai suoi legali di denunciare il magistrato; che "il processo
Andreotti  e' un processo politico"; ed ancora che avrebbe denunciato
il   Caselli  per  "truffa  aggravata  e  abuso  d'ufficio  per  aver
utilizzato il proprio ruolo per un'azione politica".
    Premette  inoltre  che la relazione della Giunta, nel motivare la
proposta  poi  accolta dalla Camera, aveva rilevato anzitutto che "la
questione  oggetto  delle dichiarazioni dell'on. Sgarbi ha costituito
anche  l'argomento  di  alcune  interrogazioni  parlamentari";  aveva
richiamato  la tesi, sostenuta dal parlamentare in sede di audizione,
secondo  cui  "le sue affermazioni avevano un contenuto eminentemente
politico  e  non  erano intese a diffamare la persona del procuratore
della  Repubblica  di  Palermo",  osservando che tale era stata anche
l'opinione  della  giunta  stessa,  la  quale  aveva  rilevato "che i
suddetti temi sono stati a lungo - e permangono tali anche al momento
attuale  - al centro del dibattito politico e parlamentare, dibattito
in  ordine al quale ogni partito, ogni gruppo e anche, in definitiva,
ogni  singolo  parlamentare  ha  legittimamente  maturato  le proprie
opinioni".
    Cio'  premesso, il tribunale osserva che "la dichiarazione con la
quale  si  attribuisce  ad  una  persona  la commissione di delitti -
accompagnata  dal  preannuncio  dell'esercizio  di  un diritto-dovere
(quello   di   denuncia)  riconosciuto  dall'ordinamento  a  tutti  i
soggetti"  -  sarebbe condotta esulante dall'esercizio delle funzioni
di parlamentare.
    Ne',   secondo   il   tribunale,   varrebbero   in  contrario  le
considerazioni svolte dalla Giunta della Camera: perche' il lancio di
agenzia  non  sarebbe  avvenuto  sulla  base  del  recepimento di una
interrogazione   parlamentare,   bensi'  sulla  scorta  di  una  mera
dichiarazione  resa, non in veste di parlamentare, dall'on. Sgarbi; e
perche' "su uno stesso argomento - benche' oggetto centrale di lungo,
attuale  e  diffuso dibattito parlamentare e politico - possono esser
espresse,   accanto  o  in  contrapposizione  a  legittime  opinioni,
dichiarazioni   astrattamente  o  potenzialmente  lesive  dell'altrui
reputazione".
    Quanto all'affermazione del deputato di non aver inteso diffamare
la  persona  del  magistrato,  il  tribunale  osserva  che  essa  non
riuscirebbe  a  scalfire  la  convinzione,  secondo  cui  una critica
politica  non  potrebbe impunemente "consistere nell'attribuzione, ad
una persona nominativamente indicata, della perpetrazione di delitti,
attribuzione  avvenuta in assenza, secondo l'ipotesi accusatoria, dei
canoni  della  verita'  e della continenza, in grado di scriminare la
condotta diffamatoria".

    2. - Il  conflitto  e'  stato  dichiarato ammissibile, in sede di
delibazione  ai sensi dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge
n. 87 del 1953, con ordinanza di questa Corte n. 238 del 1999; l'atto
introduttivo  e  l'ordinanza  sono stati successivamente, nei termini
assegnati,  notificati  alla  Camera dei deputati e depositati con la
prova dell'avvenuta notifica.

    3. - Si  e'  costituita  la Camera dei deputati, chiedendo in via
principale   che   il   conflitto  sia  dichiarato  irricevibile  per
inidoneita' dell'atto - l'ordinanza emessa dal Tribunale - con cui e'
stato  promosso;  in  subordine, che sia dichiarato che spettava alla
Camera   affermare   l'insindacabilita'   delle   opinioni   espresse
dall'on. Sgarbi.
    La difesa della Camera da' atto della risalente giurisprudenza di
questa Corte che ha considerato ammissibile il conflitto sollevato da
autorita' giudiziaria mediante ordinanza e non gia' mediante ricorso,
ma   prospetta   articolate   argomentazioni   intese   a  dimostrare
l'infondatezza  di  tale  assunto,  invitando  la Corte a rivedere il
proprio indirizzo sul punto.
    Pur  ammettendo che l'ordinanza del tribunale di Roma presenta un
duplice  contenuto,  disponendo  da  una  parte  la  sospensione  del
processo  e  la  trasmissione  degli  atti  a questa Corte, chiedendo
dall'altra  di  dichiarare  che  non  spetta alla Camera dei deputati
ritenere   coperte   da   insindacabilita'   le   opinioni   espresse
dall'on. Sgarbi, la difesa della parte sostiene la infungibilita' del
ricorso  e  dell'ordinanza.  Quest'ultima  sarebbe  un  provvedimento
giurisdizionale, compiuto, ai sensi dell'art. 101, primo comma, della
Costituzione,  "in  nome del popolo italiano", e soggetto all'obbligo
di  motivazione di cui all'art. 111, primo comma, della Costituzione.
Il  ricorso  invece e' atto di parte, che non deve essere motivato ma
deve  contenere  l'esposizione  sommaria delle ragioni di conflitto e
l'indicazione  delle norme costituzionali che regolano la materia, ai
sensi   dell'art. 26   delle  norme  integrative.  Inoltre  la  forma
dell'ordinanza,  che  e'  provvedimento  giurisdizionale,  renderebbe
difficile  applicare  la normativa sulla rinuncia al ricorso e la sua
accettazione;  e  sarebbe  inidonea  a  formalizzare  il rapporto fra
l'organo   collegiale   e  il  suo  presidente,  cui  spetterebbe  la
legittimazione  processuale.  Il  tribunale  avrebbe  sovrapposto  la
logica del giudizio costituzionale incidentale a quella del conflitto
di  attribuzioni,  come  sarebbe  dimostrato anche dalla trasmissione
alla Corte degli atti del processo, che invece, essendo documenti del
ricorrente,  dovrebbero essere depositati presso la Corte, nel numero
di  copie  prescritto dall'art. 6 delle norme integrative. Tale norma
verrebbe  invece,  secondo la prassi attuale, aggirata dall'autorita'
giurisdizionale, con violazione del principio di parita' fra le parti
del giudizio.
    D'altra parte, secondo la difesa della Camera, se fosse possibile
scindere  le  due  parti dell'ordinanza, allora dovrebbe distinguersi
fra  ordinanza,  relativa al giudizio pendente, e ricorso; e verrebbe
meno    l'argomento,    addotto    a   giustificazione   dell'impiego
dell'ordinanza, della tipicita' dei provvedimenti dei giudici; l'atto
di  promozione  del conflitto sarebbe esercizio del diritto di difesa
in  giudizio,  e  dunque  sarebbe  tipico,  ma non in quanto atto del
giudice,  bensi'  come  atto di parte. Non sarebbe costituzionalmente
giustificata  la  diversita'  di  trattamento  dei conflitti promossi
dall'autorita'  giudiziaria  rispetto  a  quelli  promossi  da  altri
poteri.
    Ne'  potrebbe  farsi  leva sul principio di economia processuale,
perche'  il  ricorso  non e' un atto del processo, ma atto di impulso
del  diverso giudizio davanti alla Corte; e quanto a quest'ultimo, le
esigenze  di  economia  processuale  non  dovrebbero  far  aggio  sul
doveroso  rispetto  delle  norme di procedura, cosi' come e' avvenuto
quando  la  Corte  ha  dichiarato improcedibili ricorsi per conflitto
depositati tardivamente, nonostante la possibilita' di riproposizione
dei conflitti medesimi.

    4. - Nel  merito,  la  difesa  della Camera muove dalla tesi, che
qualifica  intermedia, secondo cui la insindacabilita' coprirebbe non
tutta  l'attivita'  politica  svolta dal parlamentare, ma, oltre agli
atti tipici, le opinioni collegate da nesso funzionale con il mandato
parlamentare; e sottolinea il carattere politico della rappresentanza
della  nazione,  nel  senso  che  essa attiene alla generalita' degli
interessi  della  polis,  non predeterminabili a priori, e che devono
essere   apprezzati   in  concreto  sulla  base  di  una  valutazione
schiettamente  politica:  l'attivita' parlamentare, in quanto "libera
nel  fine",  non  avrebbe  contorni  definibili  in astratto. Pur non
dovendosi  confondere  fra la funzione parlamentare e l'attivita' del
singolo parlamentare, pur tuttavia la vastita' dell'ambito funzionale
coperto  dal mandato imporrebbe di negare la riconducibilita' ad esso
delle  sole  attivita'  del  singolo  membro  delle  Camere che siano
manifestamente estranee alla funzione. Questa Corte, il cui controllo
in  questo caso confinerebbe con apprezzamenti di tipo essenzialmente
politico,  non  potrebbe  che  limitarsi  ad  un controllo "esterno",
attinente   alla   manifesta   inattendibilita'  degli  apprezzamenti
compiuti dall'organo autore dell'atto controllato.
    Nella  specie,  ad  avviso  della  Camera,  sussisterebbe  quella
specifica  connessione con atti tipici della funzione che, secondo la
giurisprudenza  di  questa  Corte,  sarebbe  condizione  necessaria e
sufficiente  perche' l'opinione espressa si debba considerare coperta
dalla  garanzia  di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione.
Infatti,  in  primo  luogo,  l'on. Sgarbi avrebbe gia' manifestato il
proprio  dissenso  nei confronti del procedimento penale instaurato a
carico  del sen. Andreotti, prima dei fatti oggi a lui contestati, in
occasione del dibattito al Senato sulla richiesta di autorizzazione a
procedere  nei  confronti  dello stesso sen. Andreotti, cui lo Sgarbi
assisteva  dalla  tribuna  riservata  ai  deputati: nel corso di quel
dibattito  il  suo  dissenso era stato manifestato cosi' fermamente e
vivacemente,  che  il  Presidente  del  Senato  aveva disposto il suo
allontanamento dall'aula, informandone il Presidente della Camera, il
quale,  a  sua  volta,  espresse rammarico per l'impossibilita', allo
stato  dei regolamenti parlamentari, di infliggere all'on. Sgarbi una
sanzione  disciplinare, cosi' implicitamente statuendo che la vicenda
atteneva esclusivamente alla vita interna delle Camere.
    In  secondo  luogo,  sussisterebbe una stretta connessione fra le
dichiarazioni contestate e l'esercizio, da parte dell'on. Sgarbi, del
potere di sindacato ispettivo parlamentare, esplicatosi anzitutto con
la presentazione, un anno prima dei fatti di cui e' giudizio, e cioe'
il  28 aprile 1993, di un'interrogazione in merito all'uso "politico"
dei "pentiti"; e poi con la presentazione, in data 29 aprile 1994, di
due  interrogazioni  al  Ministro  della  giustizia  (di cui la prima
presentata  in  realta'  il  giorno  28, ancorche' registrata il 29),
coincidenti   nella   sostanza   con   le  dichiarazioni  contestate,
risolvendosi  nella imputazione al dott. Caselli dell'accusa di avere
esercitato  l'azione  penale  nei  confronti  del sen. Andreotti "per
motivi   inesistenti   e  infondati",  tali  da  imporre  l'esercizio
dell'azione  disciplinare  nei  confronti  del  magistrato. La difesa
osserva  che, trattandosi di interrogazione rivolta al Ministro della
giustizia,  l'on. Sgarbi faceva riferimento alla sola responsabilita'
disciplinare,  che  il  Ministro  puo'  attivare, e non parlava della
responsabilita'    penale,   evocata   invece   nelle   dichiarazioni
contestate,   ma   che  la  sostanza  delle  critiche  e  delle  loro
conseguenze era identica.
    Non  varrebbe  obiettare  che  le  predette  interrogazioni  sono
successive  rispetto  alle  dichiarazioni,  poiche'  in  realta' esse
sarebbero  contemporanee,  e  nelle dichiarazioni si afferma di avere
gia'  predisposto  le  interrogazioni, mentre il ritardo nel deposito
delle stesse sarebbe meramente accidentale.
    La   vicenda  in  discussione  andrebbe  inoltre  inquadrata  nel
contesto  del  dibattito  politico-parlamentare sul "caso Andreotti",
concernente  un processo di portata storica: dibattito nel cui ambito
si  sono  registrati  interventi  volti  a  censurare  l'operato  dei
magistrati  e  a sottolineare la natura politica del processo: questo
sarebbe anche l'addebito formulato dall'on. Sgarbi.
    La  parte  rileva  infine  che  la  deliberazione della Camera e'
intervenuta nel rispetto delle regole procedurali, dopo che la Giunta
aveva  proceduto in contraddittorio con l'on. Sgarbi, e sulla base di
una  puntuale  illustrazione  del  deputato  che  faceva  funzione di
relatore:   onde   la  Camera  avrebbe  puntualmente  e  precisamente
apprezzato    la    consistenza    politica    delle    dichiarazioni
dell'on. Sgarbi,  indicando  con  precisione  le  ragioni  del  nesso
funzionale  che le legavano all'esercizio del mandato parlamentare, e
dunque   riscontrando   esattamente   l'esistenza   dei   presupposti
dell'insindacabilita'.

    5. - In  una successiva memoria depositata in vista dell'udienza,
la  difesa  della  Camera  ribadisce  anzitutto,  richiamando la piu'
recente  giurisprudenza  di questa Corte, la tesi per cui le opinioni
espresse  dal  parlamentare  extra  moenia  sarebbero assistite dalla
garanzia  costituzionale  dell'insindacabilita'  ove ricorra il nesso
funzionale  con  il  mandato  parlamentare, e ricorda un orientamento
espresso dalla Corte di cassazione, secondo cui il controllo, in sede
di conflitto, sulle deliberazioni parlamentari sarebbe assimilabile a
quello   sull'eccesso  di  potere,  e  le  opinioni  espresse  da  un
parlamentare   sarebbero   insindacabili   anche  solo  quando  siano
"plausibilmente ricollegabili" alla sua funzione.
    La  stessa  Camera,  nella  specie,  avrebbe  motivato la propria
deliberazione  non in ragione di una presunta "copertura" generale di
qualunque  attivita'  politica,  ma  proprio  in  ragione  del  nesso
funzionale    che    impone    il   riconoscimento   della   garanzia
dell'insindacabilita'. Non potrebbe dunque riscontrasi alcun vizio di
procedimento, ne' alcun sintomo di "eccesso di potere".
    In  particolare,  la difesa ribadisce che non vi sarebbe stato da
parte   della   Camera   un  erroneo  apprezzamento  dei  presupposti
dell'insindacabilita',  posto  che  le  dichiarazioni  contestate non
erano  altro  che  la  prosecuzione  extra  moenia  dell'attivita' di
parlamentare.  Quanto alle due piu' recenti interrogazioni presentate
dall'on. Sgarbi,    solo   formalmente   posteriori   rispetto   alle
dichiarazioni,  sarebbe  da  escludere la possibilita' che esse siano
state   presentate  per  legittimare  artificiosamente  a  posteriori
dichiarazioni   altrimenti   non   coperte  da  insindacabilita'.  Le
dichiarazioni   dell'on. Sgarbi   sarebbero   in   realta'  unite  in
inscindibile  nesso  logico,  e quindi funzionale, con i suoi atti di
sindacato ispettivo.


                       Considerato in diritto


    1.  - Il conflitto di attribuzioni promosso dal tribunale di Roma
nei  confronti  della Camera dei deputati - dichiarato ammissibile in
sede  di  delibazione  con  la ordinanza n. 238 del 1999 - investe la
deliberazione  del  16 settembre  1998  con  la quale l'assemblea, su
conforme  proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere, ha
dichiarato  che i fatti per i quali e' in corso, davanti al tribunale
ricorrente,  un  procedimento  penale  a carico del deputato Vittorio
Sgarbi,  per  il reato di diffamazione col mezzo della stampa a danno
del   magistrato   Giancarlo  Caselli,  all'epoca  procuratore  della
Repubblica  presso  il  tribunale  di  Palermo,  concernono  opinioni
espresse  da  quel parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni, ai
sensi del primo comma dell'articolo 68 della Costituzione.
    Con  dichiarazioni  rese  a  due  agenzie  giornalistiche, che le
diffondevano il 27 aprile 1994, il deputato Sgarbi, secondo l'accusa,
avrebbe  offeso, anche con l'attribuzione di un fatto determinato, la
reputazione  del  magistrato affermando, in relazione al procedimento
penale  nei confronti del sen. Andreotti indagato dalla Procura della
Repubblica  di  Palermo,  che  "il  processo Andreotti e' un processo
politico";  e  annunciando  di  aver  dato  mandato ai suoi legali di
denunciare   il  magistrato,  capo  di  detta  procura,  per  "truffa
aggravata e abuso di ufficio per aver utilizzato il proprio ruolo per
una azione politica".
    La  Giunta  per  le  autorizzazioni  a procedere della Camera dei
deputati,  nella  relazione  che  accompagnava  la  proposta  accolta
dall'assemblea,    rilevava   che   "la   questione   oggetto   delle
dichiarazioni  dell'onorevole  Sgarbi ha costituito anche l'argomento
di  alcune  interrogazioni  parlamentari";  esprimeva l'opinione che,
come  fatto  presente  dal  deputato,  le sue affermazioni avevano un
contenuto  eminentemente  politico  e non erano intese a diffamare la
persona  del procuratore della Repubblica di Palermo; rilevava che "i
suddetti temi sono stati a lungo - e permangono tali anche al momento
attuale  - al centro del dibattito politico e parlamentare, dibattito
in  ordine al quale ogni partito, ogni gruppo e anche, in definitiva,
ogni  singolo  parlamentare  ha  legittimamente  maturato  le proprie
opinioni".
    Il   tribunale   ricorrente   ritiene   che  la  Camera,  con  la
dichiarazione  di insindacabilita', abbia illegittimamente esercitato
il  proprio  potere,  perche'  avrebbe  arbitrariamente  valutato  il
presupposto  del collegamento delle opinioni espresse con la funzione
parlamentare: infatti, ad avviso del ricorrente, la dichiarazione con
la  quale  si  attribuisce  ad una persona la commissione di delitti,
accompagnata  dal  preannuncio  dell'esercizio  del diritto-dovere di
denuncia,  riconosciuto  dall'ordinamento a tutti i soggetti, sarebbe
condotta esulante dall'esercizio della funzione di parlamentare.

    2. - L'eccezione di irricevibilita' del conflitto per inidoneita'
dell'atto  introduttivo,  sollevata  dalla  difesa  della  Camera dei
deputati, non puo' essere accolta.
    E'  ben vero che nel conflitto di attribuzioni - a differenza che
nella  questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata  in via
incidentale   -   il   giudice,   quale   titolare   della   funzione
giurisdizionale,  si fa promotore del giudizio come parte ricorrente,
in  vista  della  tutela  di  un  interesse potenzialmente fornito di
protezione  costituzionale;  e  dunque l'atto introduttivo e' un atto
del  giudizio  costituzionale,  ne assume i contenuti e le forme e ne
segue  le  regole  procedurali.  Ma  da  cio'  non  si puo' trarre la
conclusione  della  irricevibilita'  del presente conflitto in quanto
promosso  con ordinanza. Quella del tribunale di Roma, infatti, al di
la'  del  nomen  juris  possiede  i  requisiti necessari di un valido
ricorso,  come  definiti  dall'art. 37  della  legge n. 87 del 1953 e
dall'art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale:  vi  e'  l'identificazione  del  soggetto  ricorrente
(l'organo  giudiziario  procedente)  e  dell'atto  da  cui si afferma
discendere la lamentata lesione di attribuzioni ad esso spettanti (la
deliberazione  della  Camera dei deputati); vi e' l'espressione della
volonta'  di  promuovere il conflitto e la richiesta di una pronuncia
della  Corte  che  dichiari  non  spettare alla Camera la valutazione
contenuta  nella deliberazione impugnata, e che annulli quest'ultima;
vi  e'  l'indicazione  delle  "ragioni  del conflitto" e delle "norme
costituzionali  che  regolano  la materia", nonche' la sottoscrizione
del  soggetto  ricorrente,  nella persona del Presidente e dei membri
del  collegio  giudicante.  L'atto  e'  pervenuto alla cancelleria di
questa  Corte  in  forma che puo' assimilarsi al "deposito" di cui al
citato art. 26 delle norme integrative, ed e' stato, dopo l'ordinanza
di  ammissibilita',  regolarmente  notificato a cura del ricorrente e
depositato con la prova dell'avvenuta notifica.
    Tanto basta perche' si debba procedere all'esame del merito.

    3.  -  Il  ricorso  merita  accoglimento  nei  limiti  di seguito
precisati.
    Questa  Corte,  ai  fini  della  risoluzione  del  conflitto,  e'
chiamata  a  decidere  se  le  dichiarazioni  dell'on. Sgarbi possano
dirsi,  ed  eventualmente  in quali limiti, rese nell'esercizio delle
funzioni  parlamentari.  Esula  quindi  dal  compito  della Corte, la
risposta  al  quesito  se le dichiarazioni in questione integrino gli
estremi del reato ascritto al deputato, o non concretino piuttosto la
manifestazione  del diritto di critica politica, di cui egli, al pari
di  qualsiasi  altro soggetto, fruisce, e che certamente comprende il
diritto   di   critica  anche  nei  confronti  della  magistratura  e
dell'operato   di   suoi   membri:   diritto  a  sua  volta  tutelato
dall'art. 21  della  Costituzione.  A  questa  domanda  e' chiamato a
rispondere   il   giudice   del  processo  penale,  al  quale  spetta
pronunciarsi   in   concreto  sul  rapporto  fra  diritto  di  libera
manifestazione  del  pensiero,  in  particolare  in campo politico, e
diritto all'onore e alla reputazione del soggetto che si ritenga leso
dall'opinione espressa.
    Il  giudizio  della  Corte  verte,  invece,  sulla  tutela  delle
rispettive   sfere   di  attribuzioni,  ed  investe  la  controversia
sull'applicazione  dell'art. 68,  primo  comma,  della  Costituzione,
originata  dal  contrasto  tra  la  valutazione della Camera e quella
dell'autorita' giurisdizionale procedente.
    A tal fine, la Corte non puo' limitarsi a verificare la validita'
o la congruita' delle motivazioni - ove siano espresse - con le quali
la   Camera   di   appartenenza  del  parlamentare  abbia  dichiarato
insindacabile  una  determinata  opinione.  Il  giudizio  in  sede di
conflitto   fra  poteri  non  si  atteggia  a  giudizio  sindacatorio
(assimilabile a quello del giudice amministrativo chiamato a valutare
un  atto  cui  si  imputi  il  vizio  di eccesso di potere) su di una
determinazione discrezionale dell'assemblea politica. In questo senso
va  precisato  e  in  parte corretto quanto affermato nella pregressa
giurisprudenza, circa i caratteri del controllo di questa Corte sulle
deliberazioni   di   insindacabilita'  adottate  dalle  Camere  (cfr.
sentenza  n. 265  del  1997):  la  Corte,  chiamata  a  svolgere,  in
posizione  di  terzieta',  una  funzione  di  garanzia,  da  un  lato
dell'autonomia   della   Camera  di  appartenenza  del  parlamentare,
dall'altro     della    sfera    di    attribuzione    dell'autorita'
giurisdizionale,  non  puo'  verificare  la  correttezza,  sul  piano
costituzionale, di una pronuncia di insindacabilita' senza verificare
se, nella specie, l'insindacabilita' sussista, cioe' se l'opinione di
cui  si  discute  sia  stata  espressa  nell'esercizio delle funzioni
parlamentari, alla luce della nozione di tale esercizio che si desume
dalla Costituzione (cfr. sentenza in pari data, n. 11 del 2000).

    4.  -  Questa  Corte  ha  gia'  piu'  volte  sottolineato  che la
prerogativa  di  cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione non
copre  tutte  le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento
della  sua  attivita'  politica,  ma  solo  quelle  legate  da "nesso
funzionale"  con le attivita' svolte "nella qualita'" di membro delle
Camere  (sentenze  n. 375  del 1997, n. 289 del 1998, n. 329 e n. 417
del  1999).  Si  tratta  ora  di  precisare, rispetto alla precedente
giurisprudenza della Corte ed anche in vista di esigenze di certezza,
quando ricorra tale nesso funzionale.
    E'  pacifico  che  costituiscono opinioni espresse nell'esercizio
della funzione quelle manifestate nel corso dei lavori della Camera e
dei suoi vari organi, in occasione dello svolgimento di una qualsiasi
fra  le  funzioni svolte dalla Camera medesima, ovvero manifestate in
atti,  anche  individuali, costituenti estrinsecazione delle facolta'
proprie del parlamentare in quanto membro dell'assemblea.
    Invece  l'attivita'  politica svolta dal parlamentare al di fuori
di  questo  ambito  non  puo'  dirsi  di  per  se' esplicazione della
funzione  parlamentare  nel senso preciso cui si riferisce l'art. 68,
primo comma, della Costituzione.
    Nel  normale  svolgimento  della vita democratica e del dibattito
politico, le opinioni che il parlamentare esprima fuori dai compiti e
dalle   attivita'  propri  delle  assemblee  rappresentano  piuttosto
esercizio  della liberta' di espressione comune a tutti i consociati:
ad  esse  dunque non puo' estendersi, senza snaturarla, una immunita'
che  la  Costituzione  ha  voluto, in deroga al generale principio di
legalita'  e di giustiziabilita' dei diritti, riservare alle opinioni
espresse nell'esercizio delle funzioni.
    La linea di confine fra la tutela dell'autonomia e della liberta'
delle  Camere,  e, a tal fine, della liberta' di espressione dei loro
membri,  da  un  lato,  e  la  tutela  dei diritti e degli interessi,
costituzionalmente    protetti,    suscettibili    di   essere   lesi
dall'espressione  di  opinioni,  dall'altro  lato,  e'  fissata dalla
Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell'ambito della
prerogativa.   Senza   questa   delimitazione,  l'applicazione  della
prerogativa  la  trasformerebbe  in  un  privilegio  personale  (cfr.
sentenza  n. 375 del 1997), finendo per conferire ai parlamentari una
sorta  di  statuto  personale di favore quanto all'ambito e ai limiti
della  loro  liberta'  di  manifestazione del pensiero: con possibili
distorsioni  anche  del  principio  di  eguaglianza  e  di parita' di
opportunita' fra cittadini nella dialettica politica.
    Ne'  si  puo' accettare, senza vanificare tale delimitazione, una
definizione  della  "funzione"  del  parlamentare  cosi'  generica da
ricomprendervi  l'attivita'  politica  che  egli  svolga in qualsiasi
sede,  e  nella  quale  la  sua  qualita'  di membro delle Camere sia
irrilevante.  Nel  linguaggio  e  nel  sistema della Costituzione, le
"funzioni"  riferite agli organi non indicano generiche finalita', ma
riguardano ambiti e modi giuridicamente definiti: e questo vale anche
per  la  funzione  parlamentare, ancorche' essa si connoti per il suo
carattere  non "specializzato" (cfr. sentenze n. 148 del 1983; n. 375
del 1997).

    5.  -  Discende  da quanto osservato che la semplice comunanza di
argomento  fra  la dichiarazione che si pretende lesiva e le opinioni
espresse  dal  deputato  o dal senatore in sede parlamentare non puo'
bastare  a  fondare l'estensione alla prima della immunita' che copre
le  seconde.  Tanto  meno puo' bastare a tal fine la ricorrenza di un
contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca.
Siffatto  tipo di collegamenti non puo' valere di per se' a conferire
carattere  di attivita' parlamentare a manifestazioni di opinioni che
siano   oggettivamente   ad  essa  estranee.  Sarebbe,  oltre  tutto,
contraddittorio  da un lato negare - come e' inevitabile negare - che
di  per  se'  l'espressione  di  opinioni  nelle  piu'  diverse  sedi
pubbliche   costituisca   esercizio   di   funzione  parlamentare,  e
dall'altro  lato  ammettere che essa invece acquisti tale carattere e
valore in forza di generici collegamenti contenutistici con attivita'
parlamentari svolte dallo stesso membro delle Camere.
    In   questo   senso   va  precisato  il  significato  del  "nesso
funzionale"    che    deve    riscontrarsi,    per   poter   ritenere
l'insindacabilita',  tra la dichiarazione e l'attivita' parlamentare.
Non  cioe'  come semplice collegamento di argomento o di contesto fra
attivita'  parlamentare  e  dichiarazione,  ma come identificabilita'
della   dichiarazione   stessa   quale   espressione   di   attivita'
parlamentare (cfr. sentenza, in pari data, n. 11 del 2000).

    6.  -  Nella  specie qui in esame si tratta di dichiarazioni rese
dal  deputato a due agenzie giornalistiche, evidentemente al di fuori
dell'esercizio    di   funzioni   parlamentari.   La   considerazione
dell'intento politico e non diffamatorio delle dichiarazioni, e della
collocazione  del  tema  trattato  al centro del dibattito politico e
parlamentare  -  cioe'  di  due  degli argomenti addotti dalla Giunta
della  Camera  a fondamento della dichiarazione di insindacabilita' -
resta estranea all'oggetto del presente giudizio, attenendo piuttosto
alla  verifica  della  compatibilita'  della  opinione espressa con i
limiti del diritto di critica politica.
    Vero  e'  invece,  come  pure  ricordato  dalla  Giunta,  che "la
questione   oggetto  delle  dichiarazioni  dell'onorevole  Sgarbi  ha
costituito  anche l'argomento di alcune interrogazioni parlamentari".
Ma,  per  quanto si e' detto sopra, non basta il mero collegamento di
argomento  con  atti  di  sindacato  ispettivo;  tanto  meno basta il
richiamo,  effettuato  dalla difesa della Camera, alla manifestazione
di dissenso del deputato, espressa in Senato dove egli assisteva alla
seduta,  circa il processo intentato a carico del sen. Andreotti e la
relativa  richiesta  di  autorizzazione  a procedere della procura di
Palermo, sottoposta in quella circostanza al Senato.
    Le dichiarazioni potrebbero dunque essere coperte dalla immunita'
solo   in   quanto   risultassero   sostanzialmente  riproduttive  di
un'opinione   espressa   in  sede  parlamentare.  Infatti  l'opinione
espressa  nell'esercizio  della funzione non e' protetta da immunita'
solo  nell'occasione  specifica  in cui viene manifestata nell'ambito
parlamentare,  ricadendo al di fuori della sfera della prerogativa se
venga  riprodotta in sede diversa. L'immunita' riguarda non gia' solo
l'occasione specifica in cui le opinioni sono manifestate nell'ambito
parlamentare,  ma  il  contenuto storico di esse, anche quando ne sia
realizzata  la diffusione pubblica, in ogni sede e con ogni mezzo. La
pubblicita',  infatti,  e  anzi  la  naturale destinazione, per cosi'
dire,   alla   collettivita'   dei  rappresentati,  che  caratterizza
normalmente  le  attivita'  e  gli  atti  del Parlamento, proprio per
assicurarne  la  funzione  di  sede  massima  della libera dialettica
politica,  comporta  che l'immunita' si estenda a tutte le altre sedi
ed   occasioni  in  cui  l'opinione  venga  riprodotta  al  di  fuori
dell'ambito parlamentare.
    Ma  l'immunita'  e'  limitata a quel contenuto storico: e dunque,
nel  caso  di  riproduzione  all'esterno  della sede parlamentare, e'
necessario,  per  ritenere  che  sussista  l'insindacabilita', che si
riscontri  la  identita'  sostanziale  di  contenuto  fra  l'opinione
espressa  in  sede  parlamentare  e  quella  manifestata  nella  sede
"esterna".
    Cio' che si richiede, ovviamente, non e' una puntuale coincidenza
testuale, ma una sostanziale corrispondenza di contenuti.

    7. - Nella specie, non puo' aver rilievo il richiamo - pure fatto
dalla difesa della Camera - alla interrogazione n. 3/00937 presentata
dall'on. Sgarbi   il  28 aprile  1993,  cioe'  un  anno  prima  delle
dichiarazioni  contestate, in quanto tale interrogazione verteva solo
sul  cosiddetto  "uso  politico  dei  pentiti"  e  sul  "pericolo  di
inchieste giudiziarie pilotate attraverso i pentiti", essendo volta a
conoscere  le  iniziative del Governo per far si' che il fenomeno del
"pentitismo"  "non  si  presti  ad  essere  gestito  e  politicamente
utilizzato in modo disinvolto per interessi di parte". L'oggetto e il
contenuto  di  tale atto ispettivo (ove non compare alcun riferimento
all'attuale  querelante  dott.  Caselli) non hanno dunque piu' che un
generico  collegamento  tematico con il contenuto delle dichiarazioni
in questione.
    Restano le due interrogazioni n. 3/00009 e n. 3/00010, presentate
dall'on. Sgarbi  rispettivamente il 28 e il 29 aprile 1994 (ancorche'
registrate   entrambe   in   data   29 aprile),   cioe'   nei  giorni
immediatamente  successivi  alle  dichiarazioni,  nelle  quali  ci si
riferiva appunto ad una interrogazione. Puo' convenirsi con la difesa
della  Camera  che,  in questo caso, vi e' sostanziale contestualita'
fra le une e le altre.
    Egualmente  pero'  le dichiarazioni non possono considerarsi come
divulgazione   del  contenuto  delle  interrogazioni,  in  quanto  la
sostanziale corrispondenza di contenuto fra le une e le altre e' solo
parziale.
    La  prima  delle  due  interrogazioni  si riferisce alle presunte
dichiarazioni  di un testimone, che avrebbe smentito un assunto della
procura  di  Palermo,  e  chiede  al Ministro della giustizia "se non
ritenga di disporre accertamenti ispettivi circa la correttezza delle
procedure   giudiziarie  in  questione  ed  eventualmente  promuovere
l'azione  disciplinare  davanti  al  CSM  nei  confronti  del  dottor
Caselli,  che, se quanto esposto in premessa risultasse vero, avrebbe
chiesto l'autorizzazione a procedere contro il senatore Andreotti per
motivi  inesistenti  e  infondati".  Nella  seconda interrogazione si
riferisce  il  contenuto  di  un  articolo pubblicato dal settimanale
Epoca  da  cui  sarebbe  risultato  fra  l'altro che nell'indagine di
Palermo  non erano emerse prove concrete a carico del sen. Andreotti,
si  chiede se risulti al Governo che quanto riportato dal settimanale
risponda  al  vero,  e si chiede al Ministro "se non ritenga, in caso
affermativo,   di   disporre   accertamenti   ispettivi  ai  fini  di
un'eventuale  promozione  di  un procedimento disciplinare davanti al
CSM".
    Anche   nelle  dichiarazioni  alle  agenzie  il  deputato  faceva
riferimento all'articolo pubblicato da Epoca e alla mancanza di prove
nel  processo Andreotti; nelle interrogazioni non si trova invece ne'
la  testuale affermazione, contenuta nelle dichiarazioni, secondo cui
"il  processo  Andreotti  e' un processo politico", ne' alcun accenno
alla  preannunciata  denuncia  nei  confronti  del  dott. Caselli per
truffa  e  abuso d'ufficio, per avere utilizzato il proprio ruolo per
una  azione  politica: cioe' non si trovano le due affermazioni sulle
quali si basa l'ipotesi accusatoria relativa al reato di diffamazione
contestato  al deputato. E se la prima di esse, relativa al carattere
"politico"  del  processo  di  Palermo,  potrebbe  trovare  una certa
sostanziale  corrispondenza  nell'addebito, peraltro solo ipotizzato,
nella  prima  interrogazione,  di  aver  chiesto  l'autorizzazione  a
procedere  contro  il  senatore  Andreotti  "per motivi inesistenti e
infondati",  la  seconda,  cioe' l'annuncio di una denuncia per reati
determinati,   in   relazione   all'addebito  di  strumentalizzazione
politica  del  ruolo del procuratore, non trova alcuna corrispondenza
sostanziale negli atti ispettivi.
    Ne'  puo'  equivalere  ad essa il riferimento ad eventuali azioni
disciplinari,  una  volta  (nella  prima interrogazione) in relazione
alla  "correttezza  delle  procedure  giudiziarie  in  questione",  e
un'altra  volta  (nella  seconda  interrogazione)  in  via  del tutto
generica.  Non vale osservare che al Ministro, per la sua competenza,
non  si  poteva  che  prospettare  la sola ipotesi di responsabilita'
disciplinare,  e  non  quella  di una responsabilita' penale. Proprio
questo  rilievo  sulla  competenza ministeriale, evocabile ed evocata
nell'interrogazione,   non  fa  che  sottolineare  la  differenza  di
contenuto   fra   gli   atti   ispettivi,  esercizio  della  funzione
parlamentare,  e  le  dichiarazioni  alle  agenzie,  ove  si muove un
addebito  determinato  di  (affermata)  rilevanza  penale:  elemento,
quest'ultimo,  specificamente  posto a base dell'imputazione mossa al
deputato.

    8.   -   Si   deve   dunque   concludere   che  le  dichiarazioni
dell'on. Sgarbi, per la parte priva di sostanziale corrispondenza con
il  contenuto degli atti ispettivi citati, non possono ritenersi rese
nell'esercizio   delle   funzioni   parlamentari,  e  dunque  coperte
dall'immunita'    ai   sensi   dell'art. 68,   primo   comma,   della
Costituzione;  in  relazione  a  tale  parte, dunque, va annullata la
deliberazione di insindacabilita' adottata dalla Camera dei deputati.