IL TRIBUNALE A scioglimento della riserva d'udienza e spirato il termine concesso alla parte il g.e. ha pronunciato la seguente ordinanza, premesso che con atto di pignoramento, attuato nelle forme dell'espropriazione di crediti del debitore verso terzi, il creditore Condominio, piazza Monzoni, 3 di Carrara (Massa Carrara) procedeva all'esecuzione forzata notificando il relativo atto ex art. 543 c.p.c., alla Direzione provinciale del tesoro di Bologna il 5 luglio 1999 ed al debitore Federico Governatori il 12 luglio 1999; Alla prima udienza del 12 novembre 1999 (differita con decreto presidenziale del 16 luglio 1999 rispetto all'udienza individuata dalla parte procedente in sede di citazione a comparire ex art. 543 c.p.c.) il g.e. prendeva atto che, come dichiarato preliminarmente dal terzo e confermato dal cancelliere delegato dal presidente del tribunale di Bologna, l'esecutato Federico Governatori aveva svolto le funzioni di magistrato (presso la pretura di Bologna) ed alla data dell'udienza stessa non era piu' appartenente alla correlativa pubblica amministrazione, per pensionamento intervenuto il 2 ottobre 1999; Dandosi atto da parte del g.e. che in virtu' del principio di cui all'art. 5 c.p.c. la propria competenza va comunque stabilita in ragione dello stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda e con riguardo alla legge in allora vigente, veniva rilevata d'ufficio la questione, sottoposta preliminarmente alle eventuali osservazioni delle parti (perveniva invero successiva memoria del 30 novembre 1999 del creditore procedente), della eventuale incompetenza del g.e. stesso ex art. 30-bis c.p.c.; tale disposizione, infatti, e' entrata in vigore nei termini ordinari e dopo la sua introduzione con l'art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 7 dicembre 1998, n. 286; considerando perfezionato il pignoramento, al piu', al momento dell'esaurimento delle notifiche di cui all'art. 543 c.p.c., cioe' al 12 luglio 1999, la novella codicistica si applicherebbe alla fattispecie; Consegue che, cosi' interpretando "il momento di proposizione della domanda" come equivalente all'atto introduttivo dell'esecuzione mobiliare presso terzi, questo giudice del tribunale di Bologna ravvisa in tale sequenza il riscontro del primo presupposto, di carattere temporale, di cui all'art. 5 c.p.c.; la novita' introdotta poi dal legislatore del 1998 si correla sia alla soppressione del referente della reciprocita' quale modello di individuazione del giudice competente sia all'estensione altresi' al giudizio civile di un nuovo schema designativo precostituente giudici diversi; se e' vero che la legge n. 420/1998 ha infatti, modificando l'art. 11 c.p.p., predeterminato ex novo il giudice naturale del processo penale per il caso in cui sia persona sottoposta ad indagini o imputato o persona offesa o danneggiata un magistrato e nell'eventualita' che la competenza ordinaria si debba, in mancanza, radicare avanti a giudice dello stesso distretto giudiziario (salvo l'ulteriore spostamento per funzioni venute ad esercitare anche nel nuovo distretto), meno agevole e' l'identificazione del presupposto di spostamento di competenza riferito al giudizio civile; per esso la novella ha infatti usato l'espressione "cause in cui sono comunque parti magistrati" e, al secondo comma, evoca la "chiamata in giudizio" quale atto cui riferirsi per determinare un secondo spostamento di competenza; Ritiene questo giudice che la dizione impiegata non possa, allo stato della interpretazione possibile e senza delimitazioni normative quali pur evocate in via ipotetica da recenti arresti degli stessi giudici costituzionali per la legislazione previgente, escludere che anche il processo dell'esecuzione forzata imponga un mutamento di competenza con devoluzione del relativo procedimento, nella vicenda de qua, al tribunale di Ancona in funzione di giudice dell'esecuzione mobiliare (secondo la tabella "A" annessa alla legge n. 420/1998); Non ha pregio invero l'osservazione del creditore procedente circa la dedotta estraneita' dell'art. 30-bis c.p.c. ai casi di incompetenza territoriale non derogabile di cui all'art. 28 c.p.c.: trattasi infatti, quanto a tale seconda disposizione, di disciplina che contempla, tra gli altri, il foro dell'esecuzione forzata che, proprio in base al primo comma dell'art. 38 c.p.c., vincola al rilievo officioso all'inizio del processo, evento verificatosi essendo stata sottoposta la questione alle parti ed anzi essendosi riservato il g.e., dopo il contraddittorio, di esplicare in via definitiva la propria non competenza; contestualmente va dubitato che un'interpretazione siffatta possa dirsi costituzionalmente coerente con un ragionevole assetto regolativo di altri interessi parimenti tutelati nell'ambito dell'esecuzione forzata ed il cui sacrificio sembra derivare da una assoluta prevalenza data al foro derogatorio fissato in via generale ed assoluta dall'art. 11 c.p.p,. cui rinvia l'art. 30-bis c.p.c.; Osserva invero questo g.e. che: a) il legislatore penale, storicamente, per primo ha inteso assicurare l'esigenza generale di estraneita' effettiva ed apparente del magistrato rispetto agli interessi del processo, tutelando, attraverso la previsione di una deroga all'unico foro di cui all'art. 8 c.p.p., uno spostamento dell'attivita' giudiziaria anche distante dal luogo della commissione del reato; essendo invero il processo penale deputato essenzialmente all'accertamento dell'illecito, e' stata ritenuta prevalente sul criterio generale individuativo della competenza per territorio la piu' apprezzabile esigenza di neutralizzare il rischio, cosi' censito dal legislatore, di una qualche influenza proprio sulla genuinita' dell'accertamento del fatto ascritto all'imputato (quando tale sia il magistrato o questo abbia assunto la veste di danneggiato o parte offesa) quale vi potrebbe essere in correlazione ai rapporti sussistenti all'interno dell'organizzazione giudiziaria tra organi e singoli componenti di essi; il prestigio e l'indipendenza della magistratura sono dunque garantiti assicurando in primo luogo che il convincimento giudiziale alla base del processo penale si formi al di fuori del contesto operativo in cui esercita o e' venuto ad esercitare le funzioni il magistrato imputato o parte offesa; b) se tale assetto e' stato piu' volte ritenuto compatibile costituzionalmente con gli artt. 3 e 25 della Costituzione e, soprattutto, non incoerente con la omessa previsione di una regola omologa altresi' per il processo civile (almeno fino alla legge n. 420/1998), cio' e' parso agli stessi giudici costituzionali (ed assai recentemente) il frutto di alcune differenze di fondo tra queste due partizioni dell'attivita' giurisdizionale; si e' infatti osservato (Corte costituzionale 12 marzo 1998, n. 51 e 6 novembre 1998, n. 370) che la pluralita' dei fori sussistente in genere nel processo civile rinvia ad una "molteplicita' di interessi, riguardanti persone e cose, che vengono in considerazione relativamente alle varie liti", esprimendosi la medesima esigenza di imparzialita' e terzieta' del giudice secondo modalita' attuative "non necessariamente identiche a quelle previste per il processo penale"; nel processo civile, anzi, la stessa "formazione del convincimento del giudice" appare orientata da un apprezzabile e determinante "impulso paritario delle parti"; c) di regola, nell'ambito dei processo civile, le esigenze di non condizionamento del giudice sono assolte con la ordinaria previsione degli istituti dell'astensione e della ricusazione ex artt. 51, 52 c.p.c.; quando il legislatore ha ritenuto che, in relazione alla materia dell'accertamento, concorressero altre cautele la cui osservanza non poteva dirsi sicuramente assolta mediante il ricorso ai sub-procedimenti descritti ha fissato la singola deroga con apposita legge; cio' e' avvenuto per i giudizi di responsabilita' connessa ai danni recati dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni, in cui proprio il diverso foro di cui all'art. 11 c.p.p. e' stato prescelto quale necessario dalla legge 13 aprile 1988, n. 117; d) lo stesso tentativo di provocare un allargamento di tale breccia ha trovato, come ricordato sopra, puntuale non accoglimento presso la Consulta che non ha mancato, fino alla stessa prossimita' della legge n. 420/1998, di specificare che "solo il legislatore puo' stabilire, nell'esercizio del suo potere discrezionale, quando ricorra quell'identita' di ratio che imponga l'estensione pura e semplice del criterio di cui all'art. 11 c.p.p. (...) e quando, invece, quella ratio non ricorra affatto o sia realizzabile attraverso la previsione di un foro derogatorio appropriato alla specifica materia. Cosi' da evitare che vengano sacrificati altri interessi e valori costituzionalmente rilevanti, come potrebbe accadere ove, ad esempio, per un'esecuzicne forzata - specie concorsuale - o per una causa divisoria, o per un regolamento di confini, finisse col diventare competente il giudice di un distretto assai lontano dal foro attualmente singulatim previsto nel codice di rito civile, quale sarebbe quello risultante dal nuovo testo dell'art. 11 c.p.p. gia' approvato da uno dei rami del Parlamento" (Corte costituzionale n. 51/1998); tale identita' di ratio e' stata incidentalmente ritenuta compatibile con le previsioni derogatorie dei giudizi di responsabilita' professionale del magistrato ex legge n. 117/1998 (cosi' anche Corte costituzionale n. 370/1998); e) in realta' la dizione usata dal legislatore riferendosi indifferentemente a tutte "le cause in cui i magistrati sono comunque parti" non permette, gia' in via interpretativa, di rinvenire singole partizioni del processo civile nelle quali l'esigenza di radicare il processo presso il foro naturale codicistico sia prevalente rispetto a quella fissata in via generale dall'art. 30-bis c.p.c.; tale osservazione, semmai, puo' maturare un convincimento di dubbio sulla logicita' e ragionevolezza della nuova scelta operata dal legislatore del 1998, ma non sembra permettere al giudice una propria, sicura, ricognizione della natura cosi' speciale di talune materie da giustificare, per come disciplinate in via legislativa anteriore alla legge n. 420/1998, una deroga alla successiva norma che fissa, in via generale, lo spostamento di competenza anche per i giudizi civili in cui sia parte il magistrato; ne' e' possibile, come detto, qualificare come soggetto diverso dalla "parte" il debitore nei procedimenti di esecuzione forzata, semmai riservando tale qualifica al medesimo solo nei giudizi incidentali nascenti eventualmente da esso (ad es. l'opposizione all'esecuzione forzata od agli atti esecutivi o di terzo o le controversie ex art. 512 c.p.c. o la divisione ex artt. 599 e 601 c.p.c.); Puo' convenirsi infatti sulla attenuazione che, nell'espropriazione privata, lo statuto della "parte" tipizzante il processo di cognizione registra, ma proprio l'impiego (in innumerevoli norme: ad es. l'art. 485 c.p.c. che contrappone "parti" ad "interessati", l'art. 495 c.p.c. che impone di decidere sulla conversione dopo aver sentito le parti; gli artt. 530 e 569 c.p.c. che prevedono l'udienza per l'audizione delle parti prima di emanare l'ordinanza di vendita, l'art. 548 c.p.c. che condiziona l'inizio dell'istruzione della causa alla istanza di parte rivolta al g.e. ecc.) ancora di questa dizione implica solo una diversa allocazione delle facolta' connesse al contraddittorio ed ai poteri di controllo della inevitabile scansione che conduce alla realizzazione del compendio pignorato; tale distinzione, invece, non vale ad escludere che essa, gia' per previsione normativa, non possa essere abbracciata da una disciplina, come quella dettata dall'art. 30-bis c.p.c., che appare perentoria nel riferirsi ad ogni causa ed all'essere il magistrato comunque parte nel processo civile (quale, del tutto ovviamente, non puo' non essere considerato anche il processo esecutivo); f) cio' premesso appare a questo g.e. che l'estensione altresi' ai giudizi dell'esecuzione forzata, ed in particolare all'espropriazione presso terzi, non possa essere qualificata, sebbene discendente dall'attuale art. 30-bis c.p.c., disposizione compatibile con gli artt. 3, 24, 25 e 101 della Costituzione; la questione, gia' sollevata dal tribunale di Torino con ord. 26 luglio 1999 (nella Gazzetta Ufficiale del 3 novembre 1999 - 1 serie speciale - n. 44) con riferimento ad un giudizio civile dedotto con riguardo ad obbligazioni di un magistrato non connesse all'esercizio dell'attivita' professionale, trova con tale recentissimo precedente questo punto di contatto: si condivide invero il giudizio di apparente irragionevole necessita' normativa di derogare, rispetto ad ogni altra controversia civile, il principio del giudice naturale precostituito per legge cosi' aggravando le condizioni della difesa (artt. 24 e 25 della Costituzione), nonche' di instaurare una irragionevole disparita' di trattamento rispetto agli altri cittadini (art. 3 della Costituzione); Nella fattispecie, inoltre, la disparita' di trattamento e l'aggravamento delle condizioni di esercizio della difesa concernono in primo luogo il creditore che promuove l'esecuzione forzata; gia' distanziandosi l'oggetto dell'attivita' giurisdizionale da un vero e proprio accertamento in sede contenziosa delle pretese obbligazioni civili (e non derivanti da attivita' professionale) verso il magistrato, l'espropriazione forzata e' processo che, per definizione, presuppone il titolo esecutivo e, con esso, puo' prescindere, pur senza divenire attivita' amministrativa, dal rito ordinario o speciale che contrapponga un terzo al magistrato (e viceversa) nella contestazione in ordine alla affermazione dei diritto di credito; pur tuttavia lo stesso svolgimento ancora processuale dell'esecuzione, l'esercizio dei poteri ablatori del g.e. sui beni dell'esecutato e la finalizzazione satisfattiva degli atti implicano il rispetto, indistintamente, di norme che, nel modo piu' celere ed efficace possibile, consentano al creditore il soddisfacimento della propria pretesa; da questo punto di vista proprio l'inizio dell'espropriazione, in caso di applicazione letterale dell'art. 30-bis c.p.c., altererebbe in modo rilevante il corretto e tempestivo incardinamento del processo; Infatti nell'esecuzione mobiliare (art. 518 c.p.c.) ed immobiliare (art. 557 c.p.c.) l'ufficiale giudiziario deposita in cancelleria l'atto di pignoramento, originando cosi' l'inizio della sequenza degli adempimenti endoprocessuali che, culminando nella nomina del g.e., concorrono ad individuare (confermandola) la competenza dell'ufficio; dovendosi applicare l'art. 30-bis c.p.c. e non volendo immaginare un passaggio sistematico di rilievo officioso dell'incompetenza ex artt. 28 e 38 c.p.c. da parte del g.e., occorrerebbe congegnare, proprio per garantire il fisiologico funzionamento della norma, che gia' con il primo atto del processo (deposito in cancelleria del pignoramento) l'ufficiale giudiziario provveda a concorrere all'esatto incardinamento del medesimo avanti al g.e. per territorio competente; ora, tale eventualita' e' assolutamente improbabile, non derivando (a parte i provvedimenti connessi alla responsabilita' professionale e sempre che il titolo esecutivo lo riporti esplicitamente) dal titolo esecutivo nellageneralita' dei casi la qualita' di magistrato della parte esecutata; ne' puo' dirsi che tale cognizione sia o debba essere presente in capo al creditore del magistrato, tanto piu' che - come nella fattispecie - il debito sia di natura privata, cioe' non professionale (qui obbligazioni condominiali non onorate ed oggetto di condanna monitoria); Va poi ricordato che ne' esiste un pubblico registro dei magistrati paragonabile al P.R.A. o alla conservatoria per i beni immobili, ne' e' configurabile un qualche onere della parte procedente ad escludere o conoscere siffatta qualita' prima di promuovere l'esecuzione forzata; dunque lo spostamento al foro di cui all'art. 11 c.p.p., prospettandosi come successiva ai primi adempimenti (d'ufficio e di parte), realizza un aggravio delle condizioni difensive del creditore ed un costo ulteriore, quantomeno da un punto di vista temporale, circa il realizzo del credito stesso; al contempo, ex artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, pari lesione si configura a carico del debitore magistrato, per il quale si riscontra una situazione deteriore di trattamento rispetto alla sorte del comune debitore dedotto nell'esecuzione forzata, potendo egli apprestare le proprie difese e, comunque, partecipare al processo esercitando le facolta' ivi previste solo a patto di spostarsi in altro distretto, oltre il luogo in cui si trovano i beni aggrediti (nelle esecuzioni mobiliari ed immobiliari) ovvero, come nel caso, oltre la sede in cui si trova il proprio eventuale debitore (in questa vicenda la Direzione provinciale del tesoro); g) la presente procedura, peraltro, esprime una peculiarita', esclusivamente attinente al rito, in quanto ex art. 543 c.p.c. non si ha un atto di ufficiale giudiziario identico al pignoramento su beni, bensi' una doppia notifica (al debitore ed al terzo) e la competenza per territorio e' determinata ex art. 26 c.p.c. in ragione del luogo in cui ha sede appunto il terzo (supposto debitore del debitore); tuttavia la forma di evocazione in giudizio dell'esecutato (citazione a comparire ad udienza fissa) essendo simile a quella che coincide con l'inizio dell'ordinario giudizio di cognizione (salvo il termine, che richiama la dilazione di cui all'art. 501 c.p.c.) potrebbe far ritenere che, almeno per questo tipo di esecuzione forzata, non ricorra il dubbio di irrazionale trattamento prima tratteggiato); In realta', a parte la irragionevolezza di un'eventuale diversa disciplina, quanto alla competenza, a seconda della sola forma dell'atto introduttivo dell'espropriazione forzata, se si applicasse anche all'esecuzione su crediti l'art. 30-bis c.p.c. (come pare a questo giudice) sarebbe inevitabile il riscontro di una propagazione anche al terzo degli effetti di aggravio delle condizioni processuali di esercizio dei propri diritti; il terzo, debitor debitoris, dovrebbe, nella fattispecie, recarsi ad Ancona per dichiarare che il magistrato Federico Governatori e' o e' stato dipendente pubblico ed in quale misura ha eventualmente subito pignoramenti, sequestri o ha disposto cessioni per gli emolumenti che ancora gli spettano; cio' permette di introdurre l'ulteriore dubbio circa la coerenza di siffatta norma, cosi' interpretata, con il principio dell'unitarieta' della giurisdizione che ex art. 101 della Costituzione dovrebbe assicurare pari condizioni di accesso alla tutela giurisdizionale del credito, senza ingiustificati allontanamenti dal foro previsto in via generale per una pronta soddisfazione dello stesso in via di esecuzione forzata e senza irragionevoli discipline singolari attinenti al funzionamento della pubblica amministrazione, ex art. 97 della Costituzione; Va inoltre rilevato che l'intento legislativo, volto ad evitare che il magistrato sia parte di un processo affidato al "collega della porta accanto", rivela, pur nel programmatico presidio del valore della terzieta' del giudice, una manifesta illogicita' allorche' il c.d. costo della lontananza sia sopportato in ogni caso in cui il magistrato esercitata le funzioni all'interno di un'unita' territoriale, il distretto di Corte d'appello, geograficamente assai vasta; all'infuori della responsabilita' di cui alla legge n. 117/1988, l'estensione dell'art. 30-bis c.p.c. ad ogni procedimento civile e, tra questi, altresi' all'esecuzione forzata, in cui il legame del foro competente con il territorio e' del tutto caratterizzante, non pare altrettanto razionale, omettendo di considerare che la presunzione di attenuata imparzialita' altrimenti presente presso tutti i giudici del medesimo distretto non soppesa la peculiare iniziativa delle parti nel processo dell'esecuzione forzata; h) e' dunque l'intera esecuzione forzata (in cui e' possibile, tra l'altro, intervenire ad opera di un terzo, la cui qualita' di magistrato incrementerebbe la doverosa traslazione del foro competente ex art. 11 c.p.p.) che, pianamente sussumibile nell'ampia espressione impiegata dall'art. 30-bis c.p.c., esige un controllo di compatibilita' costituzionale quanto alla competenza di un giudice diverso da quello di cui all'art. 26 c.p.c., apparendo la questione non manifestamente infondata; la questione, nella presente vicenda, si palesa come rilevante, non potendo questo g.e. proseguire nella qualita' di giudice preposto all'esecuzione forzata contro un magistrato, dunque definire il procedimento, se la norma che ne impone la dichiarazione di incompetenza, ravvisata in contrasto con plurime disposizioni costituzionali, non sia stata in via pregiudiziale riscontrata per tale coerenza o meno;