IL TRIBUNALE Letti gli atti e sciogliendo la riserva che precede; Premesso che: con atto di citazione notificato il 27 ottobre 1997 Coronelli Vito e Losuriello Francesca proponevano opposizione avverso d.i. n. 1588/1997 con cui il pretore di Bari li aveva condannati al pagamento, in solido tra loro, nei confronti del Banco Ambrosiano Veneto S.p.a., della somma di L. 40.597.320, di cui L. 845.976 per scoperto di c/c n. 7491/23 e L. 39.751.344 per esposizione complessiva mutuo Ambrofamiglia, oltre interessi al tasso del 14,375% a far data dal 13 marzo 1997, spese, diritti ed onorari della procedura monitoria; nell'atto introduttivo del giudizio eccepivano, tra l'altro, l'indeterminatezza del credito vantato, attesa l'illegittima capitalizzazione degli interessi a debito effettuata dall'istituto bancario opposto. Chiedevano pertanto revocarsi e comunque porre nel nulla l'impugnato d.i., con ogni conseguenza di legge. Con comparsa di costituzione e risposta del 13 gennaio 1998 si costituiva in giudizio il Banco Ambrosiano Veneto S.p.a., chiedendo il rigetto dell'opposizione, in quanto infondata in fatto e diritto, con ulteriore vittoria delle spese di lite; Rilevato che in data 4 ottobre 1999 e' stato pubblicato il d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342, recante modifiche al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, il cui art. 25 da un lato prevede (comma 2) che il CICR stabilisca modalita' e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attivita' bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicita' nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, e sotto altro profilo stabilisce (comma 3) che le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilira' altresi' le modalita' e i tempi dell'adeguamento, prevedendo altresi' che in difetto di adeguamento entro tale termine dette clausole diverranno inefficaci e l'inefficacia potra' essere fatta valere solo dal cliente; Ritenuta d'ufficio la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3-76 Cost., della norma di cui all'art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342 cit., questa essendo chiaramente destinata a trovare applicazione ai fini della risoluzione della controversia sottoposta all'esame di questo giudice, stante: a) l'atto del 17 luglio 1995 con cui Losuriello Francesca si costituiva fidejussore di Coronelli Vito alla concorrenza dell'importo di L. 60.000.000, "per l'adempimento delle obbligazioni verso codesto Banco, dipendenti da operazioni bancarie di qualsiasi natura, gia' consentite o che venissero in seguito consentite al predetto nominativo"; b) la clausola di cui all'art. 3 del contratto di mutuo intercorso in data 10 luglio 1995 tra Coronelli Vito e il Banco Ambrosiano Veneto S.p.a., che prevede l'autorizzazione irrevocabile al detto Banco "ad addebitare sul nostro c/c di cui all'art. 1 (c/c n. 7491/23) sia l'importo delle singole rate alle rispettive scadenze, ... sia l'importo residuo in caso di revoca da parte del Banco, ... compresi gli eventuali interessi anche moratori e quant'altro dovuto al Banco a qualsiasi titolo derivante dal presente finanziamento"; c) la clausola di cui all'art. 7 del contratto di c/c corrispondenza n. 7491/23 intercorso tra Coronelli Vito e il Banco Ambrosiano Veneto S.p.a., che prevede, tra l'altro, che " ... i conti che risultino debitori, anche saltuariamente, vengono invece chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente, ... fermo restando che a fine d'anno, a norma del precedente comma, saranno accreditati gli interessi dovuti dall'azienda di credito e operate le ritenute fiscali di legge"; d) la richiesta di parte opposta, formulata all'udienza del 26 ottobre 1999, di determinazione dello scoperto di c/c n. 7491/23 "alla luce delle disposizioni del d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342"; Ritenutane altresi' la non manifesta infondatezza, per i seguenti M o t i v i L'art. 1, comma 5, legge 24 aprile 1998, n. 128 ha previsto la delega al Governo ad emanare, entro il termine di cui al comma 1 (un anno dall'entrata in vigore di tale legge, non applicandosi al riguardo la proroga di sei mesi di cui all'art. 1, comma 1, legge cit., detta proroga venendo in rilievo unicamente al fine di consentire al Governo l'emanazione dei decreti legislativi volti a dare attuazione alle direttive comprese nell'elenco di cui all'allegato A, e non anche ai fini dell'emanazione di disposizioni integrative e correttive del d.lgs. 1o settembre 1993, n. 385), "disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385 e successive modificazioni, nel rispetto dei principi e criteri direttivi e con l'osservanza della procedura indicati nell'art. 25, legge 19 febbraio 1992, n. 142". Considerato allora che detta legge e' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 7 maggio 1998, entrando cosi' in vigore a far data dal 22 maggio 1998 (art. 73 Cost.), il Governo, nel rispetto della previsione temporale di cui all'art. 1, comma 5, legge n. 128 cit., avrebbe pertanto dovuto emanare le disposizioni integrative e correttive del d.lgs. n. 385/1993 al piu' tardi entro il 22 maggio 1999, ultimo termine utile per l'esercizio del potere delegato. In particolare, il termine previsto dalla legge di delegazione deve ritenersi perentorio, non essendo ammissibile che l'esercizio del detto potere delegato sia prolungabile, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale "ad arbitrio dell'organo cui e' affidato l'esercizio stesso" (Corte costituzionale 19 dicembre 1963, n. 163). Cio' in quanto l'esercizio della potesta' legislativa del Governo costituisce un vulnus al principio di separazione dei poteri cui il nostro ordinamento si ispira, determinando lo spostamento di detta potesta' dall'organo cui essa risulta costituzionalmente attribuita (il Parlamento), ad altro organo, il Governo, titolare invece di funzioni affatto differenti. Ne discende pertanto che, al fine di evitare sconfinamenti del potere esecutivo in settori istituzionalmente riservati alla sfera del legislativo, l'esercizio della potesta' legislativa delegata, di per se' opportuno in rapporto all'esigenza di dettare norme in un settore - regolamentazione del mercato del credito - caratterizzato da alto tasso di tecnicita', non puo' che avvenire entro il termine legislativamente stabilito, determinando allora il decorso di esso l'esaurimento della potestas deliberandi del Governo e la conseguente illegittimita' costituzionale delle norme che, cio' nonostante, egli andasse comunque ad emanare. Tanto premesso, rileva questo giudice che, essendo l'art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342 cit. inserito in un corpus normativo recante invece come data di pubblicazione quella del 4 ottobre 1999, con superamento, quindi, dell'ultimo termine utile (22 maggio 1999) per le modifiche ed integrazioni di cui sopra, esso partecipa della possibile violazione indiretta, ad opera del testo legislativo in cui e' inserito, della norma di cui all'art. 76 Cost., nella parte in cui prevede che il potere delegato deve essere appunto esercitato, tra l'altro, entro un "tempo limitato". Ulteriore profilo di possibile illegittimita' costituzionale della previsione di cui all'art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342 cit., per contrasto con la norma di cui all'art. 76 Cost., attiene alla violazione dei principi e criteri direttivi fissati dal legislatore delegante. Ed invero, l'art. 25, comma 1, legge 19 febbraio 1992, n. 142, contenente i principi direttivi da osservarsi nell'esercizio dell'attivita' delegata, non prevede alcuna delega al Governo ai fini della disciplina delle modalita' di computo degli interessi su interessi. Piu' in particolare, l'art. 25, legge delega n. 142/1992 cit., mentre stabilisce i principi direttivi per l'esercizio dell'attivita' bancaria, all'uopo dettando criteri in tema di raccolta del risparmio (lett. a), art. 25 cit.), di vigilanza sull'attivita' svolta (lett. b), di servizi praticabili dalle aziende di credito (lett. c), di pubblicita' sui servizi offerti (lett. d), non detta tuttavia alcun criterio volto alla disciplina del singolo rapporto negoziale. Dal combinato disposto della dir. n. 89/646 CEE con l'art. 25, legge n. 142/1992 che ne recepisce la portata emerge allora che il legislatore delegante, lungi dal prevedere criteri di disciplina del singolo rapporto negoziale tra il cliente e l'istituto di credito, ha invece inteso unicamente fissare i principi direttivi per la globale disciplina dell'attivita' di raccolta del risparmio e di intermediazione nell'esercizio del credito, nel quale si sostanzia l'attivita' bancaria latu sensu intesa. E che non possa in alcun modo ricondursi alla volonta' del legislatore delegante la scelta della disciplina delle modalita' di computo degli interessi anatocistici e' fatto ulteriormente palese dalla circostanza che trattasi di tematica gia' compiutamente disciplinata dalla previsione di cui all'art. 1283 c.c. il quale, come e' noto, stabilisce condizioni ben precise ai fini dell'operare dell'anatocismo. Senonche', ad onta di tale disposizione codicistica, ed in assenza, in parte qua, di una delega specifica da parte del Parlamento, l'art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342 cit. ha invece disciplinato la tematica in argomento, con cio' realizzando un'eventuale ulteriore violazione indiretta della norma di cui all'art. 76 Cost., che subordina l'esercizio del potere delegato al rispetto, tra l'altro, dei "principi e criteri direttivi" stabiliti nella legge di delegazione. Ulteriore profilo di possibile illegittimita' costituzionale della disposizione di cui all'art. 25, comma 3, d.lgs. n. 342 cit. attiene infine a valutazioni concernenti il profilo della sua "ragionevolezza". Ed invero, premessa la pacifica esclusione del sindacato costituzionale sul merito delle leggi, essendo infatti rimesso all'esclusivo apprezzamento del legislatore ogni valutazione circa l'opportunita', la completezza o l'equita' del dettato normativo (in tal senso, oltre l'art. 28, legge 11 marzo 1953, n. 87, Corte costituzionale n. 46/1959 e n. 119/1980), rileva tuttavia questo giudice che la Corte costituzionale ha da tempo riconosciuto la propria competenza a sindacare la "ragionevolezza" di disposizioni normative che prevedano trattamenti differenziati in favore di particolari categorie di soggetti. Cio' in attuazione del precetto di cui all'art. 3 Cost., essendo l'eguaglianza un "principio generale che condiziona tutto l'ordinamento nella sua obiettiva struttura: esso vieta, cioe', che la legge ponga in essere una disciplina che direttamente o indirettamente dia vita ad una non giustificata disparita' di trattamento delle situazioni giuridiche, indipendentemente dalla natura e dalla qualificazione dei soggetti ai quali queste vengono imputate" (Corte costituzionale n. 25/1966). Ed in attuazione di tale principio, la Corte costituzionale, mutando radicalmente il proprio precedente orientamento, teso ad attribuire all'assoluta discrezionalita' del legislatore il fondare discipline differenziate, restandogli precluso unicamente l'assunzione dei criteri di discriminazione di cui all'art. 3, primo comma della Costituzione (in tal senso, Corte costituzionale nn. 3-58/1957), ha ritenuto violato il principio di eguaglianza "anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovano in situazione eguale" (Corte costituzione n. 15/1960; conf. Corte costituzionale n. 104/1968; Id. n. 144/1970; Id. n. 200/1972). In tal senso, valutazioni in termini di necessita' di sussistenza, ad opera di norme prevedenti situazioni differenziate verso determinate categorie di soggetti, di "ragionevoli motivi" (Corte costituzionale n. 61/1964), di "presupposti logici obiettivi" (Corte costituzionale n. 7/1963), del "limite della ragionevolezza" (Corte costituzionale n. 2/1966), ovvero di assenza di "discriminazioni arbitrarie" (Corte costituzionale n. 61/1964 cit.) costituiscono una costante dell'insegnamento della Corte costituzionale, tutte riconducibii alla tradizione medievale della rationabilitas e della causa legis, valori ai quali deve necessariamente informarsi, in uno Stato di diritto, l'attivita', pur ampiamente discrezionale, di produzione normativa. Venendo invece al caso in esame, anche a voler ritenere, nel silenzio della relazione governativa, la quale inspiegabilmente nonche', sotto certi aspetti, ingiustificatamente, tace sul punto, che l'art. 25, d.lgs. n. 342 cit. miri a sanare una prassi (previsione, contenuta nei contratti di conto corrente di corrispondenza, relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista, a fronte invece di capitalizzazione annuale degli interessi a credito) dichiarata nulla da Corte di cassazione 16 marzo 1999, n. 2374, rileva questo giudice che il legislatore delegato ha tuttavia omesso di apportare le modifiche idonee a rimuovere la situazione di accertata nullita'. O meglio, detto legislatore ha previsto una soluzione (stessa periodicita' nel conteggio degli interessi sia creditori che debitori) che tiene bensi' conto delle censure di nullita' di Corte di cassazione n. 2374 cit., ma che e' valida tuttavia soltanto per l'avvenire, e cioe' a far data dall'emananda delibera del CICR, legittimando invece fino a tale data gli istituti creditizi (tra cui, ovviamente, l'istituto opposto) a perseverare in una prassi giudizialmente riconosciuta come illecita. In cio' risiede un'eventuale ulteriore profilo di incostituzionalita' dell'art. 25, comma 3, d.lgs n. 342 cit., per contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo della "irragionevolezza" del dettato normativo. Ed invero, non e' dato a questo giudice di comprendere la ragione della diseguaglianza tra la posizione del correntista, che vede computarsi gli interessi a credito in ragione di anno, e l'istituto creditizio, che puo' invece irragionevolmente giovarsi della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito, diseguaglianza tanto piu' ingiustificata in quanto riferita ad una prassi espressamente censurata dal S.C. (Corte di cassazione 16 marzo 1999, n. 2374 cit.). Alla luce di tali rilievi va pertanto sospeso il giudizio in corso iscritto al n. 3481 del r.g. 1997 della ex pretura circondariale di Bari, con immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, affinche' questa valuti la questione di legittimita' costituzionale della previsione di cui all'art. 25, comma 3, d.lgs. 4 agosto 1999 n. 342, in riferimento agli artt. 3, 76 della Costituzione.