IL GIUDICE PER L'UDIENZA PRELIMINARE
    Ha   pronunziato   la  seguente  ordinanza,  sulla  questione  di
  legittimita'  costituzionale  dell'art. 33-bis  comma  1,  lett. b)
  c.p.p.,  cosi' come sostituito dall'art. 10 della legge 16 dicembre
  1999 n. 479, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, laddove
  non   prevede   che   sia   attribuita  al  tribunale  Militare  in
  composizione  collegiale  il  reato  di  peculato  militare  di cui
  all'art. 215 c.p.m.p.;

                            O s s e r v a

    A   termine  dell'udienza  preliminare,  le  Parti,  in  sede  di
  discussione,  cosi'  come  risulta dal verbale di udienza camerale,
  concludevano come segue: il pubblico ministero chiedeva l'emissione
  del decreto che dispone il giudizio avanti il tribunale militare di
  Padova,  riconosciuta  la  sussistenza  degli  elementi materiali e
  soggettivi  del  delitto  contestato,  e  avendo  dei  dubbi  circa
  l'organo  giudiziario,  se  monocratico  o collegiale, cui dovrebbe
  essere  attribuita  la  conoscenza  della causa penale, sollecitava
  questo giudice a verificare la costituzionalita', in riferimento al
  parametro    costituzionale   di   cui   all'art. 3   della   Carta
  fondamentale,  dell'art. 33-bis,  comma  1,  lett. b) c.p.p., cosi'
  come modificato di recente dalla legge n. 479/1999, laddove prevede
  che   sia  attribuita  al  tribunale  in  composizione  collegiale,
  anziche' monocratica, il delitto di peculato comune (art. 314 c.p.)
  nonche', altri delitti di cui al capo 1o del titolo II del libro II
  del  codice  penale,  e non il delitto "parallelo" o "speculare" di
  cui all'art. 215, c.p.m.p., contestato in imputazione.
    La  difesa,  invece,  chiedeva  proscioglimento  nel  merito  per
  insussistenza del fatto.
    Questo  giudice,  esaminati  gli atti, sentite le Parti, non puo'
  non riconoscere la necessita' di deliberare con decreto il rinvio a
  giudizio   dell'imputato   per  il  delitto  di  peculato  militare
  contestato  dal  pubblico  ministero  nella  richiesta  di rinvio a
  giudizio  del  1o ottobre 1999 (f. 166 atti). Non vi sono elementi,
  nemmeno di insufficienza probatoria, che possano far propendere, in
  questa fase processuale, per un proscioglimento ex art. 425 c.p.p.,
  sia   per   quanto   attiene   alla   materialita',  sia  circa  la
  soggettivita' del delitto di cui all'imputazione.
    Non  si  ritiene nemmeno sussista l'ipotesi residuale di peculato
  militare   d'uso   e/o   di   abuso   d'ufficio  giacche'  vi  sono
  circostanziati  indizi  e  prove circa un impossessamento di res di
  cui  si  aveva  il possesso per ragioni d'istituto, e di proprieta'
  dell'amministrazione militare, per un periodo di tempo superiore di
  gran  lunga  al  concetto  momentaneita'  d'uso, con depauperamento
  della stessa amministrazione.
    Invero,  appaiono  rilevanti  e non manifestatamente infondate le
  questioni    prospettate    dal   pubblico   ministero   circa   la
  costituzionalita'  del  vigente  art. 33-bis, comma 1, lett. b) del
  c.p.p., cui poc'anzi ci si e' successivamente soffermati.
    Infatti,  presupponendo,  come e' ovvio dato il vigente principio
  di  complementarita'  di  cui  all'art. 261  c.p.m.p.,  e  pur  nel
  silenzio  del  legislatore  ordinario,  la  vigenza  anche  per  la
  giurisdizione  di  merito penale-militare della recente riforma del
  cd   giudice   unico   di  primo  grado,  comprensivamente  quindi,
  l'estensione  alla  giurisdizione  militare della legge 16 dicembre
  1999  n. 479  (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti
  al  tribunale  in  composizione  monocratica  e  altre modifiche al
  codice  di  procedura  penale ...), non si rinviene una ragionevole
  spiegazione  circa  il  fatto  che  i delitti di cui al capo 10 del
  titolo  II  del  libro II del codice penale, ed in primis quello di
  peculato  (art. 314,  c.p.), siano attribuiti alla conoscenza di un
  collegio, mentre i delitti contro l'amministrazione militare di cui
  al capo 1o del titolo IV del libro II del codice penale militare di
  pace, ed in primis quello di peculato militare (art. 215 c.p.m.p.),
  siano  attribuiti  alla  conoscibilita'  di  un giudice monocratico
  essendo puniti tutti con la pena della reclusione (e non reclusione
  militare) non superiore nel massimo a dieci anni (ved. art. 33-bis,
  comma 2 c.p.p.).
    Merita  dire  che, stante il principio di complementarita' di cui
  all'art. 261  c.p.m.p.  ("Salvo che la legge disponga diversamente,
  le  disposizioni  del codice di procedura penale si osservano anche
  per  i  procedimenti  davanti  i  tribunali militari, sostituiti al
  tribunale  e  al  procuratore  della repubblica, rispettivamente il
  tribunale militare e il procuratore militare della repubblica"), e'
  stato  possibile  introdurre  presso  gli  organi  della  giustizia
  militare  di  merito  il  nuovo  codice  di procedura penale. Anche
  allora,  circa  dieci  anni  orsono,  il  legislatore  ordinario fu
  totalmente  inerte in tema di adeguamento e raccordo del nuovo rito
  con  la procedura penale militare. Ma, per effetto degli artt. 261,
  c.p.m.c.,  1 c.p.p., 207 d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271 fu possibile,
  in  via  interpretativa,  richiamare  integralmente  il  nuovo rito
  comune con tutti gli istituti e disposizioni nella procedura penale
  militare.
    E,   laddove   era   problematico   un   adeguamento   automatico
  interpretativo   e,  laddove  erano  rimaste  delle  diversita'  di
  istituti,   vi   e'  stato  soprattutto  l'intervento  della  Corte
  costituzionale;  sulla  scia della legge di riforma della giustizia
  militare  (legge  n. 180/1981)  che  ha  comportato una rivoluzione
  copernicana nel settore.
    Le modifiche intervenute con riguardo al processo penale militare
  sono  state  poche  ma,  tutte  significative:  in  ordine  al tema
  concernente la applicabilita' delle sanzioni sostitutive delle pene
  detentive  brevi per i reati militari le pene militari (Corte cost.
  n. 284/1995);  in  tema di misure cautelari non sono stati espressi
  dubbi  sulla  applicabilita'  integrale  delle  norme del codice di
  procedura  penale  comune piuttosto che sulle disposizioni speciali
  di  cui  agli artt. 313 ss c.p.m.p. sia dal giudice di legittimita'
  (Cass.   22   marzo   1991,  Pagliarini)  sia  della  stessa  Corte
  costituzionale  che  ha  ritenuto  l'equivalenza  in  proposito fra
  reclusione e reclusione militare.
    E' stata poi dichiarata la incostituzionalita' dei pochi istituti
  differenti  fra  rito militare e rito comune: sent. 26 ottobre 1989
  n. 429  sull'art. 308  c.p.m.p.  (arresto  in  flagranza);  sent. 9
  ottobre  1990  n. 469 sull'art. 377 c.p.m.p. (reati per i quali non
  si  procede al giudizio in contumacia); sent. 23 maggio 1990 n. 274
  sull'art. 402  c.p.m.p.  (in  tema  di differimento dell'esecuzione
  della  pena);  sent. 6  luglio  1994 n. 301 sull'art. 365 c.p.m.p.;
  sent.  22  febbraio  1996  n. 60 sull'art. 270 c.p.m.p. (in tema di
  divieto di costituzione della parte civile).
    Non  vi  sono  piu'  norme  vigenti  che contengano significative
  deroghe alla procedura penale comune.
    La  Corte  costituzionale ha piu' volte ribadito che con il nuovo
  codice  di  procedura  penale  erano  andati  scemando i fondamenti
  normativi  che  deponevano  ancora  per  una asserita disparita' di
  trattamento  fra  imputati  e  persone offese militari e imputati e
  persone offese non alle armi. Cosi' riaffermandosi "il principio in
  forza  del  quale,  con  l'entrata  in  vigore  della  Costituzione
  repubblicana,     viene    superata    radicalmente    la    logica
  istituzionalistica     dell'ordinamento     militare,    ricondotto
  nell'ambito  del  generale  ordinamento  dello  Stato, rispettoso e
  garante  dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini
  militari  oppure  no,  di  guisa  che il diritto penale militare di
  pace,  non  solo  non  puo'  ritenersi  avulso dal sistema generale
  garantistico  dello  Stato,  ma  non  va piu' esaltato come posto a
  tutela di beni e valori di tale particolare importanza da superare,
  nella  gerarchia  dei  valori  garantiti,  tutti  gli  altri" (ved.
  sentenza n. 60 del 22 febbraio 1996).
    Detto  cio',  e  ribadito che anche in punto di ratio non vi sono
  assolutamente  ragioni ostative affinche' la riforma del cd giudice
  unico  di  primo  grado  non possa essere adottata per i giudici di
  merito  militari,  dato  che,  fra  l'altro,  e'  comune a tutto il
  comparto  giustizia  l'interesse ad una piu' celere definizione dei
  procedimenti  penali  nell'interesse  dello  Stato  e  dello stesso
  imputato  e,  l'interesse  affinche' quest'ultimo goda di ulteriori
  garanzie  per  esercitare  i  propri diritti di difesa (fra l'altro
  quella  della  celerita' e pronta definizione dei processi e' stato
  sempre  il  "cavallo  di  battaglia"  di  coloro  che  in  dottrina
  sostenevano  e  sostengono  la  necessita' dei tribunali militari),
  merita  evidenziare che quanto illustrato dal pubblico ministero e'
  normativamente fondato.
    Premesso  infatti, che solo i delitti militari, cosi' come quelli
  comuni, puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a
  dieci  anni sono attribuiti al tribunale in composizione collegiale
  mentre, il tribunale giudica in composizione monocratica in tutti i
  casi  non  previsti dall'art. 33-bis c.p.p. o da altre disposizioni
  di  legge  (art. 33-bis,  comma 2, e 33-ter c.p.p.), il legislatore
  ordinario  con  l'art. 10  della  legge 16 dicembre 1999 n. 479 ha,
  pero', in deroga previsto che, per esempio, "i delitti previsti dal
  capo  1o  del  titolo  II  del  libro II del codice penale, esclusi
  quelli  indicati  dagli  articoli 329, 331, primo comma, 332, 334 e
  335" (il novellato art. 33-bis, comma 1, lett. b), siano attribuiti
  al tribunale in composizione collegiale.
    Intendendosi,  stando  ai  lavori  preparatori,  offrire maggiori
  garanzie   agli  imputati  dei  piu'  gravi  delitti  dei  pubblici
  ufficiali  contro la pubblica amministrazione, dovendo provvedere a
  conoscere  gli  stessi,  pur  sanzionati  nel  massimo con pena non
  superiore  nel  massimo  a  dieci  anni  di reclusione, un collegio
  anziche' un organo monocratico.
    Non  si  rinviene  alcuna  ragionevole spiegazione circa il fatto
  che,  per  esempio, il delitto di peculato militare (pur sanzionato
  con  la  reclusione  fino  a  dieci  anni), fattispecie speculare a
  quella  di  cui  al delitto di cui all'art. 314 c.p., non sia stato
  inserito  dal  legislatore  ordinario  fra  i  delitti  di  cui  al
  novellato art. 33-bis, comma 1, lett. b) c.p.p.
    E  questo giudice, dovendo deliberare il rinvio a giudizio avanti
  al  tribunale  militare di Padova dall'odierno imputato di peculato
  militare  (art. 215  c.p.m.p.),  stando  alla  disciplina  di  rito
  vigente,  cosi'  come  novellata  dalla legge n. 479/1999, dovrebbe
  emettere   decreto  che  dispone  il  giudizio  avanti  un  giudice
  monocratico,  anziche' avanti un organo collegiale, cosi' creandosi
  una  irragionevole disparita' di trattamento fra imputati a seconda
  che siano pubblici ufficiali militari o no e, quindi, a seconda che
  siano imputati di peculato militare anziche' di peculato comune. E,
  quando  le  due fattispecie criminose sono da sempre state ritenute
  (dottrina  e giurisprudenza di merito e legittimita') "speculari" o
  "parallele".
    Disparita'  di  trattamento  che  diventa  ancor  piu'  manifesta
  qualora  si  pensi che se l'odierno imputato, comandante di Reparto
  ed  incaricato di funzioni di comando, avesse concorso con pubblico
  ufficiale  non militare in peculato comune si vedrebbe, in ipotesi,
  giudicare  da  un  tribunale  in  composizione  collegiale anziche'
  monocratica come nel caso di specie.
    La   stessa   Corte   costituzionale  quando  ha  avuto  modo  di
  pronunciarsi  sulle  fattispecie  penali sopra richiamate ha sempre
  riconosciuto  la  sostanziale identita' fra le figure delittuose di
  cui all'art. 314 c.p. con quella di cui all'art. 215 c.p.m.p. (ved.
  sent.  14 gennaio 1974 n. 4; 9 ottobre 1990 n. 473; 4 dicembre 1991
  n. 448).
    Cosi'  si  recita,  fra l'altro, nella sentenza n. 4/1974: "I due
  reati   hanno   in   comune   l'elemento   materiale  e  l'elemento
  psicologico.  Identico  e' il loro contenuto, in entrambi offensivo
  dello stesso bene che si e' voluto proteggere: denaro e cose mobili
  appartenenti  allo  Stato;  identica altresi' l'azione tipica delle
  due    azioni   criminose   concretantesi   nell'appropriazione   o
  distrazione  di  beni  da  parte  di  soggetti  attivi  aventi  una
  specifica  qualifica  (pubblico  ufficiale o incaricato di pubblico
  servizio,  e  militare  incaricato  di funzioni amministrative o di
  comando)". La stessa Corte costituzionale nemmeno ravvisava ragioni
  inerenti  all'amministrazione militare che potessero indurre a dare
  alle  due  fattispecie  una  valutazione diversa: tant'e' che sulla
  base  di  tale  identita' sia si estendeva al peculato militare una
  particolare  amnistia  di  cui al d.P.R. 283/1970 sia, si espungeva
  dal  testo  normativo  dell'art. 215 c.p.m.p. la dizione "ovvero lo
  distrae   a  profitto  proprio  o  di  altri"  cosi'  riportando  a
  omogeneita'  le due discipline visto che anche allora, con la legge
  di  riforma  dei  reati  dei  pubblici ufficiali contro la pubblica
  amministrazione (legge n. 86/1990), si era creata una disparita' di
  trattamento  fra  imputati  non  avendo  il  legislatore  ordinario
  provveduto  ad  abolire  quale crimen la condotta qualificata quale
  distrazione;  e  pur  avendo  pero',  questi  asserito,  nei lavori
  preparatori   alla   suddetta   legge,   prima   di  essersene  poi
  dimenticati,  che  si sarebbe creata una disparita' di trattamento,
  che  non si sarebbe sottratta ad un censura di incostituzionalita',
  se  non  si  fosse adeguato anche il codice penale militare di pace
  alla riforma in corso.
    Solo  l'intervento  della  Consulta  ha impedito il protrarsi nel
  tempo   di   situazioni   cagionanti   irrazionali   disparita'  di
  trattamento   fra  imputati  in  stati  di  fatto  riconducibili  a
  identita' di elementi.
    E,  nonostante  il  costante invito della Corte costituzionale al
  legislatore  affinche'  per  il  futuro si abbiano ad evitare cosi'
  gravi  ed  ingiustificate  disparita'  di  trattamento, oggi questo
  giudice   deve   ulteriormente   constatare   il  cronico  e  grave
  disinteresse normativo per l'ordinamento penale militare.
    E,  con  riferimento  alla  questione  di  costituzionalita' oggi
  prospettata  dal pubblico ministero in sede di conclusioni, e sopra
  illustrata,  si denota un contrasto col principio costituzionale di
  cui  all'art. 3 della Carta, che sottintende i valori di parita' di
  trattamento   fra   situazioni   identiche   e   omogenee   e,   di
  ragionevolezza; valori cui deve sottostare il legislatore.
    Infatti,  se  il  peculato  comune  e quello militare nella forma
  dell'appropriazione (che e' la sola rimasta, dopo la eliminazione -
  nell'un  caso  per  legge  e  nell'altro per intervento del giudice
  delle leggi - del peculato per distrazione), sono figure delittuose
  identiche e, punite con identica sanzione edittale nel massimo (...
  fino  a  dieci anni) e, sempre con la reclusione, allora la mancata
  previsione,  a  favore del militare, della conoscibilita' del reato
  da   parte  del  tribunale  in  composizione  collegiale,  anziche'
  monocratica,  a  seguito  del  decreto  che dispone il giudizio del
  giudice  dell'udienza  preliminare, comporta una irrazionalita' nel
  sistema  ed  una  ingiustificata  disparita'  di trattamento fra il
  pubblico  ufficiale  (o  l'incaricato  di  pubblico servizio) da un
  lato,  e  il  militare  incaricato  di funzioni amministrative o di
  comando dall'altro.
    Piu'  precisamente,  appare  irrazionale  che il legislatore, nel
  novellare  l'art. 33-bis  del  c.p.p.,  con  l'art. 10  della legge
  n. 479/1999,  abbia  omesso  di inserire al comma 1 lett. b) anche,
  quantomeno,  il  delitto  di  peculato militare di cui all'art. 215
  c.p.m.p.
    Nel  caso  in  esame,  all'omogeneizzazione  della disciplina non
  ostano le ragioni che, in occasione della sentenza n. 473 del 1990,
  hanno  precluso  l'accoglimento  della  questione allora sollevata,
  concernente la mancante introduzione, anche nell'art. 215 c.p.m.p.,
  dell'ipotesi  attenuata  del peculato d'uso contenuta nel novellato
  art. 314  c.p.;  infatti, la Corte costituzionale nel caso in esame
  non  dovrebbe  caducare  alcuna  norma con creazione di un vuoto di
  disciplina   e   conseguente   creazione  di  una  situazione  piu'
  sfavorevole per l'imputato.