ha pronunciato la seguente Ordinanza nei giudizi di ammissibilita' del conflitto tra poteri dello Stato sorti a seguito delle modifiche legislative relative alla proponibilita' delle domande giudiziali al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, subordinatamente all'espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, promossi dal Tribunale di Brescia, con ricorsi depositati il 17 e il 24 gennaio 2000 ed iscritti ai nn. 141 e 143 del registro ammissibilita' conflitti. Udito nella camera di consiglio del 5 aprile 2000 il giudice relatore Cesare Ruperto. Ritenuto che il giudice unico del lavoro del Tribunale di Brescia, con ordinanza emessa al di fuori di un processo il 7 gennaio 2000, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Consiglio dei ministri, in relazione all'art. 69, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), come modificato dall'art. 19, comma 4, del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), nonche' all'art. 412-bis terzo comma, del codice di procedura civile, come modificato dall'art. 19, comma 9, del decreto legislativo n. 387 del 1998, i quali - la' dove condizionano, a giudizio del ricorrente, la stessa proponibilita' (e non gia', come prima di tali modifiche, la mera procedibilita') delle domande giudiziali in materia di lavoro al decorso del termine (rispettivamente di novanta e sessanta giorni) dalla data di proposizione del tentativo obbligatorio di conciliazione - lederebbero le sue attribuzioni costituzionali di giudice del lavoro, creando un ostacolo temporale all'esercizio del diritto dell'interessato e rendendo quindi disagevole la tutela giurisdizionale; che ad avviso del ricorrente - il quale sottolinea che sul suo ruolo sono pendenti molte controversie instaurate dopo l'entrata in vigore delle disposizioni contestate - "qualsiasi limitazione incongrua al pieno esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale non solo determina la violazione dell'art. 24 Costituzione, ma e', altresi', idonea a causare anche una lesione delle attribuzioni dell'Autorita' giudiziaria, perche' integra la violazione dell'art. 111 Costituzione, come oggi formulato", essendo stato peraltro impossibile, anche in astratto, "e mai sara' possibile (presumibilmente) in futuro", sollevare in via incidentale questione di legittimita' costituzionale delle richiamate norme, "che non eliminano la tutela giurisdizionale, ma solo ne rendono possibile l'esercizio dopo il decorso del termine legale che determina l'espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione"; che, in conseguenza, dette disposizioni di legge sarebbero: a) viziate da difetto di competenza del Consiglio dei ministri, per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione, avendo il Governo "esercitato la funzione legislativa oltre i limiti, criteri e principi - valutati nel loro complesso, come risultanti dall'insieme delle relative norme delle leggi n. 421 del 1992 e n. 59 del 1997 - fissati nella delega, non rispettando il criterio che gli imponeva di regolare il tentativo obbligatorio quale condizione di procedibilita' e non di proponibilita'"; b) lesive dell'art. 24 della Costituzione, in quanto, "a fronte di una scelta legislativa che ha regolato il processo del lavoro in modo tale da imporre (o, quantomeno, consentire) la definizione del giudizio entro un termine fisiologico di circa sessanta giorni dalla data del deposito del ricorso, l'imposizione del decorso del termine legale di espletamento del tentativo di conciliazione, fissato in sessanta/novanta giorni, ai fini della proponibilita' della domanda giudiziale, si pone come abnormemente defatigatorio e lo sarebbe, comunque, anche se il termine fosse di un solo giorno, perche' evidentemente incompatibile con le regole processuali dirette a determinare una rapida definizione delle cause dinanzi al giudice del lavoro"; c) lesive dell'art. 111 della Costituzione, come modificato dall'art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, "essendo palese che la decisione di rendere piu' difficile il ricorso al giudice del lavoro [...] e' causa idonea a determinare una irragionevole durata del processo", ancor piu' grave nel caso di proposizione di domande riconvenzionali; d) lesive dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto, mentre "non risultano idonee a rendere piu' efficace il tentativo di conciliazione obbligatorio, quale strumento deflazionistico del contenzioso giudiziario [...], sicuramente creano un ostacolo temporale all'esercizio del diritto, rendendo disagevole la tutela giurisdizionale, in danno della parte piu' debole e, comunque, di quella piu' interessata alla rapida definizione della controversia dinanzi al giudice del lavoro"; che, inoltre, il ricorrente denuncia il solo comma 3 dell'art. 69 del decreto legislativo n. 29 del 1993, per ulteriore violazione: a) del principio di uguaglianza, per l'irragionevole diversita' del termine di attesa onde poter agire in giudizio, previsto nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (novanta giorni), rispetto a quello previsto per i lavoratori del settore privato (sessanta giorni); b) dell'art. 97 della Costituzione, per la conseguente incomprensibile situazione di vantaggio della pubblica amministrazione, comunque garantita nella sua incapacita' di operare in termini di rapidita' ed efficienza; che, in via pregiudiziale, il ricorrente solleva questione di legittimita' costituzionale: a) dell'art. 69, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, come modificato dall'art. 19 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387, nonche' dell'art. 412-bis terzo comma, del codice di procedura civile, come modificato dallo stesso art. 19 del decreto legislativo n. 387 del 1998, per violazione degli artt. 3, 24, 76, 77, primo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione; b) del solo art. 69, comma 3, del decreto legislativo n. 29 del 1993, come modificato dall'art. 19 del decreto legislativo n. 387 del 1998, per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione; che, pertanto, chiede a questa Corte di sospendere il giudizio di ammissibilita' del ricorso per conflitto di attribuzioni e di rimettere davanti a se' la questione pregiudizialmente sollevata; che, con ordinanza del 13 gennaio 2000, anch'essa emessa al di fuori di un processo, altri Giudici unici del lavoro del Tribunale di Brescia hanno proposto - in via adesiva al precedente e con motivazioni sostanzialmente identiche - conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, nei confronti del Consiglio dei ministri, in relazione alle stesse norme, spiegando le stesse conclusioni pregiudiziali e di merito, poi ribadite unitamente da tutti i ricorrenti in un'ulteriore ordinanza "integrativa", emessa il 10 febbraio 2000. Considerato che i ricorsi sono stati proposti da magistrati di uno stesso ufficio giudiziario, in riferimento alle medesime disposizioni di legge e sulla base di considerazioni sostanzialmente identiche, per cui i relativi procedimenti vanno riuniti e congiuntamente decisi; che, nella presente fase del giudizio, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, questa Corte e' chiamata a deliberare in camera di consiglio e senza contraddittorio sull'ammissibilita' dei ricorsi, accertando se esiste - nel concorso dei requisiti soggettivi e oggettivi prescritti - la materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza; che altro conflitto del tutto analogo quanto a motivazioni e petitum proposto dall'allora pretore del lavoro presso la Pretura di Brescia, e' stato dichiarato inammissibile con ordinanza n. 398 del 1999 (che gli odierni ricorrenti fanno mostra di ignorare); che, in detta occasione, la Corte ha affermato che i censurati art. 69, comma 3, del decreto legislativo n. 29 del 1993 ed art. 412-bis terzo comma, cod. proc. civ. "sono palesemente inidonei per il loro contenuto a ledere la sfera delle attribuzioni costituzionali del giudice, recando una disciplina che riguarda unicamente le modalita' di esercizio dell'azione e, dunque, interessando solo il diritto di difesa delle parti (la cui prospettata violazione viene a torto assunta come necessariamente menomativa di tali attribuzioni)"; che, all'evidenza, la validita' dell'affermazione non rimane scalfita dal riferimento fatto nei due ricorsi ad ulteriori parametri, come gli artt. 97 e 111, nel nuovo testo, della Costituzione, non evocati in quel giudizio; che va ancora una volta osservato come - invece di sollevare, nelle cause instaurate davanti a loro, dopo l'entrata in vigore delle norme impugnate, l'incidente di costituzionalita' (di cui certo, contrariamente a quanto essi affermano, non puo' escludersi la promuovibilita' in concreto) - i Giudici del Tribunale di Brescia, attraverso la impropria utilizzazione del conflitto di attribuzione, tendano ad ottenere per via indiretta una declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme stesse, svincolandola dal necessario contesto processuale; che, inoltre, la legittimazione di ciascun organo giurisdizionale ad esser parte di un conflitto che si assume originato da una determinata disciplina processuale, presuppone - in ragione del carattere diffuso che connota il potere di cui l'organo medesimo e' espressione - che esso sia attualmente investito del processo, in relazione al quale soltanto i singoli giudici si configurano come "organi competenti a dichiarare definitivamente la volonta' del potere cui appartengano", a' sensi dell'art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87; che, pertanto, entrambi i ricorsi sono inammissibili, mancando sotto ogni profilo "la materia di un conflitto".