Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato della Camera dei deputati, in persona del Presidente on. prof. Luciano Violante, come da deliberazioni dell'Ufficio di Presidenza n. 177 del 28 ottobre 1999 e della Camera del 29 ottobre 1999, e giusto mandato per notar Silvestro in Roma, 18 novembre 1999, rep. n. 59.788, rappresentato e difeso dall'avv. prof. Massimo Luciani ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, Lungotevere delle Navi n. 30, contro, il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano, con funzione di giudice dell'udienza preliminare, in ragione e per l'annullamento dell'ordinanza 17 settembre 1999, emessa nel corso del procedimento n. 3384/1998 R.G.G.I.P. nei confronti dell'on. Cesare Previti e dell'ordinanza 20 settembre 1999, emessa nel corso del procedimento n. 5634/1997 R.G.G.I.P. nei confronti dell'on. Cesare Previti, con le quali sono state rigettate le richieste della difesa dell'on. Previti di rinvio dell'udienza in ragione di impedimento parlamentare e si e' disposto procedersi, nonche' di tutti gli atti consequenziali, che si impugnano peraltro anche in quanto autonomamente viziati, in particolare delle conformi decisioni di rigetto di analoghe richieste di rinvio dell'udienza in ragione di impedimento parlamentare, assunte alle udienze del 22 settembre, 5 e 6 ottobre 1999, e di tutte le altre decisioni di eguale contenuto che nelle more siano state adottate, e per la statuizione che non spetta all'autorita' giudiziaria non considerare assoluto impedimento alla partecipazione del deputato alle udienze penali il diritto-dovere del deputato di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea. F a t t o All'udienza del 17 settembre 1999, celebratasi nel corso di un procedimento penale nei confronti dell'on. Cesare Previti, la difesa dell'imputato chiedeva il rinvio dell'udienza medesima, motivando detta richiesta con l'impedimento parlamentare dello stesso on. Previti. Il giudice per le indagini preliminari, con funzione di giudice dell'udienza preliminare, rigettava con ordinanza la richiesta, e disponeva di doversi procedere. L'ordinanza muoveva da un'analitica ricostruzione dello svolgimento dell'udienza preliminare, a partire dalla sua data di inizio (5 novembre 1998), dalla quale emergeva che l'udienza stessa era stata numerose volte rinviata, anche a causa degli impegni parlamentari dell'on. Previti, assunti quali impedimenti alla partecipazione al processo. L'ordinanza dava atto di cio' che "l'on. Previti e' stato presente a tutte le udienze per le quali non ha allegato un impedimento parlamentare a comparire", ed affermava che non veniva "in discussione un atteggiamento psicologico dell'on. Previti, ma solo un dato di fatto oggettivo". Dato di fatto, questo, che ad avviso del giudice procedente si concretizzava nella "situazione di sostanziale stallo... dell'udienza preliminare", il cui sollecito svolgimento sarebbe stato impedito dalla quotidianita' dei lavori parlamentari. Ad avviso del giudice, pertanto, "la richiesta di rinvio determinata dalla necessita' di adempiere al mandato parlamentare viene... a confliggere con la necessita' di speditezza del processo e di effettivita' della giurisdizione". L'ordinanza rilevava che sia la "attivita' parlamentare" che la "attivita' giurisdizionale" esprimono valori costituzionalmente tutelati (nel primo caso, si affermava, dall'art. 67 della Costituzione; nell'altro dagli artt. 101, 102, 104 e 112 della Costituzione. Nella Costituzione, proseguiva l'ordinanza, non vi sarebbe "alcuna norma da cui dedurre una supremazia dell'attivita' parlamentare rispetto all'attivita' giurisdizionale", e anzi la riforma dell'art. 68 della Costituzione dimostrerebbe "che le due attivita' abbiano pari valore costituzionale". Tanto precisato, l'ordinanza si soffermava in particolare sul "valore costituzionale dell'efficienza del processo", che riteneva comprovato anche dalla giurisprudenza costituzionale (ricordava, in proposito, le sentenze nn. 10 del 1997; 353 del 1996; 460 del 1995; 178 del 1991). Proprio i principi a suo avviso desumibili dalla giurisprudenza costituzionale venivano ritenuti, dal giudice procedente, applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame. In particolare, si affermava che la prospettazione di un impedimento parlamentare non puo' ritenersi contra legem, eppero' che detto impedimento non puo' considerarsi assoluto, nel senso previsto dagli artt. 485 e 486 cod. proc. pen. (richiamati dal precedente art. 420). La "assoluta impossibilita' a comparire", affermava l'ordinanza, non ricorre solo quando vi sia un "impedimento materiale superiore a qualsiasi sforzo umano o l'impossibilita' oggettiva", ma anche quando vi siano norme che identifichino una "priorita' di impegni" nei cui confronti l'esercizio della funzione giurisdizionale risulti "soccombente". Nella specie, pero', il valore dell'autonomia dell'attivita' parlamentare non avrebbe meritato di giustificare il richiesto temperamento all'effettivita' della giurisdizione. L'ordinanza concludeva nel senso che "non e' possibile fare una distinzione tra impegni parlamentari, ritenendo taluni prevalenti ed altri subvalenti rispetto alle esigenze di celebrazione del processo", e di conseguenza negava il carattere dell'assolutezza all'impedimento parlamentare. In connessione con detta ordinanza, identica decisione (con pressoche' identica motivazione) veniva assunta dal medesimo giudice, nel corso di un diverso procedimento penale sempre nei confronti dell'on. Previti, con ordinanza in data 20 settembre 1999. Successivamente, alle udienze del 22 settembre, 5 e 6 ottobre 1999, nell'ambito, a quanto consta, del procedimento di cui all'ord. 17 settembre 1999, il giudice confermava le determinazioni generali assunte in quella occasione, e rigettava le richieste di rinvio per impedimento parlamentare in quelle occasioni presentate. In questo modo si affermava, ancorche' attraverso atti distinti, un unitario indirizzo in tema di rilevanza dell'impedimento parlamentare nel procedimento penale, che, per come si manifesta negli atti impugnati, risulta lesivo delle attribuzioni costituzionali della ricorrente Camera dei deputati per i seguenti motivi di D i r i t t o 1. - Preliminarmente, quanto all'ammissibilita' del ricorso. Sull'ammissibilita' del presente ricorso non possono sussistere dubbi. Quanto alla legittimazione processuale, pacifica e' quella passiva del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, con funzione di giudice dell'udienza preliminare. E' principio consolidato, infatti, che "i singoli organi giurisdizionali, nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, possono in genere essere parti nei conflitti di attribuzione" (cosi' ord. n. 150 del 1980, ma vedasi gia' prima ordinanze numeri 228 e 229 del 1975). Come specificamente si legge, da ultimo, nell'ord. n. 319 del 1999, poi, il giudice per le indagini preliminari "e' legittimato a sollevare il conflitto, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volonta' del potere cui appartiene nell'ambito delle funzioni giurisdizionali da esso esercitate, in conformita' al principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo il quale i singoli organi giurisdizionali, svolgendo le loro funzioni in posizione di piena indipendenza, costituzionalmente garantita, sono legittimati a essere parti in conflitti costituzionali di attribuzione" (vedi anche ordinanze numeri 250 e 261 del 1998). Non meno evidente e' la legittimazione della ricorrente Camera dei deputati. La legittimazione attiva di questa, infatti, e' stata ripetutamente riconosciuta, in quanto essa puo' esprimere "definitivamente la volonta' del potere che essa rappresenta" (sentenze numeri 265 del 1997; 379 del 1996; 1150 del 1988; 129 del 1981; ord. n. 150 del 1980; cui adde, per il Senato, sent. n. 129 del 1996). Nella specie, inoltre, non viene in considerazione solo la potenziale titolarita' della facolta' di esprimere definitivamente la volonta' del potere di appartenenza, ma anche l'esercizio in concreto di tale facolta', atteso che la volonta' della Camera (e quindi quella del potere cui essa appartiene) e' stata definitivamente manifestata con la programmazione dei lavori e l'approvazione del relativo calendario. Non dubbia e' anche la sussistenza dei requisiti oggettivi del conflitto di attribuzione. Vi e', infatti, conflitto risolvibile ai sensi degli artt. 134 della Costituzione e 37, legge 11 marzo 1953, n. 87, quando (senza che necessariamente vi sia vindicatio potestatis: cfr. gia', ad es., sentt. nn. 110 del 1970 e 129 del 1981) si controverte sulla delimitazione della sfera delle attribuzioni costituzionali di due poteri dello Stato. Nella specie, e' evidente che oggetto della presente controversia e', appunto, la delimitazione dei confini tra le attribuzioni costituzionali d'uno dei soggetti del potere legislativo e quelle del potere giudiziario. Costituzionalmente garantito, invero, e' il potere del magistrato di procedere nel giudizio pendente innanzi a lui. Per quanto riguarda la Camera dei deputati, a sua volta, il provvedimento del giudice penale che non riconosca al deputato l'impedimento a partecipare a un'udienza in ragione della necessita' di adempiere alle sue funzioni di parlamentare incide direttamente sulle attribuzioni costituzionali dell'organo rappresentativo. La dimostrazione di questa affermazione (di per se' - peraltro - autoevidente) verra' data qui appresso, quando si svolgeranno le necessarie argomentazioni in ordine al merito della controversia. Come accade frequentemente nei giudizi innanzi a codesta ecc.ma Corte (vedi, per il giudizio sulle leggi, i rilievi di C. Mezzanonotte, Irrelevanza e infondatezza per ragioni formali, in Giur. cost., 1977, I, 230 sgg.), invero, i profili processuali sono inestricabilmente connessi con quelli sostanziali, e nel caso dei conflitti tra poteri l'identificazione dell'attribuzione lesa non puo' che andare di pari passo con la dimostrazione della sua lesione. Puo' comunque dirsi sin d'ora che la possibile sottrazione al lavoro parlamentare del contributo del deputato sottoposto a procedimento penale incide gravemente sull'autonomia e sulla funzionalita' dell'organo, e quindi sulla stessa possibilita' che questo eserciti le attribuzioni (costituzionali) di sua spettanza. Non si potrebbe, in contrario, sostenere che le attribuzioni lese sarebbero, qui, solo quelle del singolo parlamentare e non anche quelle della Camera di appartenenza. A prescindere, infatti, dal fatto che si riconosca o meno al singolo parlamentare la legittimazione ad essere parte in un conflitto di attribuzione (v., sul punto, ad es., ord. n. 177 del 1998), la negazione della legittimazione della Camera dei deputati dimenticherebbe che le prerogative dei parlamentari non sono (e comunque non sono solo) strumenti di garanzia delle loro situazioni soggettive individuali, ma strumenti di tutela della funzione parlamentare nel suo complesso, e quindi dell'istituzione di appartenenza (cfr., da ultimo, sent. n. 417 del 1999, e comunque la costante giurisprudenza costituzionale e la dottrina dominante). Del resto, come si dira' anche appresso, la partecipazione ai lavori parlamentari (massime quando consistenti in votazioni) non e' solo un diritto, ma e' uno specifico dovere (art. 48-bis, RC) e come per tutti i doveri la sua previsione si deve almeno all'esigenza di soddisfare gli "interessi generali" dell'istituzione che lo impone (e' questo il significato davvero minimo dell'imposizione dei doveri: cfr. G. M. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, 29). Il voto, dunque, e' un atto di natura squisitamente funzionale) (sent. n. 379 del 1996). In ogni caso, e' pacifico che anche atti giudiziari riguardanti singoli parlamentari possano determinare lesione dell'autonomia e dell'indipendenza della Camera di appartenenza nel suo complesso (cfr., ad es., il caso scrutinato dalla stessa sent. n. 379 del 1996). Si deve, infine, osservare che sussiste, senza incertezze, l'interesse a ricorrere della Camera dei deputati. Detto interesse (che deve caratterizzare anche il ricorso per conflitto di attribuzione: cfr., ad es., ordd. nn. 259 del 1986 e 420 del 1995) si collega alle affermazioni delle ordinanze (che i successivi atti, qui pure impugnati, recepiscono). Queste, invero, pur muovendo dalla premessa in ragione della quale l'esigenza di sollecito svolgimento del processo e quella del libero e corretto assolvimento delle funzioni costituzionalmente spettanti alla Camera dei deputati avrebbero pari rango costituzionale, pervengono a conclusioni che la smentiscono. Esse negano, infatti, che l'esigenza di partecipazione alle attivita' parlamentari (ivi comprese le votazioni in Assemblea) giustifichi un rinvio delle udienze, e per cio' solo determinano il completo sacrificio di uno dei valori costituzionali in campo. Non varrebbe rilevare che la mancata concessione del rinvio e' disposta "nella situazione processuale in cui [esso] viene invocato" (cosi' si legge in chiusura di entrambe le ordinanze). Quale che sia la situazione processuale di riferimento, infatti, cio' che conta e' che, in concreto, i valori collegati alla funzione parlamentare sono stati posti su un gradino inferiore rispetto a quelli attinenti alla funzione giurisdizionale (sono stati interamente sacrificati i primi, cioe', e interamente salvaguardati i secondi). Palese, pertanto, e' l'interesse della Camera dei deputati ad ottenere una pronuncia di codesta ecc.ma Corte costituzionale che ristabilisca il corretto rapporto tra potere giudiziario e potere legislativo, in riferimento ai valori costituzionali che detti poteri rappresentano. La lesivita' delle menzionate ordinanze si riverbera sugli atti ad esse consequenziali (che, comunque, sono anche autonomamente viziati, e sono per questo anche autonomamente impugnati), in particolare (oltre che su quelle di eguale contenuto eventualmente adottate nelle more) sulle decisioni di rigetto delle richieste di rinvio dell'udienza per impedimento parlamentare adottate alle udienze del 22 settembre, 5 e 6 ottobre 1999. In tali casi, in particolare, l'udienza innanzi al giudice penale coincideva con sedute della Camera nelle quali erano previste votazioni, il che - come appresso si dira' - e' specificamente lesivo delle attribuzioni della ricorrente. Non incide sull'interesse a ricorrere della Camera dei deputati il fatto che, nonostante dette decisioni di rigetto delle richieste di rinvio, l'on. Previti abbia preso parte alle suddette votazioni. Trattasi infatti di determinazione strettamente personale del deputato, che ha sacrificato il proprio diritto di difesa al diritto-dovere di partecipazione ai lavori parlamentari, determinazione che tuttavia non era affatto imposta dalla vigente disciplina della materia. La concreta vicenda delle scelte del singolo parlamentare, invero, e' estrinseca rispetto agli atti impugnati e al loro contenuto, nel senso che e' proprio e solo da tale contenuto (trascendente, si badi, la particolare vicenda processuale) che origina la lesivita', che non puo' certo venir meno per l'accidentale determinazione di un soggetto estraneo al rapporto tra gli organi in conflitto (tale estraneita', ovviamente, sussiste sia che si ritenga, sia che non si ritenga legittimato a ricorrere il singolo parlamentare). Il grave condizionamento che l'indirizzo prescelto dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano determina nelle scelte dei parlamentari, in ogni caso, e' tale, come appresso si dimostrera', da cagionare la lesione delle prerogative costituzionali della Camera dei deputati, della quale e' dunque evidente l'interesse a ricorrere. 2. - Violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione. Venendo, ora, al merito, devono prospettarsi le argomentazioni che seguono. 2.1. - Si deve premettere che la ricorrente Camera dei deputati chiede che venga considerato, per i suoi componenti, impedimento assoluto a comparire in udienza non gia' la necessita' di partecipare a qualsivoglia lavoro parlamentare, bensi' soltanto quella di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea. Cio' non significa che la ricorrente muova dall'assunto della diversa dignita' delle varie attivita' che i deputati svolgono nell'esercizio del loro mandato. Significa invece, semplicemente, che l'attivita' di votazione e' qualitativamente diversa da tutte le altre proprio in specifico riferimento alla problematica che qui ne occupa. Al contrario di quanto ritiene il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano, invero, e' non solo possibile, ma doveroso, distinguere tra i vari "impegni parlamentari", in particolare differenziando l'attivita' di partecipazione al voto da tutte le altre attivita' inerenti al mandato rappresentativo. Come e' noto, l'attivita' di votazione non e' delegabile ad altro parlamentare, e va esercitata personalmente (v. anche quanto affermato da codesta ecc.ma Corte nella sent. n. 379 del 1996). Se e' fissata una votazione, pertanto, il solo modo che il deputato abbia per parteciparvi e' la presenza personale. Ne' e' possibile che il deputato chieda (od ottenga) lo spostamento della votazione, onde conservare la possibilita' di partecipare. Quando e' fissata una votazione, in altri termini, il deputato deve partecipare, senza alternative. Proprio per le votazioni, pertanto, il dovere stabilito dall'art. 48-bis assume una indefettibilita' peculiare, poiche' non v'e' possibilita' di rimedio all'assenza. Diverso e' invece il regime delle altre attivita' parlamentari. Nel caso in cui il deputato intenda partecipare ad una discussione, ovvero sia programmato un suo intervento su un determinato provvedimento, ma sia contemporaneamente convocato dal giudice penale per un procedimento nei propri confronti, egli puo' ben chiedere lo spostamento ad altra data dell'esame del provvedimento, e la prassi consolidata e' nel senso che - ove possibile - il rinvio viene concesso. La Camera, in alternativa, puo' (in persona del proprio Presidente) rinviare la discussione sulle linee generali, o anche concedere facolta' al deputato in questione di svolgere un intervento piu' ampio sull'art. 1 del provvedimento in discussione (quando trattasi di progetti di legge), in deroga alle comuni norme sui tempi. Anche qui, la prassi offre solida conferma di tali possibilita'. Nel caso, in particolare, degli atti di sindacato ispettivo, e' evidente che la possibilita' del rinvio del loro svolgimento ad altra seduta e' in re ipsa. Come e' noto, del resto, per lo svolgimento delle interrogazioni e delle interpellanze la Presidenza della Camera prende contatti con il Ministro destinatario e con il deputato richiedente, in modo tale da conciliare le rispettive esigenze e assicurare il dibattito (sul punto, cfr., ad es., R. Moretti, Attivita' informative, di ispezione, di indirizzo e di controllo, in T. Martines et alii, Diritto parlamentare, Rimini, 1992, 417, 421). Il diverso regime e' dunque chiaro: nell'un caso (deliberazioni) indefettibilita' della presenza del deputato al momento della votazione; nel secondo (discussioni di qualsivoglia genere) possibilita' di rimedio all'assenza in una delle forme sopra descritte. Sempre quanto alla precisazione del thema decidendum infine, la ricorrente limita le proprie censure all'ipotesi della partecipazione a votazioni dell'assemblea, nel presupposto (la cui esattezza non puo' contestarsi) che l'assemblea sia il soggetto "sovrano" nell'ordinamento parlamentare. La premessa interpretativa da cui si muove, infine, trova opportuno conforto in un noto precedente giurisprudenziale, nel quale si e' distinto tra "attivita' deliberative in senso stretto" e attivita' diverse, come quelle "di tipo referente o consultivo" (trib. Brescia, ord. 23 novembre 1995, Sgarbi, in Foro it., 1996, II, 432), e proprio in tale distinzione si e' identificato il discrimine tra impedimento parlamentare rilevante o meno al fine del rinvio delle udienze penali. 2.2. - Cosi' precisati i limiti delle censure prospettate dalla ricorrente, si deve lamentare anzitutto la violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione. Come codesta ecc.ma Corte costituzionale ha rilevato, l'autonomia della Camera si fonda anzitutto sul combinato disposto, appunto, degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione (cfr. sent. n. 379 del 1996). E' da tali previsioni costituzionali, infatti, che si desumono, per un verso, il potere della Camera di disciplinare con autonomo regolamento la propria organizzazione e il funzionamento dei propri lavori, con particolare riferimento alla funzione legislativa; per l'altro, la posizione di indipendenza dei singoli membri della Camera, riconosciuta dalla Costituzione quale strumento di garanzia dell'indipendenza e dell'autonomia dell'istituzione di appartenenza. Le riferite disposizioni, pertanto, vietano qualunque compressione di detta indipendenza ed autonomia. E' dunque sufficiente dimostrare che un vulnus di tal genere si e' verificato, per concludere nel senso della violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione. Nella specie, gli atti impugnati determinano un grave ostacolo alla partecipazione dei deputati alle votazioni della Camera, e conseguentemente producono (come piu' analiticamente si dimostrera' appresso) un'altrettanto grave lesione delle prerogative costituzionali della Camera, tutte riassuntivamente tutelate dalle disposizioni indicate nell'epigrafe del presente motivo di ricorso. Sin d'ora, tuttavia, si deve rilevare che l'autonomia organizzativa della Camera dei deputati, connessa all'autonomia regolamentare di cui all'art. 64, comma 1, della Costituzione, e' direttamente lesa dagli atti impugnati, che incidono su quel funzionamento interno dell'assemblea che, per costante giurisprudenza costituzionale, si sottrae all'interferenza (prima ancora che all'invasione) da parte di qualsivoglia altro potere dello Stato. 3. - Violazione dell'art. 64, comma 3, della Costituzione, anche in riferimento agli artt. 64, comma 1; 73, comma 2; 79, comma 1; 83, comma 3; 90, comma 2; 138, commi 1 e 3 della Costituzione; 12 legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1; 3 1egge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2; 9, comma 3, e 10, comma 3, 1egge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1. La violazione dell'art. 64, comma 3, della Costituzione, e degli altri parametri costituzionali connessi, indicati in epigrafe del presente motivo di ricorso, e' palese. L'art. 64, comma 3, della Costituzione, dispone che "Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non e' presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale". E' qui previsto, per le deliberazioni delle Camere, un doppio quorum: uno strutturale (la presenza della maggioranza dei componenti) e uno funzionale (il voto favorevole della maggioranza dei presenti, salva l'ipotesi di una maggioranza speciale). In entrambi i casi, il quorum e' stabilito quale condizione di validita': il mancato raggiungimento dell'uno o dell'altro determina appunto l'invalidita' della deliberazione. Questa previsione riguarda indistintamente tutte le deliberazioni delle Camere e tutte quelle del Parlamento in seduta comune. La partecipazione dei parlamentari (per quanto qui interessa: dei deputati) alle sedute parlamentari preordinate alle votazioni, nonche' alle votazioni medesime, e' dunque indispensabile, nei termini quantitativi imposti dalla Costituzione, per la validita' degli atti deliberativi. Ogni impedimento a tale partecipazione si risolve pertanto in impedimento alla funzionalita' del Parlamento (per quanto qui interessa: della Camera dei deputati), con evidente compromissione delle attribuzioni del potere legislativo. La previsione generale dell'art. 64, comma 3, inoltre, e' ulteriormente specificata e rafforzata dalle disposizioni che stabiliscono, per singole fattispecie, maggioranze speciali. Cio' vale almeno per: l'art. 64, comma 1 (maggioranza assoluta dei componenti per l'approvazione dei regolamenti); l'art. 73, comma 2 (maggioranza assoluta dei componenti per la dichiarazione di urgenza della legge); l'art. 79, comma 1 (maggioranza dei due terzi dei componenti per l'approvazione delle leggi di amnistia o di indulto); l'art. 83, comma 3 (maggioranza dei due terzi, o assoluta, del Parlamento in seduta comune, in composizione integrata, per l'elezione del Presidente della Repubblica); l'art. 90, comma 2 (maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento in seduta comune per la messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica: v. anche art. 12 legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1); l'art. 138, commi 1 e 3 (approvazione a maggioranza assoluta ovvero dei due terzi delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale). A tali previsioni vanno aggiunti almeno l'art. 3 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2 (maggioranza dei due terzi o dei tre quinti dei componenti del Parlamento in seduta comune per l'elezione dei giudici costituzionali) e l'art. 9, comma. 3, della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (maggioranza assoluta dei componenti della Camera competente per negare l'autorizzazione a procedere nei confronti dei Ministri o del Presidente del Consiglio). Di rilievo l'art. 10, comma 3, della stessa legge, che nell'ipotesi della richiesta di misure restrittive delle liberta' fondamentali a carico dei Ministri o del Presidente del Consiglio prevede non solo la convocazione di diritto delle Camere, ma anche il dovere, per esse, di deliberare entro quindici giorni dalla richiesta. Previsione, questa, di interesse, perche' chiarisce che le Camere, in questo caso, non hanno solo il dovere di riunirsi, ma anche quello di deliberare (e quindi di votare) entro un tempo ben determinato, sicche' la partecipazione alla votazione dei singoli parlamentari e' ancor piu' indefettibile e la non rinviabilita' della votazione, fosse pure ad istanza di un parlamentare impedito, e' stabilita addirittura ex lege. Da tutto questo si evince che la stessa possibilita', per la Camera dei deputati, di esercitare validamente le funzioni che la Costituzione le conferisce e' condizionata dalla presenza dei deputati nel numero necessario. Ogni impedimento di tale partecipazione si risolve dunque nella (pur potenziale) compromissione dell'esercizio delle attribuzioni parlamentari. Non si potrebbe opporre che la lesione delle prerogative parlamentari deriverebbe, comunque, dalla scelta del singolo deputato. Perche' tale obiezione fosse fondata, infatti, occorrerebbe che detta scelta fosse effettivamente libera, potendo il deputato optare, senza condizionamenti di sorta, per la partecipazione o meno alla votazione parlamentare. In realta', detta scelta non e' affatto libera, ne' priva di condizionamenti. Si deve infatti considerare che il deputato sottoposto a procedimento penale esercita, partecipando alle udienze, il proprio diritto costituzionale alla difesa in giudizio. Trattasi di un diritto fondamentalissimo, che sin dalla prima giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale e' stato ritenuto caratterizzante l'identita' stessa della Costituzione repubblicana (sentt. nn. 2 del 1956 e soprattutto 18 del 1982). L'adempimento del dovere di partecipazione alle votazioni (funzionale, si ripete, al valido esercizio delle attribuzioni della Camera), pertanto, confligge in questo caso con un primario diritto costituzionale. Lungi dall'essere libera e non condizionata, allora, la scelta del deputato diventa drammatica. Cio' che qui maggiormente conta, il condizionamento e' determinato dalla volonta' di un potere esterno a quello legislativo, che interferisce gravemente nelle prerogative di questo, ponendo a rischio la stessa funzionalita' della Camera (in ordine, si ripete, alla validita' delle votazioni dell'assemblea). 4. - Violazione degli artt. 67 e 68 della Costituzione, anche in riferimento ai parametri sopra invocati. Non meno evidente e' il vizio che affligge gli atti impugnati qualora si assumano quali parametri anche gli artt. 67 e 68 della Costituzione. Si deve ribadire che le prerogative che la Costituzione riconosce ai singoli deputati non sono loro guarentigie personali ma strumenti funzionali all'integrita' della posizione costituzionale delle istituzioni di appartenenza. Ogni volta che viene leso il libero esercizio del mandato parlamentare, garantito, dall'art. 67 della Costituzione in una con l'art. 68, si ledono percio' l'autonomia e l'indipendenza della Camera di appartenenza, che in tanto possono sussistere, in quanto i singoli componenti siano tutelati nella loro liberta' di esercitare il mandato parlamentare senza impedimenti. Il concetto di liberta' del mandato parlamentare, come e' noto, non e' di semplice interpretazione. Quale che sia la linea interpretativa che si segue, comunque, non vi e' dubbio che pregiudizio al libero mandato parlamentare possa venire proprio dall'esercizio della giurisdizione (cfr., ad es., n. Zanon, Il libero mandato parlamentare, Milano, 1991, 305). Nella specie, ci troviamo di fronte ad un'ipotesi addirittura paradigmatica di incisione con atti giurisdizionali sulla liberta' di esercizio del mandato parlamentare del singolo deputato, atteso che - come sopra rilevato - questi viene pesantemente condizionato nella sua scelta di adempiere o meno i doveri (e di esercitare i diritti) del suo ufficio, in presenza della contrapposta esigenza (essa pure costituzionalmente protetta) di esercitare il diritto di difesa. Non e' dunque libera la scelta del deputato costretto all'alternativa tra diritto di difesa e diritto-dovere di partecipazione alle votazioni della Camera. La violazione della liberta' del mandato (imputabile - si ripete - alla volonta' di un potere esterno a quello legislativo) ha per conseguenza la lesione delle prerogative della Camera dei deputati, alla cui tutela quella liberta' e' strettamente funzionale. Si consideri, del resto, che il condizionamento del libero mandato determina un'alterazione profonda del libero giuoco delle maggioranze e delle opposizioni, che si fonda sull'altrettanto libero rapporto delle forze. Alterazione che, anche se limitata a un solo voto, puo' essere terribilmente rilevante (la prima crisi parlamentare della Repubblica, con la votazione alla Camera il 9 ottobre 1998, lo testimonia con chiarezza). 5. - Assenza di un bilanciamento, negli atti impugnati, tra le esigenze dell'efficienza del processo e quelle dell'autonomia, dell'indipendenza e della funzionalita' delle istituzioni parlamentari. Violazione dell'art. 3 della Costituzione, anche in riferimento ai parametri precedentemente invocati. Violazione del principio della leale collaborazione tra i poteri dello Stato, anche in riferimento ai parametri precedentemente invocati. La premessa dalla quale gli atti impugnati muovono, relativa all'esistenza di un contrasto tra valori entrambi di rango costituzionale, deve essere condivisa. Non e' dubbio, infatti, che tanto la speditezza del processo quanto la libera esplicazione del mandato parlamentare e la funzionalita' delle assemblee rappresentative siano valori costituzionalmente protetti. Secondo concetto, come sempre accade nel caso di contrasto tra valori costituzionali, detto contrasto deve essere composto, e cio' e' possibile solo per mezzo di un prudente bilanciamento tra di essi. Proprio del bilanciamento, anche qui secondo concetto, e' che nessuno dei valori in conflitto debba essere interamente sacrificato (ove cio' non sia inevitabile), e che di quei valori si individui il migliore con temperamento, che deve avvenire secondo i canoni della ragionevolezza imposti dall'art. 3 della Costituzione. Questo schema tipico (e necessitato) del bilanciamento tra valori costituzionali, tanto frequente nella giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale che qualunque indicazione giurisprudenziale sarebbe superflua, non e' stato seguito dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano. Cio', fra l'altro, ha determinato anche la violazione del principio della leale collaborazione tra i poteri dello Stato (sul quale ci si soffermera' piu' ampiamente in chiusura), che impone a ciascun potere di comportarsi in modo tale da esercitare le proprie attribuzioni senza sacrificio di quelle degli altri. Tanto il principio del bilanciamento che quello della leale collaborazione si invocano in una con i parametri gia' precedentemente menzionati, atteso che la salvaguardia dei valori protetti da quei parametri e' possibile solo a condizione di non sacrificarli totalmente quando si trovano a subire il confronto con altri valori costituzionali. All'esatta premessa dalla quale muove, invero, il giudice non fa seguire la logica conclusione ora ricordata, in quanto, pur rilevando l'esistenza di due confliggenti valori costituzionali, provvede alla salvaguardia d'uno solo di essi, sacrificando integralmente l'altro. Il modello disegnato dalla giurisprudenza costituzionale e' tutt'altro. In questa materia, infatti, come ha limpidamente precisato la sent. n. 379 del 1996, occorre un "equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione ... e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare ...". La stessa pronuncia non ha mancato di precisare che "il confine tra i due distinti valori (autonomia delle Camere, da un lato, e legalita'-giurisdizione, dall'altro) e' posto sotto la tutela di questa Corte". La logica di tale modello e', pertanto, che si proceda all'indicato bilanciamento tra i valori costituzionali eventualmente confliggenti, se possibile senza il sacrificio integrale di alcuno, secondo il modello del "contemperamento" tipico anche di altri settori della giurisprudenza costituzionale (sul punto, in dottrina, da ultimo, G. Scaccia. Gli "strumenti" della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, ed. provv., Roma, 1999, 377 sgg.). Nella specie tale bilanciamento e' possibile proprio seguendo la via che si prospetta nel presente ricorso, giusta la quale l'impedimento parlamentare giustifica la modificazione dei tempi della funzione giurisdizionale solo quando e' in giuoco la superiore esigenza della validita' delle deliberazioni della Camera, che puo' essere assicurata esclusivamente dal raggiungimento delle maggioranze prescritte dalla Costituzione. L'ipotesi opposta, seguita negli atti impugnati, e' proprio quella del sacrificio integrale dell'autonomia parlamentare, sacrificio che e' in radicale contrasto con la logica del bilanciamento/contemperamento. La conclusione e' dunque obbligata: nel contrasto tra i valori in campo, l'esigenza prima e' quella del bilanciamento nella forma del contemperamento. Ledono pertanto tale esigenza gli atti impugnati, in quanto - senza che cio' fosse inevitabile - sacrificano integralmente i valori connessi alla rappresentanza, a totale beneficio di quelli connessi alla giurisdizione. Si determina in tal modo, anzi, un vero e proprio paradosso, in quanto, nell'ipotesi che fra tali valori un contemperamento non sia possibile, la giurisprudenza costituzionale afferma semmai la prevalenza dei primi sui secondi, in speculare contrapposizione alla scelta compiuta con gli atti impugnati. Ipotizziamo (del tutto astrattamente, e nel convincimento che tale ipotesi sia infondata) che il modello del contemperamento non possa essere seguito. Ebbene, non si puo' certo negare che il principio dell'efficienza e della snellezza del processo sia stato ritenuto, dalla giurisprudenza, implicitamente riconosciuto dalla Costituzione (cfr., ad es., sent. n. 460 del 1995). Cio' non consente, tuttavia, che in suo nome siano sacrificate l'autonomia e l'indipendenza della Camera dei deputati. In primo luogo, codesta ecc.ma Corte, nei precedenti nei quali ha fatto valere quel principio, ha inteso impedire qualunque pratica dilatoria, che pretestuosamente intendesse compromettere la funzionalita' del processo. Atti che, pure, sono esercizio del diritto di difesa, diventano abusivi ed ingiustificati laddove mirino al solo scopo di rinviare nel tempo il completamento dell'iter processuale. E' proprio in ipotesi di tal genere che sono state rese le note declaratorie di incostituzionalita' delle norme di legge che consentivano atti di questo tipo (sentt. nn. 353 del 1996; 10 del 1997). Nel caso che ne occupa, pero', il parlamentare non e' certo dorminus delle cause di impedimento, che derivano invece dall'oggettiva esistenza di un calendario dei lavori parlamentari ch'egli e' tenuto a rispettare e che non ha certo deciso da se'. La situazione e' dunque assai diversa da quella considerata nelle pronunce sopra ricordate, poiche' l'ostacolo allo svolgimento del processo ha un'oggettivita' che resta del tutto al di fuori della disponibilita' del deputato. In secondo luogo, non e' possibile (come invece fa il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano) argomentare la superiorita' delle esigenze del processo su quelle della funzione parlamentare dall'intervenuta modifica dell'art. 68 della Costituzione. Certo, l'eliminazione dell'autorizzazione a procedere ha determinato il venir meno di un ostacolo al pieno dispiegarsi della funzione giurisdizionale. Questo, pero' non e' risolutivo. La mera sottoposizione a procedimento penale, infatti, non sarebbe, di per se', fonte di alcun impedimento o pregiudizio per il parlamentare e per il rigoroso rispetto dei suoi doveri. Che si sia prevista la possibilita' di tale sottoposizione a prescindere da qualsivoglia autorizzazione non prova, dunque, che si sia voluto tutelare la funzione giurisdizionale a totale scapito di quella rappresentativa. Tutt'al contrario, come sopra si accennava, vale, secondo l'indirizzo di codesta ecc.ma Corte, esattamente la reciproca. Per stare soltanto alle pronunce piu' significative, bastera' ricordare le sentt. nn. 129 del 1981 e 129 del 1996. La sent. n. 129 del 1981 ha affermato (sulla scia della sent. n. 110 del 1970) che la Costituzione ammette "deroghe alla giurisdizione" quando e' in giuoco l'autonomia delle istituzioni rappresentative che si collocano "a livello di sovranita'" (cio' vale dunque per le Camere, non, invece, per i Consigli regionali). Nella sent. n. 129 del 1996 si legge, a proposito dei procedimenti relativi a opinioni espresse dai parlamentari, che il costituente ha compiuto un "bilanciamento", in seguito al quale, "a tutela del principio (corrispondente a un interesse generale della comunita' politica) di indipendenza e autonomia del potere legislativo nei confronti degli altri organi e poteri dello Stato, l'art. 68 della Costituzione sacrifica il diritto alla tutela giurisdizionale del cittadino che si ritenga offeso nell'onore o in altri beni della vita da opinioni espresse da un senatore o deputato nell'esercizio delle sue funzioni". L'autonomia del Parlamento, dunque, e' un bene cosi' prezioso, che l'esigenza della sua tutela potrebbe, in astratto (e in assenza di soluzioni alternative), addirittura imporre il "sacrificio" del diritto alla tutela giurisdizionale, e conseguentemente dell'esercizio della giurisdizione. Non e' questo, pero', cio' che, in concreto, deve accadere nel presente giudizio, ne' e' questo cio' che domanda la ricorrente Camera dei deputati. Come sopra si e' dimostrato, infatti, tra l'ipotesi del sacrificio integrale della giurisdizione e l'ipotesi del sacrificio integrale della rappresentanza vi e' quella intermedia del bilanciamento/contemperamento nella forma gia' prima ricordata. La tutela dell'essenza stessa del sistema parlamentare (che sta nella validita' delle deliberazioni delle Camere) e' possibile senza che per questo si rinunci all'esercizio della giurisdizione, che puo' (anche sollecitamente) proseguire, con il solo limite (tutt'altro che gravoso) del rispetto dell'attivita' di votazione in Assemblea programmata dalla Camera. Come codesta ecc.ma Corte costituzionale ha statuito, il principio di leale collaborazione non regge, nel nostro ordinamento costituzionale, soltanto i rapporti intersoggettivi, ma anche quelli fra poteri dello Stato (sentt. nn. 379 del 1992 e 403 del 1994). E' anche in questa chiave che va interpretata la presente controversia, nella quale - come sopra si e' detto - sono in giuoco confliggenti valori costituzionali tra i quali e' indispensabile trovare il corretto bilanciamento. La posizione della ricorrente, intesa ad affermare il principio che l'impedimento parlamentare deve essere considerato assoluto ed insuperabile solo nel caso in cui attenga alla partecipazione a votazioni dell'assemblea, e non anche quando attenga a diverse attivita' dei deputati, si presenta come il piu' corretto contemperamento tra i valori in giuoco. Non tutte le sedute dell'assemblea sono dedicate a votazioni (non in tutte, chinque, si assumono le deliberazioni disciplinate dall'art. 64 della Costituzione), poiche' molte sono destinate ad altre attivita' (discussione di progetti di legge; dibattiti di vario contenuto; svolgimento dl interrogazioni ed interpellanze, ecc.). Per stare ai soli dati del 1998, a fronte di un totale di 168 sedute, solo 103 sono state destinate a votazioni. Cio' significa, chiaramente, che la previsione dell'assolutezza dell'impedimento parlamentare in riferimento alle sedute destinate a votazioni non compromette affatto la funzionalita' del processo ne' lede le prerogative dell'autorita' giudiziaria. Invero, le votazioni non sono previste quotidianamente: a parte i periodi di sospensione, le votazioni sono in genere fissate nei giorni centrali della settimana, martedi', mercoledi' e giovedi'. Nell'anno, assai meno di un giorno su tre e' mediamente dedicato a votazioni in assemblea, e cio' consente di soddisfare pienamente le esigenze di celerita' del processo. La soluzione qui prospettata, pertanto, e' il punto di equilibrio costituzionalmente piu' corretto tra i diversi valori in campo. Non solo il piu' corretto, invero, ma anche il piu' certo. La strada alternativa, seguita dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano, si risolve infatti (come risulta espressamente dalle ordinanze e dagli altri atti impugnati) nell'attribuzione al giudice penale del potere discrezionale di valutare, di volta in volta, l'assolutezza dell'impedimento, con conseguenti minori garanzie per la certezza non solo della situazione soggettiva del singolo deputato, ma della funzionalita' e dell'autonomia della Camera. E' noto che la discrezionalita' del giudice, in casi di questo tipo, e' comunque delimitata dalla ragionevolezza e - nel tempo - dal consolidarsi degli indirizzi giurisprudenziali (cfr. sent. n. 178 del 1991). Nondimeno, e' evidente che un criterio automatico ed oggettivo, come quello che conseguirebbe all'accoglimento del presente ricorso, offrirebbe garanzie di certezza largamente superiori. Quello della certezza del diritto, invero, e' un valore costituzionale di primaria importanza, come anche la piu' recente giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte ha chiarito (sent. n. 416 del 1999). L'accoglimento del presente ricorso, pertanto, oltre a ristabilire il corretto rapporto tra il valore dell'efficienza processuale e quello dell'autonomia e dell'indipendenza delle istituzioni parlamentari, consentirebbe il miglior soddisfacimento del valore, parimenti costituzionale, della certezza del diritto.