Ricorso  per  conflitto  di  attribuzione  tra poteri dello Stato
  della  Camera  dei  deputati,  in  persona del Presidente on. prof.
  Luciano  Violante, come da deliberazioni dell'Ufficio di Presidenza
  n. 177  del  28  ottobre 1999 e della Camera del 29 ottobre 1999, e
  giusto  mandato  per  notar  Silvestro  in  Roma, 18 novembre 1999,
  rep. n. 59.788,  rappresentato  e  difeso  dall'avv.  prof. Massimo
  Luciani  ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma,
  Lungotevere  delle  Navi  n. 30, contro, il giudice per le indagini
  preliminari  presso il tribunale di Milano, con funzione di giudice
  dell'udienza   preliminare,   in   ragione   e  per  l'annullamento
  dell'ordinanza 17 settembre 1999, emessa nel corso del procedimento
  n. 3384/1998  R.G.G.I.P.  nei  confronti  dell'on. Cesare Previti e
  dell'ordinanza 20 settembre 1999, emessa nel corso del procedimento
  n. 5634/1997  R.G.G.I.P. nei confronti dell'on. Cesare Previti, con
  le   quali   sono   state   rigettate  le  richieste  della  difesa
  dell'on. Previti  di  rinvio dell'udienza in ragione di impedimento
  parlamentare e si e' disposto procedersi, nonche' di tutti gli atti
  consequenziali,   che   si   impugnano  peraltro  anche  in  quanto
  autonomamente  viziati,  in particolare delle conformi decisioni di
  rigetto  di analoghe richieste di rinvio dell'udienza in ragione di
  impedimento  parlamentare, assunte alle udienze del 22 settembre, 5
  e 6 ottobre 1999, e di tutte le altre decisioni di eguale contenuto
  che  nelle  more siano state adottate, e per la statuizione che non
  spetta   all'autorita'   giudiziaria   non   considerare   assoluto
  impedimento alla partecipazione del deputato alle udienze penali il
  diritto-dovere  del  deputato  di assolvere il mandato parlamentare
  attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea.

                              F a t t o

    All'udienza  del  17  settembre 1999, celebratasi nel corso di un
  procedimento  penale  nei  confronti  dell'on. Cesare  Previti,  la
  difesa  dell'imputato  chiedeva  il  rinvio  dell'udienza medesima,
  motivando  detta  richiesta  con  l'impedimento  parlamentare dello
  stesso  on. Previti.  Il  giudice  per le indagini preliminari, con
  funzione   di   giudice  dell'udienza  preliminare,  rigettava  con
  ordinanza la richiesta, e disponeva di doversi procedere.
    L'ordinanza   muoveva   da   un'analitica   ricostruzione   dello
  svolgimento  dell'udienza  preliminare, a partire dalla sua data di
  inizio (5 novembre 1998), dalla quale emergeva che l'udienza stessa
  era  stata  numerose  volte  rinviata,  anche a causa degli impegni
  parlamentari   dell'on. Previti,  assunti  quali  impedimenti  alla
  partecipazione al processo.
    L'ordinanza  dava  atto  di  cio'  che  "l'on. Previti  e'  stato
  presente  a  tutte  le  udienze  per  le  quali  non ha allegato un
  impedimento  parlamentare a comparire", ed affermava che non veniva
  "in  discussione  un atteggiamento psicologico dell'on. Previti, ma
  solo  un  dato  di  fatto oggettivo". Dato di fatto, questo, che ad
  avviso del giudice procedente si concretizzava nella "situazione di
  sostanziale  stallo...  dell'udienza preliminare", il cui sollecito
  svolgimento  sarebbe  stato impedito dalla quotidianita' dei lavori
  parlamentari.  Ad  avviso  del  giudice, pertanto, "la richiesta di
  rinvio   determinata  dalla  necessita'  di  adempiere  al  mandato
  parlamentare viene... a confliggere con la necessita' di speditezza
  del processo e di effettivita' della giurisdizione".
    L'ordinanza  rilevava  che sia la "attivita' parlamentare" che la
  "attivita'  giurisdizionale"  esprimono  valori  costituzionalmente
  tutelati   (nel   primo  caso,  si  affermava,  dall'art. 67  della
  Costituzione;  nell'altro  dagli  artt. 101,  102,  104 e 112 della
  Costituzione.  Nella  Costituzione,  proseguiva l'ordinanza, non vi
  sarebbe  "alcuna norma da cui dedurre una supremazia dell'attivita'
  parlamentare  rispetto  all'attivita'  giurisdizionale",  e anzi la
  riforma  dell'art. 68  della Costituzione dimostrerebbe "che le due
  attivita' abbiano pari valore costituzionale".
    Tanto  precisato,  l'ordinanza  si  soffermava in particolare sul
  "valore  costituzionale dell'efficienza del processo", che riteneva
  comprovato anche dalla giurisprudenza costituzionale (ricordava, in
  proposito, le sentenze nn. 10 del 1997; 353 del 1996; 460 del 1995;
  178  del  1991).  Proprio  i principi a suo avviso desumibili dalla
  giurisprudenza   costituzionale   venivano  ritenuti,  dal  giudice
  procedente, applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame.
    In   particolare,  si  affermava  che  la  prospettazione  di  un
  impedimento  parlamentare  non puo' ritenersi contra legem, eppero'
  che  detto  impedimento  non  puo' considerarsi assoluto, nel senso
  previsto  dagli  artt. 485  e  486  cod. proc. pen. (richiamati dal
  precedente  art. 420).  La  "assoluta  impossibilita' a comparire",
  affermava   l'ordinanza,   non   ricorre  solo  quando  vi  sia  un
  "impedimento   materiale  superiore  a  qualsiasi  sforzo  umano  o
  l'impossibilita'  oggettiva",  ma  anche  quando vi siano norme che
  identifichino   una   "priorita'  di  impegni"  nei  cui  confronti
  l'esercizio  della  funzione giurisdizionale risulti "soccombente".
  Nella   specie,  pero',  il  valore  dell'autonomia  dell'attivita'
  parlamentare  non  avrebbe  meritato  di  giustificare il richiesto
  temperamento all'effettivita' della giurisdizione.
    L'ordinanza  concludeva  nel senso che "non e' possibile fare una
  distinzione  tra  impegni parlamentari, ritenendo taluni prevalenti
  ed  altri  subvalenti  rispetto  alle  esigenze di celebrazione del
  processo",  e  di  conseguenza negava il carattere dell'assolutezza
  all'impedimento parlamentare.
    In  connessione  con  detta  ordinanza,  identica  decisione (con
  pressoche'   identica  motivazione)  veniva  assunta  dal  medesimo
  giudice,  nel  corso  di  un diverso procedimento penale sempre nei
  confronti  dell'on. Previti,  con  ordinanza  in  data 20 settembre
  1999.
    Successivamente,  alle  udienze  del  22 settembre, 5 e 6 ottobre
  1999,  nell'ambito,  a  quanto  consta,  del  procedimento  di  cui
  all'ord. 17 settembre 1999, il giudice confermava le determinazioni
  generali  assunte  in quella occasione, e rigettava le richieste di
  rinvio per impedimento parlamentare in quelle occasioni presentate.
  In questo modo si affermava, ancorche' attraverso atti distinti, un
  unitario   indirizzo   in   tema   di   rilevanza  dell'impedimento
  parlamentare  nel  procedimento  penale, che, per come si manifesta
  negli   atti   impugnati,   risulta   lesivo   delle   attribuzioni
  costituzionali  della ricorrente Camera dei deputati per i seguenti
  motivi di

                            D i r i t t o


    1. - Preliminarmente, quanto all'ammissibilita' del ricorso.
    Sull'ammissibilita'  del  presente ricorso non possono sussistere
  dubbi.
    Quanto   alla  legittimazione  processuale,  pacifica  e'  quella
  passiva del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale
  di Milano, con funzione di giudice dell'udienza preliminare.
    E'   principio   consolidato,  infatti,  che  "i  singoli  organi
  giurisdizionali,  nell'esercizio  delle  funzioni  giurisdizionali,
  possono  in  genere  essere  parti  nei  conflitti di attribuzione"
  (cosi'  ord. n. 150 del 1980, ma vedasi gia' prima ordinanze numeri
  228  e  229  del  1975).  Come  specificamente si legge, da ultimo,
  nell'ord.  n. 319  del  1999,  poi,  il  giudice  per  le  indagini
  preliminari  "e'  legittimato  a  sollevare il conflitto, in quanto
  organo  competente  a  dichiarare  definitivamente  la volonta' del
  potere cui appartiene nell'ambito delle funzioni giurisdizionali da
  esso   esercitate,   in  conformita'  al  principio,  ripetutamente
  affermato  da  questa  Corte,  secondo  il  quale  i singoli organi
  giurisdizionali,  svolgendo  le loro funzioni in posizione di piena
  indipendenza,  costituzionalmente  garantita,  sono  legittimati  a
  essere  parti  in  conflitti  costituzionali di attribuzione" (vedi
  anche ordinanze numeri 250 e 261 del 1998).
    Non  meno  evidente  e' la legittimazione della ricorrente Camera
  dei deputati. La legittimazione attiva di questa, infatti, e' stata
  ripetutamente   riconosciuta,   in   quanto   essa  puo'  esprimere
  "definitivamente  la  volonta'  del  potere  che  essa rappresenta"
  (sentenze numeri 265 del 1997; 379 del 1996; 1150 del 1988; 129 del
  1981;  ord.  n. 150 del 1980; cui adde, per il Senato, sent. n. 129
  del  1996). Nella specie, inoltre, non viene in considerazione solo
  la    potenziale    titolarita'   della   facolta'   di   esprimere
  definitivamente  la  volonta'  del potere di appartenenza, ma anche
  l'esercizio  in  concreto  di tale facolta', atteso che la volonta'
  della  Camera  (e  quindi quella del potere cui essa appartiene) e'
  stata  definitivamente manifestata con la programmazione dei lavori
  e l'approvazione del relativo calendario.
    Non  dubbia  e'  anche la sussistenza dei requisiti oggettivi del
  conflitto di attribuzione. Vi e', infatti, conflitto risolvibile ai
  sensi degli artt. 134 della Costituzione e 37, legge 11 marzo 1953,
  n. 87,   quando   (senza  che  necessariamente  vi  sia  vindicatio
  potestatis:  cfr.  gia',  ad es., sentt. nn. 110 del 1970 e 129 del
  1981)   si   controverte  sulla  delimitazione  della  sfera  delle
  attribuzioni  costituzionali  di  due  poteri  dello  Stato.  Nella
  specie,  e'  evidente  che  oggetto della presente controversia e',
  appunto,   la   delimitazione   dei  confini  tra  le  attribuzioni
  costituzionali  d'uno  dei soggetti del potere legislativo e quelle
  del potere giudiziario. Costituzionalmente garantito, invero, e' il
  potere  del magistrato di procedere nel giudizio pendente innanzi a
  lui.  Per  quanto  riguarda la Camera dei deputati, a sua volta, il
  provvedimento  del  giudice  penale  che  non riconosca al deputato
  l'impedimento   a   partecipare   a  un'udienza  in  ragione  della
  necessita'  di  adempiere  alle sue funzioni di parlamentare incide
  direttamente    sulle   attribuzioni   costituzionali   dell'organo
  rappresentativo.  La  dimostrazione  di questa affermazione (di per
  se'  - peraltro - autoevidente) verra' data qui appresso, quando si
  svolgeranno  le necessarie argomentazioni in ordine al merito della
  controversia.  Come  accade  frequentemente  nei  giudizi innanzi a
  codesta  ecc.ma Corte (vedi, per il giudizio sulle leggi, i rilievi
  di C. Mezzanonotte, Irrelevanza e infondatezza per ragioni formali,
  in  Giur.  cost., 1977, I, 230 sgg.), invero, i profili processuali
  sono  inestricabilmente connessi con quelli sostanziali, e nel caso
  dei  conflitti  tra poteri l'identificazione dell'attribuzione lesa
  non  puo'  che  andare di pari passo con la dimostrazione della sua
  lesione.
    Puo'  comunque  dirsi  sin  d'ora che la possibile sottrazione al
  lavoro  parlamentare  del  contributo  del  deputato  sottoposto  a
  procedimento   penale  incide  gravemente  sull'autonomia  e  sulla
  funzionalita'  dell'organo,  e quindi sulla stessa possibilita' che
  questo eserciti le attribuzioni (costituzionali) di sua spettanza.
    Non si potrebbe, in contrario, sostenere che le attribuzioni lese
  sarebbero,  qui,  solo  quelle del singolo parlamentare e non anche
  quelle  della  Camera  di appartenenza. A prescindere, infatti, dal
  fatto   che   si  riconosca  o  meno  al  singolo  parlamentare  la
  legittimazione ad essere parte in un conflitto di attribuzione (v.,
  sul  punto,  ad  es.,  ord.  n. 177  del  1998), la negazione della
  legittimazione  della  Camera  dei  deputati dimenticherebbe che le
  prerogative  dei  parlamentari  non sono (e comunque non sono solo)
  strumenti di garanzia delle loro situazioni soggettive individuali,
  ma   strumenti  di  tutela  della  funzione  parlamentare  nel  suo
  complesso,  e  quindi  dell'istituzione  di  appartenenza (cfr., da
  ultimo,   sent.   n. 417   del   1999,   e   comunque  la  costante
  giurisprudenza  costituzionale e la dottrina dominante). Del resto,
  come   si   dira'  anche  appresso,  la  partecipazione  ai  lavori
  parlamentari  (massime quando consistenti in votazioni) non e' solo
  un diritto, ma e' uno specifico dovere (art. 48-bis, RC) e come per
  tutti  i  doveri  la  sua previsione si deve almeno all'esigenza di
  soddisfare  gli "interessi generali" dell'istituzione che lo impone
  (e'  questo  il  significato  davvero  minimo  dell'imposizione dei
  doveri:  cfr.  G.  M.  Lombardi,  Contributo allo studio dei doveri
  costituzionali,  Milano,  1967, 29). Il voto, dunque, e' un atto di
  natura  squisitamente  funzionale) (sent. n. 379 del 1996). In ogni
  caso,  e'  pacifico  che  anche atti giudiziari riguardanti singoli
  parlamentari   possano   determinare   lesione   dell'autonomia   e
  dell'indipendenza  della  Camera  di appartenenza nel suo complesso
  (cfr.,  ad  es.,  il  caso scrutinato dalla stessa sent. n. 379 del
  1996).
    Si  deve,  infine,  osservare  che  sussiste,  senza  incertezze,
  l'interesse  a ricorrere della Camera dei deputati. Detto interesse
  (che   deve  caratterizzare  anche  il  ricorso  per  conflitto  di
  attribuzione:  cfr., ad es., ordd. nn. 259 del 1986 e 420 del 1995)
  si  collega  alle  affermazioni  delle  ordinanze (che i successivi
  atti,   qui  pure  impugnati,  recepiscono).  Queste,  invero,  pur
  muovendo  dalla  premessa  in  ragione  della  quale  l'esigenza di
  sollecito  svolgimento  del processo e quella del libero e corretto
  assolvimento   delle  funzioni  costituzionalmente  spettanti  alla
  Camera dei deputati avrebbero pari rango costituzionale, pervengono
  a  conclusioni  che  la  smentiscono.  Esse  negano,  infatti,  che
  l'esigenza  di  partecipazione  alle  attivita'  parlamentari  (ivi
  comprese  le  votazioni  in  Assemblea) giustifichi un rinvio delle
  udienze,  e per cio' solo determinano il completo sacrificio di uno
  dei  valori  costituzionali  in campo. Non varrebbe rilevare che la
  mancata  concessione  del  rinvio  e'  disposta  "nella  situazione
  processuale  in  cui  [esso]  viene  invocato"  (cosi'  si legge in
  chiusura di entrambe le ordinanze).
    Quale  che sia la situazione processuale di riferimento, infatti,
  cio'  che  conta  e'  che,  in  concreto,  i  valori collegati alla
  funzione  parlamentare  sono  stati  posti  su un gradino inferiore
  rispetto  a  quelli  attinenti  alla funzione giurisdizionale (sono
  stati   interamente  sacrificati  i  primi,  cioe',  e  interamente
  salvaguardati  i  secondi).  Palese, pertanto, e' l'interesse della
  Camera  dei  deputati  ad  ottenere una pronuncia di codesta ecc.ma
  Corte  costituzionale  che  ristabilisca  il  corretto rapporto tra
  potere  giudiziario  e potere legislativo, in riferimento ai valori
  costituzionali che detti poteri rappresentano.
    La  lesivita'  delle menzionate ordinanze si riverbera sugli atti
  ad  esse  consequenziali  (che,  comunque, sono anche autonomamente
  viziati,  e  sono  per  questo  anche  autonomamente impugnati), in
  particolare  (oltre che su quelle di eguale contenuto eventualmente
  adottate  nelle more) sulle decisioni di rigetto delle richieste di
  rinvio  dell'udienza  per  impedimento  parlamentare  adottate alle
  udienze  del  22  settembre,  5  e 6 ottobre 1999. In tali casi, in
  particolare,  l'udienza  innanzi  al  giudice penale coincideva con
  sedute  della Camera nelle quali erano previste votazioni, il che -
  come   appresso   si   dira'   -  e'  specificamente  lesivo  delle
  attribuzioni   della   ricorrente.   Non  incide  sull'interesse  a
  ricorrere  della Camera dei deputati il fatto che, nonostante dette
  decisioni di rigetto delle richieste di rinvio, l'on. Previti abbia
  preso   parte   alle   suddette   votazioni.  Trattasi  infatti  di
  determinazione   strettamente   personale   del  deputato,  che  ha
  sacrificato  il  proprio  diritto  di  difesa  al diritto-dovere di
  partecipazione  ai lavori parlamentari, determinazione che tuttavia
  non  era affatto imposta dalla vigente disciplina della materia. La
  concreta  vicenda delle scelte del singolo parlamentare, invero, e'
  estrinseca  rispetto  agli  atti impugnati e al loro contenuto, nel
  senso  che  e'  proprio  e solo da tale contenuto (trascendente, si
  badi, la particolare vicenda processuale) che origina la lesivita',
  che  non  puo' certo venir meno per l'accidentale determinazione di
  un  soggetto estraneo al rapporto tra gli organi in conflitto (tale
  estraneita',  ovviamente,  sussiste sia che si ritenga, sia che non
  si  ritenga  legittimato  a  ricorrere il singolo parlamentare). Il
  grave  condizionamento che l'indirizzo prescelto dal giudice per le
  indagini  preliminari presso il tribunale di Milano determina nelle
  scelte  dei  parlamentari,  in ogni caso, e' tale, come appresso si
  dimostrera',    da   cagionare   la   lesione   delle   prerogative
  costituzionali  della  Camera  dei  deputati, della quale e' dunque
  evidente l'interesse a ricorrere.

    2. - Violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione.
    Venendo,  ora,  al  merito, devono prospettarsi le argomentazioni
  che seguono.

    2.1.  -  Si deve premettere che la ricorrente Camera dei deputati
  chiede  che  venga  considerato, per i suoi componenti, impedimento
  assoluto   a  comparire  in  udienza  non  gia'  la  necessita'  di
  partecipare  a  qualsivoglia  lavoro  parlamentare, bensi' soltanto
  quella   di   assolvere   il  mandato  parlamentare  attraverso  la
  partecipazione  a votazioni in assemblea. Cio' non significa che la
  ricorrente  muova  dall'assunto  della diversa dignita' delle varie
  attivita'  che i deputati svolgono nell'esercizio del loro mandato.
  Significa  invece,  semplicemente,  che l'attivita' di votazione e'
  qualitativamente  diversa  da  tutte  le altre proprio in specifico
  riferimento  alla  problematica  che qui ne occupa. Al contrario di
  quanto  ritiene  il  giudice  per le indagini preliminari presso il
  tribunale  di  Milano,  invero, e' non solo possibile, ma doveroso,
  distinguere  tra  i  vari  "impegni  parlamentari",  in particolare
  differenziando  l'attivita'  di  partecipazione al voto da tutte le
  altre attivita' inerenti al mandato rappresentativo.
    Come e' noto, l'attivita' di votazione non e' delegabile ad altro
  parlamentare,   e  va  esercitata  personalmente  (v. anche  quanto
  affermato  da codesta ecc.ma Corte nella sent. n. 379 del 1996). Se
  e'  fissata  una  votazione, pertanto, il solo modo che il deputato
  abbia  per  parteciparvi e' la presenza personale. Ne' e' possibile
  che il deputato chieda (od ottenga) lo spostamento della votazione,
  onde conservare la possibilita' di partecipare.
    Quando  e'  fissata  una votazione, in altri termini, il deputato
  deve  partecipare,  senza  alternative.  Proprio  per le votazioni,
  pertanto,   il   dovere   stabilito   dall'art. 48-bis  assume  una
  indefettibilita'   peculiare,  poiche'  non  v'e'  possibilita'  di
  rimedio all'assenza.
    Diverso  e'  invece il regime delle altre attivita' parlamentari.
  Nel caso in cui il deputato intenda partecipare ad una discussione,
  ovvero   sia  programmato  un  suo  intervento  su  un  determinato
  provvedimento,  ma  sia  contemporaneamente  convocato  dal giudice
  penale  per  un  procedimento  nei  propri confronti, egli puo' ben
  chiedere lo spostamento ad altra data dell'esame del provvedimento,
  e  la  prassi  consolidata  e'  nel  senso che - ove possibile - il
  rinvio  viene concesso. La Camera, in alternativa, puo' (in persona
  del   proprio  Presidente)  rinviare  la  discussione  sulle  linee
  generali,  o  anche  concedere facolta' al deputato in questione di
  svolgere  un intervento piu' ampio sull'art. 1 del provvedimento in
  discussione  (quando trattasi di progetti di legge), in deroga alle
  comuni  norme sui tempi. Anche qui, la prassi offre solida conferma
  di tali possibilita'.
    Nel  caso,  in particolare, degli atti di sindacato ispettivo, e'
  evidente  che  la  possibilita'  del rinvio del loro svolgimento ad
  altra  seduta  e'  in  re  ipsa.  Come  e'  noto, del resto, per lo
  svolgimento   delle   interrogazioni   e   delle  interpellanze  la
  Presidenza   della   Camera   prende   contatti   con  il  Ministro
  destinatario  e  con  il  deputato  richiedente,  in  modo  tale da
  conciliare  le  rispettive  esigenze e assicurare il dibattito (sul
  punto,   cfr.,  ad  es.,  R.  Moretti,  Attivita'  informative,  di
  ispezione,  di  indirizzo  e  di controllo, in T. Martines et alii,
  Diritto parlamentare, Rimini, 1992, 417, 421).

    Il  diverso regime e' dunque chiaro: nell'un caso (deliberazioni)
  indefettibilita'  della  presenza  del  deputato  al  momento della
  votazione;   nel   secondo  (discussioni  di  qualsivoglia  genere)
  possibilita'  di  rimedio  all'assenza  in  una  delle  forme sopra
  descritte.
    Sempre  quanto  alla precisazione del thema decidendum infine, la
  ricorrente    limita   le   proprie   censure   all'ipotesi   della
  partecipazione  a votazioni dell'assemblea, nel presupposto (la cui
  esattezza  non  puo'  contestarsi)  che l'assemblea sia il soggetto
  "sovrano" nell'ordinamento parlamentare.
    La  premessa  interpretativa  da  cui  si  muove,  infine,  trova
  opportuno  conforto  in  un  noto precedente giurisprudenziale, nel
  quale  si e' distinto tra "attivita' deliberative in senso stretto"
  e  attivita'  diverse, come quelle "di tipo referente o consultivo"
  (trib.  Brescia,  ord. 23 novembre 1995, Sgarbi, in Foro it., 1996,
  II,  432),  e  proprio  in  tale  distinzione si e' identificato il
  discrimine  tra  impedimento  parlamentare rilevante o meno al fine
  del rinvio delle udienze penali.

    2.2.  -  Cosi' precisati i limiti delle censure prospettate dalla
  ricorrente,   si  deve  lamentare  anzitutto  la  violazione  degli
  artt. 64, 68 e 72 della Costituzione.
    Come codesta ecc.ma Corte costituzionale ha rilevato, l'autonomia
  della  Camera  si  fonda anzitutto sul combinato disposto, appunto,
  degli  artt. 64,  68 e 72 della Costituzione (cfr. sent. n. 379 del
  1996).  E'  da  tali  previsioni  costituzionali,  infatti,  che si
  desumono,  per un verso, il potere della Camera di disciplinare con
  autonomo  regolamento  la propria organizzazione e il funzionamento
  dei  propri  lavori,  con  particolare  riferimento  alla  funzione
  legislativa;  per l'altro, la posizione di indipendenza dei singoli
  membri   della   Camera,   riconosciuta  dalla  Costituzione  quale
  strumento    di   garanzia   dell'indipendenza   e   dell'autonomia
  dell'istituzione di appartenenza.
    Le    riferite    disposizioni,   pertanto,   vietano   qualunque
  compressione   di   detta  indipendenza  ed  autonomia.  E'  dunque
  sufficiente   dimostrare   che  un  vulnus  di  tal  genere  si  e'
  verificato,   per  concludere  nel  senso  della  violazione  degli
  artt. 64,  68  e  72  della  Costituzione.  Nella  specie, gli atti
  impugnati  determinano  un  grave  ostacolo alla partecipazione dei
  deputati  alle votazioni della Camera, e conseguentemente producono
  (come  piu'  analiticamente si dimostrera' appresso) un'altrettanto
  grave  lesione delle prerogative costituzionali della Camera, tutte
  riassuntivamente tutelate dalle disposizioni indicate nell'epigrafe
  del presente motivo di ricorso.
    Sin   d'ora,   tuttavia,   si   deve   rilevare  che  l'autonomia
  organizzativa  della  Camera  dei  deputati, connessa all'autonomia
  regolamentare  di  cui all'art. 64, comma 1, della Costituzione, e'
  direttamente  lesa  dagli  atti  impugnati,  che  incidono  su quel
  funzionamento    interno    dell'assemblea    che,   per   costante
  giurisprudenza  costituzionale,  si sottrae all'interferenza (prima
  ancora  che  all'invasione)  da  parte di qualsivoglia altro potere
  dello Stato.

    3. - Violazione  dell'art. 64, comma 3, della Costituzione, anche
  in  riferimento  agli  artt. 64, comma 1; 73, comma 2; 79, comma 1;
  83,  comma  3; 90, comma 2; 138, commi 1 e 3 della Costituzione; 12
  legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1; 3 1egge costituzionale 22
  novembre   1967,   n. 2;   9,   comma  3,  e  10,  comma  3,  1egge
  costituzionale  16  gennaio 1989, n. 1. La violazione dell'art. 64,
  comma 3, della Costituzione, e degli altri parametri costituzionali
  connessi,  indicati  in epigrafe del presente motivo di ricorso, e'
  palese.
    L'art. 64,   comma   3,   della  Costituzione,  dispone  che  "Le
  deliberazioni  di  ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide
  se  non  e'  presente  la maggioranza dei loro componenti, e se non
  sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione
  prescriva  una  maggioranza  speciale".  E'  qui  previsto,  per le
  deliberazioni  delle  Camere, un doppio quorum: uno strutturale (la
  presenza  della  maggioranza  dei  componenti) e uno funzionale (il
  voto  favorevole della maggioranza dei presenti, salva l'ipotesi di
  una  maggioranza  speciale).  In  entrambi  i  casi,  il  quorum e'
  stabilito  quale condizione di validita': il mancato raggiungimento
  dell'uno   o   dell'altro  determina  appunto  l'invalidita'  della
  deliberazione.
    Questa previsione riguarda indistintamente tutte le deliberazioni
  delle  Camere  e  tutte  quelle del Parlamento in seduta comune. La
  partecipazione  dei  parlamentari  (per  quanto  qui interessa: dei
  deputati)  alle  sedute  parlamentari  preordinate  alle votazioni,
  nonche'  alle  votazioni  medesime,  e'  dunque indispensabile, nei
  termini  quantitativi  imposti dalla Costituzione, per la validita'
  degli  atti deliberativi. Ogni impedimento a tale partecipazione si
  risolve  pertanto  in impedimento alla funzionalita' del Parlamento
  (per quanto qui interessa: della Camera dei deputati), con evidente
  compromissione delle attribuzioni del potere legislativo.
    La   previsione  generale  dell'art. 64,  comma  3,  inoltre,  e'
  ulteriormente  specificata  e  rafforzata  dalle  disposizioni  che
  stabiliscono,  per  singole fattispecie, maggioranze speciali. Cio'
  vale  almeno  per:  l'art. 64,  comma  1  (maggioranza assoluta dei
  componenti  per l'approvazione dei regolamenti); l'art. 73, comma 2
  (maggioranza  assoluta  dei  componenti  per  la  dichiarazione  di
  urgenza della legge); l'art. 79, comma 1 (maggioranza dei due terzi
  dei  componenti  per  l'approvazione  delle  leggi di amnistia o di
  indulto);   l'art. 83,  comma  3  (maggioranza  dei  due  terzi,  o
  assoluta,   del   Parlamento  in  seduta  comune,  in  composizione
  integrata,   per   l'elezione  del  Presidente  della  Repubblica);
  l'art. 90,   comma  2  (maggioranza  assoluta  dei  componenti  del
  Parlamento  in  seduta  comune  per  la messa in stato d'accusa del
  Presidente  della Repubblica: v. anche art. 12 legge costituzionale
  11  marzo  1953,  n. 1);  l'art. 138,  commi  1 e 3 (approvazione a
  maggioranza   assoluta   ovvero   dei   due   terzi   delle   leggi
  costituzionali  o  di  revisione costituzionale). A tali previsioni
  vanno  aggiunti  almeno  l'art. 3  della  legge  costituzionale  22
  novembre 1967, n. 2 (maggioranza dei due terzi o dei tre quinti dei
  componenti  del  Parlamento  in  seduta  comune  per l'elezione dei
  giudici   costituzionali)   e   l'art. 9,  comma.  3,  della  legge
  costituzionale  16  gennaio  1989,  n. 1  (maggioranza assoluta dei
  componenti  della  Camera  competente per negare l'autorizzazione a
  procedere   nei   confronti  dei  Ministri  o  del  Presidente  del
  Consiglio).  Di rilievo l'art. 10, comma 3, della stessa legge, che
  nell'ipotesi  della  richiesta di misure restrittive delle liberta'
  fondamentali  a  carico dei Ministri o del Presidente del Consiglio
  prevede  non solo la convocazione di diritto delle Camere, ma anche
  il  dovere,  per  esse,  di  deliberare entro quindici giorni dalla
  richiesta.  Previsione, questa, di interesse, perche' chiarisce che
  le Camere, in questo caso, non hanno solo il dovere di riunirsi, ma
  anche  quello di deliberare (e quindi di votare) entro un tempo ben
  determinato,  sicche'  la partecipazione alla votazione dei singoli
  parlamentari  e'  ancor  piu'  indefettibile e la non rinviabilita'
  della votazione, fosse pure ad istanza di un parlamentare impedito,
  e' stabilita addirittura ex lege.
    Da  tutto  questo  si  evince  che la stessa possibilita', per la
  Camera  dei  deputati, di esercitare validamente le funzioni che la
  Costituzione  le  conferisce  e'  condizionata  dalla  presenza dei
  deputati   nel   numero   necessario.   Ogni  impedimento  di  tale
  partecipazione   si   risolve   dunque   nella   (pur   potenziale)
  compromissione  dell'esercizio delle attribuzioni parlamentari. Non
  si  potrebbe  opporre che la lesione delle prerogative parlamentari
  deriverebbe,  comunque,  dalla scelta del singolo deputato. Perche'
  tale  obiezione  fosse  fondata,  infatti,  occorrerebbe  che detta
  scelta  fosse  effettivamente  libera,  potendo il deputato optare,
  senza  condizionamenti  di sorta, per la partecipazione o meno alla
  votazione  parlamentare.  In  realta',  detta scelta non e' affatto
  libera,  ne'  priva di condizionamenti. Si deve infatti considerare
  che   il   deputato  sottoposto  a  procedimento  penale  esercita,
  partecipando  alle  udienze, il proprio diritto costituzionale alla
  difesa  in  giudizio. Trattasi di un diritto fondamentalissimo, che
  sin   dalla   prima   giurisprudenza   di   codesta   ecc.ma  Corte
  costituzionale e' stato ritenuto caratterizzante l'identita' stessa
  della   Costituzione   repubblicana   (sentt.   nn. 2  del  1956  e
  soprattutto 18 del 1982).
    L'adempimento   del   dovere  di  partecipazione  alle  votazioni
  (funzionale,  si  ripete,  al  valido  esercizio delle attribuzioni
  della  Camera),  pertanto, confligge in questo caso con un primario
  diritto    costituzionale.   Lungi   dall'essere   libera   e   non
  condizionata, allora, la scelta del deputato diventa drammatica.
    Cio'   che   qui   maggiormente   conta,  il  condizionamento  e'
  determinato   dalla   volonta'   di  un  potere  esterno  a  quello
  legislativo,  che  interferisce  gravemente  nelle  prerogative  di
  questo,  ponendo a rischio la stessa funzionalita' della Camera (in
  ordine, si ripete, alla validita' delle votazioni dell'assemblea).

    4.  - Violazione degli artt. 67 e 68 della Costituzione, anche in
  riferimento  ai  parametri  sopra invocati. Non meno evidente e' il
  vizio  che  affligge  gli  atti impugnati qualora si assumano quali
  parametri anche gli artt. 67 e 68 della Costituzione.
    Si deve ribadire che le prerogative che la Costituzione riconosce
  ai   singoli  deputati  non  sono  loro  guarentigie  personali  ma
  strumenti  funzionali all'integrita' della posizione costituzionale
  delle  istituzioni  di  appartenenza.  Ogni volta che viene leso il
  libero  esercizio del mandato parlamentare, garantito, dall'art. 67
  della   Costituzione  in  una  con  l'art. 68,  si  ledono  percio'
  l'autonomia  e  l'indipendenza della Camera di appartenenza, che in
  tanto  possono  sussistere,  in  quanto  i singoli componenti siano
  tutelati  nella loro liberta' di esercitare il mandato parlamentare
  senza impedimenti.

    Il  concetto  di liberta' del mandato parlamentare, come e' noto,
  non  e'  di  semplice  interpretazione.  Quale  che  sia  la  linea
  interpretativa  che  si  segue,  comunque,  non  vi  e'  dubbio che
  pregiudizio  al  libero  mandato  parlamentare possa venire proprio
  dall'esercizio  della  giurisdizione  (cfr.,  ad  es., n. Zanon, Il
  libero  mandato  parlamentare, Milano, 1991, 305). Nella specie, ci
  troviamo  di  fronte  ad  un'ipotesi  addirittura  paradigmatica di
  incisione  con atti giurisdizionali sulla liberta' di esercizio del
  mandato  parlamentare del singolo deputato, atteso che - come sopra
  rilevato  - questi viene pesantemente condizionato nella sua scelta
  di  adempiere  o  meno i doveri (e di esercitare i diritti) del suo
  ufficio,   in  presenza  della  contrapposta  esigenza  (essa  pure
  costituzionalmente protetta) di esercitare il diritto di difesa.
    Non   e'   dunque   libera   la  scelta  del  deputato  costretto
  all'alternativa   tra   diritto   di  difesa  e  diritto-dovere  di
  partecipazione  alle  votazioni  della  Camera. La violazione della
  liberta'  del mandato (imputabile - si ripete - alla volonta' di un
  potere  esterno a quello legislativo) ha per conseguenza la lesione
  delle prerogative della Camera dei deputati, alla cui tutela quella
  liberta'  e'  strettamente funzionale. Si consideri, del resto, che
  il  condizionamento  del  libero  mandato  determina un'alterazione
  profonda  del  libero giuoco delle maggioranze e delle opposizioni,
  che   si   fonda  sull'altrettanto  libero  rapporto  delle  forze.
  Alterazione  che,  anche  se  limitata  a un solo voto, puo' essere
  terribilmente   rilevante   (la   prima  crisi  parlamentare  della
  Repubblica,  con  la  votazione  alla  Camera il 9 ottobre 1998, lo
  testimonia con chiarezza).

    5.  -  Assenza  di un bilanciamento, negli atti impugnati, tra le
  esigenze  dell'efficienza  del  processo  e  quelle dell'autonomia,
  dell'indipendenza   e   della   funzionalita'   delle   istituzioni
  parlamentari.  Violazione  dell'art. 3 della Costituzione, anche in
  riferimento  ai  parametri precedentemente invocati. Violazione del
  principio  della  leale  collaborazione  tra  i poteri dello Stato,
  anche  in  riferimento  ai  parametri  precedentemente invocati. La
  premessa   dalla   quale   gli  atti  impugnati  muovono,  relativa
  all'esistenza   di  un  contrasto  tra  valori  entrambi  di  rango
  costituzionale,  deve essere condivisa. Non e' dubbio, infatti, che
  tanto  la speditezza del processo quanto la libera esplicazione del
  mandato   parlamentare   e   la   funzionalita'   delle   assemblee
  rappresentative  siano  valori costituzionalmente protetti. Secondo
  concetto,  come  sempre  accade  nel  caso  di contrasto tra valori
  costituzionali,  detto  contrasto  deve  essere composto, e cio' e'
  possibile  solo per mezzo di un prudente bilanciamento tra di essi.
  Proprio  del  bilanciamento,  anche  qui  secondo  concetto, e' che
  nessuno   dei   valori   in   conflitto  debba  essere  interamente
  sacrificato (ove cio' non sia inevitabile), e che di quei valori si
  individui il migliore con temperamento, che deve avvenire secondo i
  canoni della ragionevolezza imposti dall'art. 3 della Costituzione.
  Questo  schema  tipico (e necessitato) del bilanciamento tra valori
  costituzionali,  tanto  frequente  nella  giurisprudenza di codesta
  ecc.ma    Corte    costituzionale    che    qualunque   indicazione
  giurisprudenziale  sarebbe  superflua,  non  e'  stato  seguito dal
  giudice  per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano.
  Cio', fra l'altro, ha determinato anche la violazione del principio
  della  leale  collaborazione tra i poteri dello Stato (sul quale ci
  si  soffermera'  piu' ampiamente in chiusura), che impone a ciascun
  potere  di  comportarsi  in  modo  tale  da  esercitare  le proprie
  attribuzioni  senza  sacrificio  di  quelle  degli  altri. Tanto il
  principio  del  bilanciamento che quello della leale collaborazione
  si invocano in una con i parametri gia' precedentemente menzionati,
  atteso che la salvaguardia dei valori protetti da quei parametri e'
  possibile  solo  a condizione di non sacrificarli totalmente quando
  si trovano a subire il confronto con altri valori costituzionali.
    All'esatta  premessa dalla quale muove, invero, il giudice non fa
  seguire  la  logica  conclusione  ora  ricordata,  in  quanto,  pur
  rilevando  l'esistenza  di  due confliggenti valori costituzionali,
  provvede   alla  salvaguardia  d'uno  solo  di  essi,  sacrificando
  integralmente l'altro.
    Il  modello  disegnato  dalla  giurisprudenza  costituzionale  e'
  tutt'altro.  In  questa  materia,  infatti,  come  ha  limpidamente
  precisato   la  sent.  n. 379  del  1996,  occorre  un  "equilibrio
  razionale  e  misurato  tra  le istanze dello Stato di diritto, che
  tendono   ad   esaltare   i  valori  connessi  all'esercizio  della
  giurisdizione ...   e   la  salvaguardia  di  ambiti  di  autonomia
  parlamentare ...".  La stessa pronuncia non ha mancato di precisare
  che  "il confine tra i due distinti valori (autonomia delle Camere,
  da  un  lato, e legalita'-giurisdizione, dall'altro) e' posto sotto
  la tutela di questa Corte".
    La   logica   di  tale  modello  e',  pertanto,  che  si  proceda
  all'indicato    bilanciamento    tra    i   valori   costituzionali
  eventualmente   confliggenti,  se  possibile  senza  il  sacrificio
  integrale  di  alcuno,  secondo  il  modello  del "contemperamento"
  tipico  anche  di altri settori della giurisprudenza costituzionale
  (sul  punto,  in  dottrina,  da ultimo, G. Scaccia. Gli "strumenti"
  della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, ed. provv., Roma,
  1999,  377  sgg.).  Nella  specie  tale  bilanciamento e' possibile
  proprio  seguendo  la  via  che  si prospetta nel presente ricorso,
  giusta   la   quale   l'impedimento   parlamentare   giustifica  la
  modificazione  dei tempi della funzione giurisdizionale solo quando
  e'   in   giuoco   la  superiore  esigenza  della  validita'  delle
  deliberazioni    della   Camera,   che   puo'   essere   assicurata
  esclusivamente  dal  raggiungimento  delle  maggioranze  prescritte
  dalla   Costituzione.   L'ipotesi   opposta,   seguita  negli  atti
  impugnati,    e'    proprio   quella   del   sacrificio   integrale
  dell'autonomia   parlamentare,   sacrificio   che  e'  in  radicale
  contrasto con la logica del bilanciamento/contemperamento.
      La  conclusione e' dunque obbligata: nel contrasto tra i valori
  in  campo, l'esigenza prima e' quella del bilanciamento nella forma
  del   contemperamento.  Ledono  pertanto  tale  esigenza  gli  atti
  impugnati,   in  quanto  -  senza  che  cio'  fosse  inevitabile  -
  sacrificano  integralmente i valori connessi alla rappresentanza, a
  totale   beneficio   di  quelli  connessi  alla  giurisdizione.  Si
  determina  in  tal  modo,  anzi,  un  vero  e proprio paradosso, in
  quanto, nell'ipotesi che fra tali valori un contemperamento non sia
  possibile,  la  giurisprudenza  costituzionale  afferma  semmai  la
  prevalenza  dei  primi  sui  secondi, in speculare contrapposizione
  alla scelta compiuta con gli atti impugnati.
    Ipotizziamo  (del  tutto  astrattamente,  e nel convincimento che
  tale  ipotesi sia infondata) che il modello del contemperamento non
  possa  essere  seguito.  Ebbene,  non  si  puo' certo negare che il
  principio  dell'efficienza e della snellezza del processo sia stato
  ritenuto,  dalla  giurisprudenza, implicitamente riconosciuto dalla
  Costituzione  (cfr.,  ad  es.,  sent.  n. 460  del  1995). Cio' non
  consente, tuttavia, che in suo nome siano sacrificate l'autonomia e
  l'indipendenza della Camera dei deputati.
    In primo luogo, codesta ecc.ma Corte, nei precedenti nei quali ha
  fatto  valere  quel principio, ha inteso impedire qualunque pratica
  dilatoria,   che   pretestuosamente   intendesse  compromettere  la
  funzionalita'  del  processo.  Atti  che,  pure, sono esercizio del
  diritto  di  difesa,  diventano  abusivi  ed ingiustificati laddove
  mirino  al  solo  scopo  di  rinviare  nel  tempo  il completamento
  dell'iter processuale. E' proprio in ipotesi di tal genere che sono
  state  rese le note declaratorie di incostituzionalita' delle norme
  di  legge  che consentivano atti di questo tipo (sentt. nn. 353 del
  1996;  10 del 1997). Nel caso che ne occupa, pero', il parlamentare
  non  e'  certo  dorminus  delle  cause di impedimento, che derivano
  invece   dall'oggettiva  esistenza  di  un  calendario  dei  lavori
  parlamentari  ch'egli  e'  tenuto  a  rispettare e che non ha certo
  deciso  da  se'.  La  situazione  e' dunque assai diversa da quella
  considerata nelle pronunce sopra ricordate, poiche' l'ostacolo allo
  svolgimento  del processo ha un'oggettivita' che resta del tutto al
  di fuori della disponibilita' del deputato.
    In secondo luogo, non e' possibile (come invece fa il giudice per
  le  indagini preliminari presso il tribunale di Milano) argomentare
  la  superiorita'  delle  esigenze  del  processo  su  quelle  della
  funzione  parlamentare dall'intervenuta modifica dell'art. 68 della
  Costituzione. Certo, l'eliminazione dell'autorizzazione a procedere
  ha  determinato  il  venir meno di un ostacolo al pieno dispiegarsi
  della funzione giurisdizionale. Questo, pero' non e' risolutivo. La
  mera sottoposizione a procedimento penale, infatti, non sarebbe, di
  per   se',   fonte  di  alcun  impedimento  o  pregiudizio  per  il
  parlamentare e per il rigoroso rispetto dei suoi doveri. Che si sia
  prevista  la  possibilita'  di tale sottoposizione a prescindere da
  qualsivoglia  autorizzazione  non  prova, dunque, che si sia voluto
  tutelare  la  funzione  giurisdizionale  a totale scapito di quella
  rappresentativa.
    Tutt'al   contrario,  come  sopra  si  accennava,  vale,  secondo
  l'indirizzo  di codesta ecc.ma Corte, esattamente la reciproca. Per
  stare soltanto alle pronunce piu' significative, bastera' ricordare
  le sentt. nn. 129 del 1981 e 129 del 1996. La sent. n. 129 del 1981
  ha  affermato  (sulla  scia  della  sent.  n. 110  del 1970) che la
  Costituzione  ammette  "deroghe  alla  giurisdizione"  quando e' in
  giuoco   l'autonomia   delle  istituzioni  rappresentative  che  si
  collocano  "a  livello  di  sovranita'"  (cio'  vale  dunque per le
  Camere,  non, invece, per i Consigli regionali). Nella sent. n. 129
  del 1996 si legge, a proposito dei procedimenti relativi a opinioni
  espresse  dai  parlamentari,  che  il  costituente  ha  compiuto un
  "bilanciamento",  in  seguito  al  quale,  "a  tutela del principio
  (corrispondente  a  un interesse generale della comunita' politica)
  di  indipendenza  e  autonomia del potere legislativo nei confronti
  degli   altri   organi   e  poteri  dello  Stato,  l'art. 68  della
  Costituzione  sacrifica  il diritto alla tutela giurisdizionale del
  cittadino  che  si  ritenga offeso nell'onore o in altri beni della
  vita  da opinioni espresse da un senatore o deputato nell'esercizio
  delle sue funzioni".
    L'autonomia  del  Parlamento,  dunque, e' un bene cosi' prezioso,
  che l'esigenza della sua tutela potrebbe, in astratto (e in assenza
  di  soluzioni alternative), addirittura imporre il "sacrificio" del
  diritto    alla    tutela   giurisdizionale,   e   conseguentemente
  dell'esercizio della giurisdizione. Non e' questo, pero', cio' che,
  in  concreto,  deve  accadere  nel presente giudizio, ne' e' questo
  cio'  che  domanda la ricorrente Camera dei deputati. Come sopra si
  e'  dimostrato,  infatti,  tra  l'ipotesi  del sacrificio integrale
  della  giurisdizione  e  l'ipotesi  del  sacrificio integrale della
  rappresentanza      vi      e'      quella      intermedia      del
  bilanciamento/contemperamento  nella forma gia' prima ricordata. La
  tutela  dell'essenza stessa del sistema parlamentare (che sta nella
  validita'  delle deliberazioni delle Camere) e' possibile senza che
  per  questo  si rinunci all'esercizio della giurisdizione, che puo'
  (anche  sollecitamente)  proseguire, con il solo limite (tutt'altro
  che  gravoso) del rispetto dell'attivita' di votazione in Assemblea
  programmata dalla Camera.
    Come   codesta   ecc.ma  Corte  costituzionale  ha  statuito,  il
  principio di leale collaborazione non regge, nel nostro ordinamento
  costituzionale,  soltanto  i  rapporti  intersoggettivi,  ma  anche
  quelli  fra  poteri  dello Stato (sentt. nn. 379 del 1992 e 403 del
  1994).  E'  anche  in questa chiave che va interpretata la presente
  controversia, nella quale - come sopra si e' detto - sono in giuoco
  confliggenti  valori  costituzionali  tra i quali e' indispensabile
  trovare  il  corretto bilanciamento. La posizione della ricorrente,
  intesa  ad  affermare  il  principio che l'impedimento parlamentare
  deve  essere  considerato assoluto ed insuperabile solo nel caso in
  cui  attenga  alla partecipazione a votazioni dell'assemblea, e non
  anche  quando attenga a diverse attivita' dei deputati, si presenta
  come  il  piu' corretto contemperamento tra i valori in giuoco. Non
  tutte  le  sedute  dell'assemblea sono dedicate a votazioni (non in
  tutte,   chinque,   si   assumono   le  deliberazioni  disciplinate
  dall'art. 64  della  Costituzione), poiche' molte sono destinate ad
  altre  attivita'  (discussione  di  progetti di legge; dibattiti di
  vario  contenuto;  svolgimento  dl interrogazioni ed interpellanze,
  ecc.).  Per  stare  ai soli dati del 1998, a fronte di un totale di
  168  sedute,  solo  103  sono  state  destinate  a  votazioni. Cio'
  significa,   chiaramente,   che   la   previsione  dell'assolutezza
  dell'impedimento  parlamentare in riferimento alle sedute destinate
  a  votazioni  non compromette affatto la funzionalita' del processo
  ne'  lede  le  prerogative  dell'autorita'  giudiziaria. Invero, le
  votazioni  non  sono previste quotidianamente: a parte i periodi di
  sospensione,  le  votazioni  sono  in  genere  fissate  nei  giorni
  centrali   della   settimana,   martedi',  mercoledi'  e  giovedi'.
  Nell'anno,  assai meno di un giorno su tre e' mediamente dedicato a
  votazioni in assemblea, e cio' consente di soddisfare pienamente le
  esigenze di celerita' del processo.
    La soluzione qui prospettata, pertanto, e' il punto di equilibrio
  costituzionalmente piu' corretto tra i diversi valori in campo. Non
  solo  il  piu'  corretto, invero, ma anche il piu' certo. La strada
  alternativa, seguita dal giudice per le indagini preliminari presso
  il   tribunale   di   Milano,  si  risolve  infatti  (come  risulta
  espressamente   dalle  ordinanze  e  dagli  altri  atti  impugnati)
  nell'attribuzione  al  giudice  penale  del potere discrezionale di
  valutare,  di  volta  in volta, l'assolutezza dell'impedimento, con
  conseguenti   minori  garanzie  per  la  certezza  non  solo  della
  situazione  soggettiva del singolo deputato, ma della funzionalita'
  e  dell'autonomia della Camera. E' noto che la discrezionalita' del
  giudice,  in  casi  di  questo  tipo,  e' comunque delimitata dalla
  ragionevolezza  e  -  nel  tempo - dal consolidarsi degli indirizzi
  giurisprudenziali  (cfr.  sent.  n. 178  del  1991).  Nondimeno, e'
  evidente  che  un criterio automatico ed oggettivo, come quello che
  conseguirebbe  all'accoglimento  del  presente  ricorso, offrirebbe
  garanzie  di  certezza  largamente superiori. Quello della certezza
  del  diritto,  invero,  e'  un  valore  costituzionale  di primaria
  importanza,  come  anche  la piu' recente giurisprudenza di codesta
  ecc.ma  Corte  ha  chiarito (sent. n. 416 del 1999). L'accoglimento
  del  presente  ricorso,  pertanto,  oltre a ristabilire il corretto
  rapporto   tra  il  valore  dell'efficienza  processuale  e  quello
  dell'autonomia  e dell'indipendenza delle istituzioni parlamentari,
  consentirebbe  il  miglior  soddisfacimento  del  valore, parimenti
  costituzionale, della certezza del diritto.