IL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
    Ha pronunziato la seguente ordinanza;
    Visto  il  ricorso  n. 190/1997  r.g.  proposto  dal  dott. Paolo
  Lambertini,   rappresentato  e  difeso  dall'avv.  Andrea  Mancini,
  avverso  la  decisione  in  data  14  luglio  1997, con la quale il
  consiglio  dell'ordine  degli  avvocati di Ferrara rigettava la sua
  istanza di iscrizione all'albo degli avvocati per incompatibilita';
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visti gli atti di causa;
    Sentito  il  relatore alla pubblica udienza del 23 settembre 1999
  consigliere  Piero  Guido  Alpa  e  udito  il sostituto procuratore
  generale presso la Corte di cassazione, dott. Domenico Iannelli;
    Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue;

                              F a t t o

    1. - Con  ricorso  del  25  luglio  1997, depositato in pari data
  presso  la  segreteria  del consiglio dell'ordine degli avvocati di
  Ferrara,   il   dott.  Paolo  Lambertini,  rappresentato  e  difeso
  dall'avv.  Andrea  Mancini,  del  foro  di Roma, presso il quale e'
  elettivamente   domiciliato   in  viale  delle  Milizie  n. 38,  ha
  impugnato  il provvedimento del suddetto ordine, assunto in data 14
  luglio  1997,  notificatogli  in  data 18 luglio 1997, con il quale
  l'ordine  ha  rigettato la sua domanda di iscrizione all'albo degli
  avvocati di Ferrara.

    2. - La  domanda,  presentata il 21 aprile 1997, precisava che il
  dott.  Lambertini e' iscritto nell'elenco speciale annesso all'albo
  quale  dipendente  del comune di Ferrara addetto all'Ufficio legale
  del  comune  stesso;  l'istante  richiedeva,  ai sensi dell'art. 1,
  commi 55 e 56 della legge n. 662/1996 e dell'art. 6, d.-l. 28 marzo
  1997,  n. 79,  l'ammissione all'albo e la contestuale cancellazione
  dall'elenco  speciale,  essendo  stato  autorizzato  dal comune del
  quale  e'  dipendente a modificare il proprio rapporto di lavoro da
  tempo pieno a tempo parziale.
    Con  lettera  del  19  maggio  1997 l'istante veniva invitato dal
  consiglio  ad  esporre le proprie ragioni all'udienza del 23 maggio
  1997, e quivi depositava memoria a sostegno della propria richiesta
  e  in  replica al parere reso da questo consiglio in data 11 aprile
  1997.
    Il  consiglio,  atteso  il parere sopra richiamato, e altresi' il
  successivo  parere  del  20  giugno  1997, precisato il significato
  delle  disposizioni  invocate dall'istante, e richiamati i principi
  di  indipendenza  e  di  autonomia  degli  esercenti la professione
  forense,   ai   quali   si   contrappone   l'interpretazione  delle
  disposizioni   sopra   richiamate   proposta  dal  richiedente,  ha
  rigettato  la  domanda  di  iscrizione dell'avvocato Lambertini per
  ragioni  di  incompatibilita'  e  ha  disposto  la  cancellazione a
  richiesta  dell'elenco  speciale degli avvocati addetti agli uffici
  legali conservato dall'ordine.

    3. - Nell'atto  di  impugnazione  il ricorrente sottolinea che il
  comma  56-bis  del  decr. cit. ha chiarito il significato del comma
  56,   dell'art.  1  prec.,  introdotto  il  quale  ha  abrogato  le
  disposizioni  che  vietano  l'iscrizione  ad  albi e l'esercizio di
  attivita'  professionale  per  i  soggetti  di  cui al comma 56, ed
  escludere  che  tale  normativa possa ritenersi applicabile a tutti
  gli ordini professionali con eccezione di quello forense.
    Esclude  altresi'  che  sia  fondata  la  distinzione, effettuata
  dell'ordine   forense,   seguendo  in  cio'  il  parere  di  questo
  consiglio,  secondo  la  quale le disposizioni citate sono a tutela
  del  pubblico impiego, mentre l'art. 3, del r.d.l. n. 1578 del 1933
  sarebbe   posto   a   tutela   dell'autonomia  e  dell'indipendenza
  dell'avvocatura. Cio' perche':
        le  disposizioni  invocate,  abrogando i divieti di esercizio
  dell'attivita'   professionale   non  possono  che  riferirsi  alla
  normativa  disciplinante gli albi medesimi e quindi non possono che
  abrogare quelle disposizioni riguardanti gli albi che fanno divieto
  di iscrizione ai dipendenti;
        l'interpretazione   sostenuta   dal  consiglio  ferrarese  si
  risolverebbe  o  nella  disapplicazione  della  legge  finanziaria,
  venendo meno l'incentivo alla richiesta di part-time, con riduzione
  della  retribuzione  e  della spesa delle amministrazioni, o in una
  violazione  del principio di eguaglianza, dovendosi ritenere che la
  professione  forense  abbia  valenza  diversa  rispetto  alle altre
  professioni;
        la  disciplina  invocata  vieta  il  patrocinio ai dipendenti
  part-time dove sia parte una pubblica amministrazione;
        la  disciplina  invocata  ha introdotto ulteriori eccezioni a
  quelle gia' previste dall'art. 3 L.O.F.

    Il  ricorrente  impugna il provvedimento altresi' per motivazione
  erronea  e  insufficiente, in quanto non e' esatto quanto sostenuto
  dal  consiglio ferrarese in ordine all'autonomia e indipendenza dei
  pubblici impiegati, come emerge per conto della disciplina del t.u.
  sul  pubblico  impiego  del  1957,  e  in quanto la motivazione del
  provvedimento  consiste  nell'integrale  riproduzione del testo del
  parere di questo consiglio.

    4. - All'udienza  del  29  gennaio  1997  era  comparso  il dott.
  Lambertini, assistito dall'avv. Mancini.
    Il consigliere relatore avv. Guido Alpa effettuava la relazione.
    Il p.g. Iannelli concludeva per l'accoglimento del ricorso.
    Il  dott.  Lambertini  invitato  dal presidente ad esporre la sua
  posizione  giuridica,  rispondeva:  "sono  impiegato  del comune di
  Ferrara,  addetto  all'ufficio  tributi,  quale  responsabile delle
  imposte locali, nonche' quale addetto al contenzioso tributario. Ho
  chiesto   la  cancellazione  dall'albo  speciale".  L'avv.  Mancini
  perorava  l'istanza  del ricorrente ed insisteva per l'accoglimento
  del ricorso.
    Questo consiglio, con ordinanza del 29 gennaio 1998 sospendeva il
  procedimento   e   deliberava   di  sollevare  dinanzi  alla  Corte
  costituzionale   la  questione  di  costituzionalita'  delle  norme
  invocate  dal  ricorrente per violazione degli artt. 3, 24, 54, 70,
  97, 98, 101 e 104 Cost.
    La Corte costituzionale, con ordinanza n. 183 del 20 maggio 1999,
  ha  ritenuto la questione manifestamente inammissibile, per mancata
  integrazione  del contraddittorio nel giudizio dinanzi al consiglio
  nazionale   forense   (C.N.F.),   con   riferimento   al  consiglio
  dell'ordine  degli avvocati (C.O.A.) il cui provvedimento era stato
  impugnato.
    Pertanto,  non  essendosi  la Corte costituzionale pronunziata in
  merito,  il  consiglio  nazionale  forense,  nella  sua qualita' di
  giudice  speciale  ai  sensi  dell'art.  111 Cost., e dell VI disp.
  trans.   Cost.,  non  potendo  decidere  la  questione  senza  fare
  applicazione  delle  norme di cui ai commi 56 e 56-bis dell'art. 1,
  legge   23   dicembre   1996,   n. 662,  solleva  la  questione  di
  legittimita'  costituzionale  delle  norme stesse, ex art. 23 della
  legge 11 marzo 1953, n. 87, per le seguenti argomentazioni.

                            D i r i t t o

    1. - La  Corte costituzionale, con ordinanza n. 183 del 20 maggio
  1999,  riteneva  la  questione  manifestamente  inammissibile,  per
  mancata  integrazione  del  contraddittorio nel giudizio dinanzi al
  consiglio  nazionale  forense (C.N.F.), con riferimento ai consigli
  dell'ordine  degli  avvocati (C.O.A) i cui provvedimenti sono stati
  impugnati.

    1.1. - La Corte ha infatti ritenuto, coerentemente con i principi
  generali  in  forza dei quali i consigli dell'ordine degli avvocati
  (C.O.A.)  agiscono  in  qualita'  di autorita' amministrative i cui
  atti  possono  essere  impugnati  di  fronte  al giudice competente
  (appunto  il  C.N.F.),  che il C.O.A. stessi siano parte necessaria
  nel giudizio dinanzi al C.N.F.

    1.2. - La Corte ha inoltre rilevato:
        che  non  sarebbero  stati  osservati  gli adempimenti che la
  legge impone al consiglio nazionale forense (C.N.F.) per consentire
  ai  consigli  dell'ordine di "... prender parte al giudizio, almeno
  mediante  l'esecuzione  degli adempimenti di cui agli artt. 60 e 61
  del  r.d.  22 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e d'attuazione
  del  r.d.-l.  27 novembre  1933,  n. 1578,  sull'ordinamento  della
  professione d'avvocato)";
        "che il mancato compimento dell'attivita' minima necessaria a
  porre  le  parti  in rapporto fra loro (e con il giudice) determina
  un'abnormita'  del  procedimento  rilevabile  ictu oculi" e "che la
  suddetta  abnormita'  comporta  la manifesta inammissibilita' della
  questione ...".

    2. - In    merito    alla    questione    dell'integrazione   del
  contraddittorio,  si  osserva  che  il  consiglio nazionale forense
  (C.N.F.)  ha  regolarmente  comunicato al C.O.A. di Ferrara, autore
  del   provvedimento   impugnato  l'avvenuta  ricezione  degli  atti
  relativi  al  deposito  del  ricorso,  effettuata  presso lo stesso
  C.O.A.  (art.  59,  r.d.  22 gennaio 1934, n. 37), con raccomandata
  r.r.  6  novembre  1997  (che  si allega in copia), nonche' inviato
  regolarmente comunicazione dell'avvenuta fissazione dell'udienza ai
  sensi  del  richiamato  art.  61, con raccomandata r.r. 12 dicembre
  1997 (che si allega in copia).

    2.1. - Sulla   base  delle  considerazioni  espresse  sub  2,  il
  consiglio  nazionale  forense  ritiene che siano state adempiute le
  prescrizioni   che   la   legge   impone  ai  fini  della  corretta
  instaurazione   del   contraddittorio,   e   che  la  questione  di
  costituzionalita'   sollevata   non   sia  pertanto  manifestamente
  inammissibile.

    3. - Il   consiglio   nazionale  forense  ritiene  opportuno  non
  prescindere  dal  ribadire la propria legittimazione a sollevare la
  questione  di  costituzionalita',  in relazione alla considerazione
  resa  dalla  Corte costituzionale nell'ordinanza n. 183/1999, nella
  quale si legge "... anche a prescindere da qualsiasi valutazione in
  ordine  alla  conformita'  a  costituzione  del consiglio nazionale
  forense quale giudice speciale ...".

    3.1. - Il  consiglio  nazionale  forense,  in  qualita' di organo
  esercitante  funzioni, oltre che amministrative, anche propriamente
  giurisdizionali,  e'  giudice  speciale  ai  sensi dell'art. 111, e
  della   VI   disposizione   transitoria  della  Costituzione  della
  Repubblica,  ed  e'  pertanto  pienamente  legittimato  a sollevare
  questione  di  legittimita'  costituzionale  di norme o di parti di
  norme  di  legge  e  atti aventi forza di legge dello Stato e delle
  regioni, ex art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87.

    3.2. - Com'e'  noto,  l'art.  102  Cost.  si limita a disporre il
  divieto  di  "istituzione"  di  giudici speciali, nel quadro di una
  generale   opzione   del   costituente   verso   l'unicita'   della
  giurisdizione,  ma  non  dispone  ipso  iure  la soppressione delle
  giurisdizioni  speciali  operanti al momento dell'entrata in vigore
  della   Costituzione,   per   le   quali,  piu'  limitatamente,  la
  Costituzione stessa prevede, nella citata disposizione transitoria,
  la  possibilita'  di  una "revisione" (e non di una "soppressione")
  entro cinque anni dall'entrata in vigore della Costituzione stessa.

    3.3. - La  Corte costituzionale ha ritenuto il termine dei cinque
  anni  avente  natura  meramente  ordinatoria  (sentenza 23 dicembre
  1986,  n. 284,  in  Foro  it.,  1988,  I,  n. 3563,  punto  3,  del
  considerato   in   diritto).   Anche,  poi,  a  volere  considerare
  perentorio  il  termine,  e'  evidente che cio' non puo' di per se'
  comportare  la  radicale  incostituzionalita'  dei giudici speciali
  esistenti,  non essendo l'espressione "revisione" certo equivalente
  al  termine  "soppressione",  o "eliminazione". Solo il legislatore
  ordinario,  in  virtu'  della riserva di legge di cui alla VI disp.
  trans.   Cost.,   "...  dovra'  in  quella  sede  valutare  se  sia
  conveniente  sopprimerli, con l'eventuale trasformazione in sezioni
  specializzate  dei  tribunali  ordinari,  ovvero mantenerli, con le
  opportune modificazioni ..." (punto 3 del considerato in diritto).
    E   cio'   forse   a  temperare,  in  direzione  di  un  impianto
  pluralistico dell'assetto delle istituzioni di giustizia, l'opzione
  succitata  verso  il  principio  di  unicita'  della  giurisdizione
  (Azzariti).

    3.4. - Non  vale  certo,  ad  escludere  la  qualita'  di giudice
  speciale del consiglio nazionale forense allorche' giudichi in sede
  di  gravame  avverso  le decisioni dei C.O.A., la circostanza della
  contitolarita'  in  capo al C.N.F., di funzioni amministrative e di
  funzioni giurisdizionali.
    La  Corte  costituzionale  ha  avuto  modo  di  ribadire  che  la
  coesistenza di funzioni amministrative in capo ad organo che svolge
  funzioni  giurisdizionali  non  esclude  di per se' l'ineliminabile
  requisito  costituzionale  dell'indipendenza,  secondo  il disposto
  degli artt. 101 e 108 Cost. (Corte cost. 22 gennaio 1976, n. 25, in
  Foro it., 1979, I, 1; 27 maggio 1968, n. 49, id., 1968, I, n. 1383;
  23 dicembre 1986, n. 284, id. I, n. 3563; e, piu' di recente, Corte
  cost. 8 luglio 1992, n. 326, in Giur. cost., 1992, fasc. 4).

    3.4. - Ne'    vale,   ad   escludere   la   natura   propriamente
  giurisdizionale  del Consiglio nazionale forense allorche' giudichi
  in  sede di gravame avverso le decisioni dei C.O.A., la circostanza
  della natura elettiva dell'organo.
    Nella  citata  sentenza  n. 284/1986,  la Corte costituzionale ha
  avuto   modo  di  chiarire  come  il  criterio  elettivo,  peraltro
  costituzionalmente  previsto  all'art.  106,  secondo  comma Cost.,
  possa  ben  conciliarsi  con  il requisito dell'indipendenza, e che
  occorra  avere  riguardo,  piuttosto,  alle  concrete  modalita' di
  scelta dei componenti l'organo giudicante.
    Ora,  secondo l'ordinamento vigente della professione d'avvocato,
  il  meccanismo  di  elezione  dei componenti il consiglio nazionale
  forense,  basato  sull'elezione  da  parte  dei componenti dei vari
  consigli  degli  ordini  degli  avvocati, a loro volta eletti dagli
  iscritti  all'albo, integra un sistema elettorale di secondo grado,
  di  per  se'  particolarmente idoneo ad assicurare la selezione dei
  candidati  di  alto  profilo morale e intellettuale, qualificati da
  esperienza   e   conoscenza   assai  approfondita  delle  questioni
  attinenti  l'ordinamento  forense,  e  del  tutto  al  riparo,  per
  l'autorevolezza  delle  personalita',  se  non  per l'autorita' che
  rivestono,   dalla   possibilita'  di  condizionamenti  contingenti
  nell'esercizio  delle  funzioni  loro assegnate, da qualsiasi parte
  essi provengano.
    Sembra  anzi  a  questo  consiglio  nazionale che un tale assetto
  ordinamentale, che ha consentito in passato l'elezione a presidente
  del  consiglio  nazionale e rappresentante dell'avvocatura italiana
  tutta  di personalita' quali Vittorio Scialoja e Piero Calamandrei,
  vada   gelosamente   custodito   nell'interesse   della   comunita'
  nazionale,  giacche'  la  conservazione  della  qualita'  di organo
  giurisdizionale  in  capo  al  C.N.F.  appare  il migliore presidio
  dell'indipendenza   e   dell'autonomia   dell'avvocatura   e  degli
  avvocati, e quindi dell'effettivita' della difesa e dell'assistenza
  in  giudizio,  secondo  il disposto dell'art. 24 della Costituzione
  della Repubblica.

    3.6. - Non  depone  inoltre  nel  senso  dell'incostituzionalita'
  della   c.d.  giurisdizione  disciplinare  la  circostanza  che  il
  consiglio  nazionale  forense giudichi su oggetti appartenenti alla
  medesima   categoria  professionale.  La  Corte  costituzionale  ha
  infatti ritenuto che tale circostanza non pregiudichi di per se' il
  requisito  dell'indipendenza  del giudice, riconoscendo in forza di
  tale  assunto  natura  propriamente  giurisdizionale  alla  sezione
  disciplinare  del Consiglio  superiore della magistratura, composto
  per  due terzi da magistrati (sentenza n. 12 del 1971, in Foro it.,
  1971, n. I, 536).

    3.7. - Al  riconoscimento  della  natura  giurisdizionale di tale
  attivita'  decisoria  del  consiglio nazionale forense e' pervenuto
  del  resto implicitamente lo stesso giudice delle leggi, allorche',
  nella  sentenza  del  6  luglio  1970, n. 114 (in Foro it. 1970, I,
  n. 2303),   ha   osservato  che  "...  il  consiglio  nazionale,  a
  differenza  dei  singoli  consigli  dell'ordine,  svolge, quanto e'
  richiamato  a  decidere sui ricorsi contro i provvedimenti adottati
  da  detti  consigli,  funzione  giurisdizionale per la tutela di un
  interesse    pubblicistico,    esterno   e   superiore   a   quello
  dell'interesse  del  gruppo  professionale:  il  che  puo'  trovare
  conferma  nella  ricorribilita'  contro  le decisioni del consiglio
  nazionale alle sezioni unite della Corte di cassazione".
    Per  gli  stessi  motivi  la  Corte  costituzionale aveva infatti
  escluso  la  legittimazione  alla  sollevazione  della questione di
  costituzionalita'  di  un consiglio dell'ordine degli avvocati, che
  aveva erroneamente argomentato circa la propria qualita' di giudice
  a quo muovendo dalla considerazione dei poteri che spettano al p.m.
  nell'ambito del procedimento disciplinare dinanzi al C.O.A. stesso;
  tali  poteri  vanno piu' propriamente inquadrati nell'ambito di una
  attivita'   di   collaborazione   all'esercizio   di  una  funzione
  amministrativa,   resa   a   tutela  di  un  interesse  del  gruppo
  professionale,  mentre  "... quando il procedimento si sposta nella
  sede  del  reclamo le funzioni del pubblico ministero si esercitano
  ai  fini  della tutela di un interesse esterno a quello del gruppo,
  diverso e distinto dall'altro che si incentra nell'ordine".
    La  Corte  mostra  di  riconoscere come la natura giurisdizionale
  dell'attivita' decisoria resa dal C.N.F. in sede di gravame avverso
  le  decisioni dei C.O.A. sia collegata all'esigenza superiore della
  tutela di interessi pubblici, mentre l'attivita' resa dai C.O.A. in
  sede disciplinare resta a presidio degli interessi collettivi della
  categoria professionale.

    4. - Nella succitata sentenza n. 284/1986, la Corte si riserva di
  valutare,  a prescindere dal potere di "revisione" del legislatore,
  se,  nel  caso  concreto,  il  giudizio che si svolge innanzi ad un
  Consiglio  nazionale  professionale istituito prima dell'entrata in
  vigore  della Costituzione sia conforme ai canoni costituzionali, e
  specialmente, come prima accennato, al canone dell'indipendenza del
  giudice e al principio della piena garanzia del contraddittorio nel
  procedimento.

    4.1. - Il  C.N.F. ritiene che le caratteristiche del procedimento
  decisorio  che si instaura innanzi al consiglio nazionale forense a
  seguito dell'impugnazione di un provvedimento di un C.O.A. presenti
  anche   sul   piano  oggettivo  le  caratteristiche  strutturali  e
  funzionali di un'attivita' propriamente giurisdizionale.

    4.2. - Con    riguardo   infatti   al   profilo   oggettivo   del
  funzionamento  dell'organo, si osserva che le particolari modalita'
  del  procedimento  a  conclusione  del  quale  e' resa la decisione
  sembrano  soddisfare  pienamente  il  rispetto dei canoni di cui al
  suesteso punto 4.
    Il   procedimento  innanzi  al  consiglio  nazionale  forense  e'
  disciplinato  dal capo IV del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 (artt. 59
  e segg.).
    Il ricorso avverso la decisione del C.O.A. e' effettuato mediante
  deposito  presso  la  segreteria  del  C.O.A.  stesso, che provvede
  immediatamente a darne comunicazione alle altre parti e al pubblico
  ministero.
    Le   parti  interessate  possono  prendere  visione  degli  atti,
  produrre  deduzioni  ed esibire documenti, che vengono inseriti nel
  fascicolo trasmesso al consiglio nazionale forense.
    Le  parti  interessate  devono eleggere domicilio in Roma ai fini
  delle  comunicazioni  e  delle  notificazioni  prescritte,  e darne
  avviso alla segreteria del consiglio nazionale forense.
    Il  professionista  interessato  puo' farsi assistere da avvocato
  abilitato   al  patrocinio  dinanzi  alle  giurisdizioni  superiori
  (iscritto cioe' nell'albo speciale di cui all'art. 33 del r.d.l. 27
  novembre 1933, n. 1578).
    La   segreteria  del  consiglio  nazionale  forense,  non  appena
  ricevuti  gli  atti  del ricorso, li comunica al pubblico ministero
  presso  la Corte di cassazione, che li restituisce entro i quindici
  giorni  successivi  alla  ricezione,  e  avverte il ricorrente e le
  altre  parti  interessate  che gli atti rimarranno depositati negli
  uffici  del  consiglio  nazionale  per il termine di dieci giorni a
  decorrere  dal  giorno  successivo  a  quello  in  cui  il pubblico
  ministero deve effettuarne la restituzione.
    Durante  il  termine  succitato  il ricorrente, il difensore e le
  altre  parti  hanno  facolta'  di  prendere  visione degli atti, di
  proporre  deduzioni  e  di  esibire  documenti.  La stessa facolta'
  spetta al pubblico ministero presso la Corte di cassazione.
    Il   presidente   del   consiglio  nazionale  forense  nomina  il
  consigliere   relatore   e   fissa  la  data  dell'udienza  per  la
  discussione.
    Di   tale   provvedimento  e'  data  immediata  comunicazione  al
  ricorrente  ed  alle  altre  parti  con  indicazione  del  giorno e
  dell'ora in cui la seduta avra' luogo.
    La  discussione  del  ricorso  avviene  in  udienza pubblica, con
  intervento del pubblico ministero, dopo la relazione effettuata dal
  consigliere relatore.
    Il  professionista  interessato  puo'  esporre  le  sue deduzioni
  personalmente o a mezzo del difensore.
    Il  consiglio  nazionale  procede,  su  richiesta  delle  parti o
  d'ufficio,  a  tutte  le indagini necessarie per l'accertamento dei
  fatti.
    La  decisione  del  ricorso e' deliberata senza la presenza delle
  parti,  cioe'  dell'incolpato  e del suo difensore, e del C.O.A. il
  cui  provvedimento  e'  stato  impugnato,  e  senza la presenza del
  pubblico  ministero.  Mentre  infatti la norma originaria disponeva
  che  "il  pubblico  ministero  assiste  alla  decisione"  (art. 63,
  secondo  comma,  r.d. 22 gennaio  1934), la Corte costituzionale ha
  dichiarato  illegittima per violazione dell'art. 24, secondo comma,
  Cost.,  l'assistenza del p.m. nel momento della deliberazione della
  decisione,  a  fronte  del  corrispondente  obbligo di allontanarsi
  dell'incolpato  e  del di lui difensore (sentenza 17 febbraio 1972,
  n. 27, in Foro it., 1972, I, n. 568).
    Nella  citata  sentenza,  la Corte ha rilevato che "l'esame delle
  disposizioni  concernenti  i  procedimenti  disciplinari innanzi al
  consiglio nazionale forense (artt. 59 e 68 r.d. n. 37 del 1934) non
  lascia  adito  a  dubbi  sulla  posizione  di  parte  che assume il
  pubblico ministero ...".
    La   Corte  ha  ritenuto  inoltre  di  equiparare  pienamente  ai
  procedimenti giurisdizionali ordinari il procedimento che si svolge
  in  sede di giurisdizione disciplinare innanzi al C.N.F., asserendo
  che   "la  veste  e  la  attribuzioni  del  p.m.  nei  procedimenti
  disciplinari  innanzi  al  consiglio  nazionale  forense  non  sono
  dissimili  da  quelle spettanti al p.m. nei procedimenti ordinari e
  cio' nondimeno per questi ultimi, l'ordinamento giudiziario vigente
  detta  una  norma  generale  di  contenuto  diametralmente  opposto
  sancendo   appunto   il  divieto  per  i  p.m.  di  assistere  alla
  deliberazione  della decisione delle cause civili e penali da parte
  dei giudici di merito".

    4.3. - La   Corte   costituzionale   ha  dunque  sancito  che  la
  deliberazione  della  decisione  del consiglio nazionale forense e'
  "la  fase  conclusiva  piu'  delicata  del  giudizio,  (e') compito
  esclusivo   dell'organo   giudicante",   e   proprio   a   garanzia
  dell'indipendenza  di  tale  organo,  la  presenza  del p.m., parte
  processuale,  non  ha ragione di essere, realizzando piuttosto "una
  situazione  di  vantaggio  con  evidente menomazione del diritto di
  difesa dell'incolpato".

    4.4. - Anche  le  caratteristiche  della  decisione  del  ricorso
  confermano  la  natura  propriamente giurisdizionale dell'attivita'
  resa.
    Il  provvedimento  decisorio  assume  infatti  le  forme  di  una
  sentenza  pronunziata  in nome del popolo italiano, e presenta come
  elementi  necessari,  l'indicazione  dell'oggetto  del  ricorso, le
  deduzioni  del ricorrente, le conclusioni del pubblico ministero, i
  motivi  sui  quali  si  fondano,  il dispositivo, l'indicazione del
  giorno   del   mese   e  dell'anno  in  cui  sono  pronunziate,  la
  sottoscrizione  del  presidente  e del segretario, la pubblicazione
  mediante  deposito nella segreteria del consiglio, la comunicazione
  immediata  al  procuratore  generale  presso la Corte di cassazione
  (cui  si comunicano anche le date delle notificazioni eseguite alle
  altre  parti  interessate),  e  soprattutto  l'impugnabilita' delle
  sentenze   stesse   dinanzi   alle  sezioni  unite  alla  Corte  di
  cassazione,  presidio dell'uniforme interpretazione ed applicazione
  del diritto oggettivo nell'ordinamento.

    4.5. - In   conclusione,   la  natura  di  giudice  speciale  del
  consiglio  nazionale  forense  appare  confermata da un'analisi del
  profilo  soggettivo delle caratteristiche dell'organo giudicante, e
  dall'analisi  del  profilo  oggettivo  attinente  alle modalita' di
  svolgimento  di  un  procedimento decisorio scandito da particolari
  ritualita' e requisiti di riforma, a garanzia dell'indipendenza del
  giudice  e del rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa
  di  cui all'art. 24 Cost., anche in virtu' delle ulteriori garanzie
  introdotte dalla citata giurisprudenza del giudice delle leggi.

    5. - Il   consiglio  nazionale  forense,  ritenendo  pertanto  la
  questione ammissibile, e reputando di essere pienamente legittimato
  a  sollevarla,  intende riproporre, per i seguenti ordini i motivi,
  la  questione  di legittimita' costituzionale della norma di cui al
  comma  56,  dell'art.  1, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, che
  recita: "56. Le disposizioni di cui all'art. 58, comma 1 del d.lgs.
  3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni,
  nonche'  le  disposizioni  di  legge  e  di regolamento che vietano
  l'iscrizione  in  albi professionali non si applicano ai dipendenti
  delle  pubbliche  amministrazioni  con  rapporto  di lavoro a tempo
  parziale,  con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento
  di  quella  a  tempo  pieno";  nonche'  della norma di cui al comma
  56-bis  dell'art. 1, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, inserito
  in  forza  dell'art.  6,  della  legge  28 maggio 1997, n. 140, che
  recita:  "2.  dopo  il comma 56, dell'art. 1 della lege 23 dicembre
  1996,  n. 662,  e'  inserito il seguente: "56-bis. Sono abrogate le
  disposizioni  che  vietano  l'iscrizione  ad  albi e l'esercizio di
  attivita' professionali per i soggetti di cui al comma 56.
    Restano  ferme  le altre disposizioni in materia di requisiti per
  l'iscrizione ad albi professionali e per l'esercizio delle relative
  attivita'.  Ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e
  che esercitano attivita' professionale non possono essere conferiti
  incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche; gli stessi
  dipendenti non possono assumere il patrocinio in controversie nelle
  quali sia parte una pubblica amministrazione".

    6. - La  questione  di legittimita' costituzionale delle norme di
  cui  ai commi 56 e 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996,
  n. 662,  e'  rilevante  per  la  decisione  del giudizio principale
  innanzi al consiglio nazionale forense, che non puo' infatti essere
  definito  indipendentemente dalla risoluzione della questione (art.
  23, legge 11 marzo 1953, n. 87).
    Il ricorrente chiede infatti l'iscrizione all'albo degli avvocati
  in  forza  dell'applicazione  delle norme succitate, che dispongono
  l'abrogazione    parziale   delle   disposizioni   che   sanciscono
  l'incompatibilita'  tra  l'esercizio della professione forense e la
  condizione di dipendente pubblico (art. 3, r.d.l. 27 novembre 1933,
  n. 1578).

    7. - La  questione  di  legittimita'  costituzionale  delle norme
  succitate  non e' manifestamente infondata (art. 23, legge 11 marzo
  1953, n. 87).
    Invero  diversi  appaiono  i  profili di dubbio circa la coerenza
  delle   norme  con  diverse  disposizioni  della  Costituzione,  in
  particolare  rispetto all'art. 3, all'art. 4, all'art. 24, all'art.
  97, all'art. 98.

    8. - Numerosi sono i profili di dubbio circa la costituzionalita'
  della  norma rispetto all'art. 97 e all'art. 98 della Costituzione,
  che  sanciscono  i  principi  di  imparzialita' e di buon andamento
  della  pubblica  amministrazione,  nonche'  l'obbligo  esclusivo di
  fedelta' alla Nazione dei pubblici impiegati.
    Va  innanzi  tutto  precisato  che  le  norme  hanno  un campo di
  applicazione  particolarmente  vasto, rimuovendo l'incompatibilita'
  tra  l'attivita' di dipendente pubblico part-time, e l'esercizio di
  tutte le professioni intellettuali.

    8.1. - Con  riferimento al principio di imparzialita', si osserva
  che l'attivita' di dipendente pubblico, seppure part-time, comporta
  in   caso  al  soggetto  una  serie  di  obblighi  e  facolta'  che
  identificano  uno  status  particolare  di  lavoratore subordinato,
  qualificato,  nonostante  le tendenze in atto nell'ordinamento alla
  progressiva  equiparazione  del  rapporto  di  impiego  pubblico al
  rapporto  di impiego privato, da uno stringente obbligo di fedelta'
  alla  pubblica  amministrazione  presso  la  quale  il  soggetto e'
  incardinato,  secondo il suo specifico rapporto di servizio: status
  simbolicamente   ed  enfaticamente  ipostatizzato  in  Costituzione
  all'art.  98,  primo  comma,  che  appunto sancisce che "I pubblici
  impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione".
    Il   rapporto   d'ufficio,   a   volte  addirittura  rapporto  di
  immedesimazione    organica,   tra   il   pubblico   dipendente   e
  l'amministrazione  per  la  quale  svolge  le  proprie  prestazioni
  lavorative,   e'  basato  sul  dovere  d'ufficio  di  perseguire  e
  proteggere   l'interesse   pubblico  primario  affidato  alla  cura
  dell'amministrazione  stessa,  in  base  al  principio di legalita'
  dell'azione amministrativa.
    Il  dovere  di  imparzialita'  si  concreta  sia in una posizione
  soggettiva   di  prudente  equidistanza  dagli  interessi  privati,
  collettivi    e/o    individuali,   eventualmente   coinvolti   nel
  procedimento,  con conseguente obbligo di astensione ogni qualvolta
  "...  l'amministrazione  non  si trovi in una posizione di assoluta
  serenita'  rispetto  alla deliberazione da adottare" (Barile), sia,
  sul  piano  oggettivo, nella necessita', per la p.a. procedente, di
  valutare  e  ponderare  tutti  gli interessi tutelati dalla legge e
  coinvolti  nell'azione amministrativa, e nella conseguente adozione
  delle  scelte discrezionali in base a criteri previsti dalla legge,
  o   conformemente  ad  indirizzi  generali,  fissati  dagli  organi
  competenti o dalla stessa p.a. (Cerri, Berti).

    8.2. - Anche in principio di buon andamento, del quale i principi
  di economicita', efficacia e pubblicita' dell'azione amministrativa
  costutuiscono  esplicazione,  ai  sensi  dell'art. 1, della legge 7
  agosto   1990,  n. 241,  contribuisce  a  ritagliare  intorno  alla
  posizione  del pubblico dipendente uno status caratterizzato da una
  notevole  serie  di  obblighi  e doveri. Dopo un primo orientamento
  della giurisprudenza e della dottrina volto a negare giuridicita' e
  precettivita'  al principio in parola, considerato oggetto di norma
  programmatica,  dottrina  (Andreani)  e giurisprudenza (vedi ad es.
  Corte  costituzionale  25  luglio  1996,  n. 313)  ne  hanno invece
  individuato un duplice significato giuridico: obbligo di conseguire
  un  risultato  che  assicuri  ponderata  soddisfazione  a tutti gli
  interessi  pubblici  coinvolti;  indicazione dei mezzi attraverso i
  quali conseguire quel risultato.
    Coordinando  tali  esiti  dottrinari  con  l'impianto democratico
  della   Costituzione,   ed  in  particolare  con  il  principio  di
  eguaglianza  sostanziale  di  cui  all'art. 3, il principio di buon
  andamento  assumerebbe una differente prospettiva in riferimento ad
  un'amministrazione  di "prestazione" e ad una di "regolazione"; nel
  primo   settore  il  principio  implicherebbe  l'adeguamento  delle
  strutture,   dei   mezzi   e   del   personale  alle  esigenze  del
  cittadino-utente,  in  modo  da  assicurare il pieno sviluppo della
  persona  e la sua effettiva partecipazione; nell'amministrazione di
  regolazione,  quella basata sui provvedimenti autoritativi, il buon
  andamento  consterebbe  invece nell'adeguamento dei procedimenti al
  fine  di  assicurare  una combinazione degli interessi coinvolti in
  concorso  con i soggetti pubblici e privati, singoli e associazioni
  titolari di quegli interessi.
    Cosi',   dunque,   come   l'imparzialita'   mira   ad  assicurare
  l'eguaglianza    "formale",    il    buon    andamento    mirerebbe
  all'eguaglianza  "sostanziale" nell'amministrazione di prestazione,
  al  superamento  del  carattere unilaterale nell'amministrazione di
  regolazione.

    8.3. - Tali doveri mal si conciliano con la fisiologica vicinanza
  agli   interessi  giuridicamente  rilevanti  -  od  anche  ai  meri
  interessi  materiali - della clientela, che la condizione di libero
  professionista ontologicamente comporta.
    Si  pensi ad un dottore o ragioniere commercialista che sia anche
  pubblico dipendente di un ufficio dell'amministrazione finanziaria,
  centrale o periferica, o dell'ufficio imposte di un ente locale. In
  questo  caso  si  appalesa  evidente  l'immanente  contrasto tra il
  dovere d'ufficio e il dovere professionale che gravano sul medesimo
  soggetto,    con   il   rischio   di   un   sistematico   nocumento
  all'imparzialita'  dell'azione amministrativa arrecato dal pubblico
  dipendente che sia anche libero professionista.

    8.4. - Se   l'inconciliabilita'   tra  il  dovere  d'ufficio  del
  pubblico  dipendente  e  il dovere professionale del professionista
  assume   carattere  generale,  pur  tuttavia  la  questione  e'  di
  particolare   delicatezza   con   riferimento  all'esercizio  della
  professione  d'avvocato,  la  cui  indipendenza  ed  autonomia sono
  presupposto dell'effettivita' del diritto costituzionale di difesa,
  secondo il disposto dell'art. 24 Cost., e laddove l'imparzialita' e
  il  buon  andamento  colpiti  sarebbero quelli dell'amministrazione
  della giustizia.
    Mal    si    concilia    con    la   legalita'   e   l'efficienza
  dell'amministrazione    della    giustizia,    gia'    cronicamente
  problematiche  nel nostro paese, la posizione dell'avvocato che sia
  anche  dipendente  di  un  ufficio  giudiziario,  e sia magari alle
  dipendenze  funzionali  di un magistrato in servizio. Sorge inoltre
  il  dubbio  che  l'avvocato dipendente pubblico part-time possa non
  sentirsi    pienamente    libero    di   assumere,   nell'interesse
  dell'assistito,  iniziative  e condotte difensive che sappia essere
  invise  al  titolare  dell'ufficio  giudiziario  a lui sovraodinato
  nell'ambito del rapporto di pubblico impiego.
    Nel  conflitto  tra  le  due  apparenze e le due responsabilita',
  l'avvocato  -  a  torto o a ragione non rileva - potrebbe ritenersi
  limitato nel disimpiegamento di tutte le attivita' di difesa che la
  legge   consente,   e   rinunziare  a  taluni  atti,  con  evidente
  pregiudizio   della   posizione   dell'assistito,  oppure  potrebbe
  giovarsi della sua posizione all'interno dell'amministrazione della
  giustizia  per procurare inebiti vantaggi, con evidente pregiudizio
  dell'imparzialita'   e  del  buon  andamento  dell'amministrazione:
  nell'un  caso avremmo una grave violazione dell'art. 24, nell'altro
  una grave violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione.
    Le  considerazioni  qui  esposte giustificherebbero una pronunzia
  additiva  della Corte costituzionale, nel senso della dichiarazione
  di  illegittimita'  costituzionale delle norme di cui ai commi 56 e
  56-bis  dell'art.  1  della  legge  23 dicembre 1996, n. 662, nella
  parte  in  cui  queste  non escludono la professione d'avvocato dal
  proprio campo di applicazione (vedi oltre, punto n. 13).

    9. - All'atto  di  valutare  la legittimita' costituzionale della
  compatibilita'   tra   l'esercizio   della   libera  professione  e
  l'attivita' di docenza nelle scuole (disposta dall'art. 92, sesto e
  settimo   comma,   d.P.R.   31   maggio  1974,  n. 417),  la  Corte
  costituzionale  ha  avuto  modo di giustificare la deroga al regime
  ordinario  di  incompatibilita'  previsto nell'ordinamento di varie
  professioni  libere,  con  la  considerazione  "...  dell'influenza
  positiva  che  all'attivita'  didattica puo' derivare dalla pratica
  professionale  ..."  (sentenza  n. 284/1986,  citato,  punto 8, del
  considerato  in  diritto),  e  solo  in ragione di tale specialita'
  della  condizione  del  dipendente  pubblico-docente ha ritenuto la
  norma censurata in quell'occasione conforme a Costituzione.
    Se e' vero che il libero professionista puo' in ragione della sua
  attivita' arricchire i contenuti didattici dell'insegnamento con il
  patrimonio  culturale  dell'esperienza  concreta,  la  norma citata
  prevede che, in ogni caso, l'esercizio delle libere professioni non
  debba   recare   "...  pregiudizio  all'assolvimento  di  tutte  le
  attivita'  inerenti  alla  funzione  docente"  e  che  tali  libere
  professioni  "...  siano compatibili con l'orario di insegnamento e
  di  servizio";  cio' che qui piu' conta evidenziare e' che la Corte
  riconosce  essenziale  l'apposizione  di questo limite generale per
  escludere  l'incostituzionalita'  della  norma per violazione degli
  artt. 97 e 98 Cost.

    9.1. - Ora,  nel  caso  in esame, i commi 56 e 56-bis dell'art. 1
  della  legge  23  dicembre  1996,  n. 662, non pongono alcun limite
  specifico,  in  ragione degli interessi costituzionalmente protetti
  dagli  artt.  97  e  98,  alla  facolta'  di  esercitare  la libera
  professione   per  i  dipendenti  pubblici  part-time,  se  non  la
  precisazione   che   "ai   dipendenti  pubblici  iscritti  ad  albi
  professionali  e che esercitano attivita' professionale non possono
  essere  conferiti  incarichi  professionali  dalle  amministrazioni
  pubbliche; gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio
  in    controversie    nelle    quali   sia   parte   una   pubblica
  amministrazione".
    Tale   preclusione   non   appare   assolutamente  sufficiente  a
  scongiurare  il  pericolo  di  violazione  sistematica  delle  nome
  costituzionali citate, e sia sufficiente al riguardo richiamare gli
  esempi e le argomentazioni spese sub-7.2.1, e 7.2.2.

    10. - E   non   sembra  a  questo  consiglio  nazionale  che  sia
  irrilevante   per  la  valutazione  della  costituzionalita'  delle
  disposizioni   in   oggetto  la  condizione  di  evidente  maggiore
  appetibilita'  sul  mercato  di  un  professionista  che  sia anche
  pubblico dipendente, e che possa pertanto giovarsi della conoscenza
  oggettiva   della   macchina  amministrativa,  e  della  conoscenza
  personale di interlocutori istituzionali della clientela.
    E  cio'  non tanto per la lesione del principio della liberta' di
  concorrenza    tra   operatori   professionali,   quanto   per   la
  considerazione  che  chi  entra  in  un  mercato  professionale  da
  pubblico  dipendente  si avvale di un bagaglio di nozioni tecniche,
  scientifiche,  o  anche  solo  di  carattere  organizzativo, che ha
  acquisito   proprio   grazie   al   suo   inserimento   all'interno
  dell'amministrazione. In altre parole, l'amministrazione - e quindi
  l'intera  comunita'  nazionale  -  ha  nella maggior parte dei casi
  subito  dei  costi  spesso  cospicui  per  la formazione dei propri
  quadri, formazione che gli altri cittadini che esercitano la libera
  professione si sono dovuti procacciare a proprie spese.
    Appare  a  questo consiglio nazionale che la situazione da ultimo
  descritta   integri   molteplici   violazioni   del   principio  di
  eguaglianza  (art. 3 Cost.), sia in senso formale, sotto il profilo
  della disparita' di trattamento, sia in senso sostanziale, sotto il
  profilo  di  una lesione del principio delle pari opportunita': nel
  caso  di  specie  il  legislatore,  anziche' rimuovere, finisce per
  aggiungere  indebitamente  "...  ostacoli  di  ordine  economico  e
  sociale,  che,  limitando  di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei
  cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ...".

    11. - Invero  l'art. 3 della Costituzione viene in considerazione
  anche, e ancor piu' significativamente, per un rilievo di carattere
  generale  circa  l'assoluta  irragionevolezza delle norme di cui ai
  commi  56  e  56-bis,  dell'art. 1  della  legge  23 dicembre 1996,
  n. 662.
    La   Corte   costituzionale,   pur   nel  rispetto  della  natura
  discrezionale  e  politica  delle  scelte  operate  dal legislatore
  ordinario,  si e' infatti sempre riservata il potere di valutare in
  concreto  se  l'attivita'  di  ponderazione  e di bilanciamento tra
  interessi  costituzionalmente  protetti  operata  nel  caso singolo
  integri  o  meno una violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo
  dell'assoluta  mancanza  di ragionevolezza e logicita' della scelta
  operata.
    Nel  caso  di  specie,  in ragione di un'esigenza di contenimento
  della  spesa  pubblica, rinvenibile, oltre che nella ratio generale
  del  provvedimento,  persino nell'intitolazione dell'atto normativo
  che  per  primo  ha introdotto le disposizioni in oggetto (trattasi
  del  d.-l.  28  marzo  1997,  n. 79, recante "Misure urgenti per il
  riequlibrio  della  finanza  pubblica", poi convertito con parziali
  modificazioni  in  legge  28 maggio 1997, n. 79), il legislatore ha
  dettato  una  disciplina  che  pone  seriamente  in pericolo valori
  costituzionali   ben   piu'   rilevanti,   quali   l'integrita'   e
  l'effettivita'  del diritto di difesa - che ben puo' ascriversi tra
  i  diritti  inviolabili  dell'uomo  di  cui  all'art.  2 Cost. - in
  ragione  del vulnus all'indipendenza e all'autonomia del difensore,
  e    quali    principi    di   imparzialita'   e   buon   andamento
  dell'amministrazione.
    Appare  a  questo consiglio nazionale irragionevole pretermettere
  alla  garanzia  di principi fondamentali quali quelli richiamati le
  pur  rilevanti  esigenze di contenimento dell'erogazione di risorse
  pubbliche  che  sono  alla  base  dell'intervento  normativo, volto
  manifestamente  ad  agevolare  il passaggio dei pubblici dipendenti
  dal regime a tempo pieno, ovviamente piu' generoso per l'erario, al
  regime a tempo parziale.

    12. - Un ulteriore profilo che consente di non dubitare della non
  manifesta    infondatezza    della    questione   di   legittimita'
  costituzionale   delle   norme   de  quibus  concerne  la  sospetta
  violazione dell'art. 4 Cost.
    Per   quanto   la   proclamazione   dell'Italia  come  Repubblica
  democratica  fondata  sul lavoro e la statuizione di cui all'art. 4
  Cost.  non  comportino  una  concezione del diritto del lavoro come
  garanzia  dell'effettivo  accesso  al lavoro delle persone prive di
  occupazione  (Corte  costituzionale, 3 marzo 1988, n. 238, in Giur.
  cost., 1988, I, n. 1027) e per quanto l'art. 4 Cost. non garantisca
  a   ciascun   cittadino   il   diritto  al  conseguimento  od  alla
  conservazione  di un'occupazione (Corte costituzionale, 22 novembre
  1985, n. 300, in Cons. Stato, 1985, II, n. 1529), pur tuttavia cio'
  non  esclude  che  il  legislatore sia chiamato, anche in forza del
  secondo  comma  dell'art. 3 Cost., ad effettuare scelte di politica
  occupazionale tese ad ampliare le concrete possibilita' di impiego,
  e,  conseguentemente,  la  generale  offerta  di lavoro del sistema
  pubblico e privato.
    Appare   pertanto   poco  ragionevole,  se  non  direttamente  in
  violazione  dell'art.  4  Cost.,  ogni ipotesi normativa che invece
  consenta   al   medesimo   soggetto   di  svolgere  piu'  attivita'
  lavorative,    specie    in    una    situazione    socio-economica
  caratterizzata,  in molte regioni d'Italia, da notevoli difficolta'
  di  inserimento nei circuiti della produzione di beni e servizi, in
  un   quadro  generale  ben  lontano  dalla  piena  occupazione.  Lo
  svolgimento    contemporaneo    di    piu'   attivita'   lavorative
  inevitabilmente  sottrae  al  mercato del lavoro ambiti e spazi che
  potrebbero  assorbire  la domanda di occupazione di soggetti che ne
  sono totalmente sprovvisti.

    13. - Per  questi  motivi,  sembra al consiglio nazionale forense
  che  la questione di legittimita' costituzionale delle norme di cui
  ai  commi  56  e  56-bis  dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996,
  n. 662,  non  sia  manifestamente  infondata,  e che debba pertanto
  essere  rivolta alla Corte costituzionale, affinche' questa proceda
  alla  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  delle norme
  succitate,  o  addivenga  ad  una  pronunzia di incostituzionalita'
  delle  suddette  norme  nella  parte in cui queste non escludono la
  professione d'avvocato dal proprio campo di applicazione.