IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta a ruolo il 18 aprile 1994 al n. 2494/1994 (vecchio rito) e promossa da Landi Paola (con avv. Paternoster di Roma e Codotto di Vicenza); Contro Calzavara Luigi (con avv. Gherro di Padova e Bettini di Vicenza). Svolgimento del processo Con citazione datata 12 aprile 1994 Paola Landi conveniva in giudizio Luigi Calzavara per ottenere dal tribunale una pronuncia che lo condannasse al pagamento, in suo favore, di un assegno mensile di L. 2.500.000 per un periodo non inferiore a tre anni ai sensi e per gli effetti dell'art. 129 codice civile. Affermava, infatti, che il matrimonio tra le parti, celebrato nel 1968, era stato dichiarato nullo dagli organi giurisdizionali dell'ordinamento canonico con provvedimenti del 1986 e del 1991, e che le relativa pronuncia era stata resa esecutiva in Italia dalla Corte d'appello di Venezia, con sentenza del 10 giugno/23 ottobre 1993. Riferiva che, con la decisione sullo status, la Corte d'appello, ritenendo applicabile l'art. 129 codice civile, aveva disposto in via provvisoria che il Calzavara corrispondesse all'attrice la somma di L. 750.000 mensili, con effetto dalla pubblicazione di detta sentenza e fino alla definizione dell'instaurando giudizio di merito. Affermandosi priva di adeguati mezzi e nelle condizioni soggettive previste dalla citata norma, chiedeva che il tribunale quantificasse il futuro obbligo di mantenimento in capo al Calzavara come diritto a mantenere il tenore di vita acquisito in costanza di matrimonio, valutando comparativamente la situazione prima e dopo la pronuncia, nonche' i patrimoni ed i redditi di entrambe le parti, in specie le ampie possibilita' reddituali del convenuto e il detrimento derivatole dalla nullita' dichiarata. Luigi Calzavara si costituiva lamentando, in primis come erronea era stata la decisione della Corte di avere adottato il provvedimento economico provvisorio e perche' non richiesto e perche' aveva escluso l'applicazione dell'art. 129-bis codice civile atteso che palese sarebbe stata la possibilita' di riscontrare l'inidoneita' del Calzavara a contrarre il matrimonio e, cosi', la malafede della Landi. Contestava le domande dell'attrice affermando che la stessa e' autosufficiente e non ha dato la prova del suo stato di bisogno. Infine, osservava come le statuizioni economiche adottate in sede di separazione avessero un diverso titolo giuridico ed altro significato rispetto a quello da attribuire ai provvedimenti economici ex art. 129 codice civile. Chiedeva il rigetto della domanda e, in subordine, la riduzione dell'assegno, da limitarsi temporalmente fino al 31 gennaio 1994. L'attrice ribadiva le proprie tesi contestando gli assunti del convenuto e riaffermando di non avere redditi sufficienti (oltre a rimarcare le possidenze del marito e il tenore di vita goduto durante la convivenza). Deduceva mezzi istruttori volti a dimostrare la consistenza economica della controparte e il tenore di vita del quale aveva beneficiato. Il g.i. rigettava le istanze istruttorie in quanto irrilevanti atteso che le stesse erano intese a dimostrare le condizioni economiche in costanza di matrimonio, circostanze non considerate dall'art. 129 codice civile. Disponeva, comunque, l'interrogatorio libero delle parti. Anche il collegio, chiamato a pronunciarsi sulle prove ex art. 178 c.p.c., le dichiarava irrilevanti con la medesima motivazione. Il convenuto chiedeva, con provvedimento ex art. 700, che il g.i. disponesse la non debenza delle somme di cui alla sentenza della Corte d'appello perche' non dovute oltre il triennio. Il g.i. dichiarava inammissibile la domanda ritenendo che la stessa dovesse essere proposta innanzi al giudice dell'esecuzione (gia' instaurata) come opposizione all'esecuzione. Non veniva effettuata altra attivita' istruttoria e la causa veniva rimessa al collegio sulle seguenti conclusioni delle parti e del p.m. intervenuto: per l'attrice: "Piaccia al tribunale, contrariis reiectis&,;, in via principale, porre a carico del convenuto Calzavara Luigi l'obbligo di corrispondere all'attrice Paola Landi, a sensi e per gli effetti dell'art. 129 c.c., un assegno mensile da determinarsi nella somma di L. 2.500.000 o di quella diversa maggiore o minore che verra' ritenuta di giustizia; per l'effetto, tenuto conto dell'avvenuto pagamento da parte del Calzavara del limitato importo di L. 750.000 mensili fino al settembre 1996, condannare il medesimo Calzavara Luigi a pagare in favore dell'attrice la relativa differenza e cio', come statuito nella sentenza della Corte d'appello di Venezia n. 1155/1993 fino alla definizione del presente giudizio; in via subordinata, ed istruttoria, ammettersi tutti i mezzi di prova richiesti con la memoria istruttoria del 30 settembre 1995 ivi compresa la prova per testi prova contraria, con i testi ivi indicati, nonche' ordine al convenuto di produrre la documentazione reddituale attuale e pregressa; in ogni caso, con vittoria di spese, competenze ed onorari"; per il convenuto: 1) in via principale, respingersi la domanda dell'attrice e dichiararsi l'insussistenza dei presupposti di qualsivoglia corresponsione economica da parte del convenuto nei confronti della sig.ra Paola Landi; 2) in via subordinata, ridursi la misura dell'assegno provvisorio mensile in favore della sig. Landi, e comunque, limitarsi la corresponsione fino aI 31 dicembre 1994 o la successiva data di legge; 3) in via istruttoria, respingersi le istanze istruttorie dell'attrice, e in subordine, in denegata ipotesi di ammissione delle prove ex adverso formulate, ammettersi il convenuto a prova contraria, con riserva di indicare i testi nel termine assegnando; 4) con rifusione di spese, diritti e onorari; per il p.m. "riconosciuta fondata la domanda nel merito determini il collegio l'ammontare della contribuzione mensile da porsi a carico del convenuto". La sentenza veniva trattenuta per la decisione all'udienza collegiale dell'11 febbraio 2000. Motivi della decisione L'attrice, con la domanda cosi' come formulata nella precisazione delle conclusioni, ha chiesto la corresponsione di un assegno di mantenimento da porre a carico del convenuto, col quale aveva contratto un matrimonio dichiarato nullo, previa definizione dell'ammontare dello stesso e detratte le somme finora pagate,"fino alla definizione del presente giudizio", ai sensi e per gli effetti dell'art. 129 c.c. Il fondamento della richiesta, nella sua valenza temporale, si fonda sulla statuizione della Corte d'appello, che aveva emanato il provvedimento provvisorio di natura patrimoniale, all'esito del giudizio di delibazione, stabilendone la durata, appunto, "fino alla definizione del giudizio di merito". Ora, l'art. 129 c.c. dispone testualmente che la corresponsione delle "somme periodiche di denaro" non ecceda il triennio. La domanda dell'attrice, allora, dovrebbe essere o rigettata perche' volta ad ottenere qualcosa di piu' rispetto a quanto previsto dall'art. 129 stesso, pur se invocato a fondamento della pretesa azionata, o limitata ad un triennio. La richiesta di corresponsione di un assegno "fino alla definizione del giudizio" formulata in sede della precisazione delle conclusioni (e cioe', dopo circa 6 anni dalla sentenza della Corte d'appello e con la prospettiva del tempo necessario per la sua definizione in primo grado e negli eventuali gravami) non puo' essere in alcun modo intesa come limitata comunque ad un triennio, e per il tenore letterale, e per quanto si puo' trarre dalle specificazioni contenute nelle difese conclusionali, nelle quali, appunto, si invoca tale piu' lungo termine in quanto legittimamente statuito dalla Corte al di la' dell'art. 129 c.c. (con conseguente attuale vigenza dello stesso). Oltre a cio', la Landi ha chiesto un contributo mensile "di mantenimento" (come si legge nella citazione), volto a consentirle di mantenere lo stesso tenore di vita del quale godeva durante la convivenza, formulando sul punto apposite prove. La norma invocata, pero', dispone che uno dei coniugi corrisponda all'altra "somme periodiche di denaro","in proporzione alle sue sostanze", allorquando l'altro coniuge "non abbia adeguati mezzi propri". Gia' il collegio, esaminando il reclamo, ha escluso che la funzione della contribuzione de qua sia di corrispondere al coniuge debole il mantenimento tale da consentirgli di proseguire nel tenore di vita precedente, negando ogni rilevanza alla situazione economica pregressa relativa al periodo di convivenza. Tale interpretazione della norma deriverebbe innanzitutto dal tenore della stessa, laddove fa menzione all'adeguatezza (attuale) dei redditi e alle sostanze (attuali) della controparte, con esclusione, quindi, della necessaria conservazione di una situazione di maggiore benessere, visto che il confronto non e' tanto sul tenore di vita anteriore e successivo alla dichiarazione di nullita', bensi' sulla comparazione dei redditi all'attualita'. Inoltre, troverebbe la sua giustificazione nella ratio che la governa, che e' semplicemente quella di imporre, per principi solidaristici, elargizioni di denaro volte ad integrare una situazione inadeguata, in favore del coniuge in buona fede ma meno fornito di redditi, onde consentirgli di poter "ridefinire" sotto il profilo economico la propria vita dopo che questa ha subito il mutamento, rispetto alle aspettative e alle previsioni del matrimonio, per effetto della accertata nullita'. Una solidarieta' che ha, appunto, una funzione di "salvaguardia" temporale, dove la temporaneita' e' pienamente giustificata dalla mancanza di ogni individuazione di responsabilita', dalla contingenza della situazione venutasi a creare e dalla mancanza di un pregresso consistente rapporto di coabitazione tra le parti oltre che dalla funzione di imporre al coniuge debole di attivarsi per reperire il proprio mantenimento. Parlare di vero e proprio mantenimento in relazione al tenore di vita goduto in costanza del matrimonio, poi, non pare essere adeguato alla normativa in oggetto, sol che si consideri che, nella maggior parte dei casi, la nullita' non puo' essere dichiarata quando vi e' stata coabitazione per piu' di un anno e, pertanto, la comparazione con il detto tenore deve essere limitata ad un periodo estremamente limitato e per lo piu', poco significativo. Oltre a cio', per riprendere un argomento addotto dal convenuto, la individuazione di un siffatto contenuto dell'obbligo imposto dall'art. 129 mal si concilierebbe con la successiva previsione dell'art. 129-bis c.c., laddove prevede che il coniuge in mala fede, e quindi tenuto nei confronti del coniuge debole e per il vincolo di solidarieta' e per la responsabilita' della nullita', debba versare una indennita' che comunque comprenda il mantenimento per tre anni: l'obbligo imposto al coniuge di buona fede sarebbe cosi' graviore rispetto a quanto richiesto a quello colpevole. Cosi' precisate le domande dell'attrice e delineata la richiamata disciplina dell'art. 129 c.c. sulle stesse, manifesta appare l'inidoneita' della detta norma a fondare le sue pretese (ossia di avere l'assegno per un periodo piu' lungo rispetto ai tre anni e commisurato al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio). Come e' noto, l'applicabilita' ditale disciplina (al pari di quella contenuta nell'art. 129-bis) alla dichiarazione di nullita' dei matrimoni canonici, pronunciata nell'ordinamento della Chiesa e resa esecutiva in Italia dalla Corte d'Appello, deriva da una interpretazione estensiva dell'art. 18 della legge matrimoniale n. 847 del 1929, ormai pacifica in giurisprudenza, al punto da costituire vero "diritto vivente" in base a cui tra le conseguenze del matrimonio putativo si fanno rientrare anche quelle di natura patrimoniale disciplinate dai suddetti articoli (cfr. Cass. nn. 5188/1977, 4902/1978 e 1826/1980, cui vanno aggiunte, negli ultimi tempi, Cass. n. 2852/1998 in motivazione, Cass. n. 2728/1995, oltre a S.U. n. 4700/1988 in motivazione). Non bisogna dimenticare, d'altro canto, che la norma su menzionata della legge matrimoniale richiamava espressamente l'art. 116 del codice civile del 1865, cui, nella sistematica originaria del codice del 1942, corrispondevano gli artt. 128 e 129, confluiti, dopo la Novella del 1975, nel vigente art. 128. Le disposizioni di natura patrimoniale contenute negli artt. 129 e 129-bis sono state aggiunte ex novo con la riforma del diritto di famiglia. Ma se il richiamo all'odierno art. 128 (al pari di quello operato all'originario art. 116 c.c. del 1865) si adegua perfettamente tanto alla dichiarazione di nullita' canonica, quanto a quella operata dal giudice statale applicando le norme del codice civile, per contro non si puo' trascurare che la disciplina contenuta negli artt 129 e 129-bis appare dettata specificamente in relazione all'annullamento di un matrimonio civile. Nessuno, infatti, ignora che nel sistema del nostro Codice sono brevissimi i tempi entro i quali, a pena di decadenza, si puo' far valere un vizio inficiante la validita' del matrimonio (nel caso, ex art. 120 c.c. un anno dall'inizio della coabitazione, dopo che e' cessato lo stato di incapacita') con la conseguenza che non si puo' considerare instaurata una vera e propria convivenza coniugale tra i coniugi o, anche se cio' e' avvenuto, si tratta pur sempre di un fenomeno di scarsa consistenza temporale. Su di un piano logico appare piu' che giustificata la disciplina dell'art. 129 c.c., atteso che di fronte ad una convivenza inesistente o di durata esigua, il legislatore non poteva prevedere altro se non la corresponsione di "somme periodiche di denaro" per un periodo altrettanto breve: si e' voluto, infatti, predisporre un rimedio idoneo allo scompenso economico creatosi nel coniuge meno provvisto di redditi adeguati propri, ma necessariamente limitato e nel tempo e negli effetti, proprio perche' - ripetesi - collegato ad una convivenza che, per la sua brevita', e' tale da non aver prodotto situazioni economiche cosi' consolidate e difficili da convertire. In tutte le ipotesi in cui il matrimonio non sia stato impugnato entro i termini di decadenza dell'azione sopra menzionati, nell'ordinamento statale non vi e' altra via se non quella di farne dichiarare la cessazione degli effetti civili a norma della legge n. 898/1970 e successive modificazioni, risultando ormai del tutto irrilevanti gli eventuali vizi genetici del negozio matrimoniale: in caso, pero', i rapporti patrimoniali tra i coniugi verranno disciplinati dall'art. 5 della medesima legge. Esso, come e' risaputo, prevede la corresponsione di una contribuzione periodica, senza limiti di tempo e di un ammontare tale da consentire, in difetto di adeguati mezzi propri, un tenore di vita corrispondente a quello goduto in costanza di matrimonio ("Il diritto all'assegno divorzile, per il suo carattere assistenziale, sorge solo quando vi e' una situazione patrimoniale e di reddito tale da non consentire a chi lo richiede, di conservare un tenore di vita analogo a quello fruito durante il matrimonio; l'istante deve dimostrare il dato del passato e quindi la fascia socio-economica d'appartenenza della coppia all'epoca della convivenza e il conseguente stile di vita adottato manente matrimonio e la situazione economica attuale, cioe' la situazione di reddito e di patrimonio esistente al momento della domanda, tale da non consentire la conservazione di quel livello socio-economico goduto nel matrimonio, per l'impossibilita' di procurarsi mezzi idonei a conservare il predetto tenore di vita per ragioni oggettive".Cassazione civile sez. I, 28 luglio 1999, n. 8183). Ancorche' sotto un profilo formale non si possa negare, da un lato, che la dichiarazione di nullita', sia civile sia canonica (una volta delibata la relativa sentenza), faccia venir meno il vincolo coniugale ne', dall'altro, che - in relazione alla fattispecie che sta alla base del presente giudizio - sussista una corrispondenza tra la causa di nullita' invocata dai giudici ecclesiastici (difetto di consenso da parte dell'uomo, per incapacita' del medesimo ad esprimere un consenso libero e responsabile) e quella disciplinata dall'art. 120 c.c., tuttavia appare altrettanto agevole rimarcare come alla base dei due giudizi stiano situazioni profondamente differenti. Come e' noto, nell'ordinamento della Chiesa la declaratoria di nullita' matrimoniale introdotta in ogni tempo durante la vita dei coniugi e, di conseguenza (come nel caso sottoposto a questo tribunale) la relativa declaratoria puo' essere pronunciata non solo a distanza di anni dalla celebrazione, ma anche dopo che si e' instaurato il consortium totius vitae tra i coniugi e dall'unione sono nati dei figli. Per contro, come si e' gia' accennato, nel nostro sistema matrimoniale, stante la decadenza dall'azione per il decorso di un anno, il non consolidarsi nel tempo della convivenza appare elemento determinante per poter chiedere la dichiarazione di nullita' e per fruire delle disposizioni di carattere patrimoniale di cui all'art. 129 (o, eventualmente 129-bis) c.c. Nel caso sottoposto al presente giudizio - ove il matrimonio fu celebrato nel 1968 e solo nel 1993 fu resa esecutiva la sentenza canonica dichiarativa della nullita' - l'applicazione della disciplina sancita dall'art. 129 c.c. comporterebbe solo una parziale e limitata possibilita' di accoglimento delle domande formulate dalla parte attrice. Ad avviso del tribunale, per contro, queste (e nella loro interezza - sia rispetto alla durata temporale dell'obbligo e della congruita' in relazione al precedente tenore di vita -) non si ravvisano sfornite di fondamento, ancorche' non lo possano trovare nella disciplina dell'art. 129 c.c. (pur invocata dalla parte), la quale, per i suoi presupposti e per i suoi contenuti, non appare idonea a garantire una tutela adeguata, specie ove la si raffronti a quella dettata in relazione ad ipotesi che, pur avendo alla base situazioni di fatto simili, risultano, tuttavia, diversamente e maggiormente tutelate dall'ordinamento statale. Ed invero l'attrice si trova a veder posto nel nulla il suo vincolo dopo moltissimi anni di matrimonio e, a suo dire, di vita agiata al fianco di stimato e colto professionista architetto. Risulta chiaro, in questi termini, che, sotto il profilo delle conseguenze patrimoniali, la fattispecie di cui ci si occupa appare denotata da elementi che si rivelano analoghi a quelli che scaturiscono dalla cessazione degli effetti civili ex legge n. 898/1970. Vale la pena di ribadire che gli art. 129 e 129-bis trovano la loro giustificazione, anche in relazione alla loro portata, quantitativa e temporale, proprio nella situazione di esiguita' della convivenza (accanto, va da se', all'invalidita' del vincolo), volendosi porre un rimedio a quello scompenso che puo' essersi venuto a creare a danno del coniuge meno provvisto di redditi adeguati propri, ma necessariamente limitato e nella durata e nell'ammontare. Appare quanto mai evidente, da questo angolo visuale, la disparita' di trattamento che viene riservato al coniuge economicamente piu' debole il quale, dopo anni di convivenza e comunque in presenza di una situazione che non consentirebbe piu' di ottenere la nullita' del matrimonio secondo il diritto civile, avesse ottenuto o subito una sentenza canonica di nullita' matrimoniale con la conseguente applicazione delle disposizioni di cui all'art. 129 c.c., rispetto al coniuge che avesse visto dichiarare gli effetti civili del suo matrimonio, con la consequenziale applicazione della disciplina patrimoniale propria del divorzio. Tale disparita' di trattamento appare ancor piu' manifesta, quando si ponga mente a quell'indirizzo giurisprudenziale introdotto dalla suprema Corte (cfr. cass. s.u. n. 1824/1993; cass. n. 3314/1995 e n. 3345/1997) e che ormai puo' dirsi consolidato anche nelle giurisdizioni di merito (vedi da ultimo, tribunale Torre Annunziata 21 gennaio 1996 nonche' tribunale Milano 17 giugno 1997 n. 6101), secondo il quale - in conseguenza dell'essere venuta meno la riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici - le parti possono rivolgersi, per la dichiarazione di nullita' del loro matrimonio canonico trascritto, anche ai tribunali dello Stato, i quali applicheranno le disposizioni del codice civile, non escluse quelle che disciplinano la decadenza dalla relativa azione. Sotto questo profilo un'ulteriore profilo di disparita' di trattamento si avrebbe anche tra chi ha adito i giudici ecclesiastici e chi si e' rivolto a quelli italiani. Pur prescindendo da quest'ultima considerazione, che non viene direttamente in rilievo ai fini del presente giudizio, cio' non di meno ad avviso del collegio sussiste una non giustificata disparita' di trattamento sotto un duplice profilo, sia - cioe' - sotto quello della minore tutela che il coniuge economicamente debole riceve nel caso di delibazione della sentenza canonica di nullita', rispetto a quella che riceve il coniuge debole nel caso di divorzio, sia sotto il profilo della non comparabilita' della situazione patrimoniale dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo dopo molti anni di convivenza rispetto a quella dei coniugi che chiedono la pronuncia di nullita' al giudice civile entro il termine di decadenza previsto dalle varie ipotesi (di regola un anno dall'instaurazione della convivenza). Ad avviso del collegio, la disciplina dell'art. 129 c.c. deve ritenersi applicabile solo a questi ultimi casi, atteso che la ratio che ne ha delineato la struttura e' fondata' proprio su questa situazione patrimoniale (oltre che sulla invalidita' del vincolo, ovviamente), mentre per i rimanenti casi parrebbe piu' conferente l'applicazione di quella dettata dalla legge n. 898/1970. Cio' non e' affatto inficiato dalla "eterogeneita'" tra gli istituti del divorzio e della nullita' (sulla quale insiste Cass. n. 1094/1982), atteso che le conseguenze di natura patrimoniale nella fattispecie del matrimonio civile nullo non traggono origine solamente da detto fatto genetico, ma sono costruite e si fondano anche su di un presupposto - quello della mancanza o brevita' della convivenza - che puo' non ritrovarsi nei matrimoni dichiarati nulli nell'ordinamento canonico cosi' come puo' non ritrovarsi nei casi di divorzio (ed e' esatta affermazione della Corte di cassazione nella appena richiamata sentenza allorche' si tratti di voler applicare la disciplina del divorzio al matrimonio nullo secondo le norme statali, per il rilievo che si e' visto doversi dare alla convivenza). Il peculiare risalto che alla effettivita' del rapporto coniugale ha dato la giurisprudenza, anche della Corte costituzionale (specie con le fondamentali sentenze n. 16, 17 e 18 del 1982), consente, poi, di superare il dato formale della eterogeneita' tra i due istituti e di esaminare l'applicabilita' delle relative discipline patrimoniali alla luce dei diversi parametri di determinazione. Tutto cio' fa dubitare della legittimita' costituzionale della disciplina applicanda al caso (art. 129 c.c. richiamato dall'art. 18 legge matrimoniale), in relazione al principio di uguaglianza disciplinato dall'art. 3 della Costituzione ed in relazione aI principio supremo della laicita' dello Stato, affermato piu' volte dalla Corte costituzionale (cfr., per tutte, la sentenza n. 203 del 1989). ln relazione all'art. 3 per la disparita' di trattamento tra casi simili e per la applicazione di una disciplina deteriore ad un caso piu' complesso rispetto a quello della sua originaria previsione, ed in relazione al principio della laicita' dello Stato perche' si farebbero discendere conseguenze di natura strettamente patrimoniale (sulle quali esiste una esclusiva competenza normativa statale) ad una scelta confessionale (di avvaleri della giurisdizione matrimoniale canonica). In particolare, su questo ultimo punto, si creerebbe la situazione, incredibile, per la quale il coniuge economicamente piu' forte potrebbe non solo aggirare (legittimamente) le decadenze poste dalla normativa civile sull'azione di nullita' matrimoniale, evitando cosi' di dover ricorrere alla disciplina del divorzio, ma a trarre da cio' il vantaggio di potersi sottrarre a parte consistente delle sue responsabilita' patrimoniali nei confronti del coniuge debole senza che alcun rilievo possa avere una convivenza (con cio' che comporta a livello di scelte economiche e patrimoniali personali) protrattasi magari per molti anni. Ne' la suddetta disparita' risulta garantita da norme di derivazione pattizia, atteso che l'accordo di modificazione del Concordato lateranense del 1984 stabilisce solamente che "La Corte d'appello potra', nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia" (art. 8 n. 2). La disposizione fornisce solo una norma di carattere processuale con finalita' anticipatorie ma non detta la disciplina sostanziale del fondamento dell'obbligo (rimessa, cosi', esclusivamente aI legislatore statale). D'altro canto, il dubbio sulla effettiva legittimita' del sistema che si dovrebbe applicare al caso di specie e' stato da tempo sollevato da piu' parti. Gia' in sede di revisione del Concordato lateranense la piu' accreditata dottrina, facendo leva su di un criterio di "giustizia sostanziale" esprimeva l'avviso che nella nuova legislazione di derivazione pattizia si prevedesse l'applicazione delle disposizioni di natura patrimoniale contenute nella legge sul divorzio alle ipotesi di delibazione di sentenze pronunciate dal giudice ecclesiastico, ove la convivenza si fosse protratta negli anni. Di fronte al silenzio in proposito mantenuto dall'accordo di Villa Madama ed in assenza dell'emanazione di una nuova legge matrimoniale, per evitare quella situazione ingiustificata di disparita', parte della giurisprudenza della suprema Corte aveva tentato, per cosi' dire, di risolvere a monte il problema. Fondandosi sul "limite dell'ordine pubblico" di cui all'allora vigente art. 797 n. 7 c.p.c., si era infatti ritenuto che non potesse farsi luogo alla delibazione di sentenze canoniche quando, tra le parti, si fosse instaurata la convivenza coniugale (cfr. Cass. nn. 5354, 5358 e 5823 del 1987 e Cass. n. 192 del 1988), costringendo, cosi', le parti che avessero voluto far venir meno il vincolo matrimoniale decorsi i termini per la proposizione dell'azione civile, a ricorrere alla procedura del divorzio, con la conseguente applicazione della relativa disciplina patrimoniale e non di quella di cui agli artt. 129 e 129-bis c.c. Contro questa giurisprudenza si sono espresse le sezioni unite della Corte di cassazione (sent. 20 luglio 1988 n. 4700), affermando che l'instaurarsi della convivenza tra i coniugi non poteva assurgere al ruolo di "limite dell'ordine pubblico" tale da impedire la delibazione delle sentenze canoniche (e questo principio e', ormai, ius receptum). Nella stessa sentenza, pero', le sezioni unite cosi' prendevano posizione sul problema della tutela patrimoniale apprestata al coniuge piu' debole: "queste sezioni devono comunque dare atto che l'indirizzo giurisprudenziale disatteso e' mosso soprattutto da apprezzabili ragioni di tutela del coniuge piu' debole, il quale - sulla base dell'attuale normativa - e', dal punto di vista patrimoniale, insufficientemente tutelato a seguito di una pronuncia di nullita' (cfr. artt. 129 e 129-bis c.c.), rispetto alla piu' ampia tutela che riceve dalla pronuncia di divorzio (cfr. art. 5 e ss. legge 1o dicembre 1970, n. 898, come modificati dalla legge 6 marzo 1987 n. 74) e cio', in specie, quando la pronuncia di nullita' interviene a distanza di anni dalla celebrazione del matrimonio e si sono consolidate situazioni, anche di comunione di vita, che vengono poste nel nulla dalla pronuncia stessa (cfr., in proposito, Cass. n. 5823/1987, la quale, a chiare lettere, enuncia il principio secondo cui, una volta intervenuta la convivenza, non vi e' altra strada che quella di ottenere una pronuncia giudiziale di scioglimento o di cessazione degli effetti civili di esso, per caducare il matrimonio). Cio' pero' non e' addebitabile allo strumento concordatario, una volta dimostrato che l'attuale disciplina non contrasta, sul punto con l'ordine pubblico italiano, ma al legislatore ordinario, il quale, proprio in considerazione della tutela del coniuge piu' debole, potrebbe, in piena liberta', predisporre, autonomamente, strumenti legislativi - peraltro auspicati dalla piu' sensibile dottrina - che assimilano, nei limiti del possibile e tenuto conto della diversita' delle situazioni, ai fini della tutela patrimoniale, la posizione del coniuge nei cui confronti e' stata pronunciata la nullita' del matrimonio, a quella del coniuge divorziato. Siffatta modifica completerebbe quella revisione legislativa gia' iniziata con la legge 19 maggio 1975 n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia - i cui artt. 20 e 21, nel sostituire, rispettivamente, l'art. 129 c.c. del 1942 e nell'inserire l'art. 129-bis nel codice civile, hanno timidamente iniziato un'opera di assimilazione fra nullita' e scioglimento del matrimonio - e sarebbe avvertita dai cittadini come un fattore di moralizzazione nella scelta del mezzo con il quale far venir meno il vincolo coniugale. L'ipotizzata identita' di conseguenze di ordine patrimoniale indurrebbe a ricorrere al giudice ecclesiastico solo coloro che, come cives fideles; avvertono nelle loro coscienze il peso di un sacramento non voluto e per la loro coscienza nullo e non anche coloro che, attualmente, invocano la nullita' del matrimonio come mezzo per liberarsi da ogni responsabilita' patrimoniale nei confronti del loro coniuge". L'auspicare l'intervento del legislatore, come fanno le sezioni unite in detta sentenza, seguita da autorevole dottrina, non risolve certo il problema che si pone nell'ordinamento italiano oggi e che impedisce, nel presente caso, di apprestare alla parte istante una tutela, richiesta, piu' ampia rispetto a quella estremamente limitata offerta dall'art. 129 c.c. (nel che sta la rilevanza della problematica, come gia' si e' avuto modo di dire). Fino a quando (e se) il legislatore non intervenga, risulta fondato dubitare della legittimita' costituzionale del sistema oggi vigente, in relazione ai richiamati principi di uguaglianza e di laicita' dello Stato. Deve, pertanto, sollevarsi d'ufficio e rimettersi alla Corte costituzionale la questione della legittimita' costituzionale dell'art.18 della legge 27 maggio 1929 n. 847 laddove prevede (secondo il diritto vivente) l'applicazione della disciplina di cui all' art. 129 c.c. ai casi nei quali venga resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullita' del matrimonio celebrato davanti al ministro del culto cattolico, anche allorquando sia decorso il termine per la proposizione della azione di nullita' innanzi al giudice italiano o comunque si siano consolidate situazioni di comunione di vita, al posto dell'applicazione della disciplina dell'assegno in favore del coniuge economicamente piu' debole previsto dall'art. 5 commi 6 e ss. della legge 1o dicembre 1970 n. 898 e succ. mod., per contrasto con l'art. 3 della Costituzione e con il principio supremo della laicita' dello Stato, con conseguente sospensione del giudizio pendente. Visti gli artt. 1 della legge della costituzionale n. 1/1948 e 23 della legge n. 87/1953.