ha pronunciato la seguente


                              Ordinanza

nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale dell'articolo 17 della
legge   4   maggio   1990,   n. 107   (Disciplina  per  le  attivita'
trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la
produzione  di  plasmaderivati),  promossi con ordinanze emesse il 29
gennaio  (n. 2  ordinanze)  e il 2 febbraio 1999 (n. 3 ordinanze) dal
pretore di Genova, rispettivamente iscritte ai nn. 190, 191, 208, 209
e  210  del  registro  ordinanze  1999  e  pubblicate  nella Gazzetta
Ufficiale  della  Repubblica  nn. 14  e  15,  prima  serie  speciale,
dell'anno 1999.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
Ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 5 aprile 2000 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte;
    Ritenuto che con due ordinanze di analogo contenuto (R.O. nn. 190
e  191  del  1999),  emesse  in  data  29 gennaio 1999, il pretore di
Genova,  nel corso di due distinti procedimenti penali, ha sollevato,
in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione,     questione     di     legittimita'    costituzionale
dell'articolo 17 della legge 4 maggio 1990, n. 107 (Disciplina per le
attivita'   trasfusionali   relative  al  sangue  umano  ed  ai  suoi
componenti e per la produzione di plasmaderivati);
        che  con l'ordinanza di remissione n. 190 del 1999 si propone
nuovamente   la   questione   gia'   da   questa   Corte   dichiarata
manifestamente   inammissibile   per  difetto  di  motivazione  sulla
rilevanza  (ordinanza  n. 311  del  1998), ed in entrambe si precisa,
proprio  ai  fini  della rilevanza, che i giudizi a quibus riguardano
imputati  ai  quali  sono  contestati,  da un lato, il reato previsto
dagli  articoli 81,  cpv.,  e 110 del codice penale, e 17 della legge
n. 107  del 1990, in relazione agli articoli 1, 4, 5 e 6 della stessa
legge,  per  avere,  nelle  rispettive  qualita'  di  responsabili  e
operatori  di  una  struttura  sanitaria  privata, attivato un centro
autotrasfusionale   presso  struttura  non  prevista  dalla  legge  e
comunque  non  convenzionata con le apposite strutture trasfusionali,
e, dall'altro, il reato configurato, nei confronti del solo direttore
sanitario,  in base agli artt. 81, cpv., del codice penale e 17 della
legge  n. 107 del 1990, in relazione all'art. 91 del d.P.R. 24 agosto
1971,  n. 1256  (Regolamento  per  l'esecuzione della legge 14 luglio
1967,  n. 592, concernente la raccolta, conservazione e distribuzione
del  sangue  umano) e agli articoli 31 e 34 del d.m. 27 dicembre 1990
(Caratteristiche   e   modalita'  per  la  donazione  del  sangue  ed
emoderivati),  per  avere,  in tale qualita', omesso di restituire al
servizio  trasfusionale e autonomamente smaltito unita' di sangue e/o
emocomponente  non utilizzate, provenienti sia da autotrasfusioni che
da donazioni di sangue omologo, e per non aver predisposto un sistema
di registrazione ed archiviazione dei dati relativi;
        che  il  remittente  riconosce  nella  legge n. 107 del 1990,
recante  la  disciplina  delle attivita' trasfusionali, "un complesso
normativo  vario  ma  al  contempo  omogeneo nella sua strumentalita'
all'obiettivo  fondamentale  di  ottimizzare raccolta e distribuzione
del  sangue e i suoi derivati": la scelta del legislatore - argomenta
il  giudice  a  quo  -  e' comprensibile, poiche' in un settore cosi'
delicato  e  fonte  di rischi reali come quello in esame, e' talmente
imprescindibile  l'esigenza  di  tutela  della  salute,  fondamentale
diritto   dell'individuo   ma  anche  interesse  della  collettivita'
(art. 32  della  Costituzione),  ed e' talmente pericoloso, oltre che
immorale,  che  un  bene  primario  come il sangue possa sottostare a
logiche  di  mercato,  da  rendersi  necessaria una tutela diffusa in
tutte   le   fasi   delle  operazioni  relative  alla  sua  raccolta,
conservazione, lavorazione, distribuzione o distruzione;
        che tuttavia - rileva il remittente - alla fattispecie di cui
all'art. 17  della legge n. 107 del 1990, caratterizzata da un minimo
edittale  elevato (mesi dodici di reclusione e lire 400.000 di multa)
e  da una pena accessoria particolarmente significativa (interdizione
dall'esercizio   della  professione  sanitaria  per  un  periodo  non
inferiore  a  due  anni),  sono  astrattamente riconducibili condotte
assai   differenziate,   il   cui   disvalore   puo'   anche   essere
manifestamente disomogeneo;
        che  da  cio'  conseguirebbe  la violazione dell'art. 3 della
Costituzione,  sia  per  l'irragionevole parificazione di trattamento
sanzionatorio di situazioni profondamente diverse, sia per il mancato
rispetto del principio di proporzionalita' tra la pena e il disvalore
dell'illecito;
        che  risulterebbe violato anche l'art. 27, terzo comma, della
Costituzione,  giacche'  un  minimo  edittale  eccessivo per fatti di
minore  entita'  impedirebbe  alla  pena  di svolgere la sua funzione
rieducativa,   che  deve  operare  gia'  al  livello  della  astratta
previsione del meccanismo sanzionatorio globalmente inteso;
        che  nel  giudizio  instaurato  con l'ordinanza di remissione
n. 190  del  1999  e'  intervenuto  il  Presidente  del Consiglio dei
Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata "inammissibile e non
fondata";
        che  con altre tre ordinanze di contenuto non dissimile (R.O.
nn. 208,  209  e  210  del  1999), emesse in data 2 febbraio 1999, il
pretore  di  Genova, nel corso di altrettanti procedimenti penali, ha
sollevato,  in  riferimento agli articoli 3, primo comma, e 27, terzo
comma,  della  Costituzione,  la  medesima  questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 17 della legge n. 107 del 1990, "nella parte
in  cui prevede indistintamente la pena della reclusione da uno a tre
anni   e  la  multa  da  lire  400.000  a  lire  20.000.000,  nonche'
l'interdizione  dall'esercizio  della  professione  sanitaria  per un
periodo  non  inferiore  ad  anni  due, per tutte le violazioni delle
norme   di   legge  che  regolano  il  prelievo,  la  raccolta  e  la
distribuzione  di  sangue  umano  ovvero  la  produzione  e  messa in
commercio  di suoi derivati, cosi' come per chi svolge tali attivita'
per fini di lucro";
        che  anche  in  queste  ordinanze si premette che i giudizi a
quibus  riguardano  imputati  ai  quali e' contestato il reato di cui
agli  articoli 110 e 81 del codice penale e 17 della legge n. 107 del
1990,  in relazione all'art. 31 del d.m. 27 dicembre 1990, per avere,
in  qualita'  di  direttore  sanitario  dell'ospedale  e  di primario
responsabile  dei  relativi  reparti,  omesso di restituire al centro
trasfusionale competente talune unita' di sangue non utilizzate (R.O.
nn. 208  e  209 del 1999), ovvero il reato di cui agli articoli 110 e
81  del  codice penale e 17 della legge n. 107 del 1990, in relazione
agli  articoli 1,  4,  5  e  6 della medesima legge, per avere, nelle
medesime  qualita',  realizzato  un centro per autotrasfusioni, senza
rientrare  tra le strutture tassativamente indicate dalla legge e non
essendo  convenzionati con alcuna struttura pubblica (R.O. n. 210 del
1999);
        che nelle ordinanze di remissione numeri 208 e 209 del 1999 -
emesse,  come  appena  ricordato,  nel  corso di giudizi nei quali la
contestazione  trae  origine  da  violazioni  alla  disciplina  posta
dall'art. 31 del d.m. 27 dicembre 1990 - il giudice a quo dichiara di
ritenere  "poco  chiaro  e quindi non convincente l'inciso, contenuto
nell'ordinanza  di questa Corte n. 311 del 1998, col quale si afferma
di   voler  "prescindere  dal  considerare  che  i  fatti  contestati
nell'imputazione  alla  quale  il  giudice  a  quo  si  riferisce non
appaiono  integrare alcuna delle fattispecie legali di cui alla norma
che  viene denunciata come sospetta di illegittimita' costituzionale,
non  essendo  possibile ricostruire alcuna "violazione delle norme di
legge" sulla base di norme secondarie come quelle indicate ;
        che,  in  particolare,  secondo  il remittente, la Corte, con
quell'inciso,  "sembra  aver  risolto  con  una  mera affermazione di
principio,  non  sorretta  da  alcun tipo di argomentazione, il tanto
dibattuto   problema  della  norma  penale  in  bianco  e  della  sua
integrazione   da   parte   di  fonti  secondarie  quali  il  decreto
ministeriale ;
        che,   non   ritenendo  di  potere  senz'altro  escludere  la
rilevanza  penale  delle  condotte  ascritte  agli imputati in base a
previsioni  contenute  in fonti secondarie, il pretore di Genova, con
argomentazioni   sostanzialmente   analoghe  a  quelle  svolte  nelle
ordinanze  di  cui si e' fatto cenno in precedenza e nella successiva
ordinanza  di  remissione  n. 210  del  1999,  solleva  questione  di
legittimita'  costituzionale dell'art. 17 della legge n. 107 del 1990
nei termini gia' esposti.
    Considerato  che  le  ordinanze  di  remissione  pongono medesime
questioni  e  che,  pertanto,  i  relativi  giudizi vanno riuniti per
essere definiti unitariamente;
        che   questa   Corte,  con  ordinanza  n. 311  del  1998,  ha
dichiarato  la  manifesta  inammissibilita'  di identica questione di
legittimita'  costituzionale  dell'articolo  17  della legge 4 maggio
1990,  n. 107,  gia'  sollevata dal pretore di Genova, per difetto di
motivazione   sulla   rilevanza,   essendosi   omesso   di  indicare,
nell'ordinanza     di    rimessione,    il    regime    sanzionatorio
costituzionalmente  imposto  e  di enucleare l'esatta tipologia delle
singole fattispecie oggetto di giudizio;
        che  nella  suddetta pronuncia questa Corte non ha mancato di
precisare  che  la  dichiarazione di manifesta inammissibilita' della
questione  si imponeva "anche volendo prescindere dal considerare che
i  fatti  contestati nella imputazione alla quale il giudice a quo si
riferisce  non  appaiono integrare alcuna delle fattispecie legali di
cui  alla norma che viene denunciata come sospetta (sia pure sotto il
solo  profilo  sanzionatorio)  di  illegittimita' costituzionale, non
essendo  possibile  ricostruire  alcuna  "violazione  delle  norme di
legge" sulla base di norme secondarie come quelle indicate ;
        che  con  tale precisazione si era in sostanza escluso che la
disposizione  censurata  potesse  essere  letta  come norma penale in
bianco,  volta  ad autorizzare integrazioni di se' medesima con norme
poste  da  fonti  secondarie, quali i decreti ministeriali emanati in
attuazione della legge n. 107 del 1990;
        che  in  effetti  l'intento  di  costruire il precetto penale
sulla  base  delle sole previsioni di legge e non anche con l'apporto
integrativo  di  fonti  secondarie  emerge  dall'insuperabile  tenore
letterale  dell'art. 17  censurato,  che assoggetta alle pene in esso
contemplate   chiunque   preleva,   procura,  raccoglie,  conserva  o
distribuisce sangue umano o produce e mette in commercio derivati del
sangue  umano  "in  violazione  delle  norme di legge , formulazione,
questa,   talmente   chiara,   precisa   ed   univoca   da   impedire
all'interprete  qualsiasi estensione della fattispecie incriminatrice
a fatti contemplati in norme non legislative;
        che,  una  volta  chiarito  che  non si e' in presenza di una
fattispecie di norma penale in bianco con la quale il regolamento sia
esplicitamente  autorizzato  dalla  legge  a  integrare  il  precetto
penale,   la   questione,   sotto   tale   profilo,   va   dichiarata
manifestamente  infondata  per  l'evidente erroneita' del presupposto
interpretativo dal quale procede il remittente;
        che  le  violazioni  dei  regolamenti  attuativi  della legge
n. 107  del  1990, allo stato della legislazione attualmente vigente,
possono  dar  luogo,  concorrendone  i presupposti, a responsabilita'
civile,  amministrativa  e a provvedimenti di carattere sanzionatorio
da  parte  della  pubblica  amministrazione  competente;  in  materia
penale,  possono  rilevare  ai  fini  della sussistenza dell'elemento
psicologico  nelle fattispecie di delitto colposo (art. 43 del codice
penale), ma non possono integrare il reato di cui all'art. 17;
        che  la questione appare manifestamente infondata anche se la
sfera  di  applicazione  dell'art. 17  viene  circoscritta  alle sole
violazioni  delle  norme  di  legge,  pure  contestate  nei giudizi a
quibus; poiche' il legislatore, considerata la particolare importanza
del  bene  protetto, largamente riconosciuta dallo stesso remittente,
non  ha  ecceduto  i  limiti  della propria discrezionalita' e non e'
incorso  in  alcuna  violazione dell'art. 3 della Costituzione con lo
stabilire  un trattamento sanzionatorio severo con un minimo edittale
elevato sia per la pena principale che per quella accessoria;
        che  d'altronde,  quanto  alla pluralita' di condotte diverse
per struttura e disvalore che - pur esclusa la rilevanza penale delle
violazioni regolamentari restano nondimeno comprese nella fattispecie
incriminatrice  del  censurato  art. 17  della legge n. 107 del 1990,
nessuna  disparita'  di  trattamento  e'  configurabile: e', infatti,
massima consolidata nella giurisprudenza costituzionale che in questi
casi sara' il giudice a fare emergere in concreto la diversa gravita'
delle  varie  sottospecie  ed a graduare su questa base, nel rispetto
dei  minimi  edittali,  la pena da irrogare (v. ordinanze nn. 145 del
1998, 456 del 1997 e 220 del 1996; sentenza n. 281 del 1991);
        che,   disattesa   la   censura   relativa   alla  violazione
dell'art. 3   della   Costituzione,   la   questione   va  dichiarata
manifestamente  infondata  anche  in  riferimento  all'art. 27, terzo
comma,  della  Costituzione,  non risultando, per le medesime ragioni
ora  esposte, alcuna sproporzione tra l'entita' della sanzione penale
e il disvalore dell'illecito commesso.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.