IL TRIBUNALE Sciolta la riserva formulata all'udienza del 17 febbraio 2000 nella procedura di opposizione agli atti esecutivi n. 3486 del R.G.E. 1998, osserva quanto segue. F a t t o A seguito di procedura di espropriazione presso terzi promossa da Carl Zeiss S.p.a. nei confronti della unita' sanitaria locale Taranto 3 in gestione liquidatoria (debitrice) e Banca Popolare di Puglia e Basilicata - Filiale di Taranto (terzo pignorato), procedura alla quale partecipavano numerosi altri creditori, era emessa, in data 27 ottobre 1999, ordinanza con cui per alcuni crediti v'era l'assegnazione delle somme, per altri v'era dichiarazione di improcedibilita'. Bieffe Medital S.p.a. (rappresentata dagli avvocati Luigi Porta e Pietro Mastrangelo), a cui l'ordinanza era stata notificata il 22 novembre 1999, proponeva tempestivamente opposizione agli atti esecutivi con ricorso depositato il 27 novembre 1999, chiedendo la rideterminazione di quanto dovuto per interessi e l'assegnazione di una ulteriore somma a tale titolo. Giotta Cosimo (rappresentato dagli avvocati Armando Lasalvia e Giuseppe Polignano) ed i medesimi avvocati Lasalvia e Polignano (i quali agivano anche per se' medesimi, quanto alle spese), nei cui confronti v'era stata pronunzia di improcedibilita' ed a cui il provvedimento era stato notificato il 26 novembre 1999, proponevano tempestivamente opposizione agli atti esecutivi con ricorso depositato il 1o dicembre 1999: gli opponenti chiedevano la riforma dell'ordinanza del 27 ottobre 1999 con accertamento del loro diritto a partecipare all'assegnazione delle somme. Questi ultimi, peraltro, chiedevano espressamente, all'atto dell'iscrizione a ruolo dell'opposizione, che la causa fosse assegnata a magistrato diverso dal sottoscritto, che aveva emesso l'ordinanza opposta. All'udienza di comparizione delle parti, peraltro, la difesa di Giotta Cosimo, riportandosi a quanto statuito, con sentenza n. 387 del 15 ottobre 1999, dalla Corte costituzionale, chiedeva che il giudice dell'esecuzione di astenesse ai sensi dell'art. 51, comma 1, n. 4 c.p.c. o che venisse sollevata questione di costituzionalita' della norma. Disposta la riunione delle due procedure d'opposizione, la causa era riservata affinche' si provvedesse all'eventuale sospensione dell'esecuzione ed alla fissazione della prima udienza di trattazione nel merito. D i r i t t o L'art. 617, secondo comma, prevede che le opposizione agli atti esecutivi che non sia stato possibile proporre prima dell'inizio dell'esecuzione "si propongono con ricorso al giudice dell'esecuzione". L'art. 618, primo comma, c.p.c. stabilisce che "il giudice dell'esecuzione fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti davanti a se'", dando "nei casi urgenti, i provvedimenti opportuni". L'art. 618, secondo comma, c.p.c. prevede che il giudice dell'esecuzione, dopo aver tenuto l'udienza per verificare se adottare o meno "i provvedimenti che ritiene indilazionabili", "provvede a norma degli articoli 175 e seguenti all'istruzione della causa, che e' poi decisa con sentenza non impugnabile". Alla luce di siffatte disposizioni e' il giudice dell'esecuzione, nella persona dello stesso magistrato che ha diretto l'esecuzione, a dovere prima decidere se adottare o meno "i provvedimenti opportuni" inaudita altera parte ovvero i provvedimenti indilazionabili (una volta disposta la comparizione della parti), ed a dovere poi istruire e decidere nel merito l'opposizione proposta. Invero la Suprema Corte (con sentenza n. 02588 del 18 marzo 1999, sez. 3) ha stabilito che mentre "l'ordinanza di sospensione adottata da un diverso giudice ancorche' appartenente al medesimo ufficio giudiziario e' da considerare nulla perche' affetta da un vizio che attiene alla costituzione del giudice (art. 158 c.p.c.)", la successiva istruzione e decisione della causa nel merito compiuta da altro magistrato dello stesso ufficio giudiziario non ridonderebbe "ne' in nullita' della sentenza ne' in vizio di incompetenza", "dovendosi riconoscere per questa parte all'art. 618, secondo comma, c.p.c. la portata d'una norma ordinatoria". Appare evidente, quindi, che secondo la Suprema Corte (ed invero secondo il chiaro disposto degli artt. 617, secondo comma, e 618 c.p.c.) e' comunque lo stesso magistrato che ha diretto l'esecuzione che deve necessariamente occuparsi di emettere o meno "i provvedimenti opportuni" o "che ritiene indilazionabili" (e quindi decideere se sospendere o meno l'esecuzione), e che deve, normalmente ed in via ordinaria, provvedere poi ad istruire l'opposizione e a deciderla nel merito. E' altresi', evidente, allora, che non puo' invocarsi altra norma, l'art. 51, primo comma, n. 4, c.p.c. al fine di sollecitare l'astensione del giudice, essendo previsto dalle disposizioni anzidette che debba essere proprio quel giudice, il giudice dell'esecuzione, a doversi occupare sia della fase preliminare relativa alla sospensione dell'esecuzione, sia della fase di merito al fine di decidere l'opposizione proposta (sia pure, in quest'ultimo caso, non a pena di nullita', secondo l'anzidetta pronunzia della Suprema Corte). Tanto e' confermato espressamente da altra sentenza della Cassazione (sent. 01870 del 2 aprile 1981 sez. 3) secondo cui "il magistrato con funzioni di giudice dell'esecuzione non e' tenuto ad astenersi ai sensi dell'art. 51 n. 4 del cod. proc. civ. dal partecipare, quale membro del collegio giudicante, al giudizio di opposizione ex art. 617 dello stesso codice avverso un'ordinanza da lui emessa nell'esercizio di dette funzioni, in quanto egli viene a conoscere della medesima questione non in un successivo grado di un unico processo, ma in un nuovo procedimento, originato dall'impugnazione di un provvedimento rispetto a cui aveva operato come giudice addetto all'esecuzione" (massima CED). Analoghi principi sono poi stati affermati anche da Cass. sent. n. 04320 del 18 novembre 1976, sez. 3 (in tema di opposizione all'esecuzione), nonche' da Cass. n. 801/1978 (in tema di opposizione a sentenza dichiarativa di fallimento). Cio' detto, l'art. 51, primo comma, n. 4, c.p.c. e gli artt. 617, secondo comma, e 618 c.p.c. appaiono non rispondere ai "principi che si ricavano dalla Costituzione relativi al giusto processo, come espressione necessaria del diritto ad una tutela giurisdizionale mediante azione (art. 24 della Costituzione) avanti ad un giudice con le garanzie proprie della giurisdizione, cioe' con la connaturale imparzialita', senza la quale non avrebbe significato ne' la soggezione dei giudici solo alla legge (art. 101 della Costituzione), ne' la stessa autonomia ed indipendenza della magistratura (art. 104, primo comma, della Costituzione)" (Corte costituzionale n. 387 del 1999). Ed infatti, proprio l'esame della presente vicenda dimostra che il giudice dell'esecuzione, qualora dovesse pronunziarsi sia relativamente ai provvedimenti indilazionabili, sia nel merito sulla questione oggetto d'opposizione, dovrebbe (sia pure solo quanto al fumus boni juris nella prima fase) in definitiva "ripercorrere l'identico itinerario logico precedentemente seguito" in un giudizio caratterizzato "da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito" rispetto a quelli relativi alla definizione della fase esecutiva (il corsivo e' ancora tratto dalla sentenza n. 387 del 1999 della Corte costituzionale). In sostanza, v'e' il dubbio che nel caso de quo sussista quel "presupposto di ogni incompatibilita' endoprocessuale" che "e' la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res judicanda" (cosi' Corte costituzionale sentenza n. 0131 del 1996, monche' sentenze n. 0326 del 1997, n. 445 del 1994, n. 439 del 1993, n. 186 e n. 124 del 1992). Ed allora, la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 617, secondo comma, e 618, c.p.c. nella parte in cui prevedono che l'opposizione agli atti esecutivi sia sottoposta alla cognizione dello stesso magistrato che ha diretto l'esecuzione, non appare manifestamente infondata. Come pure non appare manifestamente infondata, vista l'anzidetta interpretazione data dalla Suprema corte dell'art. 51, primo comma, n. 4 c.p.c. (che e' difforme da quella del giudice delle leggi, ribadita di recente nella gia' piu' volte menzionata sentenza n. 387 del 1999), la questione di legittimita' costituzionale di siffatta norma, nella parte in cui prevede che il giudice ha l'obbligho di astenersi solo se ha conosciuto della causa "come magistrato in altro grado del processo". Ed infatti, le sentenze sopra richiamate della Suprema Corte, aderiscono ad una interpretazione letterale e restrittiva dell'art. 51, primo comma, n. 4, c.p.c., come si evince pure da altre sentenze della Cassazione: si veda, in proposito, quanto di recente e' stato asserito da Cass. sent. 10443 del 21 ottobre 1998, sez. 2, secondo cui "non sussiste l'obbligo di astenersi dal partecipare alla composizione del collegio costituito in sede di ricorso, ai sensi dell'art. 11 legge 8 luglio 1980 n. 319, ne' sussiste vizio di costituzione del giudice se esso e' formato anche dal giudice che ha liquidato il compenso ad un consulente tecnico d'ufficio perche' la fase di opposizione - e non di impugnazione - non costituisce giudizio di secondo grado, bensi' riesame del provvedimento dell'istruttore, assimilabile al riesame da parte del collegio, adito in sede di reclamo, delle sue ordinanze, ovvero dei provvedimenti del giudice delegato al fallimento" (massima CED); nonche' quanto statuito dal Cass. sent. 13714 del 19 dicembre 1991 sezioni unite, che ha rigettato il ricorso ad essa proposto che muoveva "dal presupposto che a determinare l'obbligo di astensione del giudice sia sufficiente il fatto che questi abbia "conosciuto come magistrato il processo ", mentre "la norma richiede invece che egli abbia conosciuto del processo "in altro grado ". Sempre nel senso di un'interpretazione restrittiva dell'art. 51, primo comma, n. 4, c.p.c. si vedano altresi': Cass. sent. 08797 del 10 agosto 1995 sez. 1; Cass. sent. 04642 del 9 luglio 1983 sez. 3; Cass. sent. 01221 del 30 marzo 1977 sez. 1; Cass. sent. 02679 del 28 settembre 1971 sez. 3; Cass. sent. 02033 del 9 giugno 1969 sez. 2. La non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale delle norme in oggetto emerge non solo in relazione ai parametri costituzionali innanzi richiamati (artt. 24, 101, 104 della Costituzione), ma anche in relazione all'art. 111, secondo comma, Cost., (come risulta in seguito alla entrata in vigore della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) che ha espressamente previsto che "ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita' davanti a giudice terzo e imparziale". In definitiva, in relazione ai parametri costituzionali innanzi citati, non appare manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 51, primo comma, n. 4, c.p.c., cosi' come interpretato dalla Suprema Corte di Cassazione. Quand'anche, poi, si dovesse seguire l'interpretazione estensiva di detta norma, prospettata dalla sentenza n. 387 del 1999 della Corte costituzionale, resterebbe il dovere, per il giudice che ha diretto l'esecuzione, di trattare e decidere l'opposizione agli atti esecutivi: cio' che fa ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 617, secondo comma, e 618 c.p.c.