ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale degli artt. 197, lett.
b),  210,  comma  6, e 192, comma 4 del cod. proc. pen., promosso con
ordinanza  emessa  il  13  maggio  1999  dal  Tribunale di Torino nel
procedimento  penale  a carico di De Vita Marco ed altri, iscritta al
n. 444  del  registro  ordinanze  1999  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale  della  Repubblica  n. 37,  prima serie speciale, dell'anno
1999.
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 24 maggio 2000 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.

                          Ritenuto in fatto

    Il  Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3
e  101,  secondo comma, della Costituzione, questione di legittimita'
costituzionale degli artt. 197, lettera b) 210, comma 6, e 192, comma
4,  cod.  proc.  pen., nella parte in cui estendono la disciplina ivi
prevista  anche  alle  ipotesi in cui il reato collegato a quello per
cui  si  procede  sia  il  reato  di  calunnia susseguente a denuncia
dell'originario denunciato.
    Il  giudice  a  quo  ha  premesso una analitica descrizione della
articolata  vicenda  per  la  quale pende il processo a carico di tre
vigili  urbani,  i  quali,  dopo  aver  contravvenzionato tale Sergio
Landolfi  per  violazione  dell'art. 7  del  codice  della  strada ed
all'esito di talune singolari operazioni dai medesimi poste in essere
-  quali  l'aver  fatto  sottoscrivere  al  Landolfi  un  verbale  di
spontanee  dichiarazioni  quale  indagato  di  calunnia  venivano  da
quest'ultimo  denunciati.  Il  Landolfi, a sua volta, fu iscritto nel
registro  delle  notizie di reato e soltanto il 30 maggio 1998 la sua
posizione  fu  archiviata.  Nell'ambito del dibattimento instaurato a
carico  dei  vigili sulla base della denuncia sporta dal Landolfi, il
pubblico  ministero  ne ha chiesto l'esame quale testimone: la difesa
degli  imputati non si e' opposta all'esame, ma ha obiettato che tale
atto  doveva  essere espletato a norma dell'art. 210 cod. proc. pen.,
attesa la qualita' del dichiarante.
    Il  Tribunale ha osservato che al Landolfi non puo' essere negata
la qualifica, - quanto meno -, di persona (gia') indagata di un reato
collegato  a  quello  per  il quale si procede a norma dell'art. 371,
comma   2,  lettera  b)  cod.  proc.  pen.;  sicche'  il  medesimo  -
puntualizza   il   rimettente  -  dovrebbe  essere  sentito  a  norma
dell'art. 210  del  codice  di  rito  per  varie  ragioni. Anzitutto,
perche'  l'art. 197,  lettera  b)  prevede,  appunto, che non possono
essere  assunte  come  testimoni  le  persone  imputate  di  un reato
collegato  nel  caso  previsto dall'art. 371, comma 2, lettera b); in
secondo luogo, per l'espresso disposto dell'art. 210, comma 6, e 192,
comma  4,  del codice di rito, che estendono le rispettive discipline
proprio  all'ipotesi  del  reato collegato che viene qui in discorso.
Ne' puo' assumere rilievo la circostanza che la qualifica di indagato
non  sia  piu'  attuale,  essendo  intervenuta l'archiviazione, avuto
riguardo  ai principi enunciati da questa Corte nelle sentenze n. 108
e 109 del 1992.
    Pertanto  -  rileva  il  giudice  a  quo  -  da  un  lato, tra il
procedimento  a  carico dei vigili urbani ed il procedimento a carico
del  Landolfi  sussiste senz'altro interferenza sul piano probatorio,
non  foss'altro  perche'  il Landolfi era in quella sede indagato per
calunnia  mentre  i  vigili  sono  nel procedimento a quo imputati di
"calunnia di calunnia". Dall'altro lato, l'archiviazione disposta nel
procedimento  relativo al Landolfi non lo garantirebbe dal rischio di
riapertura   delle   indagini,  sicche'  non  verrebbe  meno  la  sua
incompatibilita' rispetto all'ufficio di testimone con la correlativa
necessita' di applicare l'art. 210 cod. proc. pen.
    Ad   avviso  del  giudice  rimettente,  la  prescrizione  dettata
dall'art. 197  lettera  b)  dalla  quale consegue la disciplina degli
artt. 192,  comma  4,  e 210, comma 6, cod. proc. pen., e' incoerente
nella   parte   in   cui,   richiamando   la   categoria  individuata
dall'art. 371,  comma  2,  lettera  b)  non  distinguerebbe  tra  due
situazioni   fra   loro  profondamente  diverse:  quella  in  cui  il
collegamento probatorio nasca dall'apertura in capo al dichiarante di
un  procedimento sorto a seguito di "controdenuncia" per calunnia nei
suoi  confronti;  e  quella  in  cui il collegamento probatorio nasca
dalla  sottoposizione  del  dichiarante  a procedimento per qualsiasi
reato.  Da cio' deriverebbe il risultato, del tutto irragionevole, di
far  discendere  i  medesimi  effetti  dall'attrazione di entrambe le
situazioni nella medesima disciplina processuale.
    A   parere   del   giudice   a   quo,   l'irragionevolezza  della
equiparazione  si appaleserebbe sotto un duplice aspetto. Da un lato,
infatti,  l'applicazione  dell'art. 197  lettera  b)  alla ipotesi di
"controdenuncia"  per  calunnia  comporterebbe  che, paradossalmente,
l'accertamento  del  fatto  di  reato che l'originario denunciante ha
prospettato  come  compiuto  ai  suoi  danni,  verrebbe  fatalmente a
dipendere  da una scelta dello stesso denunciato, il quale attraverso
la controdenuncia - avrebbe lo strumento per svalutare all'origine il
mezzo di prova rappresentato dalla testimonianza della presunta parte
offesa.  Da un altro lato, sempre nel caso della "controdenuncia" per
calunnia,  il  contesto  di  collegamento  probatorio - e, quindi, il
presupposto  della  incompatibilita' con l'ufficio di testimone - non
nasce  da  un  "collegamento  naturalistico, o comunque intrinseco ai
fatti,  ma viene successivamente creato, nella fase dell'accertamento
dei  fatti medesimi, proprio e solo quale effetto artificiale (se non
anche   talora  artificioso)  della  "controdenuncia"".  Da  qui  due
conseguenze   irragionevoli:   anzitutto,   l'inutile  ed  anticipata
applicazione  di  una  serie  di  garanzie  ad un soggetto che non ne
avrebbe  alcun  bisogno; in secondo luogo, si viene a determinare una
immotivata  svalutazione  ex  lege  delle dichiarazioni della persona
offesa  denunciante,  perche'  per  esse  vale  la regola di giudizio
contenuta  nell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., estesa dal quarto
comma  dello  stesso  articolo all'ipotesi di reato collegato a norma
dell'art. 371, comma 2, lettera b) del codice di rito.
    Violato   sarebbe,   anche,   l'art. 101,  secondo  comma,  della
Costituzione,  in quanto il libero convincimento del giudice verrebbe
ad  essere  condizionato  da  un  accadimento  processuale  idoneo  a
produrre  un  turbamento  della  pienezza  della  prova,  ed  il  cui
realizzarsi   e'   interamente   rimesso   all'imputato   del   reato
presupposto.

                       Considerato in diritto


    1. - Il quesito di costituzionalita' che viene devoluto all'esame
di  questa  Corte  attinge  il combinato disposto degli articoli 197,
lettera  b)  210, comma 6, e 192, comma 4, cod. proc. pen., dei quali
si  denuncia  il  contrasto con gli artt. 3 e 101 della Costituzione,
nella  parte  in  cui estendono la disciplina ivi prevista anche alle
ipotesi  in cui il reato collegato a quello per cui si procede sia il
reato di calunnia susseguente a denuncia dell'originario denunciato.
    La  peculiarita'  della  impugnativa  -  attenta a ritagliare una
ipotesi  del  tutto  circoscritta nel ben piu' ampio registro offerto
dalle  norme  sottoposte a scrutinio - si delimita poi ulteriormente,
nel  caso  di  specie,  in  quanto  il giudice rimettente muove dalla
premessa secondo la quale, evocando i dicta a tal proposito enunciati
dalle  sentenze  n. 108  e  109  del  1992,  neppure  l'archiviazione
disposta  nei  confronti  dell'originario  denunciante,  a  sua volta
denunciato,  varrebbe a dirimere la problematica oggetto del quesito,
in  quanto  il  provvedimento  di  archiviazione non sarebbe idoneo a
garantire quel soggetto dal rischio di una riapertura delle indagini:
con  la  conseguenza  di  lasciare  immutata  la sua incompatibilita'
rispetto  all'ufficio  di  testimone  e rendere dunque applicabile la
disciplina  dettata  dall'art. 210  cod.  proc. pen. e la correlativa
regola  di  valutazione  della prova, sancita dall'art. 192, comma 4,
dello stesso codice.
    Da  tutto  cio'  scaturirebbe,  dunque, il contrasto con l'art. 3
della   Costituzione,   in   quanto   verrebbe   irragionevolmente  a
determinarsi  l'applicazione  di una serie di garanzie ad un soggetto
che non ne avrebbe "alcun bisogno" (salva l'eventualita' in cui venga
smentita  la sua versione ed emerga il dolo di calunnia). Per contro,
si   produrrebbe   una   incoerente   svalutazione   ex   lege  delle
dichiarazioni  rese dalla persona offesa denunciante, applicandosi ad
esse  la  piu'  rigorosa  regola  di giudizio prevista dall'art. 192,
comma  3,  cod.  proc.  pen.,  la  quale  ultima  prevede  che quelle
dichiarazioni - in virtu' del richiamo operato dal quarto comma dello
stesso  articolo -  sono  valutate  unitamente agli altri elementi di
prova  che  ne  confermano  l'attendibilita'.  Da  cio'  anche,  e di
riflesso,  la  dedotta  compromissione  dell'art. 101, secondo comma,
della  Carta  fondamentale,  in  quanto  il  libero convincimento del
giudice  verrebbe  ad  essere  influenzato  da un fattore processuale
idoneo  ad  inficiare  la pienezza della prova, e la cui operativita'
verrebbe  fatta  integralmente  dipendere da una scelta discrezionale
delle  parti  (nella  specie,  dell'indagato  o  imputato  del  reato
presupposto).

    2. - Il richiamo operato dal giudice a quo alle sentenze n. 108 e
109  del  1992, entrambe poste a base della ricostruzione ermeneutica
del  quadro  normativo  coinvolto  dalle  odierne  censure, impone di
prendere  le  mosse  proprio  da  tali pronunce, per verificare se le
premesse  sulle  quali  si  e'  fondato  il  quesito  possano  o meno
ritenersi corrette.
    Con  la  sentenza n. 108 del 1992, questa Corte ebbe a dichiarare
non  fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 60
cod.  proc.  pen.,  in  relazione  agli artt. 405 e 197, primo comma,
lettera  a)  dello  stesso  codice,  nella  parte in cui - secondo il
giudice  rimettente  -  non  avrebbe  previsto l'incompatibilita' con
l'ufficio  di  testimone  della persona sottoposta alle indagini, nei
confronti  della  quale  fosse stato emesso provvedimento restrittivo
della   liberta'   personale   in   un  procedimento  conclusosi  con
l'archiviazione.  Si  osservo',  infatti,  che  "la norma di garanzia
contenuta  nell'art. 197,  primo  comma,  lettera  a)  del  codice di
procedura  penale  deve essere applicata alla persona sottoposta alle
indagini  preliminari  cosi'  come essa viene applicata all'imputato;
vale  a  dire  che il combinato disposto di tale norma con l'art. 61,
primo   comma,   vieta  l'assunzione  come  testimone  delle  persone
sottoposte  alle indagini preliminari anche se nei loro confronti sia
stato pronunciato decreto di archiviazione". Una conseguenza, questa,
reputata  "assolutamente  coerente  al sistema", dato che il presidio
offerto  dal  principio secondo cui nemo tenetur se detegere - su cui
si  fonda  l'esclusione  dall'ufficio di testimone dell'imputato, nei
cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere
(revocabile  a  norma  dell'art. 434)  -  deve  valere  "anche per la
persona  sottoposta  alle  indagini preliminari nei cui confronti sia
stato  pronunciato  decreto  di  archiviazione,  essendo prevista per
questa la possibilita' di riapertura delle indagini".
    Con  la  sentenza  n. 109  del  1992, invece, questa Corte ebbe a
dichiarare  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 197  cod.  proc.  pen.,  nella  parte  in  cui  non prevede
l'incompatibilita'  a testimoniare dell'imputato nel processo riunito
a norma dell'art. 17, lettera c) dello stesso codice, vale a dire nei
casi  di  reati  commessi  da  piu' persone in danno reciproco le une
delle  altre.  Dopo  aver  sottolineato  che tale soggetto, allorche'
venga  assunto come testimone, e' tutelato dai rischi derivanti dalla
possibilita' di autoincriminazioni dalla generale garanzia apprestata
dall'art. 198,  comma  2, questa Corte - come lo stesso giudice a quo
rammenta  - ha sottolineato che "il criterio posto a base della norma
impugnata  in  ordine  al divieto di essere assunto come testimone e'
quello dell'esistenza di un vincolo probatorio tra i procedimenti nei
quali  il medesimo soggetto si troverebbe ad assumere rispettivamente
la veste di imputato e di testimone: vincolo che sussisterebbe sempre
...  nei  casi  indicati  dall'art. 197,  lett.  a) (coimputati dello
stesso  reato  o  imputati  di reati connessi a norma dell'art. 12) e
che,  in  ogni  altro  caso  in  cui si verifichi, sara' rilevato dal
giudice  a  norma  dell'art. 197,  lettera  b)".  Da  qui la ritenuta
operativita'  del  divieto  di essere assunti come testimoni ai sensi
dell'art. 197  lettera  b) "anche per coloro che siano imputati di un
reato  collegato",  "ove in concreto il giudice rilevi l'esistenza di
una  vera  e  propria  interferenza  sul  piano  probatorio  tra  due
procedimenti".
    Le  prospettive  secondo  le  quali sono venute ad articolarsi le
richiamate  sentenze  di  questa  Corte  non  sono,  dunque, fra loro
sovrapponibili,  giacche'  il  relativo  ambito  decisorio  e'  stato
rispettivamente circoscritto alle ipotesi di cui alle lettere a) e b)
dell'art. 197  cod. proc. pen., delle quali anzi - e come si e' visto
-  sono  state  adeguatamente  messe  a  fuoco le profonde differenze
strutturali.   Pretendere,   quindi,  come  pure  sembra  presupporre
l'odierno  rimettente,  di trasferire le conclusioni cui e' pervenuta
la  sentenza  n. 108 del 1992 anche nella sfera attinta dalla seconda
ed  immediatamente successiva pronuncia, e' soluzione concettualmente
impraticabile,  ancor  prima  che ermeneuticamente scorretta, proprio
perche'  eterogenei  e  non  combinabili  sono  gli  stessi referenti
normativi che vengono qui in discorso.
    Al  riguardo,  puo'  infatti  subito rilevarsi come la scelta del
legislatore  sia  stata univocamente quella di assegnare carattere di
eccezionalita'  alle  ipotesi  che disciplinano la incompatibilita' a
testimoniare,  a  fronte  della  opposta  e  generale  regola sancita
dall'art. 196, comma 1, del codice di rito: sicche', la "lettura" dei
casi  di incompatibilita' con l'ufficio di testimone e la correlativa
sfera  applicativa,  non  potra'  che  essere improntata a criteri di
particolare  rigore,  con esclusione di qualsiasi ampliamento su base
analogica.  Ebbene,  l'art. 197, lettera a) del codice, espressamente
stabilisce   l'incompatibilita'   con   l'ufficio  di  testimone  nei
confronti  dei coimputati nel medesimo reato e delle persone imputate
in  un procedimento connesso a norma dell'art. 12, "anche se nei loro
confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, di
proscioglimento   o   di   condanna,   salvo   che   la  sentenza  di
proscioglimento sia divenuta irrevocabile". Per tali soggetti, quindi
-  e  soltanto  per  essi - il legislatore ha formulato uno specifico
riferimento  alla  "durata" della loro qualita', assegnando una sorta
di  immunita' rispetto all'ufficio di testimone anche al di la' della
chiusura  del  relativo procedimento; salva l'ipotesi - evidentemente
anch'essa da riguardare come "eccezionale" nella economia del sistema
-   in   cui  quei  soggetti  siano  stati  prosciolti  con  sentenza
irrevocabile  e,  dunque, non si presenti per essi piu' alcun rischio
di  un  nuovo  giudizio  per  lo  stesso  fatto.  Da cio', quindi, si
chiarisce  come  la  sentenza  n. 108  del  1992  si  sia  saldamente
attestata  alla ipotesi prevista dall'art. 197, lettera a) del codice
di  rito,  giacche'  soltanto  per  essa  poteva porsi un problema di
assimilabilita'  nella  tutela  per  i coimputati o imputati di reato
connesso  nei  confronti dei quali fosse stato pronunciato il decreto
di  archiviazione, dotato di una "capacita' di resistenza" senz'altro
minore  rispetto  alla sentenza di non luogo a procedere, cui pure lo
stesso articolo di legge fa espresso riferimento.
    Da   quanto   osservato   puo'   dunque   trarsi   un  corollario
interpretativo  evidentemente  antagonista, rispetto alla prospettiva
ermeneutica  sulla  quale  il  giudice  rimettente  fonda  le proprie
censure.   Non  essendo  stata  infatti  prevista  nella  lettera  b)
dell'art. 197  alcuna  previsione  circa  "la  durata" della relativa
qualita', se ne puo' dedurre che l'incompatibilita' sussiste soltanto
nei  confronti  di  coloro  che,  e  per il tempo in cui rivestono la
qualita'  di  persone  imputate  o indagate (in virtu' della generale
estensione  prevista  dall'art. 61  cod.  proc.  pen.)  di  un  reato
collegato a quello per cui si procede a norma dell'art. 371, comma 2,
lettera  b);  con  l'ovvia  conseguenza  che  - per stare nel caso di
specie - l'intervenuta archiviazione del procedimento probatoriamente
collegato produce l'effetto di dissolvere la correlazione qualificata
tra  le  regiudicande  e,  con  essa,  l'incompatibilita' ad assumere
l'ufficio  di  testimone.  D'altra  parte,  una  simile ricostruzione
interpretativa  appare  essere  coerentemente  in linea con la stessa
ratio  dell'istituto che qui viene in discorso, giacche' - evocandosi
una   ipotesi   caratterizzata   dalla  interferenza  probatoria  tra
procedimenti   -   la   configurazione   di  una  incompatibilita'  a
testimoniare assume una specifica ragione d'essere solo nei limiti in
cui  i  procedimenti  siano  in corso; altrimenti, il tema probatorio
comune  cesserebbe  di  avere  connotazioni meramente processuali per
assumere  anche  effetti, per cosi' dire, "sostanziali". Questa ratio
non  a caso e' valorizzata nella sentenza n. 109 del 1992, ove questa
Corte   -   dopo  aver  sottolineato  il  generale  presidio  offerto
dall'art. 198, comma 2, cod. proc. pen. al principio del nemo tenetur
se  detegere  -  ha  espressamente  rimesso  al giudice il compito di
verificare  "in  concreto"  l'interferenza sul piano probatorio tra i
due procedimenti, presupponendone, quindi, la attuale consistenza.
    A  sostegno  di  tale  prospettiva  militano,  per  altro  verso,
ulteriori  spunti  offerti  dalla  disciplina  positiva, i quali solo
apparentemente  possono  ritenersi  riconducibili  a  profili di mero
sistema.  L'art. 210  cod. proc. pen., infatti, prevede, nel comma 1,
che  le  specifiche  modalita'  di esame delineate da quella norma si
applichino  nei  confronti  delle persone imputate in un procedimento
connesso a norma dell'art. 12 "nei confronti delle quali si procede o
si   e'  proceduto  separatamente":  ancora  una  volta,  quindi,  il
legislatore  e' attento a calibrare per questi specifici soggetti una
previsione  "di durata" della relativa qualita', in stretta aderenza,
come  si e' visto, alla correlativa previsione dettata dall'art. 197,
comma  1,  lettera a). Nei confronti, invece, degli imputati di reato
probatoriamente collegato, il comma 6 dello stesso art. 210 si limita
ad estendere le forme dell'esame, senza alcuna specifica menzione del
fatto  che  nei  confronti  delle  stesse "si sia proceduto" in altra
sede,  evidentemente  richiedendosi - ancora una volta - l'attualita'
del loro specifico status.
    Un  ulteriore  indice,  e  sempre  per  stare  al corpo normativo
attinto  dalle  censure  di  incostituzionalita',  puo' infine essere
desunto  dallo  stesso  regime  di  valutazione  della prova scandito
dall'art. 192   del  codice  di  rito.  La  nota  regola  della  c.d.
corroboration  -  mutuata,  come  precisa  la  Relazione  al Progetto
preliminare,  dalle  esperienze  dei  paesi  in  cui  vige il sistema
accusatorio,  ove  essa  accompagna, non a caso, la valutazione della
chiamata in correita' - e' stata infatti prevista dal comma 3 di tale
articolo  per  le  dichiarazioni  rese dal coimputato o dalla persona
imputata  in un procedimento connesso a norma dell'art. 12; mentre la
stessa  regola  e' stata estesa alle dichiarazioni rese dall'imputato
di reato probatoriamente collegato dal comma 4 del medesimo articolo,
introdotto   dal   Progetto   definitivo,   sul  presupposto  -  come
puntualizza la Relazione - che si trattasse di "ipotesi razionalmente
non dissimili".
    Per  un  verso,  dunque  - attraverso la scelta di "estendere" la
regola  di  valutazione di cui al comma 3 anche alle dichiarazioni di
cui  al  comma  4, anziche' far confluire quest'ultima previsione nel
corpo  della prima - e' lo stesso legislatore ad aver rimarcato come,
pur nella identita' della regola processuale, non sussista ontologica
coincidenza  tra  le  due  categorie  di  soggetti processuali: cosi'
fornendo  il  destro  all'interprete  per affermare la non automatica
trasferibilita', in via ermeneutica, delle disposizioni stabilite per
i  primi anche in riferimento alla posizione dei secondi. Sotto altro
profilo  -  e  per  stare alle stesse espressioni che compaiono nella
Relazione  al  Progetto definitivo - la estensione della regola della
probatio  levior  alle  dichiarazioni  rese  dagli  imputati di reato
probatoriamente  collegato a quello per il quale si procede, in tanto
puo'  ritenersi  "razionalmente" giustificata, in quanto il contrasto
di interessi che e' al suo fondamento possa ritenersi in concreto - e
dunque  in  atto sussistente. Eventualita', questa, che evidentemente
non  ricorre  nelle  ipotesi  in  cui,  come  nel caso in esame, tale
contrasto  sia  stato  dissolto  proprio sul piano della interferenza
probatoria,  per  esser  stata  la  posizione  del  dichiarante  gia'
definita con un provvedimento di archiviazione.
    Risultando pertanto errata la premessa posta a base delle odierne
censure,   la   questione  all'esame  di  questa  Corte  deve  essere
dichiarata non fondata.