ha pronunciato la seguente


                              Ordinanza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 14 della legge
26  aprile  1990,  n. 86  (Modifiche  in tema di delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione), promosso con ordinanza
emessa  il  24  settembre  1999  dal Tribunale militare di Verona nel
procedimento penale a carico di Di Sommo Raffaele, iscritta al n. 612
del  registro  ordinanze  1999  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 1999.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
Ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 5 luglio 2000 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto che, con ordinanza emessa il 24 settembre 1999 nel corso
di  un  procedimento nei confronti di un maresciallo dell'aeronautica
imputato  del  reato  di  peculato militare, il Tribunale militare di
Verona   ha  sollevato,  in  riferimento  agli  artt. 3  e  27  della
Costituzione,  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 14
della  legge  26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei
pubblici  ufficiali  contro la pubblica amministrazione), nella parte
in cui non prevede per il reato di cui all'art. 215 del codice penale
militare   di  pace  una  circostanza  attenuante  analoga  a  quella
introdotta con l'art. 323-bis del codice penale;
        che  il  giudice  a  quo  premette, in punto di rilevanza, di
essere   chiamato   a   pronunciare   sulla   richiesta   - formulata
dall'imputato   con   il   consenso   del  pubblico  ministero  -  di
applicazione  della pena di mesi quattro e giorni venti di reclusione
militare, alla quale si perviene sulla base del riconoscimento di una
serie  di  circostanze  attenuanti,  tra cui quella della particolare
tenuita'   del   fatto,   prevista   dal   citato  art. 323-bis  cod.
pen. (aggiunto dall'art. 14 della legge n. 86 del 1990);
        che  all'accoglimento  della  richiesta  -  sotto  ogni altro
profilo rispettosa delle condizioni stabilite dall'art. 444, comma 2,
cod.  proc. pen. - osta, ad avviso del rimettente, l'inapplicabilita'
al  reato  di  peculato  militare dell'attenuante da ultimo indicata,
trattandosi  di  circostanza  speciale  riferita  a  figure  di reato
specificamente  individuate  e  comprensive  del solo peculato comune
(art. 314 cod. pen.);
        che  la  norma  denunciata contrasterebbe, peraltro, in parte
qua,  con  il  principio di uguaglianza, essendo il peculato militare
fattispecie  criminosa  "speculare" al peculato comune, con le uniche
differenze  relative  al  soggetto  attivo  ("militare  incaricato di
funzioni  amministrative  o  di  comando"), all'oggetto dell'illecita
appropriazione    (denaro   o   altra   cosa   mobile   "appartenente
all'amministrazione militare") e alla pena (reclusione da due a dieci
anni);
        che,  sul  piano  della condotta, il pieno allineamento delle
due  figure  criminose  e' stato assicurato dalla sentenza n. 448 del
1991    di    questa   Corte,   che,   dichiarando   l'illegittimita'
costituzionale  dell'art. 215  del  codice  penale  militare  di pace
limitatamente  alle parole "ovvero lo distrae a profitto proprio o di
altri",  ha  eliminato dalla fattispecie del reato militare l'ipotesi
del  peculato  per  distrazione,  gia' caduta in rapporto al peculato
comune per effetto dell'art. 1 della legge n. 86 del 1990;
        che - proprio alla luce dei dicta della sentenza ora citata -
le   fattispecie   in  parola  debbono  considerarsi  sostanzialmente
identiche  quanto all'elemento materiale, all'elemento psicologico ed
al  contenuto  offensivo,  risultando,  anzi,  il  peculato  militare
addirittura  meno  grave  di quello comune, in quanto punito con pena
inferiore nel minimo di ben un anno;
        che,   in   simile   prospettiva,   la   mancata   estensione
dell'attenuante  al  reato  militare implicherebbe una ingiustificata
disparita' di trattamento tra il pubblico ufficiale o l'incaricato di
pubblico  servizio  "civile", da un lato, e il militare incaricato di
funzioni  amministrative  o  di  comando,  dall'altro:  giacche',  in
sostanza,   a   seguito   dell'"omissione"   legislativa   censurata,
all'autore   del   fatto-reato   meno   grave  verrebbe  preclusa  la
possibilita'   di  fruire  di  circostanza  attenuante  di  cui  puo'
viceversa beneficiare l'autore di un fatto-reato piu' grave;
        che   detta  "omissione"  contrasterebbe,  altresi',  con  il
principio  di  proporzionalita'  della pena, desumibile dall'art. 27,
terzo  comma,  Cost.,  il  quale - nello stabilire che le pene devono
tendere   alla   rieducazione   del   reo   -  postula  un  nesso  di
corrispondenza  tra  entita'  della sanzione e gravita' del fatto, in
difetto  del  quale  la  pena  verrebbe  avvertita  dal reo come "non
meritata"   e,  dunque,  lungi  dal  rieducarlo,  lo  spingerebbe  ad
atteggiamenti di "ribellione" alla legge;
        che  nel  giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio
dei  Ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato,  il  quale  ha  chiesto  che  la  questione sia dichiarata non
fondata;
        che   l'Avvocatura  erariale  contesta,  in  particolare,  la
validita'    del   presupposto   interpretativo   dell'ordinanza   di
rimessione,  circa l'inapplicabilita' della circostanza attenuante di
cui  all'art. 323-bis cod. pen. al peculato militare, ritenendo che a
contraria  conclusione  debba  pervenirsi - proprio in considerazione
della  identita'  strutturale  delle  fattispecie poste a confronto -
sulla base del generale disposto dell'art. 16 cod. pen.
    Considerato   che  questa  Corte  e'  chiamata  a  verificare  la
conformita'  agli  artt. 3 e 27 della Costituzione dell'art. 14 della
legge  n. 86  del  1990,  nella  parte in cui non estende al reato di
peculato  militare la circostanza attenuante del fatto di particolare
tenuita',  introdotta dalla norma denunciata con riferimento a taluni
delitti  dei  pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione -
tra cui il peculato comune - mediante l'inserimento nel codice penale
del nuovo art. 323-bis;
        che  il  presupposto interpretativo da cui muove il giudice a
quo  -  l'inapplicabilita',  cioe',  dell'attenuante  in  discorso al
peculato  militare  -  appare  senz'altro condivisibile, essendosi al
cospetto  di  una  circostanza  speciale riferita nominatim a singole
figure  di  reato comune: particolare, questo, che - contrariamente a
quanto  sostenuto  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato  - esclude
l'operativita' dell'art. 16 cod. pen. (il quale - nello stabilire che
le  disposizioni  del  codice penale "si applicano anche alle materie
regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito
altrimenti"  -  fa  riferimento  essenzialmente  alle disposizioni di
parte  generale,  nonche'  a  quelle  che,  pur contenute nella parte
speciale  del codice, rechino pero' previsioni aventi caratteristiche
di generalita');
        che   parimenti   meritevole   di  avallo  e'  l'assunto  del
rimettente, circa il parallelismo strutturale tra i reati di peculato
comune   e  militare:  esso  corrisponde,  in  effetti,  al  costante
orientamento  di questa Corte, la quale ha in piu' occasioni rilevato
che  tra le due fattispecie criminose - aventi in comune gli elementi
materiale  e  psicologico  ed  il contenuto offensivo - "sussiste una
sostanziale  identita'", tale da rendere ingiustificate le disparita'
di trattamento indotte da leggi sopravvenute che concernevano il solo
peculato comune (cfr. sentenze nn. 448 del 1991, 473 del 1990 e 4 del
1974);
        che  nel  frangente,  tuttavia,  l'argomento  della identita'
strutturale  fra  peculato  comune  e  peculato  militare si presenta
intrinsecamente  contraddittorio  rispetto  alla  pronuncia  additiva
invocata dal giudice a quo;
        che,  al  riguardo,  vale  infatti rilevare come - a dispetto
dell'accennata  assonanza  di  struttura  -  il  peculato militare, a
parita'  di  pena  massima,  risulti punito con pena minima inferiore
esattamente  di  un  terzo  (due  anni  di  reclusione, anziche' tre)
rispetto  a quella comminata per il peculato comune (la previsione di
tale   minimo  inferiore  risulta  invero  giustificata,  nei  lavori
preparatori del codice penale militare di pace, con l'opportunita' di
adeguare  la  risposta punitiva alla qualita' del soggetto attivo del
reato,  il  quale  spesso si identifica in un militare di grado assai
modesto, non rivestito di funzioni amministrative permanenti: laddove
peraltro   e'   evidente   che   - anche   a   ritenere  valida  tale
giustificazione  -  ipotesi  omologhe  di ridotto disvalore del fatto
siano suscettive di verificarsi pure in rapporto al peculato comune);
        che,  a  fronte  di  cio',  l'introduzione,  per  il peculato
comune, di una circostanza attenuante speciale (ma ad effetto comune:
tale,  cioe',  da  consentire  la  diminuzione  della  pena fino a un
terzo), quale quella di cui all'art. 323-bis cod. pen. - la cui ratio
e'  generalmente identificata nell'intento di mitigare il trattamento
sanzionatorio  della fattispecie, nei casi in cui la carica offensiva
del  singolo episodio si riveli modesta - non fa altro, alla resa dei
conti,  che allineare in modo piu' pieno il trattamento delle ipotesi
criminose  (comune e militare), permettendo che anche per la prima la
pena  possa  scendere,  nei  congrui casi, al medesimo livello minimo
previsto per la seconda;
        che,  in  sostanza, se e' vero che le due fattispecie poste a
confronto  sono  "speculari",  anche  la  relativa  pena  minima deve
esserlo: e cio' e' assicurato oggi, di fatto - sia pure con il tratto
differenziale  che nell'un caso (peculato militare) ci si muove entro
la  cornice  edittale,  nell'altro  (peculato  comune) al di sotto di
essa,  sulla  base  del  riconoscimento di un elemento circostanziale
(espresso,  peraltro,  da  una  formula  indefinita  che  implica una
valutazione  globale  del singolo episodio criminoso, in tutti i suoi
elementi  e  modalita')  -  proprio  dall'applicabilita'  al peculato
comune  di  una  circostanza  attenuante non prevista per il peculato
militare;
        che,  in  tale  prospettiva,  la  pronuncia  additiva  che il
rimettente    richiede,   lungi   dal   correre   sul   filo   logico
dell'allineamento    del    trattamento   sanzionatorio   delle   due
fattispecie,  ripristinerebbe l'originario sbilanciamento in melius a
favore del peculato militare;
        che,  caduta  con  cio'  la censura di violazione dell'art. 3
Cost.,   cade   anche,   di   riflesso,   quella   di  compromissione
dell'art. 27,  terzo  comma, Cost., che risulta all'evidenza priva di
autonomia rispetto alla prima.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.