ha pronunciato la seguente


                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 227, primo
comma,  del codice penale militare di pace, in relazione all'art. 260
dello stesso codice, promosso con ordinanza emessa il 13 ottobre 1999
dal  giudice  per  le  indagini preliminari del Tribunale militare di
Torino  nel procedimento penale a carico di Macor Fausto, iscritta al
n. 694  del  registro  ordinanze  1999  e  pubblicata  nella Gazzetta
Ufficiale  della  Repubblica  n. 52,  prima serie speciale, dell'anno
1999.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
Ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio del 24 maggio 2000 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che,  con  ordinanza  emessa  il  13 ottobre 1999 (r.o.
n. 694  del  1999),  il  giudice  per  le  indagini  preliminari  del
Tribunale  militare  di  Torino  ha  sollevato,  in  riferimento agli
artt. 3,  24  e  52,  terzo  comma,  della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 227,  primo comma, del codice
penale  militare  di  pace,  in  relazione  all'art. 260 dello stesso
codice,  nella  parte  in  cui prevede che il delitto di diffamazione
semplice  commesso  da  un  militare  in  danno  di altro militare e'
punibile  solo  a  richiesta del comandante del corpo o di altro ente
superiore,  da  cui  dipende  il  militare  colpevole,  e non anche a
querela della persona offesa;
        che  il  giudice a quo premette, in punto di fatto, di essere
chiamato  a  decidere, nell'ambito di un procedimento per il reato di
diffamazione  previsto  dall'art. 227, primo comma, del codice penale
militare  di  pace,  sulla  richiesta  di archiviazione formulata dal
pubblico  ministero per il solo motivo della mancanza della richiesta
di  procedimento del comandante del corpo: richiesta avverso la quale
il militare offeso - querelante - aveva proposto opposizione;
        che,   ad   avviso   del   rimettente,  le  norme  denunciate
violerebbero l'art. 52, terzo comma, della Costituzione, in quanto la
richiesta  del comandante del corpo - prevista dall'art. 260, secondo
comma,  del  codice  penale  militare  di  pace  come  condizione  di
perseguibilita'  dei  reati  per  i quali la legge stabilisce la pena
della  reclusione  militare non superiore a sei mesi (quale quello di
specie)  -  sarebbe  basata  su  valutazioni  ispirate  ad una logica
"istituzionalistica"  di  prevalenza  dell'"immagine del reparto" sui
diritti  della  persona  (tutelati  dalla  norma incriminatrice della
diffamazione):  logica,  questa,  incompatibile  con  il principio di
permeabilizzazione  dell'ordinamento  delle Forze armate allo spirito
ed ai valori democratici dello Stato;
        che  le  stesse  norme si porrebbero altresi' in frizione con
l'art. 24  della Costituzione, in quanto la scelta del comandante del
corpo  di mantenere "segretato" l'illecito nell'ambito della caserma,
evitando  di  proporre la richiesta di procedimento, impedirebbe alla
parte  offesa  di  esercitare  il proprio diritto al risarcimento del
danno  nell'ambito  del  processo  penale mediante la costituzione di
parte  civile,  divenuta  possibile  anche in sede militare a seguito
della  declaratoria di illegittimita' costituzionale, con sentenza di
questa  Corte  n. 60  del  1996,  dell'articolo 270, primo comma, del
codice penale militare di pace;
        che, infine, le norme impugnate contrasterebbero con l'art. 3
Cost.,  determinando  una irragionevole disparita' di trattamento tra
la  persona  offesa  dalla  diffamazione militare e la persona offesa
dalla diffamazione comune (art. 595 cod. pen.), la quale, mediante la
proposizione  della  querela,  puo' dar corso all'azione penale senza
preclusioni di sorta;
        che  e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha  concluso  per la declaratoria di inammissibilita' o, comunque, di
infondatezza della sollevata questione.
    Considerato  che  questa  Corte  e'  chiamata a verificare se sia
compatibile con gli artt. 3, 24 e 52, terzo comma, della Costituzione
il  combinato disposto degli artt. 227, primo comma, e 260 del codice
penale   militare   di   pace,   nella  parte  in  cui  subordina  la
perseguibilita'  del reato di diffamazione militare commesso in danno
di  altro  militare  alla  richiesta  del comandante del corpo, e non
anche alla querela della persona offesa;
        che  questa  Corte  ha,  peraltro, da tempo chiarito come nei
reati  militari  sia  sempre  insita  "un'offesa alla disciplina e al
servizio,  una  lesione quindi di un interesse eminentemente pubblico
che  non  tollera subordinazione all'interesse privato caratteristico
della  querela":  presupposto  sulla  base del quale "si e' preferito
attribuire  al comandante del corpo, con l'istituto della richiesta",
"una  facolta'  di  scelta  tra l'adozione di provvedimenti di natura
disciplinare  ed  il ricorso all'ordinaria azione penale considerando
che  vi  sono  dei  casi  in  cui,  per la scarsa gravita' del reato,
l'esercizio   incondizionato   dell'azione  penale  puo'  causare  un
pregiudizio  proporzionalmente  maggiore di quello prodotto dal reato
stesso"  (cfr.  sentenze.  nn. 449  del  1991  e 42 del 1975, nonche'
ordinanza n. 229 del 1988);
        che  tale  assetto  normativo  non  compromette,  dunque,  lo
spirito  democratico  della Repubblica, cui e' richiamo nell'art. 52,
terzo  comma,  Cost.,  palesandosi  la  richiesta  del comandante del
corpo,  in  dette ipotesi di lieve entita', come uno strumento idoneo
ad  adeguare  al  caso concreto la risposta dell'ordinamento militare
(cfr.  sentenze  nn. 436  del  1995 e 449 del 1991, nonche' ordinanze
nn. 396 del 1996 e 467 del 1995);
        che,  del  pari, va esclusa la lesione del diritto di difesa,
in   assunto   connessa   alla   preclusione,   per   effetto   delle
determinazioni  del  comandante,  della  facolta'  del danneggiato di
costituirsi parte civile nel procedimento relativo al reato militare:
dovendo  ribadirsi,  al  riguardo, che l'esercizio dell'azione civile
per  il  risarcimento  del  danno nel processo penale non rappresenta
l'unico  strumento  di tutela giudiziaria a disposizione del soggetto
danneggiato  dal  reato,  cui  e'  data, prima ancora, la facolta' di
proporre detta azione, immediatamente e senza alcun ostacolo, davanti
al  giudice  civile (cfr. sentenze nn. 396 del 1996, 94 del 1996, 532
del 1995 e 185 del 1994, nonche' ordinanza n. 224 del 1997);
        che, infine, non puo' venire in considerazione la prospettata
violazione  del  principio  di uguaglianza, giacche' la diversita' di
trattamento  sulla  quale  il  giudice  a  quo  punta  l'indice trova
giustificazione  nella  peculiarita'  della  situazione  propria  del
cittadino  inserito  nell'ordinamento  militare - alle cui specifiche
regole  egli  non  puo'  non  sottostare  -  rispetto  a quella della
generalita'  degli  altri cittadini (cfr. ordinanze nn. 224 del 1997,
396 del 1996, 82 del 1994 e 397 del 1997).
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.