IL TRIBUNALE MILITARE

    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro:
      1)  Sportelli  Giuseppe  Carmine,  nato  il  16 luglio  1950  a
  Putignano   (BA),   elettivamente   domiciliato  presso  lo  studio
  dell'avvocato  Guardino Vincenzo del foro di Udine, atto di nascita
  n. 358/I/A, coniugato, incensurato, colonnello;
      2)   Serafini  Adriano,  nato  il  16 giugno  1964  a  Salerno,
  elettivamente  domiciliato  presso  lo  studio  dell'avvocato Coiro
  Mario   del   foro  di  Pordenone,  atto  di  nascita  n. 2016/I/A,
  coniugato, incensurato, capitano, imputati:
        per  Sportelli:  "peculato  militare  continuato in concorso"
  (Artt.  215  c.p.m.p.;  81  capoverso  c.p.  e  110  c.p.) perche',
  Ten.Col.  E.I.  Capo servizio amministrativo del Comando 2a Btg. F.
  "Pordenone"  di  stanza  in  Pordenone,  in  concorso  con Serafini
  Adriano,   Capo   gestione   denaro,  utilizzava  somme  di  danaro
  appartenenti  all'amministrazione  militare per l'acquisto di merce
  diversa  da  materiale  di  cancelleria  presso  la  Ditta  "Centro
  Contabile  Chiappino" di Daniela Chiappino con sede in Manzano (UD)
  per   l'importo   complessivo  di  circa  L.12.000.000;  merce  mai
  consegnata  al  reparto  militare  con  relativa  appropriazione  a
  proprio  profitto  del  denaro  che  l'amministrazione  militare ha
  erogato per pagare le fatture, in Pordenone negli anni 1991 e 1992;
        per  Serafini:  "peculato  militare  continuato  in concorso"
  (Artt.  215  c.p.m.p.;  81  capoverso  c.p. e 110 c.p.) perche', in
  concorso  con  Sportelli  Giuseppe,  Capo  servizio amministrativo,
  Capitano Capo gestione denaro del Comando 2a Btg. F. "Pordenone" di
  stanza  in  Pordenone,  utilizzava  somme  di  danaro  appartenenti
  all'amministrazione  militare  per  l'acquisto  di merce diversa da
  materiale   di   cancelleria  presso  la  Ditta  "Centro  Contabile
  Chiappino"  di  Daniela  Chiappino  con sede in Manzano (Udine) per
  l'importo  complessivo di circa L. 12.000.000; merce mai consegnata
  al  reparto militare con relativa appropriazione a proprio profitto
  del  denaro che l'amministrazione militare ha erogato per pagare le
  fatture, in Pordenone negli anni 1991 e 1992;
    Vista  la  richiesta  del p.m. di proposizione della questione di
  legittimita'  costituzionale  dell'art. 33-bis  comma  1  lett.  b)
  c.p.p.  nella  parte  in  cui  non  prevede  che  sia attribuito al
  tribunale  in composizione collegiale il reato di peculato militare
  (art. 215 c.p.m.p.) per contrasto con l'art. 3 Costituzione;
    Sentiti  il difensore dell'imputato Sportelli che si e' associato
  a  detta richiesta ed il difensore dell'imputato Serafini che si e'
  rimesso;

                            O s s e r v a

    L'art. 33-bis c.p.p. introdotto dall'art. 169 del d.lgs. 51/1998,
  recante  norme  per  l'istituzione  del giudice unico, e modificato
  dall'art. 10 della legge 16 dicembre 1999 n. 479, non contempla tra
  i  reati  attribuiti  alla competenza del tribunale in composizione
  collegiale  alcun  reato militare, ad eccezione (per effetto di una
  previsione  di  carattere  generale)  di  quelli puniti con la pena
  della  reclusione  superiore  nel  massimo  a  dieci  anni.  E cio'
  nonostante  la  Corte costituzionale abbia piu' volte affermato che
  anche  per i reati militari la competenza appartiene in via normale
  all'autorita'  giudiziaria  ordinaria e solo in via di eccezione ai
  tribunali militari;
    Quella  disposizione  di  legge stabilisce peraltro che i delitti
  previsti  dal  capo I del titolo II del libro II del codice penale,
  esclusi  quelli indicati dagli artt. 329, 331 primo comma, 332, 334
  e  335,  siano  attribuiti al tribunale in composizione collegiale,
  volendosi  da  un  lato offrire maggiori garanzie agli imputati dei
  piu'  gravi  delitti  dei  pubblici  ufficiali  contro  la pubblica
  amministrazione,   e   dall'altro   comunque  riservare  all'organo
  collegiale  i  reati  caratterizzati  da  rilevanti  difficolta' di
  accertamento o da particolare allarme sociale;
    Orbene  non vi sono motivi che possano dare ragione del fatto che
  il  delitto di peculato militare (di cui oggi e' causa e sanzionato
  con  la  reclusione  fino  a 10 anni), fattispecie corrispondente a
  quella  contemplata dall'art. 314 c.p. non sia stata inserita tra i
  reati elencati nell'art. 33-bis comma 1 lett. b) c.p.p.;
    In ragione di detta omessa previsione nel procedimento odierno un
  giudice  monocratico  anziche'  un  organo  collegiale e' investito
  della  cognizione del reato di peculato militare, di una ipotesi di
  reato   cioe'   che,   per   unanime   orientamento  dottrinario  e
  giurisprudenziale,   e'   considerata   speculare   rispetto   alla
  fattispecie  comune  di peculato di cui all'art. 314 c.p. stante la
  sostanziale  identita'  tra  delitti,  come  riconosciuto  in  piu'
  occasioni  dalla  stessa  Corte  costituzionale  (sentenze  4/1974,
  473/1990, 448/1991);
    Ed  infatti la Corte costituzionale proprio nella sentenza 4/1974
  ha  affermato che "i due reati hanno in comune l'elemento materiale
  e  l'elemento  psicologico.  Identico  e'  il  loro  contenuto,  in
  entrambi  offensivo  dello stesso bene che si e' voluto proteggere:
  denaro  e  cose  mobili  appartenenti allo Stato; identico altresi'
  l'azione   tipica   delle   due   condotte  criminose  concretatesi
  nell'appropriazione  o  distrazione  di  beni  da parte di soggetti
  attivi   aventi  una  specifica  qualifica  (pubblico  ufficiale  o
  incaricato  di pubblico servizio, e militare incaricato di funzioni
  amministrative o di comando)".
    La  conferma  della  ritenuta  identita'  sostanziale  tra le due
  figure  e  la  necessita' conseguente di una omogeneizzazione delle
  rispettive  discipline  si  rinviene  anche in altre pronunce della
  Corte  costituzionale: in considerazione di essa e' stata estesa al
  peculato  militare  l'amnistia  di  cui al d.P.R. 283/1970, nonche'
  eliminato   (sentenza  448/1991)  dall'art. 215  c.p.m.p.  l'inciso
  "ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri", per ripristinare
  in  quest'ultimo  caso  appunto  il  parallelismo tra le due norme,
  spezzato  dalla  legge 26 aprile 1990 n. 86 che aveva modificato il
  testo originario dell'art. 314 c.p..
    La circostanza che la cognizione del peculato militare appartenga
  ad  un  giudice  monocratico  crea  una irragionevole disparita' di
  trattamento  tra  imputati  a  seconda che siano pubblici ufficiali
  militari  (militari  incaricati  di  funzioni  amministrative  o di
  comando)  ovvero  pubblici ufficiali ai sensi dell'art. 357 c.p. e,
  quindi,  a  secondo  che  siano  imputati  di  peculato militare ex
  art. 215  c.p.m.p.  ovvero  imputati  del  peculato  comune  di cui
  all'art. 314 c.p..
    Tale  disparita'  di  trattamento  appare in tutta evidenza se si
  considera  che  un  soggetto non militare qualora fosse imputato di
  peculato  comune  sarebbe  giudicato  dal tribunale in composizione
  collegiale,  qualora  diversamente  dovesse  rispondere di peculato
  militare   (in   concorso)   sarebbe  giudicato  dal  tribunale  in
  composizione monocratica.
    E   non  sembra  sostenibile  che  questo  diverso  regime  possa
  collegarsi  alla  diversa  gravita'  delle  due  ipotesi di reato -
  essendo  stato  dal  legislatore considerato meno grave il peculato
  militare,  dato  che  per  esso  e' comminata una sanzione, che nel
  minimo  e'  inferiore  di un anno a quella prevista per il peculato
  comune  -,  in  quanto  come ancora ritiene la Corte costituzionale
  "una  diversa  valutazione  delle  due  fattispecie non puo' essere
  desunta   da   particolari   ragioni  inerenti  all'amministrazione
  militare".
    In  definitiva  la situazione denunciata si pone in contrasto con
  l'art. 3   della   Costituzione  contraddicendo  il  principio  ivi
  enunciato che impone identita' di trattamento rispetto a situazioni
  analoghe,   e  pertanto  la  questione  non  appare  manifestamente
  infondata,  e  d'altro canto e' rilevante nel procedimento in corso
  per  le  conseguenze  che  ne deriverebbero dal suo accoglimento in
  relazione alla composizione del giudice.