IL TRIBUNALE

    Nel  procedimento  penale  pendente nei confronti di Schena Vito,
  Bellini  Antonella  e  Pistolesi  Patrizia per il reato di cui agli
  artt. 110 e 589 c.p. ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Con  decreti  del 19 gennaio 1999 il procuratore della Repubblica
  presso  il  tribunale di Milano disponeva il giudizio nei confronti
  di Schena Vito, Bellini Antonella e Pistolesi Patrizia, contestando
  loro  il  medesimo  reato di omicidio colposo in danno di Giannotta
  Francesco,   ascritto   a   ciascuno  in  relazione  alle  condotte
  rispettivamente  tenute,  quanto  allo  Schena  quale sanitario che
  sovraintendeva  al  parto  di  Festa  Rosanna  (madre  di Giannotta
  Francesco,  deceduto  subito dopo la nascita) e quanto alla Bellini
  ed alla Pistolesi quali ostetriche che sovraintendevano al medesimo
  parto, avvenuto in Milano il 25 luglio 1997.
    Nel  corso  del dibattimento, ammessa all'udienza del 10 novembre
  1999  la costituzione di parte civile di Giannotta Raffaele e Festa
  Rosanna, all'udienza del 21 febbraio 2000 venivano ammesse le prove
  e  si  procedeva  all'audizione  dei  consulenti delle parti, dott.
  Roberto  Paoletti,  dott.  Antonella  Lazzaro, dott. Ezio Genesio e
  dott. Umberto Nicolini.
    Il procedimento veniva quindi rinviato all'udienza dell'11 aprile
  2000,  fissata  per  l'esame  delle  parti offese, degli imputati e
  dell'unico teste indotto dalla difesa di Bellini e Pistolesi.
    La  nuova udienza si svolgeva in presenza degli imputati Schena e
  Pistolesi ed in assenza dell'imputata Bellini; dopo l'audizione dei
  genitori  di  Francesco  Giannotta,  l'imputato  Schena  rendeva il
  proprio  esame, mentre l'imputata Pistolesi dichiarava di avvalersi
  della  facolta'  di  non  rispondere (pag. 37 delle trascrizioni) e
  l'assenza  dell'imputata  Bellini  impediva che il suo esame avesse
  luogo.
    Il p.m., ex art. 513, comma 1 c.p.p., produceva gli interrogatori
  resi   dalla   Bellini  e  dalla  Pistolesi  al  procuratore  della
  Repubblica  in  data  10  febbraio  1998,  nel corso delle indagini
  preliminari  e  chiedeva  che  se ne desse lettura; reciprocamente,
  pero',  gli  imputati  Pistolesi  e  Schena non prestavano consenso
  all'utilizzo  nei  propri  confronti delle dichiarazioni rese dalla
  Bellini  e  gli  imputati  Bellini e Schena non prestavano consenso
  all'utilizzo  nei  propri  confronti delle dichiarazioni rese dalla
  Pistolesi.
    La  scelta  processuale  cosi'  manifestata  impedisce,  ai sensi
  dell'art. 513  c.p.p.,  il pieno utilizzo degli interrogatori della
  Bellini  e  della  Pistolesi, potendo ciascun interrogatorio essere
  utilizzato soltanto nei confronti dell'imputata che lo ha reso.
    In  sostanza,  la  norma  in  esame  permette  al  giudicante  di
  acquisire   l'atto   al  fascicolo  per  il  dibattimento,  si'  da
  conoscerne  il contenuto, ma ne limita fortemente l'utilizzo (ossia
  la possibilita' stessa che il giudice se ne serva per la formazione
  del  proprio  libero  convincimento),  dal  momento che verbali del
  genere   possono  bensi'  essere  letti  in  udienza,  ma  la  loro
  valutazione  -  qualunque  essa  sia  -  e'  del tutto preclusa nei
  confronti  degli imputati che non abbiano prestato consenso al loro
  utilizzo.   Ne   deriva   che  l'esercizio  stesso  della  funzione
  giurisdizionale   viene  a  diversificarsi  a  seconda  che  l'atto
  provenga  dalla  persona  imputata  del  reato o dal coimputato del
  medesimo  reato  nel  medesimo procedimento, non potendo il giudice
  trarre  alcun  elemento  di  giudizio  dalle dichiarazioni rese dai
  coimputati nei confronti dell'imputato che non vi consenta.
    La  necessita' che il processo penale si sviluppi in modo tale da
  permettere  a  colui che sia accusato di un reato "di interrogare o
  di  far  interrogare  le  persone  che  rendono dichiarazioni a suo
  carico"  e'  stata  affermata,  come  e'  noto, dalla recente legge
  costituzionale  23 novembre 1999, n. 2, che proprio in tal senso ha
  tra l'altro ridisegnato l'art. 111 della Costituzione. Peraltro, la
  necessita'   che   a  fondamento  del  processo  medesimo  stia  la
  possibilita' per il giudice di "valutare" le dichiarazioni e' stata
  altrettanto   esplicitamente  affermata  sia  dal  decreto-legge  7
  gennaio   2000,   n. 2   (nella  parte  in  cui  escludeva  che  le
  dichiarazioni   di  chi  successivamente  si  sottraesse  all'esame
  dibattimentale  potessero costituire "esclusivo" elemento di prova,
  necessariamente   attribuendovi,   pero',   la   qualita'  di  dato
  processuale di cui il giudice poteva servirsi nella decisione), sia
  dalla  legge di conversione 25 febbraio 2000, n 35, che modificando
  il  decreto  ha stabilito, al secondo comma dell'unico articolo che
  in  allegato la compone, che "le dichiarazioni rese nel corso delle
  indagini  preliminari  da  chi,  per  libera  scelta,  si e' sempre
  volontariamente   sottratto   all'esame  dell'imputato  o  del  suo
  difensore,  sono  valutate,  se  gia' acquisite al fascicolo per il
  dibattimento, solo se la loro attendibilita' e' confermata da altri
  elementi di prova, assunti o formati con diverse modalita'".
    Non  e'  chi  non  veda  come  la  formulazione  della  legge  di
  conversione  ricalchi  la  fondamentale disposizione, processuale e
  interpretativa,  stabilita  dal  terzo  comma dell'art. 192 c.p.p.:
  quella,  cioe',  secondo  cui "le dichiarazioni rese dal coimputato
  del  medesimo  reato  o  da  persona  imputata  in  un procedimento
  connesso  a  norma dell'art. 12 sono valutate unitamente agli altri
  elementi  di  prova  che  ne  confermano  l'attendibilita'":  tanto
  basilare  e'  la norma, che la stessa viene estesa dal quarto comma
  anche  alle  dichiarazioni  rese  da  persona  imputata di un reato
  collegato.
    Orbene,  se  e' vero che l'art. 513 comma 1 permette di acquisire
  al   fascicolo   per   il   dibattimento   le   dichiarazioni  rese
  dall'imputato  che  ivi si avvalga della facolta' di non rispondere
  (cosi'  rimuovendo  il  primo  ostacolo posto dal comma 2 del testo
  della legge 35/2000 alla "valutazione" delle dichiarazioni stesse),
  e' anche vero che la questione e' ben lungi dall'essere risolta.
    Poiche'  infatti  acquisibilita' e utilizzabilita' dell'atto sono
  due concetti ben diversi, solo ove l'atto sia utilizzabile ne sara'
  consentita   la   valutazione,  preclusa  invece  da  una  semplice
  allegazione: e' come se al conducente di un veicolo si fornisse uno
  strumento   potenzialmente   utile   nella   guida,   ma  di  fatto
  ermeticamente  chiuso  nel  suo involucro. Nella specie, proprio la
  previsione  della  necessita'  del  consenso  delle parti per poter
  utilizzare  pienamente l'atto acquisito al fascicolo implica di per
  se'  che  il  giudice  potra'  valutare  in  maniera  piena solo la
  posizione  di  colui  che ha reso la dichiarazione, con l'ulteriore
  effetto   di   differenziare   -   ai   fini  del  giudizio  e  del
  convincimento -     la    posizione    di    soggetti    accomunati
  nell'imputazione.
    La  questione  che si propone, come si vede, e' rilevante ai fini
  del  giudizio e non pare manifestamente infondata, apparendo che la
  disposizione  di cui all'art. 513 c.p.p., nella parte in cui impone
  il   consenso   delle   parti   per  una  piena  valutazione  delle
  dichiarazioni  rese in istruttoria da uno dei coimputati, contrasti
  con  le norme costituzionali di cui agli artt. l0l e 102 Cost., che
  indicano  nell'amministrazione  della  giustizia  e  nell'esercizio
  della funzione giurisdizionale uno dei poteri dello Stato.
    E'  in tal senso che questo giudice ritiene di doverla sottoporre
  al  giudice  delle  leggi,  tenuto  anche  conto che la mancanza di
  consenso  delle parti provoca, secondo la norma che qui si impugna,
  una  grave  sanzione  -  l'inutilizzabilita'  appunto  - che invece
  l'art. 191  c.p.p.  fa  dipendere  solo e soltanto dall'illegittima
  acquisizione delle prove.
    Ne'   puo'   ritenersi  che,  permettendo  la  valutazione  delle
  dichiarazioni  di  chi  nel  dibattimento  si  sottragga  all'esame
  dell'imputato  o  del  suo  difensore,  la  norma di cui alla legge
  n. 35/2000  finisca con l'abrogare l'art. 513 comma 1 c.p.p., nella
  parte  in  cui  esso  tale  valutazione  preclude, non solo perche'
  un'abrogazione  implicita  sarebbe  quanto  mai  opinabile  in  una
  materia cosi' delicata, ma soprattutto perche' la norma di cui alla
  legge 35/2000 e' soltanto transitoria, essendo destinata ad operare
  "fino  alla  data  di  entrata in vigore della legge che disciplina
  l'attuazione  dell'art. 111  della  Costituzione",  come modificato
  dalla legge costituzionale n. 2/1999.
    In  definitiva,  ritiene  questo  giudice  che  la  scelta di far
  dipendere  l'utilizzabilita' di un atto legittimamente acquisito al
  fascicolo  per  il  dibattimento  dalla mutevole circostanza che le
  parti  prestino  o  meno il proprio consenso implichi, ove consenso
  non  vi  sia,  un  assoluto impedimento della valutazione dell'atto
  medesimo,  non  ripetibile  in  virtu'  del  principio  secondo cui
  l'imputato non puo' essere obbligato a deporre; e impedimento della
  valutazione  non puo' non significare impedimento di formazione del
  libero convincimento, ossia impedimento di un pieno esercizio della
  funzione  giurisdizionale, in contrasto con le norme costituzionali
  che, invece, tale funzione impongono nella sua pienezza.
    E'  ben  vero che la recente legislazione attribuisce al consenso
  delle  parti, per ragioni di economia processuale, funzioni tali da
  incidere  sul  contenuto  stesso del fascicolo per il dibattimento,
  permettendo  l'acquisizione  "di  atti  contenuti nel fascicolo del
  pubblico   ministero,   nonche'   della   documentazione   relativa
  all'attivita'   di  investigazione  difensiva"  (art. 493  comma  3
  c.p.p.);   va   da   se',   pero',  che  tale  norma  permette  sia
  l'acquisizione  che  l'utilizzabilita'  degli  atti  cui  le  parti
  consentano  e  che  in  mancanza di consenso il procedimento rimane
  regolato    dalle   normali   norme   che   regolano   l'istruzione
  dibattimentale,  laddove nel caso di cui qui si discute in mancanza
  di   consenso   l'atto   rimane   nei   confronti   dei  coimputati
  inutilizzabile.
    Ancora,  e' ben noto che una disposizione per certi versi analoga
  a  quella  in  esame, l'art. 63 c.p.p., stabilisce che il fatto che
  una  persona  non  imputata  o  non  sottoposta alle indagini renda
  dichiarazioni  indizianti  davanti all'autorita' giudiziaria o alla
  polizia  giudiziaria comporta l'interruzione dell'esame, l'invito a
  nominare  un  difensore  ed  il  divieto  di  utilizzabilita' delle
  dichiarazioni   stesse   "contro   la  persona  che  le  ha  rese";
  occupandosi  di  tale  norma la Suprema Corte ha stabilito in linea
  generale   che   le   dichiarazioni   stesse   siano   "liberamente
  utilizzabili  nelle  parti che riguardano responsabilita' di terzi"
  (cosi',  tra  le  tante,  Cass. pen. sez. I, 25 marzo 1995, n. 377,
  Rizzuto,  nonche'  Cass.  pen.  sez. VI, 18 ottobre 1994, n. 10775,
  Bruzzaniti)   ed   escluso   l'utilizzabilita'  nei  confronti  dei
  coindagati   solo   ove  la  persona  dovesse  essere  sentita  fin
  dall'inizio  con  le garanzie previste per l'imputato, dovendosi in
  tal  caso  accordare  preminente  rilevanza  al  diritto di difesa,
  illegittimamente  compromesso  (Cass.  pen. sez.  VI,  19 settembre
  1995, n. 9712, P.M. in proc. Primavera ed altri, nonche' Cass. S.U.
  9   ottobre   1996,   Carpanelli  ed  altri).  Anche  in  relazione
  all'interpretazione  che  di tale norma e' stata data dalla Suprema
  Corte,  non  v'e' ragione di escludere l'utilizzo nei confronti dei
  coimputati  di  dichiarazioni rese, in presenza del difensore e con
  tutte  le  garanzie  previste  dalla legge, da una persona imputata
  nello stesso procedimento per il medesimo reato.
    Ritiene  da  ultimo  questo  giudice  che  la  proposizione della
  questione  di  costituzionalita'  si imponga anche dopo la sentenza
  della  Corte costituzionale n. 361/1998: la stessa, infatti, non si
  occupava  del  primo  comma dell'art. 513 c.p.p., ma soltanto della
  tematica   delle   dichiarazioni   rese   dalle   persone  indicate
  nell'art. 210 c.p.p. e, come e' noto, ha introdotto un meccanismo -
  quello  delle  contestazioni - che ben potrebbe riproporsi nel caso
  di  specie,  dove  l'acquisizione  al fascicolo per il dibattimento
  delle  dichiarazioni  del  coimputato  nel medesimo procedimento e'
  gia' legittimamente avvenuta.