IL TRIBUNALE

    Ha   pronunciato   la  seguente  ordinanza  nel  procedimento  di
  esecuzione a carico di Pierpaolo Prandato.
                    Svolgimento del procedimento
    Con richiesta depositata in data 6 dicembre 1999 l'avv. Giancarlo
  Tunno,  nella  sua  qualita'  di  difensore  di  Pierpaolo Prandato
  chiedeva la revoca della sentenza penale di condanna del pretore di
  Rovereto  n. 83/1993  del  15 aprile 1993, con la quale al Prandato
  veniva applicata su richiesta (artt. 444 e segg. c.p.p.) la pena di
  mesi  4  di  reclusione  per  il reato p.e.p. dagli artt. 341 c.p.,
  sulla  base  dell'intervenuta  "cancellazione"  dell'art. 341  c.p.
  disposta  dall'art. 18 legge 25 giugno 1999, n. 205. All'udienza in
  camera  di  consiglio del 20 gennaio, le parti concludevano come da
  verbale.

                       Motivi della decisione

    1.  - Premessa: interpretazione della disciplina vigente (artt. 2
  c.p. e 673 c.p.p.).
    Ritiene  questo  giudice  che  non possa trovare applicazione nel
  caso  di specie l'art. 673, c.p.p. Infatti la norma citata, secondo
  la  consolidata  interpretazione  di  dottrina e giurisprudenza, fa
  riferimento  non  gia'  ad ogni ipotesi di abrogazione di una norma
  incriminatrice  o  all'approvazione  di una legge penale piu' mite,
  bensi' alla piu' limitata fattispecie della c.d. abolitio criminis,
  disciplinata,  sotto  il  profilo sostanziale, dall'art. 2, comma 2
  c.p. Affinche' si possa parlare di abolitio criminis occorre che la
  nuova  legge  ponga nel nulla il giudizio di disvalore astratto del
  fatto   reato,   sicche'  i  comportamenti  descritti  dalla  norma
  incriminatrice abrogata siano ricondotti nell'area del (penalmente)
  lecito.  Viceversa  nel  caso  in  cui  le  condotte  in  questione
  rimangano oggetto di un giudizio di disvalore astratto da parte del
  legislatore  e,  dunque, penalmente rilevanti, ancorche' sottoposte
  ad  una diversa disciplina, non si puo' far questione di una vera e
  propria   abolitio   criminis,  bensi'  semplicemente  di  un  mero
  intervento  legislativo  in  senso modificativo, con la conseguente
  applicabilita'  dell'art. 2,  comma  3 c.p. In particolare la norma
  citata  dispone  si'  in  ogni caso l'applicazione della norma piu'
  favorevole  e,  dunque,  se  piu'  favorevole  e'  la  nuova  norma
  quest'ultima  deve trovare applicazione in via retroattiva, ma pone
  immediatamente  dopo  un  limite  invalicabile, rappresentato dalla
  presenza di una sentenza di condanna irrevocabile.
    Ora,  e'  ben noto che un fenomeno di successione di leggi penali
  nel  tempo  in  senso  meramente  modificativo, si puo' avere anche
  attraverso  la mera abrogazione di una norma incriminatrice, quando
  cio' comporti non gia' la riconduzione nella sfera del lecito delle
  condotte    rientranti    nella    fattispecie   abrogata,   bensi'
  l'applicazione di altre norme penali gia' vigenti.
    Cio' si verifica ad es. nel caso in cui ad essere abrogata e' una
  norma    incriminatrice    speciale   rispetto   ad   altra   norma
  incriminatrice  generale  la  quale,  per  effetto dell'abrogazione
  dell'incriminazione  speciale,  vede ampliata e dilatata la propria
  sfera  di  applicabilita',  in quanto l'intera classe degli oggetti
  gia'  sussumibile  nella  fattispecie  speciale,  rifluisce in essa
  automaticamente,   salvo,   beninteso,   non   emerga  la  volonta'
  legislativa  di  espungere  tale materia dalla sfera del penalmente
  rilevante.
    Nel   caso   di   specie   e'   indiscutibile  che  l'abrogazione
  dell'art. 341  c.p.  ad  opera  dell'art. 18  legge 25 giugno 1999,
  n. 205  non  ha  affatto  comportato  una  vera  e propria abolitio
  criminis,   bensi'   una   semplice  successione  di  leggi  penali
  incriminatrici  nel  tempo  in  senso modificativo, dal momento che
  tutti i comportamenti previsti dall'art. 341 c.p. dovranno d'ora in
  avanti   essere   ricondotti   alla   piu'   generale   fattispecie
  dell'ingiuria  di cui all'art. 594 c.p., eventualmente aggravata ai
  sensi  dell'art. 61 n. 10 c.p. (espressamente Cass., 5 agosto 1999,
  n. 9968).
    Significato  della riforma infatti non e' certo quello di rendere
  del  tutto  lecite  le  offese all'onore e al prestigio sol perche'
  rese  contro  i  pubblici  ufficiali a causa o nell'esercizio delle
  loro  funzioni,  bensi'  di ricondurle alla fattispecie generale di
  cui  all'art. 594 c.p., posta a presidio dell'onore e del decoro di
  qualsiasi persona.
    La considerazione che tra le due fattispecie vi fosse un rapporto
  di  genere  a  specie,  integrando l'oltraggio a pubblico ufficiale
  nient'altro  che  un'ingiuria  qualificata  dal  particolare status
  della  persona  offesa  (oltre  che  dall'elemento  espresso  dalla
  formula  "a causa o nell'esercizio delle sue funzioni"), nonche' la
  relazione  strutturale  tra gli elementi omogenei della fattispecie
  tale  da  rendere  evidente  un  rapporto  di contenenza tra le due
  previsioni, rende sicura la conclusione raggiunta.
    Ne' sembra praticabile un'interpretazione estensiva dell'art. 673
  c.p.,  tale da recidere il legame sussistente con l'art. 2, comma 2
  c.p.  ed  assicurare l'applicabilita' della norma anche al di fuori
  dai   casi   dell'abolitio  criminis,  A  prima  vista  una  simile
  prospettiva  sembrerebbe  trovare  conferma nell'ampia formulazione
  della  norma che fa riferimento all'"abrogazione ... della norma" e
  non  specificatamente  all'abolizione  del  reato,  espressione che
  compare  solo  nella rubrica che, come e' noto, non ha alcun valore
  vincolante per l'interprete.
    Senonche'  una  simile prospettiva va con certezza esclusa per un
  triplice ordini di motivi.
    Anzitutto  dall'assenza  di  qualsiasi  riferimento  nella  legge
  delega  ad  ammettere  deroghe alla disciplina prevista dall'art. 2
  c.p.   (cfr.   art. 2   punti   n. 96,   97   e   98)   deriva  che
  l'interpretazione  qui criticata implicherebbe delicati problemi di
  costituzionalita' della norma per eccesso di delega, in riferimento
  all'art. 77 Cost.
    In   secondo   luogo   dottrina   e  giurisprudenza  interpretano
  pacificamente  la norma come riferita esclusivamente ai casi di cui
  all'art. 2, comma secondo c.p. (cfr. Cass., 7 maggio 1998, n. 1002,
  in  Arch.  nuova  proc.  pen.,  1998,  604;  Cass.,  4 luglio 1996,
  n. 1397,  in  Riv.  pen. 1997,  58;  Cass. 20 agosto 1994, n. 2403;
  Cass. 3 dicembre 1991, n. 3285; trib. Crotone, 22 novembre 1990, in
  Giur.  mer.,  1992,  934;  pret.  Matera, 20 maggio 1991). In terzo
  luogo  ed  infine  e' lo stesso rimedio previsto, ossia la "revoca"
  della  sentenza  di  condanna,  a  chiarire  che  esso puo' trovare
  applicazione  solo  nel  caso  in  cui  il  fatto  per  il quale e'
  intervenuta  la  condanna  e' divenuto, per effetto dell'intervento
  della legge successiva, penalmente lecito, essendo evidente che nel
  caso  di  mera  modificazione  della disciplina penale, sia pure in
  senso piu' favorevole per il condannato, e' del tutto inconcepibile
  una  "revoca" della condanna, dovendosi comunque applicare, a norma
  dell'art. 2,  comma  terzo  c.p., la disciplina piu' favorevole tra
  quelle in successione nel tempo.
    Si  deve  pertanto concludere che, in base al diritto vigente, al
  caso  di  specie  non  puo' trovare applicazione l'art. 673 c.p.p.,
  implicitamente  invocato dalla difesa, bensi' l'art. 2, comma terzo
  c.p.   ed   essendo   pacifico  che  e'  intervenuta  una  sentenza
  irrevocabile di condanna la richiesta andrebbe respinta puramente e
  semplicemente.
    2.  -  Le questioni di legittimita' costituzionale prospettabili:
  rilevanza.
    La  soluzione  sopra  proposta  puo' tuttavia essere accolta solo
  previa  esclusione  di  dubbi  di  legittimita'  costituzionale non
  manifestamente  infondati  e  rilevanti,  che invece questo giudice
  ritiene sussistenti.
    Piu'  precisamente  le  questione  di legittimita' costituzionale
  rilevanti  sono due, ciascuna delle quali indipendente dall'altra e
  invocabile  in  via alternativa non essendo ravvisabile un rapporto
  di  dipendenza  logica  per  l'eterogeneita' delle premesse e delle
  norme denunziate.
    La prima attiene alla disciplina di cui al combinato normativo di
  cui  all'art. 2,  comma  terzo c.p. e 673 c.p.p, nella parte in cui
  non  consente la modifica del giudicato, in sede di procedimento di
  esecuzione,  nel  caso di successione di leggi penali nel tempo con
  effetto meramente modificativo e conseguente all'abrogazione di una
  norma  incriminatrice,  perlomeno  nei  casi  in  cui  l'intervento
  legislativo  viene  a  porre  in discussione addirittura l'an della
  sanzione,  mediante  la  modifica  del regime di procedibilita' del
  reato  oppure  non solo del quantum ma anche della species di pena,
  prevedendo  la  nuova  disciplina  la  pena pecuniaria (sia pure in
  alternativa)  in  luogo  di  quella  detentiva.  La rilevanza della
  questione  appare  in  tutta evidenza, essendo il reato di ingiuria
  procedibile  solo  a  querela  di  parte  e  punibile  con  la pena
  pecuniaria  in  alternativa  a quella detentiva, mentre il reato di
  oltraggio  era  procedibile  d'ufficio e con pena obbligatoriamente
  detentiva.
    Ne  deriva  che  in  caso di sentenza di accoglimento della Corte
  costituzionale,  il  venir  meno  del limite del giudicato previsto
  dall'art. 2,   comma   terzo   c.p.,   consentirebbe   in  sede  di
  procedimento  di  esecuzione  la  piena  applicabilita' della nuova
  disciplina piu' favorevole.
    L'altra  questione  attiene  direttamente all'art. 341 c.p. ed e'
  gia'   stata   sollevata   da  questo  giudice  nell'ambito  di  un
  procedimento  di  cognizione  (cfr.  ordinanza  pretore  Tolmezzo 9
  ottobre  1997, nella Gazzetta Ufficiale 18 febbraio 1998, n. 7). La
  Corte  costituzionale, con ordinanza di data 28 luglio 1999, n. 378
  (nella  Gazzetta  Ufficiale  4  agosto 1999, n. 31) ha naturalmente
  trasmesso gli atti al giudice a quo affinche' rivaluti la rilevanza
  della   questione   in   conseguenza  dell'intervenuta  abrogazione
  dell'art. 341 c.p.
    E' evidente infatti che in tutti i giudizi di cognizione in corso
  per  effetto dell'intervenuta abrogazione dell'art. 341 c.p. dovra'
  trovare  applicazione  la  piu' mite disciplina di cui all'art. 594
  c.p., ai sensi dell'art. 2, comma 3 c.p.
    Tuttavia,  riguardo  ai  procedimenti  di  esecuzione  relativi a
  sentenze   di   condanna   passate   in   giudicato,   un'eventuale
  dichiarazione    di   incostituzionalita'   dell'art. 341   c.   p.
  comporterebbe  l'applicazione  dell'art. 30  legge  11  marzo 1953,
  n. 87,  in  luogo della disciplina di cui all'art. 2 c.p. In base a
  tale   norma   "quando   in  applicazione  della  norma  dichiarata
  incostituzionale  e'  stata  pronunciata  sentenza  irrevocabile di
  condanna ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali" (comma
  quarto).
    E'   evidente  che  tale  disciplina  se  in  nulla  si  discosta
  dall'art. 2,  comma  2  c.p,  per  il  caso  di  obolitio criminis,
  comporta  una  sostanziale  differenza  per  il  caso di intervento
  meramente  modificativo,  perche'  mentre  l'art. 2,  comma  3 c.p.
  prevede   il   limite  del  giudicato  per  l'applicabilita'  della
  disciplina  piu' favorevole, l'art. 30 citato, non distinguendo tra
  l'ipotesi dell'abolitio criminis e quella dell'intervento meramente
  modificativo     conseguente     all'abrogazione     della    norma
  incriminatrice,  impone  sempre  e  comunque  efficacia retroattiva
  della   pronuncia   di   incostituzionalita',  senza  alcun  limite
  processuale.
    Cio'  appare  del  tutto  congruente  con la natura e gli effetti
  delle  sentenze  di  accoglimento  della  Corte costituzionale che,
  secondo  l'interpretazione  largamente  prevalente,  comportano  il
  venir  meno  della norma dichiarata incostituzionale con effetto en
  tunc,  sicche'  va  escluso il presupposto stesso di un fenomeno di
  successione  di  leggi  penali  del  tempo, ossia il succedersi nel
  tempo  di  piu'  leggi  tutte  ugualmente  valide  ed efficaci. Ne'
  l'indicata differenza di disciplina tra abrogazione e dichiarazione
  di  incostituzionalita'  della  norma  appare  priva  di plausibile
  ragione,  dal momento che il fenomeno di abrogazione e' connesso ad
  una   nuova  valutazione  di  opportunita'  politica  compiuta  dal
  legislatore   che   si   sostituisce  alla  precedente,  mentre  la
  dichiarazione  di incostituzionalita' si fonda su di un vizio della
  norma  presente  sin  dalla  sua  entrata  in  vigore,  sicche'  e'
  tutt'altro  che  irragionevole  ricollegare effetti caducatori piu'
  radicali a quest'ultima fattispecie rispetto alla prima.
    La  contraria  conclusione  raggiunta  da  un'isolata e risalente
  giurisprudenza si pone pertanto in contrasto sia con la lettera che
  con  la ratio della legge (cfr. Cass., 19 luglio 1983, n. 1375). In
  particolare  non  sembra seriamente sostenibile sulla base del solo
  rilievo  secondo  il quale la cessazione dell'esecuzione e di tutti
  gli  effetti  penali  della  sentenza di condanna sarebbe possibile
  solo  nel  caso in cui la dichiarazione d'incostituzionalita' della
  norma  incriminatrice,  renda  leciti  i  comportamenti  da  questa
  puniti,  analogamente a quanto accade in caso di abolitio criminis,
  mentre  nell'ipotesi in cui la dichiarazione di incostituzionalita'
  comporti l'applicabilita' di una diversa norma incriminatrice, piu'
  favorevole,  si dovrebbe procedere ad una "modifica" del giudicato,
  non  prevista  dall'art. 30  citato.  Infatti il chiaro significato
  della  norma  e'  quello  di  escludere in materia penale qualsiasi
  applicazione      della     norma     incriminatrice     dichiarata
  incostituzionale,  senza che possa avere alcun rilievo l'intervento
  di  un giudicato e lasciando del tutto impregiudicato il meccanismo
  processuale attraverso il quale raggiungere questo risultato.
    A  quest'ultimo  riguardo va poi osservato che una "modifica" del
  giudicato   e'  tutt'altro  che  estranea  al  sistema  di  diritto
  processuale  penale  vigente,  sol che si pensi alla fattispecie di
  cui  all'art. 671  c.p.p.  e,  nell'ambito  dello  stesso  art. 673
  c.p.p.,  al  caso  in cui il giudicato attenga a piu' reati, magari
  uniti  nel  vincolo della continuazione, solo uno dei quali oggetto
  di abolitio criminis.
    E'  pacifico  che  in  tal  caso il giudice dell'esecuzione debba
  provvedere  ad  una  sostanziale  modifica  del  giudicato o, se si
  preferisce,  ad una revoca parziale della sentenza di condanna, con
  rideterminazione  della pena in riferimento ai reati non oggetto di
  abolitio.
    Se  le  premesse  interpretative  che  precedono sono corrette la
  questione   di   legittimita'  costituzionale  dell'art. 341  c.p.,
  appare,   nonostante   la   sua   intervenuta  abrogazione,  ancora
  rilevante,   appunto   perche'   il   suo   eventuale  accoglimento
  comporterebbe la necessita' dell'applicazione dell'art. 30 legge 11
  marzo   1953,   n. 87  e,  conseguentemente,  dell'art. 673  c.p.p.
  perlomeno  in  via analogica, con il sostanziale accoglimento della
  richiesta  mentre,  al  contrario,  dovrebbe  trovare  applicazione
  l'art. 2,  comma 3 c.p., con il conseguente rigetto della richiesta
  medesima.  Va  pertanto  sostanzialmente riproposta in tutta la sua
  complessita'  la  medesima  questione di legittimita' dell'art. 341
  c.p., gia' sollevata dal pretore di Tolmezzo.

    3.  a)  -  I  dubbi  di legittimita' costituzionale dell'art. 341
  c.p.: introduzione.
    Questo  giudice e' ben consapevole che l'art. 341 c.p., sin dagli
  anni  60,  e'  stato  oggetto  di  cio'  che efficacemente e' stato
  chiamato  un "attacco in massa" da parte dei giudici di merito, che
  hanno sollevato la questione di legittimita' costituzionale sotto i
  piu' disparati profili, in gran parte coincidenti con quelli che si
  andranno  di seguito ad evidenziare; e che la Corte costituzionale,
  sin  dal  primo precedente, risalente ormai a quasi 30 anni or sono
  (sentenza  2  -  19  luglio  1968  n. 109),  ha  sempre respinto la
  questione,  sino all'importante sentenza 25 luglio 1994, n. 341 che
  ha  dichiarato l'incostituzionalita', con riferimento agli art. 3 e
  27,  terzo comma Cost., dell'art. 341, comma 1 c.p., nella parte in
  cui prevede la pena di mesi 6 di reclusione come minimo edittale.
    Tuttavia  si  deve  ritenere  non inutile sollevare nuovamente la
  questione,  in  riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, primo e
  secondo  comma,  25  secondo  comma,  27 terzo comma, 54 e 97 primo
  comma  Cost.,  in  ordine  non solo ad alcuni aspetti di disciplina
  (procedibilita'  e pena), ma anche, e soprattutto, alla sussistenza
  stessa   del   reato,   cosi'  come  era  strutturato  dalla  norma
  incriminatrice    sospetta    e   costantemente   applicato   dalla
  giurisprudenza.
    D'altra  parte  sembra  a  questo giudice non manchino importanti
  elementi  di  novita', sia sul versante delle norme costituzionali,
  in  parte  gia'  evidenziati  dalla  sentenza  n. 314/1994, sia sul
  versante della norma ordinaria sospetta.
    Dal  primo punto di vista viene in considerazione la correlazione
  sistematica   tra   alcuni  principi  costituzionali  fondamentali,
  principi  dettati in materia penale e principi relativi ai rapporti
  tra  Stato  e  cittadino  nonche'  alla forma democratica di Stato,
  oltre  al fatto che nella giurisprudenza costituzionale e' in corso
  un'importante  rivalutazione  dei vincoli imposti al legislatore in
  materia penale.
    Ci  si riferisce, in particolare, alla funzione rieducativa della
  pena di cui all'art. 27, terzo comma Cost., riferita non piu', come
  in  passato,  alla  sola  fase  esecutiva,  ma  ritenuta  una delle
  qualita'  essenziali  e generali che caratterizzano la pena nel suo
  contenuto   ontologico,   e   l'accompagnano   da   quando   nasce,
  nell'astratta  previsione  normativa,  fino a quando in concreto si
  estingue, (cfr. la stessa sentenza 341/1994 e, per un significativo
  precedente,  la  sentenza 18 luglio 1989 n. 409) con il conseguente
  riconoscimento del principio c.d. di proporzione tra pena e offesa,
  non  solo  sul  piano  politico  -  criminale  ma  anche  su quello
  costituzionale e, pertanto, vincolante per il legislatore.
    Attiene  inoltre  alla  recente  valorizzazione  della riserva di
  legge in materia penale di cui all'art. 25 secondo comma Cost., con
  riferimento   al  principio  di  determinatezza  (cfr.  sentenze  6
  febbraio  1995 n. 34 e 17 ottobre - 2 novembre 1996 n. 370) e, piu'
  in  generale, dei principi di offensivita', di frammentarieta' e di
  sussidiarieta'  (cfr.  sentenze 23 - 25 ottobre 1989 n. 487 e 10-11
  luglio 1991 n. 333).
    Dal  secondo  punto  di vista si potranno utilizzare non solo gli
  spunti provenienti dalla giurisprudenza ma anche le teorie, vecchie
  e  nuove,  della  dottrina,  nel  cui  ambito  il  dibattito  sulla
  legittimita'  della  sussistenza  stessa  della  fattispecie, prima
  ancora  della  relativa  disciplina  sanzionatoria, e' piu' che mai
  aperto all'indomani della sentenza n.341/1994.

    3.  b)  -  Segue:  elementi  costitutivi del reato di oltraggio a
  pubblico ufficiale e, rapporti col reato di ingiuria.
    Gli  elementi costitutivi del reato di cui all'art. 341 c.p., sul
  piano oggettivo, sono:
        1)  l'offesa,  resa  con  qualsiasi  mezzo,  all'onore  o  al
  prestigio del soggetto passivo;
        2) lo status di pubblico ufficiale del soggetto passivo;
        3) la presenza del soggetto passivo;
        4)  il legame tra tra l'offesa e le pubbliche funzioni che si
  risolve,   in   via  alternativa,  o  in  un  nesso  di  causalita'
  psicologica  (a  causa delle funzioni), nel senso che l'offesa deve
  essere  rivolta  propter  officium  ossia  a  motivo delle funzioni
  esplicate  dal  pubblico  ufficiale  e,  in tal caso, il reato puo'
  essere  integrato  anche  se  il  soggetto  passivo, al momento del
  fatto,  non  rivesta piu' la qualita' di pubblico ufficiale a norma
  dell'art. 360  c.p.  (Cass.  2  ottobre 1985 n. 8454), oppure in un
  nesso   cronologico   di   contestualita'   (nell'esercizio   delle
  funzioni),  nel  senso che l'offesa deve essere arrecata, anche per
  motivi  puramente  personali,  ma  nel  momento  in cui il pubblico
  ufficiale sta esercitando le proprie funzioni.
    Per   onore  s'intende  l'insieme  delle  qualita'  morali  della
  persona,  quale  bene strettamente personale, componente essenziale
  di  quella dignita' sociale cui fa riferimento l'art. 3 Cost. e, in
  quanto  tale, annoverabile nei diritti inviolabili dell'uomo di cui
  all'art. 2  Cost.,  mentre  il  prestigio  viene inteso come quella
  particolare   forma  di  decoro  determinata  dalla  posizione  del
  soggetto passivo, e attinente alla dignita' e al rispetto da cui la
  pubblica  funzione deve essere circondata (cfr., in particolare, la
  relazione al codice penale, 140).
    L'offesa a tali beni va apprezzata in relazione a parametri socio
  -   culturali  di  valutazione  che  consentono  di  ritenere  come
  oltraggiosa  oppure no quella data espressione o quel dato gesto in
  rapporto con tutte le circostanze del caso concreto. Il particolare
  status   che   deve  rivestire  il  soggetto  passivo  e'  definito
  dall'art. 357  c.p.,  mentre  il  requisito  della  presenza  viene
  generalmente  inteso  nel  senso  che  la condotta incriminata deve
  essere   compiuta  in  una  situazione  spaziale  tale  da  rendere
  semplicemente  possibile  la percezione dell'offesa al destinatario
  della medesima.
    Infine  il  requisito  individuato  dall'espressione  a  causa  o
  nell'esercizio  delle  sua  finzioni, che nella struttura del reato
  dovrebbe   svolgere   la  funzione  di  ricondurre  la  fattispecie
  nell'ambito  dei  reati  contro  la  pubblica  amministrazione,  si
  risolve,  nel  primo  caso,  in una caratterizzazione eminentemente
  soggettiva  della condotta, essendo in sostanza elevato un semplice
  movente  ad  elemento  di  tipicita',  e,  nel secondo caso, in una
  modalita'  spazio  -  temporale dell'azione e dunque in un elemento
  intrinsecamente oggettivo.
    Poiche',  come  si  e'  visto, il prestigio viene considerato una
  particolare  forma  di  decoro  collegata allo status soggettivo di
  pubblico  ufficiale, si deve ritenere che la condotta tipica sia la
  medesima  rispetto  a quella del reato di ingiuria (art. 594 c.p.).
  Gli  elementi differenziali, in funzione specializzante, tra le due
  fattispecie,  si  esauriscono  nello  status del soggetto passivo e
  nell'elemento  espresso  con  la  formula  a causa o nell'esercizio
  delle sua funzioni.
    Senonche'  se  a  base  del  confronto  si assume non il reato di
  ingiuria  nella  forma semplice ma il reato di ingiuria nella forma
  aggravata  ai  sensi  dell'art. 61 n. 10 c.p., non si potra' negare
  una  perfetta  identita'  di  struttura tra le due fattispecie, una
  volta  ammessa,  secondo  l'opinione  comune  sia  in dottrina che,
  ormai, in giurisprudenza, l'identita' tra la formula nell'esercizio
  delle   funzioni,  utilizzata  dall'art. 341  c.c.,  e  la  formula
  nell'atto  ...  dell'adempimento  delle funzioni di cui all'art. 61
  n. 10 c.p.
    Infatti   nel   momento   in  cui  la  giurisprudenza  e'  venuta
  giustamente  a respingere l'opinione secondo la quale devono essere
  sempre  considerati  nell'esercizio  delle  proprie  funzioni  quei
  pubblici  ufficiali  che,  essendo investiti di compiti di pubblica
  sicurezza  o  di  polizia giudiziaria, sono in servizio permanente,
  per   accogliere  l'opposta  opinione  secondo  la  quale  servizio
  permanente  non  equivale  ad  effettivo  esercizio della funzione,
  sicche'  finche'  il  pubblico  ufficiale in concreto non svolga la
  propria  funzione  non  puo'  ritenersi  integrato  il reato di cui
  all'art. 341  c.p. (Cass. 21 marzo 1997 n. 2727 e Cass. 19 febbraio
  1996  n. 5027),  viene meno la possibilita' stessa di tracciare una
  differenziazione tra le due formule.
    Cio'  non  toglie  che tra le due fattispecie vi fossero profonde
  differenze   di   disciplina,   non   solo  in  ordine  all'aspetto
  sanzionatorio (l'ingiuria e' punibile con la pena fino a un anno di
  reclusione o della multa fino a lire due milioni, aumentata sino ad
  un  terzo  per l'effetto dell'aggravante, effetto che peraltro puo'
  essere posto nel nulla in ragione del giudizio di bilanciamento con
  le  circostanze attenuanti; l'oltraggio era punito con la sola pena
  della  reclusione  sino  a  2  anni), ma anche con riferimento alla
  procedibilita'  (a  querela di parte per l'ingiuria e d'ufficio per
  l'oltraggio)  e  dell'estensione  delle condotte punibili, sotto il
  profilo  delle  cause  di  giustificazione  e/o di esclusione della
  punibilita',  essendo  per  costante  giurisprudenza, inapplicabili
  all'oltraggi   o,  neppure  in  via  analogica,  la  c.d.  exceptio
  veritatis (art. 596 c.p.) e gli istituti della provocazione e della
  ritorsione  (art. 599 c.p.). Ed era proprio questa differenza cosi'
  marcata  di  disciplina,  in  mancanza di differenze strutturali, a
  destare  seri  dubbi  di legittimita' costituzionale soprattutto in
  riferimento agli artt. 3 e 27 terzo comma Cost..
    Per  il momento e' sufficiente sottolineare l'estrema ampiezza ed
  estensione della fattispecie cosi' come era strutturata dalla norma
  incriminatrice,  che  la rendeva capace di abbracciare un numero di
  condotte  veramente  considerevole.  Cio' era dovuto in primo luogo
  all'estrema  ampiezza della formula linguistica utilizzata, diretta
  conseguenza   del   fatto  che  il  legislatore  del  1930  si  era
  dichiaratamente  prefissato  di  rendere in materia piu' completa e
  rigorosa  la  tutela  giuridica  degli  organi e dell`attivita' dei
  pubblici  poteri (Relazione, 141), ma non vanno sottovalutati anche
  gli  effetti  di  fattori  esterni alla norma medesima. Si pensi al
  crescere della presenza dello Stato nei piu' disparati settori e al
  conseguente  riconoscimento  della qualita' di pubblico ufficiali a
  categorie sempre piu' vaste e variegate di soggetti.
    L'ampiezza  della fattispecie rischia di entrare in conflitto con
  l'art. 25,  secondo comma Cost., sotto il profilo della mancanza di
  sufficiente     determinatezza.     Risulta     tuttavia    risulta
  imprescindibile,  affrontare  con  cura  il tema del bene giuridico
  protetto  e  della  finalita'  di  tutela,  perche'  il  deficit di
  determinatezza   per  eccessiva  onnicomprensivita'  della  realta'
  rappresentata  (cosi'  la  circolare della Presidenza del Consiglio
  dei Ministri 5 febbraio 1986 nella Gazzetta Ufficiale 18 marzo 1986
  n. 64,  18),  attiene  non  semplicemente  al  dato, in se' neutro,
  dell'eccessiva  estensione  della  fattispecie  in  quanto tale, ma
  piuttosto  alla selezione, in un'unica fattispecie, di condotte tra
  loro diverse ed eterogenee quanto a disvalore.

    3.c) -  Individuazione del bene giuridico protetto.
    Venendo  pertanto all'individuazione del bene giuridico protetto,
  si puo' in prima battuta affermare con certezza che l'art. 341 c.p.
  tutelava  anche  il  bene  personale dell'onore e del prestigio del
  p.u.,  come  persona  fisica,  che  in nulla si' distingue dal bene
  dell'onore  e  del  decoro  tutelato  dall'art. 594  c.p.  Cio'  e'
  confermato  e  provato  dall'identita'  strutturale tra il reato di
  oltraggio  ed  il reato di ingiuria aggravato ai sensi dell'art. 61
  n. 10 c.p.
    Senonche'   costituisce   opinione  comune  che  l'art. 341  c.p.
  proteggesse   un   ulteriore   bene   giuridico,   a  piu'  marcata
  connotazione  pubblicistica, generalmente individuato nel prestigio
  (non   del   p.u.   come   persona   fisica   ma)   della  pubblica
  amministrazione  e,  talvolta,  addirittura  nel principio del buon
  andamento  dell'amministrazione  di  cui  all'art. 97  Cost., cosi'
  venendo  a  caratterizzarsi  come  tipico  reato plurioffensivo. La
  stessa Corte costituzionale ha, fin dal primo precedente, aderito a
  quest'impostazione,  riferendosi  tuttavia  talvolta  al  prestigio
  della  p.a.  puramente  e  semplicemente (sentenza n. 109/68), tal'
  altra  ancora al prestigio della p.a. ma in ragione della finalita'
  del  buon  andamento  amministrativo  prevista  dall'art. 97 Cost.,
  coinvolgente  non  solo  la fase organizzativa iniziale ma anche il
  complessivo  funzionamento  (sentenza  2  - 14 aprile 1980 n. 51 e,
  sostanzialmente, ordinanza 10 - 17 marzo 1988 n. 323).
    Persino  la sentenza di accoglimento n. 341/1994 sottolineava, in
  via  generale,  questo aspetto osservando come la plurioffensivita'
  del  reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento
  sanzionatorio  piu'  grave  di  quello  riservato all `ingiuria, in
  relazione  alla  protezione di un interesse che supera quello della
  persona  fisica  e  investe il prestigio e quindi il buon andamento
  della pubblica amministrazione.
    Affermazioni  in  tutto  analoghe si rinvengono in dottrina ed in
  giurisprudenza,   ove   spesso   compaiono  locuzioni  ancora  piu'
  generiche, quali il "regolare" o "sereno" esercizio delle pubbliche
  funzioni.  Si  deve tuttavia osservare che si tratta normalmente di
  affermazioni  apodittiche,  assunte quali postulati e come tali non
  bisognevoli  di  argomentazione  o dimostrazione e, in particolare,
  senza  che  vi  sia  mai,  o  quasi,  alcun  approfondimento ne' in
  relazione  alla  piu'  specifica  determinazione del bene protetto,
  atteso  che  gli stessi beni del "prestigio" o del "buon andamento"
  della  p.a.  possono  essere  intesi  in  modo  assai vario, ne' in
  relazione  al tipo di raccordo tra il bene che si assume protetto e
  la tecnica di strutturazione della fattispecie.
    Ma,  come  e'  noto,  la  valutazione della rilevanza e pregnanza
  dell'offesa  insita nel reato comporta la necessita' di considerare
  non  solo e semplicemente il rango del bene giuridico che si assume
  offeso  ma anche il grado di offesa (che decresce quanto piu' ci si
  allontani  dallo stadio dell'effettiva lesione per avvicinarsi allo
  stadio di mero pericolo), desumibile dalla tipologia delle forme di
  aggressione indicate dalla norma incriminatrice.
    Al  riguardo  si puo' osservare come, in riferimento all'art. 341
  c.p.,  si  sia  verificato  un  singolare, ma per certi versi assai
  significativo,  fenomeno  di  commistione e/o di confusione, tra il
  piano  del bene giuridico protetto ed il piano, che dovrebbe invece
  rimanere    rigorosamente    distinto,    della   ratio   o   scopo
  politico-criminale della norma.
    Va   allora  ribadito  che  puo'  essere  individuato  come  bene
  giuridico  protetto  solo  quello  immancabilmente offeso dal fatto
  tipico     selezionato     o,     comunque,    quello    desumibile
  dall'interpretazione  dei  singoli  elementi  del  reato  nei  loro
  reciproci  rapporti. Cio' del resto e' confermato dall'osservazione
  che il concetto di bene giuridico puo' svolgere la funzione che gli
  e'  propria in riferimento alla struttura dell'illecito penale solo
  a   condizione   che  esso  sia  sufficientemente  "afferrabile"  e
  determinato,  anche  in relazione al principio di determinatezza di
  cui all'art. 25, secondo comma Cost.
    Diverso  e'  invece  il  concetto  di scopo o fine che, sul piano
  politico    criminale,    ci   si   propone   di   perseguire   con
  l'incriminazione,  trattandosi  di  un elemento esterno alla norma,
  desumibile  anche  da  considerazioni  di  ordine  generale, spesso
  condizionate   da  contingenze  sociali,  economiche,  culturali  e
  storiche.  Si  tratta  di  un concetto certamente molto importante,
  anche  sul  piano  interpretativo,  ma  che  non  implica una cosi'
  stretta  necessita' di rinvenire in ogni singola condotta punita il
  fine perseguito sul piano generale.

    3.   d)  -  (segue)  Analisi  storica  della  norma:  dal  codice
  Zanardelli al codice Rocco.
    Al fine di verificare criticamente la fondatezza della tesi della
  plurioffensivita'  del reato di oltraggio a p.u. puo' tornare utile
  una  breve  analisi storica della norma, giacche' e' innegabile una
  connotazione  fortemente  storicizzata  della  fattispecie in esame
  (cfr. sentenza 28 giugno - 12 luglio 1995 n. 313).
    In  proposito  fin  dal  principio la Corte costituzionale, nelle
  molteplici  pronunce di rigetto o di manifesta infondatezza, non ha
  pur  tuttavia  mancato  di rimarcare come la disciplina legislativa
  dell'oltraggio,  cosi'  come  delineata  dal  codice  Rocco  troppo
  risente  dell'ideologia  del  regime  dal  quale ebbe origine, e di
  ammettere  che  rimane  sicuramente,  specie  in  talune ipotesi di
  fatto, un'effettiva sproporzione tra sanzione comminata e disvalore
  del  fatto,  espressamente  invitando  il legislatore a adeguare il
  minimo  edittale  e  lo  stesso  disvalore  della fattispecie, alla
  mutata   coscienza   sociale  ed  allo  spirito  informatore  della
  Costituzione  (cfr.,  tra  le  tante,  ordinanze  6 - 16 marzo 1989
  n. 127 e 10 - 17 marzo 1988 n. 323). Nella sentenza di accoglimento
  n. 341/1994, poi, oltre a precisare che la concezione autoritaria e
  sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini, tipica del
  regime  totalitario  di  cui  l'art. 341  c.p.  era espressione, e'
  estranea  alla  coscienza democratica instaurata dalla Costituzione
  repubblicana,  per  la  quale  il  rapporto  tra  amministrazione e
  societa'  non e' un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale
  alla  cura degli interessi di quest'ultima, la Corte si spinge sino
  al  punto di ritenere che l'inerzia del legislatore avesse superato
  ogni limite di ragionevole tollerabilita'.
    Non abbisogna pertanto di ulteriori dimostrazioni il fatto che il
  reato  di  oltraggio fosse inteso dal legislatore del 1930 come una
  salvaguardia  dell'autorita'  statale  in  quanto tale, finendo per
  rappresentare una super - tutela accordata da uno Stato autoritario
  a  se' stesso e riallacciandosi alle concezioni proprie degli Stati
  teocratici  ed assolutistici, alla concezione della sovranita' come
  sacra  ed  inviolabile  nella  sua  diretta  emanazione divina, dei
  funzionari  come  diretta  emanazione del sovrano, dei singoli come
  sudditi e non come cittadini.
    Del resto cio' e' sufficientemente testimoniato dal raffronto con
  la  disciplina  della  materia  contenuta nel codice Zanardelli del
  1889  (artt. 194 - 199). Infatti il codice Rocco non si e' limitato
  ad  una  modifica  della  disciplina  sanzionatoria, peraltro assai
  vistosa  (il  codice  Zanardelli  puniva  il reato base con la pena
  della   reclusione   o   della   multa),  ma  ha  anche  modificato
  strutturalmente   la   fattispecie   estendendone   il   campo   di
  applicazione, mediante:
        l'eliminazione  della  discriminante della reazione legittima
  agli  atti  arbitrari  del  pubblico ufficiale (subito reintrodotta
  all'indomani della caduta del regime);
        l'unificazione delle ipotesi di offesa arrecata a causa delle
  funzioni  con quelle arrecate nell'esercizio delle funzioni (che il
  codice Zanardelli puniva in modo attenuato rispetto all'altra);
        l'eliminazione,  per  quest'ultima  modalita'  d'offesa,  del
  termine  pubblico  (l'art. 196  del codice Zanardelli prevedeva che
  l'offesa  fosse  arrecata  nell'atto  dell'esercizio pubblico delle
  funzioni);
        l'estensione   della   tutela   anche  ai  semplici  pubblici
  impiegati che prestino un pubblico servizio (art. 344 c.p.).
    Oltre  a  cio'  va  pure  considerato  che,  a causa della minore
  ingerenza  dello  Stato nella societa', tipica degli ordinamenti di
  impronta   "liberale"  dell'ottocento,  la  qualifica  di  pubblico
  ufficiale,  ai  tempi  del codice Zanardelli, era riferibile ad una
  cerchia di persone infinitamente piu' ristretta.
    Peraltro  una  piu'  attenta ricostruzione della volonta' storica
  del  legislatore  fascista evidenzia come il bene oggetto di tutela
  fosse puramente e semplicemente l'onore ed il prestigio del singolo
  p.u.,  mentre il principio di autorita' fosse piuttosto riferito al
  piano  della  ratio  o scopo politico - criminale della tutela che,
  nell'ambito  dell'ideologia  del  regime,  consentiva  di  ritenere
  largamente  giustificata  una  differenziata e piu' rigorosa tutela
  rispetto a quella accordata ai privati.
    Cio'   emerge   con  chiarezza  da  quei  passi  della  relazione
  ministeriale  in  cui il prestigio del p.u. viene considerato quale
  particolare  forma  di  decoro di chi esercita la pubblica funzione
  (Relazione,  140);  un  bene  pertanto  che e' proprio del pubblico
  ufficiale sebbene faccia riferimento alla dignita' della funzione.
    In definitiva si riteneva che l'onore ed il prestigio del singolo
  p.u.  meritassero  una speciale e particolarmente intensa tutela in
  ragione  del rispetto dovuto all'autorita', rispetto che consentiva
  di   qualificare   particolarmente  quel  bene,  superando  la  sua
  originaria vocazione "personalistica".
    In  tal  senso e' anche quel passo della relazione che, dopo aver
  precisato  che  il  prestigio  costituisce una particolare forma di
  decoro,  lo  definisce  come  quella speciale forza o influenza che
  deriva  alla  persona  dall'altrui  riconoscimento dell'autorita' e
  della  dignita'  di  cui la persona stessa e' rivestita (Relazione,
  140).
    Ma  cio'  che piu' conta e' che questa impostazione ha finito per
  condizionare  in  modo  evidente  la  stessa formulazione letterale
  della  norma  sospetta  e  la  struttura della fattispecie, essendo
  l'onore  ed  il  prestigio  la cui offesa integrava il reato di cui
  all'art. 341  c.p.  riferiti  non  alla  p.a.,  come avviene ad es.
  nell'art. 342 c.p., bensi' al singolo p.u..
    Non  solo,  ma  la  mancata  previsione  di  un autonomo reato di
  diffamazione a pubblico ufficiale, pur originariamente previsto nel
  progetto  preliminare  (all'art. 348  c.p.), fu motivata proprio in
  relazione   alla  mancanza,  in  questo  caso,  di  una  dimensione
  pubblicistica  dell'offesa  ed  e' evidente che cio' e' legato alla
  ratio  della  tutela,  ossia al principio d'autorita' e al rapporto
  d'imperio tra Stato e cittadini nel senso cioe' che mentre l'offesa
  arrecata  in  presenza  del  p.u.  si considerava manifestazione di
  disobbedienza  e  di ribellione all'autorita', l'offesa arrecata in
  assenza  del  p.u.  era considerata meno grave perche' coinvolgente
  esclusivamente  la  dimensione,  per cosi' dire, "privatistica" del
  bene   dell'onore  del  p.u.  e  pertanto  priva  di  quel  rilievo
  pubblicistico  tale  da giustificare l'inserimento nei reati contro
  la p.a. (esplicitamente relazione, 143).
    Senonche'  al di la' delle originarie intenzioni del legislatore,
  ben  presto  la  dottrina  allora  dominate,  seguita  subito dalla
  giurisprudenza, sposto' l'oggetto della tutela dall'onore del p.u.,
  sia  pure particolarmente qualificato, all'interesse concernente il
  normale funzionamento e il prestigio della P.A. in senso lato.
    Tuttavia  tali  beni erano intesi in modo assai diverso da quello
  imposto  da  una  concezione "democratica" dei rapporti tra Stato e
  cittadino.  Infatti, dall'ovvia osservazione che le Istituzioni non
  possono che agire per mezzo di organi e questi per mezzo di persone
  fisiche  e  dall'impropria  utilizzazione,  in  materia penale, del
  rapporto organico, si faceva discendere la conclusione per la quale
  e'  manifesto  che  le  offese arrecate a codeste persone (ossia ai
  pubblici  ufficiali),  ...risalgono  all'organo al quale le persone
  stesse appartengono, e dall'organo all'ente.
    Finendo  per  concludere  che  la  protezione  penale, quindi, e'
  stabilita nell'interesse del rispetto dovuto alla pubblica funzione
  o  al  pubblico  servizio,  e  non  di  quello  dovuto alla persona
  individuale  del  pubblico  ufficiale  (...), che riceve protezione
  soltanto riflessa.
    Al riguardo si e' acutamente osservato come una simile operazione
  comporti  un  indebito  processo di identificazione dell'oggetto di
  tutela,  erroneamente  individuato  nel  prestigio  della  pubblica
  amministrazione,  con  la  ratio  politica della disposizione colta
  nella   sua   estensione  massima,  finendo  con  l'autorizzare  la
  conclusione  secondo  la  quale qualunque offesa arrecata contro un
  pubblico  ufficiale,  in  sua  presenza  e a causa o nell'esercizio
  delle  sue funzioni, costituisca un'offesa diretta all'autorita' in
  quanto tale.
    Questa   critica   va   condivisa   perche'  parlare  di  normale
  funzionamento  e  prestigio  della  p.a., incentrando tali beni sul
  rispetto  dovuto  alle  pubbliche  funzioni,  significa in sostanza
  assumere  ad  oggetto  di  tutela  il dovuto ossequio e, dunque, lo
  stesso principio di autorita' nei rapporti tra Stato e privati.
    Comunque  sia,  una  volta accolto il sistema di "valori" proprio
  del  regime  che ha partorito la norma, la fattispecie non e' priva
  di  una  sua  intima  coerenza  ed  una  certa  precisione tecnica.
  Infatti, alla stregua della scelta di politica criminale secondo la
  quale  alle  pubbliche  istituzioni  e'  dovuto  sempre  e comunque
  obbedienza   e   rispetto   e  che  anzi  costituisce  un  "valore"
  fondamentale,   come   tipicamente   accade   per  tutti  i  regimi
  totalitari,   la   "fedelta'"   allo   Stato,   diventa  dei  tutto
  comprensibile  punire,  ed  in modo rigoroso, ogni offesa all'onore
  del  pubblico ufficiale, in sua presenza e a causa o nell'esercizio
  delle sue funzioni, perche' si tratta di un comportamento di aperta
  ribellione all'autorita' costituita, mentre il profilo della tutela
  del  bene personale dell'onore del singolo pubblico ufficiale passa
  decisamente in seconda linea.

    3.   e)   -   (segue)   Le   interpretazioni  "costituzionalmente
  orientate":  la  tesi  che  ravvisa  il bene giuridico protetto nel
  prestigio della p.a. - critica.
    Ma  i  problemi  veri,  in termini di coerenza della fattispecie,
  nascono  dalla  doverosa  presa  d'atto  che  sia il bene giuridico
  (prestigio  del  pubblico  ufficiale particolarmente qualificato in
  ragione  della  titolarita'  di funzioni pubbliche) che la ratio di
  tutela   (principio   di  autorita'),  cosi'  come  originariamente
  prospettati  erano  non  solo  estranei  al  sistema  di valori, si
  potrebbe  dire  allo "spirito", della Costituzione repubblicana, ma
  esprimono scelte di fondo addirittura opposte.
    Da  cio' trae origine la necessita' di rinvenire, alla stregua di
  un'interpretazione   "costituzionalmente   orientata"  della  norma
  sospetta,  nuovi beni giuridici da assumere ad oggetto della tutela
  che  siano, se non addirittura costituzionalmente rilevanti, almeno
  non  incompatibili  con  la Costituzione. E' in questo contesto che
  quasi  sempre viene individuato come oggetto di tutela del reato di
  oltraggio,  ulteriore  rispetto all'onore del singolo p.u., il bene
  del  prestigio  della  P.A. A ben vedere, tuttavia, si tratta di un
  bene  che  soffre di una scarsa afferrabilita' e di una persistente
  genericita'.      Se  inteso  nel senso sopra evidenziato, ossia in
  stretto  legame  col  "rispetto"  o  l'ossequio  dovuto ai pubblici
  poteri,  risolvendosi  in sostanza nel principio di autorita', deve
  certamente  ritenersi  incompatibile  con  la Costituzione, come si
  avra' modo di dimostrare in seguito.
    Diverso  e'  invece  il  discorso  se  viene  inteso come stima o
  reputazione  nella  comunita'  degli  organi e dell'attivita' della
  p.a.,  perche' proprio in un ordinamento democratico, che individua
  come  suo  fine fondamentale "l'effettiva partecipazione di tutti i
  lavoratori  all'organizzazione  politica,  economica  e sociale del
  Paese"  (art. 3  secondo  comma  Cost.),  fondato  sul principio di
  parita'  tra  p.a.  e  cittadini  e  su di un potere individuale di
  "partecipazione"  alle  attivita' burocratiche, la "fiducia" di cui
  gode  la  p.a.  nella comunita', sia pure non direttamente prevista
  dalla Costituzione, non appare affatto sfornita di quella pregnanza
  ed importanza che giustifica l'intervento della tutela penalistica.
    Ed anzi si potrebbe persino individuare un certo collegamento tra
  questo    bene    ed    il    principio    del    buon    andamento
  dell'amministrazione,  perche'  in  un  simile "modello" di p.a. e'
  evidente  che  la  fiducia  e  la  collaborazione  del privato alle
  Istituzioni agevola lo svolgimento delle funzioni pubbliche.
    Un  simile  collegamento  non e' sfuggito a quella giurisprudenza
  che   costituiva   l'avamposto   piu'  avanzato  del  tentativo  di
  armonizzare  la  fattispecie  con  i principi costituzionali. Si e'
  infatti  osservato  che - l'interesse tutelato dalla norma in esame
  (...)  deve  essere  riferito alla sfera di funzionalita' pubblica,
  che  trova esposizione a pericolo ove non garantita anche da offese
  alla  sua credibilita' ed affidabilita' presso la collettivita'. In
  tal  senso  l'offesa al prestigio assurge ad esposizione a pericolo
  di  attributi  che  devono  accompagnare  l'azione  della  pubblica
  amministrazione  e  quindi  dei  soggetti preposti o componenti dei
  suoi  uffici,  ed il cui pregiudizio potrebbe risultare ostativo al
  raggiungimento  delle finalita' poste dalla legge, od all'efficacia
  dell'azione  pubblica,  incidendo  sul  consenso  che  la  pubblica
  amministrazione deve necessariamente avere presso la collettivita'.
  - (Cass., 29 novembre 1995 n. 11579).
    La  sentenza  citata e' importante per due motivi, In primo luogo
  perche'  sembra richiedere, ai fini dell'integrazione del reato, un
  requisito  ulteriore  rispetto  alla  semplice  offesa dell'onore o
  prestigio  del  singolo  p.u.,  individuato  nella  idoneita' della
  condotta  volta a procurare il pericolo di siffatto pregiudizio. In
  secondo  luogo  perche'  si  tratta  di  una  sentenza che conferma
  un'assoluzione.
    Ma,  a  ben  vedere,  non si trattava di una linea interpretativa
  realmente  capace  di  spostare  i termini della questione circa la
  legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p. Infatti il requisito
  dell'idoneita'  della  condotta  ad  esporre a pericolo l'efficacia
  dell'azione  pubblica, sotto il profilo della lesione della fiducia
  presso  la  collettivita',  era  piu'  apparente che reale, perche'
  inteso  nel  senso  di escludere condotte che gia' di per se' erano
  atipiche  in quanto non offensive, alla stregua dei parametri socio
  -  culturali  vigenti,  del  bene  dell'onore  e  del prestigio del
  singolo  pubblico  ufficiale,  come  l'esame  del  caso  di  specie
  dimostra  (soggetto  che  si  limita  a  strappare  il  verbale  di
  contravvenzione  appena elevato, senza porre in essere nessun'altra
  manifestazione  offensiva  od irriguardosa; cfr. infatti gia' Cass.
  18  settembre  1986  n. 9532),  e  cosi' smarriva quel carattere di
  requisito  autonomo  della  tipicita'  in  funzione selettiva delle
  condotte  "realmente"  offensive,  che  solo  poteva  consentire di
  superare ogni dubbio di legittimita' costituzionale.
    E'   evidente   che   diverso   sarebbe   stato  il  discorso  se
  quell'elemento  fosse  stato  in  grado  di  sottrarre dal campo di
  applicazione  dell'art. 341  c.p.  condotte  che  indiscutibilmente
  offendono  il  bene personale dell'onore del pubblico ufficiale, in
  quanto  inidonee  a  produrre  un  concreto pericolo all'"efficacia
  dell'azione amministrativa".
    Ma  fino a questo punto la giurisprudenza non si e' mai spinta, e
  giustamente, perche' una simile interpretazione si pone in evidente
  contrasto con la lettera della legge e presuppone giudizi di valore
  sul  piano  politico  criminale che non le competono. In definitiva
  sembra  in  questo  caso  realizzarsi  il  rischio  di tutte quelle
  interpretazioni  "costituzionalmente orientate" in realta' incapaci
  di  incidere  sul  contenuto precettivo delle norme, e che pertanto
  finiscono    col    porsi    come   strumento   di   legittimazione
  dell'esistente,  in ipotesi di una norma incostituzionale, la quale
  continuera'   ad   avere   la   medesima   applicazione  (in  senso
  incostituzionale), sotto una diversa giustificazione.
    In  realta'  si deve escludere che il prestigio della p.a., sotto
  il  profilo  del "consenso" o la "fiducia" presso la collettivita',
  possa  essere individuato come oggetto di tutela dell'art. 341 c.p.
  Infatti  una  simile  impostazione  e' smentita dalla struttura del
  reato e da decisive implicazioni sistematiche.
    Sotto  il  primo profilo emerge in tutta evidenza la mancanza tra
  gli  elementi  costitutivi  della  fattispecie  dell'elemento della
  comunicazione  con  piu'  persone  o,  perlomeno, della presenza di
  terzi estranei al compimento della condotta punita.
    Sotto  il  secondo  profilo  va  evidenziata  la  mancanza  di un
  autonomo titolo di reato di diffamazione a pubblico ufficiale.
    Del  resto  che  dei  termini  della  questione i compilatori del
  codice avessero una precisa visione, sicche' non ci si deve stupire
  della  formulazione  della  norma,  emerge  con chiarezza in quella
  parte  della  relazione in cui si spiega che il termine reputazione
  (usato dal codice Zanardelli, insieme al termine onore e al termine
  decoro  nell'art. 194)  qui non puo' usarsi, sia perche' ad esso e'
  attribuito  un  significato  specifico  in  materia di diffamazione
  (offesa  fuori  della  presenza),  mentre per l'oltraggio e' sempre
  richiesta  la  presenza  dell'offeso,  sia  perche' il prestigio e'
  qualche  cosa di diverso da quella stima nella capacita' funzionale
  del  pubblico  ufficiale,  alla  quale  si riferisce la reputazione
  (140).
    D'altra  parte deve escludersi che si potesse aggirare l'ostacolo
  mediante  un'interpretazione "costituzionalmente orientata", questa
  volta  davvero  in  grado  di  incidere  sul  contenuto  precettivo
  dell'art. 341 c.p., richiedendo ai fini dell'integrazione del reato
  il   requisito   della   pubblicita'   quale  elemento  costitutivo
  implicito.   Infatti,   se   si   deve   certamente  ammettere  che
  l'interprete sia tenuto a ricostruire i singoli tipi in conformita'
  ai  principi  costituzionali  e,  in  particolare  al  principio di
  necessaria  offensivita',  sicche'  dovra'  considerare  atipici  i
  comportamenti  non  offensivi  del  bene protetto, si deve tuttavia
  ritenere   che  cio'  sia  possibile  solo  rispettando  il  limite
  invalicabile della compatibilita' con la lettera della legge.
    Nel   caso   di   specie   non  e'  possibile  rinvenire  in  via
  interpretativa   all'interno   della  fattispecie  di  oltraggio  a
  pubblico   ufficiale   l'elemento  costitutivo  della  pubblicita',
  perche'  la  presenza  di  una  o piu' persone estranee al fatto e'
  prevista  come  circostanza  aggravante  a norma dell'art. 341 u.c.
  c.p.,  ossia  come  elemento  accidentale  del  reato,  in funzione
  aggravante,  e  pertanto  si  deve  escludere  ch'esso possa essere
  attratto tra gli elementi costitutivi.

    3.  f)  -  (segue) La tesi che ravvisa il bene giuridico protetto
  nel buon andamento della p.a. - critica.
    Critiche in parte analoghe possono muoversi alla tesi che ravvisa
  direttamente   nel  buon  andamento  dell'amministrazione  il  bene
  giuridico  tutelato  dall'art. 341  c.p.  Anche  questa tesi omette
  infatti  di  individuare  il  rapporto tra il bene giuridico che si
  assume protetto e la struttura del reato.
    D'altra  parte,  come per il bene del prestigio della p.a., vi e'
  la tendenza a considerare il bene del buon andamento in termini del
  tutto  generici,  svincolato  dall'idea  di efficienza e di massima
  aderenza  all'interesse  pubblico che gli e' proprio e ricondotto a
  formule   vaghe   quali   quella   del   "regolare  funzionamento",
  dimenticando  che  la  funzione  del  bene  giuridico  puo'  essere
  effettivamente  svolta  solo  in  presenza di beni sufficientemente
  determinati  ed "afferrabili", rischiando viceversa di smarrirsi in
  presenza di beni ad "amplissimo spettro".
    Ora,  e' evidente che il riferimento al bene "buon andamento" non
  puo'  essere  concepito  nel  senso rigoroso di effettivo intralcio
  all'azione  della p.a. in concreto svolta, perche' risulterebbe del
  tutto  incomprensibile  la  punizione  delle offese rivolte a causa
  delle  funzioni  ma  non durante l'esercizio di esse. Non a caso la
  relazione,  per  giustificare la circostanza per la quale i delitti
  di  violenza e di resistenza si possono commettere contro qualunque
  incaricato  di pubblico servizio, mentre per l'art. 344 puo' essere
  oltraggiato  soltanto  il pubblico impiegato che presti un pubblico
  servizio,  afferma espressamente che l'oltraggio non reca intralcio
  all'andamento del servizio.
    Neppure, per le motivazioni gia' svolte, puo' accogliersi la tesi
  che   ravvisa   un'esposizione   a   pericolo  del  buon  andamento
  amministrativo  nella  lesione  del  prestigio  della p.a. sotto il
  profilo della "fiducia" o stima della p.a. presso la societa'.
    La piu' compiuta elaborazione dottrinale della tesi era piuttosto
  fondata,  da un lato, sull'estensione massima del concetto di "buon
  andamento"   fino   a   comprendere   il   "normale"  e/o  "sereno"
  funzionamento  della p.a. e, dall'altro, su di un'argomentazione di
  natura  psicologistica,  ossia sulla considerazione che le condotte
  punite  dall'art. 341  c.p.  potrebbero  determinare un "turbamento
  psicologico" nel pubblico ufficiale e che cio' potrebbe a sua volta
  determinare  un'alterazione  del  suo  processo decisionale e della
  stessa  azione amministrativa, resa incerta ed esitante. L'art. 341
  c.p. cioe' tutelerebbe la stabilita' emotiva del pubblico ufficiale
  nell'esercizio  delle  sue  funzioni e, quindi, la sua capacita' di
  decidere correttamente secondo l'interesse pubblico.
    Senonche',  a  parte il rilievo che la tesi appariva in contrasto
  con   l'opinione   comune  che  considerava  irrilevante,  ai  fini
  dell'integrazione del reato, che il p.u. si sia in concreto sentito
  offeso  dalla  condotta  oltraggiosa  posta  in  essere  (Cass.  11
  febbraio 1989 n. 2027; Cass. 28 maggio 1985 n. 5393), assorbente e'
  l'osservazione  che  in  questo  modo  si  finisce  col configurare
  l'obiettivita'  del  reato  come  il  pericolo di un pericolo di un
  pericolo.
    Infatti va rilevato che l'interpretazione fatta propria da questa
  autorevole  dottrina,  e  seguita senza incertezze dal c.d. diritto
  vivente  (Cass.  31  agosto  1994  n. 9417;  Cass, 11 novembre 1989
  n. 15559;  Cass.  6  febbraio  1985 n. 1173; Cass. 30 dicembre 1985
  n. 12547),  non  richiede,  ai  fini  dell'integrazione  del reato,
  l'effettiva  percezione  dell'offesa  da  parte  del  p.u., perche'
  l'elemento  della  presenza del soggetto passivo veniva inteso come
  quella   contiguita'   spaziale  tale  da  assicurare  la  semplice
  possibilita' di percezione.
    Ora,  e'  evidente  che  in mancanza di effettiva percezione, non
  puo'  farsi  questione  di  "turbamento  psicologico" del p.u.. Non
  solo,  ma anche ammessa l'effettiva percezione, non e' detto che da
  questa   derivi   necessariamente   il   tanto  temuto  "turbamento
  psicologico"  del  p.u., perche' questo e' piuttosto un effetto che
  dipende  da  tutta  un  serie  di  fattori  contingenti  di  natura
  oggettiva e soggettiva, quali il contesto, la posizione sociale del
  soggetto   attivo  e  passivo,  la  "pubblicita'"  dell'azione,  la
  "sensibilita'"   personale   del  p.u.  e  cosi'  via,  sicche'  si
  tratterebbe, anche in questo caso, di una semplice possibilita', un
  pericolo appunto.
    Infine  non  e'  affatto  detto  che  il "turbamento" del p.u. si
  traduca   in   un'alterazione  dello  svolgimento  delle  pubbliche
  funzione alle quali e' preposta.
    Cosi'  nel  caso  di offese arrecate semplicemente "a causa delle
  funzioni",  ma non nell'esercizio di esse, e' del tutto ragionevole
  pensare che il suddetto turbamento possa scemare fino a svanire del
  tutto  con il trascorrere del tempo, sino al momento in cui il p.u.
  tornera' a svolgere le sue funzioni.
    Nel  caso  di  offese  arrecate  nell'"esercizio delle funzioni",
  magari  per  motivi  del tutto privati, e' ben possibile che nessun
  nocumento  al  regolare  svolgimento  delle  funzioni  pubbliche in
  concreto  si  realizzi,  ad  es., per la presenza di altri p.u. non
  coinvolti ed in grado di sostituirsi al collega "turbato".
    D'altra   parte   vi  e'  almeno  una  classe  di  comportamenti,
  riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 341 c.p., in cui non
  solo  un  danno  ma  neppure  un  mero  pericolo  di  danno al buon
  andamento  della p.a., e' escluso alla radice, per l'impossibilita'
  di  ipotizzare  uno svolgimento di pubbliche funzioni successivo al
  reato:  l'offesa  arrecata  "a causa delle funzioni" ad un soggetto
  che,  al momento del fatto, non possieda piu' la qualita' di p.u. a
  norma dell'art. 360 c.p.
    Ora  un  pericolo di un pericolo deve ritenersi un "non pericolo"
  e, come tale, inconciliabile col principio di offensivita'. Invero,
  ai    fini    della   legittimita'   costituzionale   delle   norme
  incriminatrici   sotto  il  profilo  del  principio  di  necessaria
  offensivita',  non  e'  affatto  sufficiente  individuare  un  bene
  giuridico  di  rango  tale  da giustificare, in astratto, la tutela
  penalistica,  dovendosi estendere l'indagine in ordine all'ampiezza
  e  all'intensita'  della  tutela  medesima  nonche'  alla  gravita'
  dell'offesa.  Da  questo  punto  di vista anche un bene sicuramente
  primario,  quale puo' essere per esempio la vita, non riuscirebbe a
  giustificare,  sul  piano  della  compatibilita'  col  principio di
  necessaria  offensivita',  costituzionalmente  imposto,  una  cosi'
  spinta  anticipazione della tutela che conducesse alla punizione di
  atti  meramente preparatori o di mera manifestazione della volonta'
  o della "tendenza" a commettere un omicidio.
    Oltre  tutto  la  tesi che ravvisa nell'art. 341 c.p. un reato di
  pericolo  astratto,  presunto  in  via  assoluta  ed irrimediabile,
  finisce  col  sollevare  dubbi di legittimita' costituzionale forse
  anche maggiori di quelli che pretende aver risolto.
    E'  infatti noto che i reati di pericolo presunto pur non essendo
  di per se' incostituzionali, devono tuttavia rispettare determinati
  requisiti,  in  relazione  sia al principio di proporzione (art. 27
  terzo  comma  Cost.),  sia  al principio di necessaria offensivita'
  (art.   25  secondo  comma  Cost.),  sia  infine  al  principio  di
  ragionevolezza  (art. 3  Cost.), che la stessa Corte costituzionale
  ha  precisato  con  grande  efficacia (cfr. sentenza 10 - 11 luglio
  1991 n. 333). Devono infatti essere posti a tutela di beni di rango
  assolutamente  fondamentale  ed  afferire  a  settori in cui questa
  anticipazione  di  tutela  risulti  razionalmente  giustificata  da
  particolari  esigenze di prevenzione (ad es. situazioni di pericolo
  diffuso  incidenti  su beni collettivi come l'ambiente o l'economia
  pubblica),  ed  inoltre  occorre  che  le condotte riconducibili al
  fatto tipico siano selezionate in modo pregnante, in modo cioe' che
  la  presunzione  assoluta  di  pericolo  sia supportata da corrette
  verifiche  empiriche,  ossia  giustificata  dall'id  quod plerumque
  accidit,  costituendo altrimenti una scelta del tutto irragionevole
  ed arbitraria e pertanto censurabile a norma dell'art. 3 Cost.
    Orbene,  entrambe  le  condizioni  di  legittimita'  dei reati di
  pericolo  presunto  non  sembrano  soddisfatte  dall'art. 341 c.p.,
  perche',   da   un  lato,  e'  innegabile  la  distanza  di  questa
  fattispecie  dai settori in cui legittimamente e' utilizzata questa
  tecnica legislativa e, dall'altro, e' proprio l'esperienza concreta
  a  smentire  quella  presunzione  di  pericolosita'  della condotta
  tipica alla stregua dell'art. 341 c.p.
    Infine  la  tesi,  nonostante le premesse, non riesce a liberarsi
  del  tutto  dalla  concezione  autoritaria  che  storicamente  e' a
  fondamento  della  norma,  perche'  il  pericolo di alterazione del
  processo   decisionale   del  p.u.  conseguente  alla  mera  offesa
  all'onore  o al prestigio del p.u. si giustifica solo in un sistema
  di  p.a.  fondato  sul  dovere  di  obbedienza  del privato, la cui
  violazione  puo'  appunto  comportare  un'alterazione  del regolare
  esercizio   della   funzione  pubblica,  ma  risulta  difficilmente
  comprensibile  in  un  sistema  fondato  sulla qualificazione delle
  attivita'  burocratiche  come  modi  di  esercizio  del  potere  di
  partecipazione individuale e, pertanto, su di una parificazione tra
  funzionari pubblici e privati cittadini.

    3. g) - (segue) conclusioni.
    Si  deve  pertanto  concludere che il bene protetto dall'art. 341
  c.p.  fosse  unicamente  l'onore  ed il prestigio del singolo p.u.,
  perche'  solo  questo  e' sempre ed immancabilmente raggiunto dalla
  condotta criminosa tipica.
    Con  cio' naturalmente non si intende negare che la tipicita' del
  reato  fosse  tanto  ampia  da abbracciare, eventualmente, concrete
  ipotesi  in  cui  oltre  ad  essere offeso questo bene fosse offeso
  anche   il   bene   del   prestigio   (ad   es.   offese   arrecate
  "pubblicamente")  o  addirittura  del buon andamento della p.a. (si
  pensi al caso di offese arrecate mediante violenza o minaccia e non
  solo a causa ma anche nell'esercizio delle funzioni).
    Ma  si  tratta di casi, dal punto di vista statistico, marginali,
  quasi sempre aggravati ai sensi dell'an. 341 u.c. c.p. e che spesso
  comportavano    l'integrazione,    in   concorso   formale   o   in
  continuazione,   dei  reati  di  cui  agli  art. 336  e  337  c.p.,
  chiaramente   e   tipicamente   rivolti   alla  tutela  del  libero
  svolgimento  dell'azione  amministrativa,  tali  cioe' da assorbire
  integralmente l'offesa a quel bene.
    Invece  le  ipotesi  riconducibili  alla  fattispecie semplice si
  risolvevano   spesso,  se  non  sempre,  in  fatti  obbiettivamente
  "bagattellari",  ed  in  cui ne' il prestigio ne' il buon andamento
  della p.a. potevano ritenersi seriamente colpiti.
    Insomma  si  tratta  di  prendere  realisticamente  atto  che  il
  legislatore non si e' preoccupato di selezionare solo e soltanto le
  ipotesi  concretamente  offensive  di  quei  beni,  configurando al
  contrario   una  fattispecie  onnicomprensiva,  in  cui  ricadevano
  indistintamente   condotte   dal  disvalore  sociale  profondamente
  diverso, perche' incidenti su beni giuridici diversissimi.
    Piu' precisamente ancora il legislatore del 1930 ha tipizzato una
  fattispecie  tanto ampia semplicemente perche' e' partito da scelte
  di  politica  criminale del tutto diverse, per non dire opposte. Lo
  stesso  legislatore repubblicano, rimasto a lungo inerte, e' giunto
  col   riconoscere  la  bonta'  di  queste  conclusioni,  disponendo
  l'abrogazione  pura e semplice della norma incriminatrice e non una
  mera modifica al regime sanzionatorio.
    Una  ulteriore  conferma di questa conclusione e' rintracciabile,
  ad avviso di questo giudice, nella stessa sentenza n. 341/1994 che,
  pur confermando in termini generali la plurioffensivita' del reato,
  che  in  linea  di principio rendeva improponibile il raffronto, ai
  sensi  dell'art. 3  Cost.,  con  il  reato  di  ingiuria,  tuttavia
  ravvisava l'incostituzionalita' per i casi piu' lievi, nei quali il
  prestigio  ed  il  buon  andamento  della pubblica amministrazione,
  scalfiti da ben altri comportamenti, appaiono colpiti in modo cosi'
  irrisorio   da   non   giustificare   che   la  pena  minima  debba
  necessariamente essere dodici volte superiore a quella prevista per
  il reato di ingiuria.
    L'illegittimita'  costituzionale  veniva dunque argomentata anche
  dal   raffronto   con   il   trattamento   sanzionatorio   previsto
  dall'art. 594  c.p.  ed e' allora evidente che i "casi piu' lievi",
  proprio  perche'  legittimavano  il paragone col reato di ingiuria,
  normalmente   interdetto   dalla  plurioffensivita'  del  reato  di
  oltraggio,  non  attenevano  affatto ad una differenza di quantita'
  dell'offesa,  bensi' ad una differenza di qualita', nel senso cioe'
  che  si tratta di casi in cui, come nell'ingiuria, ad essere offeso
  e'  esclusivamente  il bene personale dell'onore del singolo p.u. e
  non anche, se non in modo del tutto irrisorio, i beni del prestigio
  e del buon andamento della p. a..
    Insomma  era la stessa Corte costituzionale ad essere giunta alla
  conclusione  che  l'ampia tipicita' tratteggiata dall'art. 341 c.p.
  comprende ipotesi tra loro eterogenee quanto a disvalore, mentre la
  dichiarazione  di  incostituzionalita' con esclusivo riferimento al
  minimo  edittale si spiegava col limite che in quella occasione era
  imposto   dalla   questione  sollevata,  non  coinvolgente  ne'  la
  previsione   del   limite   massimo   di  pena,  ne'  le  rimanenti
  disposizioni   dell'art.   341  c.p.,  come  si  chiariva  con  una
  precisazione posta ad incipit della sentenza.
    Naturalmente  l'aver  escluso  che  prestigio  e/o buon andamento
  della  p.a.  costituissero il bene giuridico tutelato dall'art. 341
  c.p.  non  esclude,  di  per se', che potessero essere assunti, nel
  quadro   del   mutato   assetto   costituzionale,   come  la  ratio
  politico-criminale   della   norma,   in  sostituzione  alla  ratio
  originaria, fondata sul principio d'autorita'.
    Infatti  la  ratio  della norma, al contrario del bene giuridico,
  non  impone  di  rinvenire,  in  ogni  singola  e concreta condotta
  punita,  un  coinvolgimento diretto ed immediato di quell'interesse
  che  ne costituisce il fondamento, riposando normalmente su intenti
  di prevenzione generale di piu' ampia portata.
    Resta  tuttavia  da  stabilire  se  lo strumento apprestato fosse
  davvero  congruente  rispetto  al  fine che si assumeva perseguito,
  sotto  il profilo della ragionevolezza, tenendo ben presente che la
  fattispecie  era  stata  originariamente  tipizzata  sulla  base di
  tutt'altra ratio, sicche' occorreva in primo luogo verificare se la
  formula  legislativa  fosse  sufficientemente flessibile per essere
  piegata  a  diverse finalita', e in secondo luogo se tale finalita'
  fosse  davvero  capace  di  giustificare razionalmente la diversa e
  piu'  rigorosa  tutela  dell'onore  dei p.u. rispetto all'onore dei
  privati  cittadini,  alla luce di tutte le norme costituzionali che
  vengono in considerazione.

    3. h)  -  Norme  e principi costituzionali in possibile contrasto
  con l'art. 341 e. nel suo complesso: a) il principio di uguaglianza
  e della pari dignita' sociale.
    Venendo   finalmente  alle  norme  costituzionali  con  le  quali
  l'art. 341  c.p.  sembra  entrare  in rotta di collisione, viene in
  prima  battuta in considerazione il principio per il quale "tutti i
  cittadini  hanno  pari  dignita' sociale (...) senza distinzione di
  (...) condizioni personali e sociali" (art. 3, comma 1 Cost.).
    Al  riguardo  va  osservato,  da  un  lato,  come la Costituzione
  consideri   primo   valore   costituzionale   la  persona  in  se',
  prescindendo  dalle  qualita'  ad essa inerenti e dalle mansioni da
  essa  esercitate,  e, dall'altro, che il bene tipicamente personale
  dell'onore,  inteso  come  valore morale intrinseco alla persona in
  quanto  tale,  altro  non  e'  che un particolare aspetto di quella
  dignita'  sociale  cui  fa  riferimento l'art. 3 Cost., rientra nei
  diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti dall'art. 2 Cost. ed e',
  infine,   per   sua   natura,   eguale   in   tutti   gli   uomini,
  indipendentemente da giudizi sociali di merito o di demerito.
    Posta  questa premessa e' evidente che l'art. 341 c.p., in quanto
  comportava  una  tutela privilegiata dell'onore del p.u. rispetto a
  quella  apprestata  all'onore  dei  privati cittadini dall'art. 594
  c.p.,  si poneva in contrasto, in modo diretto, col principio della
  pari  dignita'  sociale,  nella misura in cui si escludeva che esso
  tutelasse altri e diversi beni giuridici.
    lnvero  la  diversa e piu' rigorosa tutela prevista dall'art. 341
  c.p.,  rispetto  all'art.. 594 c.p. veniva collegata al mero status
  di   pubblico   ufficiale,   utilizzando   cioe'   un  criterio  di
  distinzione,   quello   delle   "condizioni  personali  e  sociali"
  espressamente fatto oggetto di divieto dalla norma costituzionale.
    D'altra  parte  non  puo'  essere  negato  che  il  principio  di
  uguaglianza  e'  un principio fondamentale che, in quanto tale, non
  ammette  limitazione se non fondate su interessi costituzionalmente
  rilevanti.
    Da  questo punto di vista occorre appunto verificare se la tutela
  diversificata  dell'onore  del  p.u.  potesse  trovare  ragionevole
  giustificazione  nella ratio del principio del buon andamento della
  p.a.,  costituzionalmente  rilevante  a  norma  dell'art. 97, primo
  comma,  Cost.  Ma  una  simile  prospettiva non sembrava seriamente
  praticabile e cio' almeno per tre ragioni.
    La  prima  e'  che  il  principio  del buon andamento della p.a.,
  peraltro  difficilmente estensibile sino al punto da comprendere il
  semplice "normale funzionamento" della p.a., non sembra sia assunto
  dalla  Costituzione  come  valore  in se', ma piuttosto come valore
  funzionale  alla  garanzia dei diritti inviolabili dei cittadini e,
  pertanto,  non puo' assumersi il diritto alla pari dignita' sociale
  "in  funzione"  della  piena  realizzazione  dell'interesse al buon
  funzionamento della p.a.
    In  secondo luogo occorre prendere atto che la fattispecie di cui
  all'art. 341  c.p.  era  stata  strutturata  seguendo direttrici di
  tutela  del  tutto  diverse, fondate sul principio d'autorita' e la
  norma  tradiva  questa origine ad ogni applicazione concreta, tanto
  da  risultare  in  larga  misura  insensibile, sotto il profilo del
  concreto  contenuto  precettivo,  al  mutamento di prospettiva, sul
  piano  dello  scopo  politico  criminale,  imposto dai nuovi valori
  costituzionali.  Se  ne  deve  pertanto  dedurre  che  lo strumento
  apprestato  fosse  radicalmente  inidoneo  ed incongruo rispetto al
  fine  prospettato,  perche'  finiva  col  punire, in modo del tutto
  sproporzionato, oltre a condotte in qualche modo coinvolgenti anche
  il  buon andamento della p.a., sia pure in senso assai lato, intere
  categorie  di condotte, che nulla avevano a che fare con quel fine,
  con  conseguente  violazione  ancora  dell'art.. 3  Cost., sotto il
  profilo del criterio di ragionevolezza.
    In  terzo  luogo e' la giustificazione stessa alla diversa tutela
  accordata  all'onore  del  p.u. incentrata sul "buon andamento" che
  contrasta col "modello" di p.a. accolto dalla Costituzione. Infatti
  il   rapporto   tra   p.a.   e   cittadino   nell'attuale   assetto
  costituzionale,  e' essenzialmente paritario e di "partecipazione",
  con un netto ed inequivocabile rifiuto del principio di autorita' e
  di  "fedelta'"  allo  Stato,  caratterizzante il precedente regime.
  Cio'  lo  si  desume  anzitutto  dal principio secondo il quale "la
  sovranita' appartiene al popolo" (art. 1, secondo comma Cost.).
    E'  ben  vero che l'esercizio della sovranita' e' consentito solo
  "nelle  forme  e nei limiti della Costituzione" ma cio' non toglie,
  da   un   lato,   l'importanza   di   principio   dell'affermazione
  dell'originaria  appartenenza  del  potere al popolo e, dall'altro,
  grazie  al collegamento con il resto della Costituzione e, in primo
  luogo  col  principio  personalista  di  cui  all'art. 2  Cost., la
  possibilita'  di  rinvenire a carico di chi in concreto esercita il
  potere  un  vincolo  di  corrispondenza  ai fini propri del tipo di
  ordine  garantito  dalla  Costituzione  medesima,  con  particolare
  riferimento   al   metodo   democratico  come  il  solo  che  possa
  determinare  la politica nazionale (art. 49 Cost.), con conseguente
  stretto  collegamento  tra  la  concezione dei rapporti tra Stato e
  cittadini e la forma (democratica) di Stato accolta.
    Inoltre   il   collegamento   con   l'art. 2  Cost.  consente  di
  riconoscere  fra  i  diritti  inerenti della persona e in posizione
  assolutamente  primaria  quello di far discendere la soggezione del
  popolo    all   'autorita'   statale   dal   riconoscimento   della
  partecipazione  del  medesimo alla sua formazione ed all'esplicarsi
  della sua successiva attivita'.
    Cio'   emerge   anche   nell'indicazione,   come  fine  primario,
  dell'"effettiva    partecipazione    di    tutti    i    lavoratori
  all'organizzazione   politica,   economica  e  sociale  del  Paese"
  nell'art,  3,  secondo  comma,  Cost.  Ne  deriva  che le attivita'
  burocratiche  vengono  a porsi come modi di esercizio del potere di
  partecipazione  individuale  con  conseguente  parificazione  della
  condizione personale degli appartenenti alla burocrazia a quella di
  tutti i cittadini.
    Da  questo  punto  di vista il fine del buon andamento della p.a.
  non  sembra  in grado di giustificare una peculiare tutela dei p.u.
  rispetto  a  quella  spettante  ai cittadini proprio perche', cosi'
  facendo,   si   viene  ad  inficiare  la  posizione  paritaria  tra
  funzionari  e  cittadini,  reintroducendo,  in  forma larvata, quel
  principio   d'autorita'   che  si  era  invece  voluto  decisamente
  respingere.
    Dal  mutamento  di  prospettiva che considera la p.a. al servizio
  del  cittadino  e non viceversa, discende piuttosto la possibilita'
  di ravvisare maggiori doveri in capo ai pubblici funzionari, la cui
  violazione comporta responsabilita' sia all'interno che all'esterno
  della  p.a.,  in  funzione  di  garanzia  per  il  buon  andamento,
  l'imparzialita' e la legittimita' dell'azione degli uffici cui sono
  preposti,  come  si puo' desumere dagli art. 28 e 54 secondo comma,
  Cost.
    Ed  anzi  dall'art. 54, secondo comma Cost. si ha la conferma che
  l'"onore"  del  p.u.  si  configura  non  come rispetto od ossequio
  dovutogli,  bensi'  come  conseguenza  del rigoroso adempimento dei
  propri doveri, sicche' il p.u. non ha tanto il "diritto" all'onore,
  perlomeno  non un diritto diverso da quello spettante ad ogni uomo,
  quanto  piuttosto  il  "dovere" di meritarsi stima e considerazione
  presso   la   collettivita'   mediante   un  comportamento  legale,
  efficiente ed imparziale. In conclusione il funzionario deve essere
  considerato,  nell'attuale  assetto  costituzionale, non tanto come
  "autorita'",  bensi'  come servitore dell'interesse generale e come
  soggetto   che   non   fa   altro   che  esercitare  il  potere  di
  partecipazione proprio di ogni cittadino.
    Come si vede un'impostazione assai diversa, per non dire opposta,
  di quella degli Stati totalitari e teocratici, secondo la quale non
  esistono  diritti dei sudditi verso lo Stato ma solo doveri, attesa
  l'origine divina del potere e la derivazione divina del sovrano. Ed
  e' evidente che, mentre in un sistema di p.a. fondato sul dovere di
  obbedienza  anche  una semplice offesa al p.u., in sua presenza e a
  causa  o  nell'esercizio  delle  sue funzioni, puo' ragionevolmente
  assumersi  come  possibile  causa  di  un'alterazione  del "normale
  svolgimento"  dell'esercizio  della funzione, appunto perche' segno
  di  ribellione  all'autorita'  e,  in quanto tale, in contrasto col
  modello di p.a. accolto, cio' deve invece essere decisamente negato
  in  un  sistema  di  p.a.  fondato  sulla  parita'  tra cittadino e
  funzionario   e  sul  diritto  dei  privati  alla  "partecipazione"
  all'attivita' burocratica.

    3. i) - (segue) b) i principi d'offensivita', di proporzione e di
  determinazezza.
    Ma l'art. 341 c.p., oltre a violare il principio di uguaglianza e
  le  regole  che  disciplinano i rapporti della p.a. coi privati, si
  poneva  in  contrasto  anche col "volto costituzionale" del moderno
  diritto  penale,  che  viene  a  caratterizzarsi  soprattutto  come
  sistema  di  limiti  sostanziali  al  legislatore (sentenza 23 - 25
  ottobre 1989, n. 487).
    Al  riguardo  veniva  anzitutto in considerazione il principio di
  necessaria  offensivita',  strettamente  legato alla concezione del
  diritto    penale   come   extrema   ratio   (c.d.   principio   di
  sussidiarieta'),  che  si deve ritenere costituzionalizzato per via
  di   implicazione   logica   dagli  artt. 25,  secondo  comma,  (in
  particolare dall'uso del termine "fatto") e 27, terzo comma, Cost.,
  letti  alla luce dell'art. 13 della Costituzione. Infatti posto che
  con  la  pena  si  viene ad incidere su di un bene primario come la
  liberta'  personale  (art. 13  Cost.),  oltre  che  su altri valori
  fondamentali,  quali la dignita' sociale ed il pieno sviluppo della
  personalita'  umana (art. 3 Cost.), intanto si giustifica in quanto
  sia diretta a tutelare beni socialmente apprezzabili. Cio' comporta
  l'adozione  di  un  "modello"  liberale  di  diritto penale fondato
  sull'esigenza  di  tutelare un concreto interesse, offeso dal fatto
  tipico.
    Nel caso dell'art. 341 c.p., una volta esclusa la possibilita' di
  assumere  ad  oggetto  di  tutela  il prestigio o il buon andamento
  della  p.a.,  che semmai potevano costituire la mera ratio politico
  criminale   dell'incriminazione,  e'  evidente  che  la  previsione
  dell'oltraggio  a  pubblico ufficiale come autonomo titolo di reato
  non  si  giustificava, non potendosi rinvenire tale giustificazione
  nell'esigenza   di   tutela   dell'onore  del  singolo  p.u.,  gia'
  compiutamente  "coperta" dal diverso reato di cui all'art. 594 c.p.
  (aggravato a norma dell'art. 61 n. 10 c.p).
    D'altra      parte      recuperare      l'originaria      ragione
  dell'incriminazione, ossia la particolare qualificazione dell'onore
  del  p.u. in ragione del principio di autorita', oltre ad aprire la
  strada  alla prima censura sopra evidenziata della violazione della
  pari  dignita'  sociale  e  del modello costituzionale di p.a., non
  consentiva di risolvere il problema neppure sotto il profilo qui in
  esame.
    lnfatti  se  e' vero che il modello del reato come offesa ai beni
  giuridici  nulla  garantisce  in  ordine  ai  contenuti delle norme
  incriminatrici  che,  pur  rispettando  formalmente  quel  modello,
  possono essere i piu' illiberali, si deve osservare che nel caso di
  specie  l'assunzione  ad  oggetto  di  tutela  di un bene giuridico
  strettamente connesso al principio di autorita' in se' considerato,
  e   conseguentemente  al  dovere  di  obbedienza  del  privato  nei
  confronti   dello  Stato,  finiva  col  compromettere  non  solo  i
  contenuti  ma  anche la forma stessa di un diritto penale liberale,
  scivolando verso modelli illiberali, come quelli propri del diritto
  penale  della  volonta'  o  dell'atteggiamento  interiore, a sfondo
  eticizzante,  o  del  diritto  penale  dell'infedelta'  allo Stato;
  modelli  cioe'  che tendono a concepire il reato in termini di pura
  disobbedienza alle norme statuali.
    Un altro principio fondamentale che viene in considerazione e' il
  principio  di  proporzione,  desumibile  dalla funzione rieducativa
  della  pena  di  cui  all'art. 27 terzo comma Cost., purche' estesa
  anche  alla fase dell'astratta previsione normativa, oltre che alla
  fase  dell'applicazione  giudiziale  e  dell'esecuzione. Infatti la
  finalita' rieducativa postula che il reo avverta che il trattamento
  punitivo  inflittogli  sia  proporzionato  al  disvalore  del fatto
  commesso,   perche'  altrimenti  si  stimola  un  atteggiamento  di
  ostilita' nei confronti dell'ordinamento.
    Si  tratta di un principio, valido per l'intero diritto pubblico,
  e  che  costituisce  un'applicazione del piu' generale principio di
  uguaglianza  di cui all'art. 3 Cost., risolvendosi nella necessita'
  che  la scelta dello strumento per raggiungere il fine sia limitata
  da  considerazioni razionali rispetto ai valori, ma che, in materia
  penale, acquista una forza cogente tutta particolare in ragione del
  fatto  che  lo  strumento  penale  viene  ad  incidere  su  diritti
  fondamentali dell'individuo.
    Quale vincolo alla discrezionalita' legislativa in materia penale
  il  principio  equivale  a  negare legittimita' alle incriminazioni
  che,  anche  se  presumibilmente  idonee  a  raggiungere  finalita'
  statuali  di  prevenzione,  producono,  attraverso  la  pena, danni
  all'individuo  (ai  suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla societa'
  sproporzionatamente  maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere)
  da  quest'ultima con la tutela dei beni e dei valori delle predette
  incriminazioni (sentenza n. 409/1989 cit.).
    Da questo punto di vista il principio di proporzione opera su due
  piani, altrettanto importanti:
        a) sul piano della congruenza tra gravita' del fatto tipico e
  sanzione,  comportando  la  necessita'  di  un giudizio relazionale
  interno  alla  norma (tra fatto e pena), in considerazione del bene
  della  liberta'  personale sacrificato dalla pena (con possibilita'
  di  un esito diverso a seconda del tipo di pena previsto, posto che
  la  pena pecuniaria solo eventualmente ed in misura minore viene ad
  incidere  su  quel  bene,  attraverso  la  conversione  in liberta'
  controllata  o  in  lavoro  sostitutivo  in caso di insolvibilita':
  art. 102  legge  n. 689/1981),  ed  in  tal  caso  il  giudizio non
  riguardera'  direttamente  lo scopo o la ratio dell'incriminazione,
  che  rimarra',  per  cosi'  dire  sullo  sfondo,  ma  piuttosto gli
  elementi  di  definizione  dell'offesa (modalita' di lesione e bene
  giuridico  tutelato) ed il suo eventuale esito negativo comportera'
  conseguenze esclusivamente sulla disciplina sanzionatoria;
        b)  sul piano della congruenza tra strumento normativo, ossia
  la  fattispecie  criminosa, e finalita' che con l'incriminazione si
  intende  perseguire,  ed in tal caso e' evidente che l'ambito della
  valutazione   e'   piu'   ampio   perche'   coinvolgente  la  ratio
  politico-criminale  della  norma,  che  e' un elemento esterno alla
  norma stessa.
    In  questo  seconda  prospettiva cio' che assume rilevanza in via
  diretta  non  e'  il profilo sanzionatorio, bensi' la struttura del
  reato,  perche'  e' il riferimento alle caratteristiche tipologiche
  dell'offesa a consentire il giudizio di congruenza con la finalita'
  perseguita, mentre l'eventuale esito negativo del giudizio dovrebbe
  comportare  l'incostituzionalita'  dell'intera fattispecie, perche'
  in  tal caso la sproporzione attiene non al quantum ma all'an della
  tutela penalistica.
    Quanto  ai  casi in cui si realizza la sproporzione, nel senso da
  ultimo  indicato,  ritiene  questo  giudice  che  cio' si verifichi
  quando  le  condotte  punite siano descritte in modo tanto ampio da
  abbracciare   non   solo  alcune  ipotesi  marginali  (il  che  non
  comporterebbe  profili di illegittimita' costituzionale della norma
  ma,   semmai,  semplici  motivi  di  inopportunita'  politica),  ma
  addirittura l'assolta maggioranza di condotte, la cui punizione non
  ha alcuna attinenza col fine perseguito. In tal caso infatti non si
  potrebbe     escludere     la     macroscopica     irragionevolezza
  dell'incriminazione,  non  solo  in  riferimento all'art. 27, terzo
  comma Cost. ma anche in riferimento allo stesso art. 3 Cost.
    Nel  caso  di  specie  si  e' gia' abbondantemente argomentata la
  particolare   "distanza"   tra   la  struttura  del  reato  di  cui
  all'art. 341  c.p.  e gli scopi di tutela legittimamente assumibili
  alla   stregua   del   vigente  assetto  costituzionale,  ossia  il
  prestigio,  inteso  come stima e "fiducia" presso la collettivita',
  ovvero il buon andamento della p.a., nel senso cioe' che solo in un
  numero irrisorio dei casi, quei fini trovavano corrispondenza nella
  realta',  mentre nella maggioranza dei casi si trattava di condotte
  che  nulla  vi avevano a che fare e la cui punizione, sulla base di
  un  titolo  di  reato  autonomo e distinto rispetto al reato di cui
  all'art. 594  c.p.,  trovava esclusiva ed effettiva giustificazione
  sulla  base  dell'originaria ratio di tutela, ossia il principio di
  autorita' ed il rapporto di sudditanza tra Stato e cittadini.
    Ma  al riguardo appare violato o comunque messo in crisi anche un
  altro  principio  fondamentale,  con funzione di garanzia, ossia il
  principio  di  sufficiente  determinatezza, direttamente desumibile
  dalla  riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma 2, Cost.,
  perche'  nel  caso di specie ed in riferimento alle ratio di tutela
  individuate,  appare  evidente  che  le  espressioni utilizzate per
  collocare   l'offesa   all'onore   del   p.u.   in  una  dimensione
  "pubblicistica"   (in   particolare   l'espressione   "a   causa  o
  nell'esercizio  delle  sue  funzioni"),  ma  anche il riferimento a
  tutti  i p.u. e, a norma dell'art. 344 c.p., ai pubblici dipendenti
  che  prestino  un  pubblico  servizio),  erano caratterizzate da un
  grado di estensione tale da designare realta' profondamente diverse
  o  addirittura  eterogenee  quanto  a  disvalore,  venendo cosi' ad
  integrare  un  vizio  classico di deficit di determinatezza, quello
  per  eccessiva onnicomprensivita' della realta' rappresentata (cfr.
  circolare  Presidenza del Consiglio dei Ministri cit., 18). Insomma
  il  "tipo"  individuato dall'art. 341 c.p. non risultava espressivo
  di un omogeneo contenuto di disvalore.
    La  spiegazione del perche' cio' sia accaduto e' ancora una volta
  storica   e   riposa   sull'osservazione  che,  come  e'  noto,  il
  legislatore  nell'elaborare  le  norme  compie  un  procedimento di
  astrazione  dagli  oggetti della realta' sensibile, tutti in quanto
  tali  diversi  tra  loro,  in  base  al  quale  sono  apprezzate le
  somiglianze  e trascurate le differenze sino ad ottenere una classe
  di  oggetti  ritenuti  sostanzialmente "uguali" e riconducibili nel
  significato concettuale espresso dal segno linguistico.
    Cio'  che  pero'  orienta  questo processo sono scelte di valore,
  sicche'  diverse  scelte  di  valore  comportano generalmente esiti
  diversi. Nel caso di specie l'elaborazione della norma e' avvenuta,
  nel  1930,  su  di  una  scelta di valore, fondata sul principio di
  autorita',  nel  cui ambito il reato era effettivamente in grado di
  esprimere un contenuto di disvalore del tutto omogeneo
    Invece  una volta che la scelta di valore viene cambiata, perche'
  cio'  era  imposto  dall'avvento  della  Costituzione, l'estensione
  della  norma,  rimasta  invariata,  non  poteva non destare fondate
  perplessita' di legittimita' costituzionale, perche' a questo punto
  si   realizza   quella  insopportabile  sfasatura  tra  la  realta'
  significata  e  i  contenuti  valutativi  sottesi alla fattispecie,
  nella  quale  consiste  la  ragione  piu' profonda della violazione
  dell'art. 25   secondo  comma  Cost.  e,  sotto  il  profilo  della
  ragionevolezza, dell'art. 3 Cost.
    Cio',   naturalmente,  comporta  la  necessita'  di  superare  la
  tradizionale   diffidenza   verso  il  principio  di  tassativita',
  riconoscendo  la  sua violazione non solo quando i limiti "esterni"
  della  fattispecie  siano  indeterminati, cosi da rendere incerti i
  confini  tra  lecito  ed  illecito,  ma  anche  quando e' la stessa
  fattispecie  al  suo  interno  a  risultare  indeterminata, perche'
  espressiva  di  contenuti  eterogenei,  rispetto  al bene giuridico
  protetto e/o alle finalita' di tutela.
    Del  resto  si tratta di un passaggio che la Corte costituzionale
  ha  gia'  adombrato dichiarando l'incostituzionalita' dell'art. 708
  c.p.,  riscontrando  un deficit di tassativita' non in via assoluta
  ma  perche'  strumento  ottocentesco  di  difesa  sociale del tutto
  inadeguato  rispetto  alle  finalita' di tutela, anche in relazione
  alle  mutate condizioni sociali, e, in quanto tale, irragionevole a
  norma  dell'art. 3  Cost.  (sentenza  17  ottobre - 2 novembre 1996
  n. 370).
    Ne'  il vizio appariva sanabile in via interpretativa. Infatti il
  compito  di una selezione delle condotte meritevoli della maggiore,
  rispetto  al  reato  di  ingiuria, tutela di cui all'art. 341 c.p.,
  nella misura in cui impone la scelta su diverse opzioni di politica
  criminale, spetta necessariamente al legislatore.
    D'altra  parte  va  ricordato che il principio di determinatezza,
  analogamente  al  divieto di analogia in malam partem, si pone come
  garanzia  a salvaguardia degli eccessi del potere giudiziario, e la
  sua  violazione  comporta  tipicamente  la necessita' di operazioni
  interpretative  dirette  a meglio delimitare il contenuto normativo
  della  disposizione  senza  che  pero'  siano  offerte  sufficienti
  indicazioni  da  parte  del segno linguistico (Circolare Presidenza
  del   Consiglio  dei  Ministri  cit.,  19),  scadendo  in  un'opera
  interpretativa  necessariamente  intuitiva, variabile da interprete
  ad  interprete  a  seconda  della sensibilita' e delle inclinazioni
  ideologiche di ciascuno.
    Neppure era possibile richiamarsi alla discrezionalita' riservata
  al  giudice  in sede di applicazione della pena tra il minimo ed il
  massimo  a  norma dell'art. 133 c.p., affermando cioe' che spettava
  al  giudice  individuare i casi piu' lievi, perche' coinvolgenti il
  solo  bene  dell'onore del singolo p.u., da punire col minimo della
  pena, differenziandoli dai casi piu' gravi, perche' offensivi anche
  del  bene del prestigio o del buon andamento della p.a., meritevoli
  di  una  pena  piu'  severa,  magari  sottolineando che era proprio
  l'ampia  forbice  editale conseguente alla sentenza n. 341/1994 che
  consentiva  di  ricondurre  in  uno  stesso  modello  di genere una
  pluralita'   di   sotto  -  fattispecie  diverse  per  struttura  e
  disvalore.
    In   particolare  non  poteva  essere  a  tal  fine  citato  come
  precedente  la  sentenza  della  Corte  costituzionale 23 maggio-18
  giugno 1991 n. 285 per almeno tre ragioni.
    In  primo  luogo in quella occasione la questione di legittimita'
  costituzionale   era  stata  sollevata  con  esclusivo  riferimento
  all'art. 3    Cost.,    sotto    il   profilo   dell'ingiustificata
  parificazione  di  trattamento  di ipotesi diversificate, mentre in
  questi  casi assume preminente rilievo piuttosto l'art. 25, secondo
  comma, Cost.
    In  secondo  luogo in quel caso la normativa ordinaria denunziata
  poteva  avvalersi  di  una  attenuante  ad effetto speciale (art, 5
  legge  2 ottobre 1967 n. 895) che consente una riduzione della pena
  sino a due terzi, permettendo di differenziare le diverse ipotesi e
  la   Corte   costituzionale,   nel   respingere  la  questione,  ha
  sottolineato con forza l'importanza di questo elemento.
    In  terzo  luogo  in quella occasione mancava una fattispecie che
  potesse  assumersi  come termine di paragone, mentre in questo caso
  non  puo'  sfuggire  che  la medesima strada interpretativa diviene
  impraticabile  proprio per la naturale vocazione dell'art. 594 c.p.
  a  porsi  come  tertium  paragonis. Infatti una volta ammesso che i
  "casi  lievi"  in nulla si distinguono dalle ipotesi punite a norma
  dell'art. 594  c.p.  (e  art. 61  n. 10  c.p.) non sembra possibile
  giustificare  razionalmente  una  diversa  disciplina.  Insomma  la
  disomogeneita'  e' gia' a livello astratto e ad essa non puo' porsi
  rimedio mediante le valutazioni che, sul piano concreto, il giudice
  deve  compiere ai fini della determinazione in concreto della pena,
  perche'   e'   lo   stesso   trattamento  punitivo  minimo  di  cui
  all'art. 341  c.p.,  a risultare sproporzionato e, in confronto con
  l'art. 594 c.p., irragionevole per la mancata previsione della pena
  pecuniaria  (e  dell'intera  disciplina propria dell'art. 594 c.p.,
  compresa la procedibilita').
    D'altra  parte non va neppure dimenticato che la riserva di legge
  di cui all'art. 25 secondo comma Cost. si riferisce anche alla pena
  e  deve  pertanto ritenersi violata dalla previsione di fattispecie
  "ad  amplissimo  spettro"  con  forbici edittali tanto ampie da far
  scivolare  la  discrezionalita'  del  giudice  nella determinazione
  della pena nell'arbitrio punitivo.
    Anche in tal caso infatti si affida - si potrebbe dire sulla base
  di una sorta di delega in bianco nelle scelte punitive - al giudice
  l'individuazione,  gia'  a  livello  astratto,  della  gravita' del
  fatto,  smarrendo  la  significativita' i del tipo e la funzione di
  guida  della  norma  penale,  nonche'  confondendo  il  piano della
  quantificazione  del  disvalore del fatto sulla base di ragionevoli
  scelte  di  valore,  riservato  al  legislatore,  col  piano  della
  commisurazione della pena, in relazione alle infinite variabili del
  caso concreto, di pertinenza del giudice.
    La  stessa Corte costituzionale, nella sentenza sopra citata, non
  ha mancato di ribadire che l'individuazione del disvalore oggettivo
  dei  fatti  -  reato  tipici,  e  quindi  del loro diverso grado di
  offensivita',  spetta  al legislatore; mentre al giudice compete di
  valutare  la  particolarita' del caso singolo onde individualizzare
  la pena, stabilendo in base ad esse, nella cornice posta dai limiti
  edittali, quella adeguata in concreto.
    Poiche'  gli ambiti delle due sfere non vanno confusi, e' compito
  del  legislatore di rispettare quel rapporto attraverso un'adeguata
  articolazione dei trattamenti sanzionatori.
    Non  solo  ma  la  stessa Corte costituzionale non ha esitato dal
  dichiarare  incostituzionale  una  norma incriminatrice, sulla base
  degli  stessi  rilievi,  in  presenza  di  un divario eccessivo tra
  minimo  e  massimo  di pena (da due a 24 anni di reclusione, con un
  rapporto  di  1  a  12),  di  una  questione sollevata in relazione
  all'art. 25   secondo   comma   Cost.,   e  di  una  diversa  norma
  incriminatrice piu' generale, alla quale le condotte previste dalla
  norma  dichiarata  incostituzionale  potessero  essere  ricondotte,
  funzione   che,   nel   caso   di  specie,  e'  svolta  agevolmente
  dall'art. 594 c.p. (sentenza 15-24 giungo 1992 n. 299).
    Da  questo  punto  di  vista  era la stesso ampia forbice editale
  prevista  dall'art. 341 c.p., a seguito della sentenza n. 341/1994,
  che va da 15 giorni' a 2 anni di reclusione (con un rapporto da 1 a
  48)   a   destare   serie   perplessita'  sotto  il  profilo  della
  legittimita' costituzionale della norma.

    3. l) - (segue) c) principio del buon andamento della p.a.
    Ultimo   profilo   di   possibile  illegittimita'  costituzionale
  dell'art. 341  c.p.,  nel  suo  complesso, che va evidenziato e' il
  principio  del  buon andamento della p.a. di cui all'art. 97 Cost.,
  che  potrebbe  apparire  paradossale  se  si  pensa che il medesimo
  principio    era    generalmente    individuato    come   il   fine
  dell'incriminazione,  se  non  addirittura  come  il bene giuridico
  protetto. Tuttavia a ben vedere cio' non deve sorprendere perche' i
  fini  di  politica  criminale  impongono  l'adozione  di  strumenti
  congruenti con essi e non di strumenti assolutamente sproporzionati
  e sovrabbondanti e, in quanto tali, controproducenti.
    Ora,  la prassi mostra come l'incriminazione indiscriminata delle
  condotte  descritte  dall'art. 341 c.p. non risultava il piu' delle
  volte    per   nulla   funzionale   all'efficienza   delle   stesse
  amministrazioni  di appartenenza del singolo p.u. offeso, obbligato
  a denunziare il fatto a norma dell'art. 361 c.p., ad assentarsi dal
  suo  ufficio  per  presentarsi  a  rendere  testimonianza  anche  a
  distanza  di  anni, magari affrontando viaggi notevoli a seguito di
  trasferimenti successivi al fatto, con correlativo dispiegamento di
  tutta  un'attivita'  burocratica, prima ancora che giudiziaria, del
  tutto  sproporzionata  alla  scarsissima  rilevanza  del  disvalore
  sociale   (sotto   il   profilo  dell'interesse  pubblicistico  del
  prestigio  o dei buon andamento della p.a.) riscontrabile in simili
  fatti,  con  un  bilancio,  in  termini  di analisi costi/benefici,
  gravemente deficitario anche dal punto di vista della p.a. stessa.
    Non  solo, ma si deve peraltro precisare che una simile rigidita'
  di   reazione  da  parte  dei  p.u.,  imposta  per  legge,  avverso
  comportamenti certo disdicevoli ed anche penalmente illeciti, sotto
  il  profilo  dell'offesa  all'onore  del  singolo  p.u,  ma  che la
  coscienza sociale stentava del tutto a riconoscere come qualificati
  da   una   quota   aggiuntiva  di  disvalore,  finiva  proprio  con
  l'inficiare  quella  "fiducia")  dei  consociati  nella p.a. che e'
  essenziale  per  un  corretto  svolgimento delle funzioni pubbliche
  secondo  il modello di p.a. accolto dalla Costituzione, finendo per
  porsi  come  fattore  di  "estraneita'"  e di "distanza" tra p.a. e
  cittadino.
    3.  m)  -  Profili  di  incostituzionalita'  parziali: a) mancata
  previsione della pena pecuniaria.
    Venendo  ai dubbi di legittimita' costituzionale "parziali", essi
  attengono  alla  mancata  previsione,  almeno  per i casi di minore
  gravita',   della   pena   pecuniaria,  in  alternativa  alla  pena
  detentiva, e della procedibilita' a querela di parte.
    Quanto  alla  mancata  previsione della pena pecuniaria, viene in
  considerazione,  oltre al principio di uguaglianza sotto il profilo
  del  criterio  di ragionevolezza ed in generale tutte le norme ed i
  principi costituzionali sopra evidenziati, soprattutto il principio
  di  proporzione  di  cui  all'art. 27, terzo comma Cost., nella sua
  versione che si potrebbe definire "classica" ossia come criterio di
  congruenza  tra  tipo  e  quantita'  di  pena  e gravita' del fatto
  tipico.
    Nel  caso  di specie va osservato che la mancata previsione della
  pena   pecuniaria   comportava   l'impossibilita'  di  adeguare  il
  trattamento  sanzionatorio  all'effettivo  disvalore  del  fatto in
  concreto   commesso.   L'illegittimita'  costituzionale  di  questa
  soluzione,  almeno per i "casi piu' lievi", emerge ancora una volta
  dal  raffronto col reato di ingiuria, sotto il profilo del criterio
  di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.
    D'altra  parte  se  un simile raffronto, giustificato, come si e'
  visto,  dal  fatto  che  in  questi  casi  entrambe  le fattispecie
  finiscono   col   tutelare   il   medesimo  bene  giuridico,  senza
  apprezzabili  differenze,  portava  a considerare irragionevole una
  pena   detentiva  superiore  di  dodici  volte  nel  limite  minimo
  (sentenza   314/1994   cit.),   a   fortiori   si  poteva  ritenere
  incostituzionale  la  mancata  previsione della pena pecuniaria, in
  alternativa alla pena detentiva, prevista invece dall'art. 594 c.p.
    Non si deve infatti dimenticare che la previsione della sola pena
  detentiva  va  limitata  alle  sole  ipotesi  in  cui  la  gravita'
  dell'illecito   sia   particolarmente   elevata,  ed  assolutamente
  indispensabile  il ricorso alla detenzione, mentre le sperequazioni
  punitive tra ipotesi di reato comparabili, per relativa omogeneita'
  di  contenuto  offensivo,  in ordine alla qualita' prima ancora che
  alla   quantificazione   della   pena,   finiscono  con  l'incidere
  negativamente  sulla  funzione  di  prevenzione  generale,  perche'
  denunciano    casualita'   ed   eccentricita'   dell'incriminazione
  (circolare Presidenza del Consiglio dei Ministri, cit., 16, 6.2).
    Si  e'  peraltro  gia'  osservato  che  la previsione di una pena
  pecuniaria  modifica  il  giudizio sulla proporzione della pena, in
  termini  generali,  rispetto alla gravita' del fatto reato, venendo
  ad incidere sul bene fondamentale della liberta' personale (art. 13
  Cost.)  solo  in  via  eventuale  ed in minor misura (attraverso la
  sostituzione in liberta' controllata o lavoro sostitutivo).
    Infine  il problema dell'individuazione dei limiti edittali della
  pena  pecuniaria,  conseguenti  ad  un'eventuale  dichiarazione  di
  incostituzionalita'  della norma, limitata a questo aspetto, poteva
  agevolmente  essere  risolto  mediante  il  riferimento o ai limiti
  generali   di  cui  all'art. 24  c.p.  oppure  ai  limiti  previsti
  dall'art. 594  c.p.,  ossia  previsti  per  il  reato assunto quale
  tertium  paragonis,  secondo  una tecnica non nuova e seguita dalla
  stessa  Corte  costituzionale  in  un  caso  in  cui  l'omogeneita'
  strutturale tra le due fattispecie poste a confronto era certamente
  minore (sentenza 409/89 cit.).

    3. n) - (segue) b) Procedibilita'.
    In  ordine  alla  procedibilita',  poteva  essere sottolineato il
  profilo  di una disparita' di trattamento questa volta ai danni dei
  pubblici  ufficiali,  discriminati,  rispetto  ai comuni cittadini,
  perche' privati del potere di proporre, come anche di non proporre,
  nonche'   di   rimettere,   la   querela  a  tutela  della  propria
  onorabilita'  (cfr.  pret.  Prato  15  gennaio  1975 in Giur. della
  Costituzione  1975,  1732,  la  relativa  questione,  sollevata con
  esclusivo  riferimento  all'art. 3  Cost.,  e' stata respinta dalla
  sentenza 2-14 aprile 1980 n. 51).
    In  questa  sede  la  questione  deve essere riproposta, anche in
  riferimento  all'art. 97  Cost. e, soprattutto, all'art. 25 secondo
  comma  Cost.,  sia  sulla  base di tutto quanto gia' si e' detto in
  ordine  all'obiettivita'  giuridica  del  reato,  sia  cercando  di
  svelare  i  nessi  tra  funzione  della  procedibilita' a querela e
  natura  del  bene  protetto  dall'art. 594  c.p.,  in  rapporto  al
  principio di determinatezza.
    Sotto  il  primo  profilo  bastera'  ricordare  come l'originaria
  configurazione  del  reato  concepisse  la  tutela  dell'onore  del
  singolo  p.u.  come semplice "mezzo" per perseguire un fine di piu'
  ampia  portata,  ossia  il  principio  di autorita', sicche' veniva
  imposta  una correlazione necessaria tra lesione del bene personale
  dell'onore del singolo p.u. e dimensione pubblicistica dell'offesa,
  con  una soluzione non priva, una volta accolta la scelta di valore
  che vi era sottesa, di una certa coerenza, perche' innegabile e' la
  congruenza con quel fine dello strumento apprestato.
    Ma,  come  si  e'  visto,  una  simile congruenza inevitabilmente
  svanisce  una  volta  mutata  la  prospettiva  di  tutela  mediante
  l'adozione delle finalita' del prestigio o del buon andamento della
  p.a.,  in luogo di quella originaria, perche' a questo punto era la
  stessa  estensione  della  fattispecie  a  non  trovare piu' valida
  giustificazione,   tanto  da  far  apparire  lo  strumento  di  cui
  all'art. 341 c.p. come palesemente incongruo rispetto a quei fini.
    Si aggiunga che il significato della procedibilita' della querela
  per i reati di ingiuria e diffamazione (art. 597 c.p.) va ricercato
  nell'individualita',   si   potrebbe   dire  "intimita'"  del  bene
  giuridico  protetto dell'onore, quale diritto della personalita' di
  ciascun  uomo  in  quanto  tale,  in  se'  e per se' considerato, e
  nell'obiettiva scarsa gravita' che spesso queste condotte, sotto il
  profilo   dell'interesse   statuale   al  mantenimento  dell'ordine
  sociale, assumono.
    Con cio si vuol dire che si tratta di condotte che tipicamente si
  originano nell'ambito di conflitti interpersonali, coinvolgenti una
  dimensione prima di tutto, per cosi' dire "privatistica" che spesso
  trovano un adeguato componimento nell'ambito del medesimo rapporto,
  mediante  ad  es.  presentazione di scuse o risarcimento dei danni,
  sicche'  appare oltre modo opportuno limitare l'intervento punitivo
  dello  Stato  al  caso  di  presentazione di querela anche al fine,
  mediante  l'istituto  della remissione, di favorire componimenti in
  via   bonaria.  Inoltre  la  funzione  della  querela,  in  stretta
  correlazione  con il principio di determinatezza di cui all'art. 25
  secondo  comma  Cost.,  consiste  anche nel selezionare le condotte
  realmente  offensive,  in  modo da arginare il rischio che l'azione
  penale   sia   promossa  in  relazione  ad  un'infinita'  di  fatti
  bagattellari    con    evidente    pregiudizio   di   un'efficiente
  amministrazione della giustizia
    Ebbene  col  reato di oltraggio a p.u., procedibile d'ufficio, si
  veniva    a   realizzare   una   sorta   di   "sacrificio"   o   di
  "strumentalizzazione"  di un bene specificatamente personale, quale
  l'onore  del  singolo  p.u.,  in  funzione del perseguimento di una
  finalita'  pubblicistica  trascendente  l'interesse  della  persona
  fisica,  che tuttavia si risolveva alternativamente o in una scelta
  credibile ma di per se' in contrasto con la Costituzione (principio
  di  autorita'),  ovvero  in  una  scelta  di  per se' conforme alla
  Costituzione  (prestigio  o  buon andamento della p.a.), ma che non
  trovava  alcun  riscontro  nella  struttura  del  reato, essendo il
  collegamento  con  la pubblica funzione tanto generico da risultare
  evanescente.
    Vi  e'  allora da chiedersi se fosse razionalmente giustificabile
  il  sacrificio  imposto  ai  p.u.,  privati  del potere di tutelare
  autonomamente  un  bene  della  loro  personalita'  ed anzi gravati
  dell'obbligo di presentare denunzia, da una tutela "pubblicistica",
  priva in realta' di concreti elementi di riscontro normativo.
    O  non fosse piuttosto preferibile, e costituzionalmente imposto,
  selezionare,  dal punto di vista tipologico, quelle condotte la cui
  punizione   fosse  effettivamente  funzionale  alle  finalita'  del
  prestigio  e/o del buon andamento della p.a. e lasciare negli altri
  casi  alla  libera  decisione  del  singolo p.u. la tutela dei beni
  propri  della  sua personalita', mediante l'esercizio del potere di
  proporre querela.
    L'art. 341  c.p.  incideva  anche pesantemente sul buon andamento
  della  p.a,  in  generale  e  dell'amministrazione  giudiziaria  in
  particolare,  imponendo da un lato l'obbligo della denunzia al p.u.
  e, dall'altro l'obbligo dell'esercizio dell'azione penale (art. 112
  Cost.)  in  ordine  a  tutti  i  casi,  anche quelli obiettivamente
  bagattellari  ed  in cui il p.u. non si fosse sentito offeso (e non
  avrebbe  pertanto  presentato  querela)  o avesse ricevuto tutte le
  scuse  del  caso  (e  avrebbe  pertanto  presumibilmente rimesso la
  querela).
    4.  - I dubbi di costituzionalita' del combinato normativo di cui
  all'art. 2, comma terzo, c.p. e 673 c.p.p.
    Riguardo  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale della
  disciplina  di  cui  all'art. 2,  comma  terzo c.p. e dell'art. 673
  c.p.p.,  in caso di modifica legislativa in senso migliorativo, con
  riferimento   al   limite   all'applicazione   della   lex   mitior
  rappresentato  dal  giudicato,  e'  bene  premettere  che l'art. 25
  secondo  comma  Cost.  non  ha espressamente costituzionalizzato il
  principio di retroattivita' della disciplina penale piu' favorevole
  essendosi limitato a sancire il principio di irretroattivita' delle
  norme penali sfavorevoli.
    Si  deve  pertanto  ritenere  in  prima  battuta  che  i principi
  espressi  dall'art. 2  c.p. hanno una diversa portata ed efficacia,
  essendo  il  principio  di irretroattivita' delle norme sfavorevoli
  primo  comma  costituzionalizzato ed essendo invece il principio di
  retroattivita'  delle  norme  favorevoli  (secondo  e  terzo comma)
  operante   solo  sul  piano  della  legge  ordinaria  e,  pertanto,
  suscettibile   in  linea  di  principio  sia  di  espresse  deroghe
  legislative sia di limiti posti in via generale.
    Tuttavia  la  piena  adesione  ad  un  siffatto  ordine  di  idee
  presuppone,  ad  avviso  di questo giudice, la piena individuazione
  della ragione giustificativa dei vari principi sopra illustrati.
    Secondo l'impostazione che sembra preferibile occorre distinguere
  la  ratio che sorregge il principio di irretroattivita' delle norme
  sfavorevoli   da  quella  che  sorregge  il  diverso  principio  di
  retroattivita'  delle  norme favorevoli, piuttosto che riferirsi ad
  un generico ed indistinto favor libertatis. Il fondamento del primo
  infatti   va   rinvenuto   sul   piano  politico  garantista  ossia
  nell'esigenza  di  tutelare il cittadino nei confronti di possibili
  abusi   del   potere  legislativo,  individuando  uno  dei  momenti
  essenziali  caratterizzanti  il  principio di legalita', insieme al
  principio  di tassativita' e di divieto di analogia in malam parte,
  posto  a  tutela  contro  possibili  abusi  del potere giudiziario,
  nonche'  del  principio  della  riserva  assoluta di legge, posto a
  tutela  contro  possibili  abusi del potere esecutivo. Viceversa il
  fondamento  della  regola  di retroattivita' delle norme favorevoli
  andrebbe  ravvisato  nel  principio  di uguaglianza (art. 3 Cost.),
  sotto il profilo della parita' sostanziale di trattamento.
    Una  simile impostazione sembra preferibile, perche', da un lato,
  meglio   giustifica   la   diversa  portata  dei  due  principi  e,
  dall'altro,     lascia    impregiudicato    il    problema    della
  costituzionalita'  delle  disparita'  di trattamento conseguenti ai
  singoli  limiti  e  alle  deroghe  alla  retroattivita' delle norme
  favorevoli,  in riferimento al generale principio di ragionevolezza
  delle leggi, desumibile dall'art. 3 Cost.
    Se  si  pone  tuttavia  mente  al  fatto  che  in  diritto penale
  l'esigenza  di  parita'  sostanziale  di  trattamento,  assume  una
  valenza ed un significato tutto particolare, venendo ad incidere su
  beni  e  diritti  fondamentali  della  persona  quali  la  liberta'
  (art. 13  Cost.)  e  la  dignita' personale (art. 2 Cost.), si deve
  anche giungere alla conclusione che il criterio di "ragionevolezza"
  delle  leggi  quale  limite per il legislatore deve necessariamente
  ritenersi   piu'   rigoroso   rispetto   che   ad   altri   settori
  dell'ordinamento.
    Da  questo  punto  di  vista il principio di retroattivita' della
  norma      favorevole      puo'      ritenersi     "indirettamente"
  costituzionalizzato,   nel   senso  che  deroghe  ad  esso  possono
  ritenersi   ammissibili   solo  se  ragionevoli,  tenendo  tuttavia
  presente  il  rango  primario  degli interessi sui quali vengono ad
  incidere.
    Una  simile  conclusione e' avvalorata dal rilievo che l'esigenza
  di  parita'  sostanziale  di trattamento non puo' essere apprezzata
  disgiuntamente al principio di offensivita' (art. 25, comma secondo
  cost.),  da  un  lato,  e di proporzione dall'altro (art. 27, comma
  terzo  cost.).  E'  evidente  infatti  che  accogliere il principio
  d'uguaglianza di trattamento in rapporto alla mutata considerazione
  in   termini   di   inoffensivita'  (abolitio  criminis)  o  minore
  offensivita'   (art.   2,  terzo  comma  c.p.)  del  fatto  oggetto
  dell'intervento  legislativo,  significa  aderire  ad un modello di
  diritto  penale  ispirato  al  principio  di  materialita',  che e'
  accolto dalla Costituzione .
    Viceversa  ricollegare  la  sanzione alla valutazione legislativa
  vigente al momento della commissione del fatto significa attribuire
  rilevanza  decisiva non gia' all'oggettiva valutazione legislativa,
  bensi'  all'elemento  della  soggettiva  disobbedienza o infedelta'
  alla legge.
    Va inoltre osservato che la ratio sottesa al limite del giudicato
  posto  dall'art. 2,  terzo  comma  c.p.  e'  eminentemente pratica,
  connessa  cioe'  all'esigenza  di economia processuale d'evitare un
  nuovo  giudizio  ad  ogni  sopravvenire  di modifiche normative. Un
  fondamento   certamente  meno  "alto"  ed  importante  rispetto  al
  fondamento alla regola della retroattivita' della norma favorevole,
  cosi' come sopra si e' individuato.
    Fondamento  inoltre  che  lo  stesso  legislatore non ha ritenuto
  sufficiente  per  limitare  l'applicazione  retroattiva della norma
  favorevole in caso di abolitio criminis.
    Da  questo  punto  di  vista  il  limite  in  parola  rischia  di
  manifestare  un'intrinseca  irragionevolezza  sia  in rapporto alla
  diversa  regola  di cui al secondo comma dell'art. 2, comma secondo
  c.p.,  sia all'interno dei casi di mero intervento modificativo, in
  senso favorevole, da parte del legislatore.
    Dal primo punto di vista potrebbe infatti mettersi in discussione
  la ragionevolezza di una diversa disciplina tra abolitio criminis e
  mera  modifica della disciplina legislativa, almeno nei casi in cui
  quest'ultima pone in discussione, come nel caso di specie, non solo
  il quantum della sanzione ma lo stesso an mediante la previsione di
  una condizione di procedibilita' prima non richiesto.
    Dal  secondo  punto  di  vista  la  disciplina  denunciata appare
  difficilmente   armonizzabile   col   principio   di   parita'   di
  trattamento,  ove  si  consideri che legittima effetti sanzionatori
  diversi  per  fatti  identici commessi da due soggetti nel medesimo
  tempo,  solo  a  ragione  del  diverso momento in cui interviene il
  giudicato,  momento  che appare essere un mero accidente, dovuto ad
  elementi  del  tutto  causali, spesso condizionati dal concreto uso
  del  potere  discrezionale  p.m.  nella scelta dei concreti modi di
  esercizio  dell'azione  penale,  che  e' obbligatoria (si pensi, ad
  es., alla scelta del rito direttissimo).
    Da questo punto di vista non sembra che il giudicato comporti una
  sufficiente  differenziazione  dei  casi  posti a raffronto tale da
  giustificare  questa  conclusione, appunto perche' cio' che rileva,
  in  riferimento  alla parita' di trattamento, e' il rapporto tra il
  singolo  cittadino  ed il potere punitivo dello Stato, in relazione
  alla  mutata  considerazione legislativa del fatto commesso, mentre
  le  esigenze  pratiche  sottese al limite del giudicato non trovano
  diretto riscontro.
    Pertanto   mentre   un   diverso   trattamento  potrebbe  trovare
  giustificazione  nel  caso  in cui i due soggetti hanno commesso il
  fatto  in  tempi  diversi,  rispetto  all'intervento della modifica
  legislativa,  la  stessa conclusione non dovrebbe essere ammessa in
  dipendenza   di   un   fattore   del  tutto  casuale  e  totalmente
  indipendente  dalla  condotta  e  dalla  volonta'  del reo, qual e'
  l'intervento del giudicato.
    Cio' perlomeno nel caso in cui la modifica legislativa non incida
  solo  su  aspetti  secondari o solo sui limiti edittali di pena, ma
  comporti,  come  nel  caso  di  specie,  una modifica del regime di
  procedibilita'   e   della   stessa   specie  di  pena  irrogabile,
  determinando  il  passaggio da una pena obbligatoriamente detentiva
  ad una pena pecuniaria, sia pure in via alternativa. In simili casi
  infatti  vengono  in  considerazione  anche:  l'art.  13  Cost., in
  riferimento  al  bene supremo della liberta' personale che verrebbe
  sacrificato  anche  in presenza di un fatto che, alla stregua della
  nuova  valutazione  legislativa, potrebbe essere punito con la mera
  multa;  l'art. 25, secondo comma Cost., in riferimento al principio
  di  offensivita'  ed  in  relazione al principio di proporzione tra
  fatto  e pena di cui all'art. 27 terzo comma Cost., dal momento che
  a  quel  fatto  verrebbe collegata una pena non piu' corrispondente
  alla valutazione di offensivita' compiuta dal legislatore.
    D'altra   parte   assumere  quale  ragione  giustificativa  della
  disciplina  denunziata  l'esigenza di salvaguardare la certezza dei
  rapporti  ormai  esauriti,  non tiene adeguatamente conto del fatto
  che  la  vicenda  della  sanzione  penale, specie se detentiva, non
  sembra   possa  ritenersi  esaurita  col  semplice  intervento  del
  giudicato.
    Si  pensi infatti agli interventi sulla pena praticabili mediante
  gli  strumenti  della  sorveglianza  o  alla possibile applicazione
  dell'amnistia  o  dell'indulto  in  corso  di  esecuzione  a  norma
  dell'art. 672  c.p.p.  A rigore anzi neppure l'effettiva espiazione
  della  pena  consente  di  ritenere  del tutto esaurita la relativa
  vicenda,  dal  momento  che  la  revoca  della sentenza di condanna
  potrebbe  ancora determinare gli effetti di cui all'art. 657, comma
  secondo, c.p.p.
    Si  consideri infine il dato secondo il quale nel moderno diritto
  penale  l'intangibilita'  del giudicato e' generalmente assunta non
  tanto  a  tutela  di  una astratta certezza dei rapporti giuridici,
  quanto    piuttosto    a    tutela    della    liberta'   personale
  dell'interessato,  in  relazione  al  divieto  del  ne  bis in idem
  (art. 649 c.p.p.).
    L'irragionevolezza  della  disciplina  denunziata potrebbe infine
  essere   argomentata   anche  dai  notevoli  poteri  di  intervento
  riconosciuti  giudice  dell'esecuzione  dal  nuovo  codice  di rito
  ignoti  al  precedente  sistema  processuale,  coinvolgenti  spesso
  valutazioni anche di merito.
    Si  pensi  alla disciplina del riconoscimento della continuazione
  in sede esecutiva ai sensi dell'art. 671 c.p.p. e 188 disp. att. Si
  pensi  ancora alla stessa disciplina della revoca della sentenza in
  conseguenza  dell'abolito  criminis  ai sensi dell'art. 673 c.p.p.,
  che,  a  ben  vedere,  comporta  spesso la necessita' di penetranti
  indagini  di merito, soprattutto nei casi in cui all'abolizione del
  reato  si  accompagni  una riformulazione della fattispecie, come i
  casi  della detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale e
  dell'abuso   di  ufficio,  hanno  esaurientemente  reso  manifesto,
  sicche'  appare  davvero  poco  ragionevole,  ed  in relazione alla
  stessa ratio di economia processuale che lo sorregge, far permanere
  il  limite  del  giudicato  proprio  nei casi in cui la revoca o la
  modifica  della condanna conseguirebbe in modo del tutto agevole ad
  un  mero  giudizio di determinazione della pena, alla stregua della
  nuova valutazione legislativa.
    Un ultimo profilo di possibile illegittimita' costituzionale puo'
  essere  indicato.  La  disciplina in parola, ricollegando efficacia
  dirimente  alla  distinzione  tra  abolitio  criminis ed intervento
  legislativo   meramente   modificativo,   potrebbe   comportare  un
  possibile   contrasto   col  principio  di  determinatezza  di  cui
  all'art. 25,  comma  secondo della Costituzione. Infatti non appare
  azzardato,  in  relazione  alla  ratio  di garanzia della liberta',
  affermare  che  il  principio  di determinatezza sia riferibile non
  solo  alle  norme  incriminatrici ma a tutte le fattispecie che, in
  qualunque  fase  processuale, condizionano in concreto l'esecuzione
  di una sanzione penale, specie se detentiva, come appunto accade in
  tema  di  successione di leggi penali nel tempo in riferimento alla
  revoca della condanna a norma dell'art. 673 c.p.p.
    Ora  e' ben noto, le difficolta' che, nei casi piu' complessi, si
  incontrano  per  distinguere  i  casi  di  vera  e propria abolitio
  criminis  dai casi di intervento meramente modificativo e cio' gia'
  in  via astratta, come e' reso palese dalla proposta da parte della
  dottrina   di   teorie  complesse  e  diversificate  (quella  della
  mediazione  del caso concreto, quella della continuita' del tipo di
  illecito, quella della contenenza, ecc...), comunque non risolutive
  e  tali comunque da rendere spesso necessario un giudizio di valore
  da parte dell'interprete.
    Viceversa  l'accoglimento della questione di costituzionalita' in
  questa  sede proposta consentirebbe di svincolare una materia tanto
  importante  da  astratte  teorie  dogmatiche  e  da interpretazioni
  opinabili,  ancorandola  ai  concreti effetti delle singole riforme
  legislative, nel senso cioe' che l'art. 673 c.p.p. dovrebbe trovare
  sempre  applicazione,  con  la revoca o la modifica della condanna,
  tutte  le  volte  in cui l'applicazione della legge piu' favorevole
  intervenuta escluda la punibilita' del fatto, per qualsiasi ragione
  (anche attinenti al regime di procedibilita') ovvero l'applicazione
  di una pena detentiva.