IL TRIBUNALE Riunito in camera di consiglio in data 20 gennaio 2000 per discutere la causa civile avente ad oggetto: opposizione a sentenza di fallimento; iscritta al numero di ruolo generale sopra indicato, promossa con atto di citazione notificato in data 22 gennaio 1999 da Giuseppina Brigada, rappresentata e difesa dall'avv.to Marco Moro Visconti per delega a margine dell'atto di citazione, elettivamente domiciliata presso lo studio del difensore sito in Milano Piazza S. Pietro in Gessate n. 2 Attrice; Contro Fallimento s.n.c. Italpneus di Villa Angelo & c. e dei signori Villa Angelo e Fagioli Giancarlo nonche' della sig.ra Brigada Giuseppina, in persona del curatore, rag. Calogero Azzaretto, rappresentato e difeso per delega in calce all'atto di citazione dall'avv.to Luciana Clerici, elettivamente domiciliato in Milano, presso lo studio del difensore via Visconti Venosta n. 3; convenuto e Michelin Italia S.p.a., rappresentata e difesa dall'avv.to Antonio D'Episcopo per delega in calce alla comparsa di costituzione, elettivamente domiciliata presso la studio del medesimo, in Milano, via Podgora n. 5; convenuta, terzo chiamato, e Goodyear Italiana s.p.a. rappresentata e difesa per delega in calce alla comparsa di costituzione e risposta dagli avv.ti Susanna Beltrame e Giulio Tognazzi del foro di Roma e dall'avv.to Daniela Meregalli del foro di Milano, elettivamente domiciliata presso lo studio di quest'ultima in Milano via Carducci 15; contumace, terza chiamata. Ha pronunciato la seguente ordinanza. La controversia sottoposta all'esame del tribunale non riguarda il fallimento della S.n.c. Italpneus di Villa Angelo & c. bensi' la legittimita' della sua estensione alla socia Brigada Giuseppina, illimitatamente responsabile, estensione effettuata ai sensi dell'art. 147 l.f. sul presupposto che lo stato di insolvenza della societa' era gia' insorto alla data del recesso della socia Brigada. I momenti cronologici che scandiscono l'evoluzione della vicenda possono essere sintetizzati come segue: in data 18 giugno 1998 il tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento della societa' S.n.c. Italpneus di Villa Angelo & c, e dei soci illimitatamente responsabili, con ricorso notificato in data 26 novembre 1998 il curatore ha richiesto il fallimento in estensione della sig. Brigada Giuseppina, socia receduta dalla Italpneus in data 6 maggio 1997. Il tribunale di Milano con sentenza del 29/30 dicembre 1998 ha dichiarato il fallimento in estensione della sig. Brigada Giuseppina. In tale situazione l'opponente ha invocato il disposto dell'art. 10 l.f. quale elemento impeditivo dell'estensione, sottolineando di essere stata dichiarata fallita a distanza di oltre l'anno dalla perdita della qualita' di socia. Stando al paradigma interpretativo anteriore alla sentenza della Corte costituzionale del 12 marzo 1999 n. 66 assolutamente consolidato in giurisprudenza, tale motivo di lagnanza era destinato a sicuro insuccesso, in quanto la sfera applicativa degli artt. 10 e 11 l.f. si riteneva ristretta all'ipotesi dell'imprenditore individuale, senonche' la pronunzia della Corte costituzionale sopra richiamata ha modificato il panorama di riferimento, determinando una serie di questioni il cui assestamento sistematico appare tutt'altro che agevole. L'argomentazione sviluppata con la sentenza 66/1999 si dipana attraverso le seguenti proposizioni. L'assoggettabilita' a fallimento dell'imprenditore cessato postula, a tutela dell'interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche, la fissazione di un limite temporale entro cui possa essere pronunciato il fallimento. Un limite appare tanto piu' necessario in quanto le conseguenze del fallimento possono ricadere, non solo sul diretto interessato, ma anche sui terzi che con lui abbiano avuto a che fare. L'art. 10 l.f., contemperando le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche, fissa detto termine in un anno. Qualora fallisca una societa', l'art. 147 l.f. prevede il fallimento per ripercussione del socio illimitatamente responsabile e non puo' dubitarsi che anche in tal caso ricorrano le stesse esigenza di tutela a cui risponde l'art. 10 l.f., in modo che, simmetricamente, la soggezione al fallimento del socio che sia receduto dalla societa' va circoscritta entro un rigoroso limite temporale, che, non risultando fissato dall'art. 147 l.f, dev'essere rinvenuto all'interno del sistema e precisamente nella stessa norma dettata dall'art. 10 l.f., che "in considerazione della sua ratio assume una portata generale ed e', in quanto tale, applicabile anche al fallimento degli ex soci". Sulla base di dette considerazioni, la Corte e' pervenuta ad una pronuncia cosiddetta "interpretativa di rigetto" in ordine al contenuto precettivo dell'art. 147, il quale dovrebbe intendersi nel senso che il fallimento dei soci illimitatamente responsabili receduti puo' essere dichiarato soltanto entro il termine di un anno dal venir meno del rapporto sociale. E' diffusa l'opinione che una pronuncia del genere, in virtu' della sua fisionomia puramente interpretativa, non abbia portata strettamente vincolante al di fuori del caso deciso, giacche' formalmente essa non incide sul corpus normativo, ne' in senso eliminativo, ne' in senso integrativo, ma, per l'appunto, opera esclusivamente sul piano esegetico. Cio', a fronte dell'impatto davvero enorme che il nuovo orientamento della Consulta e' destinato ad assumere nella realta' giudiziaria, ha consentito ben presto che le perplessita' di alcune Corti di merito si traducessero in episodi di non adeguamento (v. trib. Napoli 7 aprile 1999 opp. fall. Parrella Roberto e trib. Padova 10 maggio 1999 opp. fall. De Checchi Ferdinando, i quali, rifiutando apertamente l'interpretazione proposta dai giudici costituzionali, hanno confermato in casi del tutto identici l'orientamento tradizionale, oppure suggerito soluzioni alternative). Questo tribunale si trova a dover affrontare una fattispecie analoga a quella esaminata dalla sentenza n. 66/1999 della Corte costituzionale e, tralasciando di affrontare la questione dell'efficacia della sentenza interpretativa di rigetto (gran parte della dottrina sostiene il carattere non vincolante), risolvendosi alla fine in un risultato improduttivo dopo che il giudice delle leggi, nel ruolo di sovrano custode dei valori costituzionali, ha ormai sancito l'inadeguatezza della visione corrente circa l'operativita' temporale del meccanismo previsto dall'art. 147 l.f., il tentativo di mantenere il vecchio paradigma interpretativo o di proporre soluzioni dissonanti appare improduttivo e destinato ad aumentare il disorientamento. Si valuta quindi inevitabile rimettere la questione alla Corte costituzionale ravvisando non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147 l.f. nella parte in cui non contiene la precisazione di un termine ragionevole entro il quale puo' essere dichiarato il fallimento del socio illimitatamente responsabile dopo che esso ha perso tale qualita' per recesso. Gli argomenti posti a fondamento della presente ordinanza sono sostanzialmente quelli gia' portati all'attenzione del Corte costituzionale con l'ordinanza del 16 settembre 1999 di questo tribunale ed ai medesimi ci si riporta atteso che la diversita' della fattispecie non incide sui termini essenziali della questione. Si impone, prima di affrontare argomentazioni esclusivamente giuridiche, chiarire la realta' dei fatti. Sarebbe del tutto ipocrita sottacere che gli usuali tempi delle istruttorie prefallimentari presso i tribunali italiani rendono irrealistico, in una visione statistica allargata, il rispetto generalizzato del termine di un anno previsto dall'art. 10 l.f. Per sincerarsene, bisogna domandarsi qual'e' il percorso che conduce alla dichiarazione di fallimento nel caso in cui il debitore cessi l'esercizio dell'impresa dopo avere contratto obbligazioni per le quali si rende subito insolvente. Ebbene, il creditore, almeno di regola, dopo avere constatato l'inadempimento e inviato vanamente una diffida, dovra' agire in giudizio per ottenere l'accertamento del proprio diritto (nella migliore delle ipotesi in via monitoria, sperando di non subire strumentali opposizioni); dovra' poi promuovere un'azione esecutiva, verificarne l'infruttuosita' e presentare infine istanza di fallimento; ottenuta la fissazione dell'udienza di comparizione, dovra' notificare il ricorso al debitore e restare in attesa dell'udienza collegiale. Al termine di tutto cio', e' probabile che l'anno sia trascorso. Nella situazione descritta (gia' stigmatizzata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo), non ci si puo' nascondere che l'interpretazione restrittiva dell'art. 10 l.f. svolgeva in pratica la funzione di relegare all'ipotesi piu' marginale quella che, senza esagerazioni, puo' definirsi una sorta di "trappola" legale, che, da un lato, rischia di proteggere i debitori piu' furbi o fortunati e, dall'altro, di affrettare precipitosamente il fallimento di quelli piu' sprovveduti o sfortunati, contrassegnando le relative istruttorie prefallimentari da una speditezza sconosciuta nella normalita' dei casi, che impedisce di approfondire la conoscenza dello stato di crisi e preclude oqni opportunita' di perseguire soluzioni stragiudiziali. Immaginando di generalizzare l'applicazione del termine di un anno al socio illimitatamente responsabile che non e' piu' tale al momento della dichiarazione del fallimento sociale, l'area minata s'allarga notevolmente. Il procedimento accennato, infatti, dovra' svolgersi nei confronti della societa' debitrice, mentre solo in un tempo necessariamente ancora piu' tardo il curatore avra' modo di verificare l'esistenza di obbligazioni riferibili all'eventuale pregressa permanenza nella compagine sociale di soci illimitatamente responsabili, come tali potenziali destinatari della domanda estensiva. Pertanto, se il socio ha avuto l'accortezza di uscire dalla compagine al delinearsi dei primi sintomi d'insolvenza, e' facile prevedere che il limite di un anno gli consentira' quasi sicuramente di evitare la dichiarazione di fallimento, tantopiu' che, mentre la cessazione dell'impresa individuale coincide con la chiusura esteriore dell'attivita' e dunque accende un segnale d'allarme per i creditori, il semplice defilarsi di un socio, non inibendo l'operativita' dell'azienda, passa molto piu' inosservato (la motivazione della sentenza dichiarativa di fallimento della socia receduta Brigada Giuseppina e' altamente illuminante e conforme a quanto esposto). Passando all'analisi giuridica, il punto di partenza, ovviamente, non puo' che essere rappresentato dal testo dell'art. 147 l.f., il quale non esprime alcun limite temporale per l'estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili. In cio' consisterebbe appunto la lacuna che la Corte costituzionale, in relazione al caso del socio receduto, ha ritenuto di colmare in via analogica. Il dubbio che la mancata previsione di un limite temporale anche per l'estensione del fallimento al socio receduto leda principi costituzionali non puo', come detto, ritenersi manifestamente infondato. Occorre verificare se questo dubbio sia rimediabile per via interpretativa, in particolare servendosi analogicamente dell'art. 10 l.f.. Effettivamente, visto che tale norma si trova nella parte generale della legge fallimentare, si sarebbe propensi ad ammetterne l'utilizzazione piu' ampia, senonche' una costante e risalente tradizione giurisprudenziale relega la sua applicazione alla sola ipotesi dell'imprenditore individuale. In verita', il testo normativo non suggerisce alcuna limitazione in tal senso, anzi evoca la figura dell'imprenditore disciplinando gli effetti della cessazione dell'attivita' di impresa indipendentemente da ogni connotazione di appartenenza; nondimeno, a dispetto delle diffuse opinioni dottrinarie che valorizzano la lettura piu' intuitiva del dettato legislativo, il diritto giurisprudenziale "vivente" ha sempre escluso la portata generale dell'art. 10 l.f. muovendo dall'osservazione per cui l'imprenditore collettivo non si estingue fino a quando non abbia estinto tutti i suoi debiti. Risulta difficile negare la fragilita' di tale motivazione che riposa sostanzialmente sulla sovrapposizione del concetto di estinzione del titolare dell'impresa e di cessazione della sua attivita', che pure sono ontologicamente diversi. Cio', tuttavia, non ha impedito alla Corte di avallare con perentoria motivazione (sen. 180/1998) l' interpretazione del diritto "vivente" escludendo ogni profilo di incostituzionalita' nella disparita' di trattamento che si viene a creare tra imprenditore individuale e imprenditore collettivo, senza curarsi della certezza delle situazioni giuridiche che, per quanto riguarda i terzi, non si atteggiano in modo diverso. Con la decisione 160/1998 la Corte ha, in ogni caso, mostrato di non considerare l'art. 10 l.f, norma di portata generale, nella misura in cui ne ha confermato l'applicazione restrittiva all'imprenditore individuale. Ora, il recupero per via analogica del disposto dell'art. 10 l.f. sembra inconciliabile col precedente atteggiamento della Corte, ma, in ogni caso, l'operazione ermeneutica appare poco convincente, sia per il luogo dove attinge il principio normativo, sia per il luogo dove lo travasa. Sotto il primo profilo, la forza precettiva di una proposizione normativa non si puo' espandere e contrarre a piacimento, tantopiu' quando la strozzatura s'annida nell'articolazione centrale del passaggio argomentativo: ci si chiede come mai, se l'art. 10 l.f. non si applica al fallimento delle societa', dovrebbe poi applicarsi al fallimento dei soci, nonostante che la posizione giuridica di costoro sia evidentemente subordinata alle vicende dell'ente a cui appartengono. Dopo aver rifiutato l'applicazione diretta (non era nemmeno necessaria l'analogia) dell'art. 10 l.f. alle societa' ed aver dunque confermato l'interpretazione restrittiva di tale norma, appare francamente illogico farne un principio generale suscettibile d'applicazione analogica ai soci. Sotto il secondo profilo, lacuna significa che la fattispecie non e' regolata da alcuna norma, ma l'art. 147 l.f., a ben vedere, contiene un accenno al fattore cronologico che non puo essere obliterato. Il secondo comma, infatti, prende in considerazione l'eventualita' che la posizione di socio illimitatamente responsabile emerga non contestualmente, bensi' "dopo" la dichiarazione del fallimento sociale, eppure non pone alcun limite al sopravvenire della pronuncia estensiva. Davanti all'impiego di un avverbio temporale da parte del legislatore, ci si aspetterebbe che la volonta' di contenere la posteriorita' entro la particolare parentesi di un anno fosse chiarita espressamente, se del caso con un richiamo all'art. 10 l.f. In mancanza di qualsivoglia precisazione, si e' portati a concludere che, pur avendo considerato l'ipotesi di un ritardo nella dichiarazione di fallimento del socio, la legge abbia inteso deliberatamente mantenere sine die la sua soggezione alla procedura concorsuale. Forse questo disegno non e' costituzionalmente legittimo, ma non pare ravvisabile al riguardo una vera e propria lacuna sotto il profilo temporale nel meccanismo congegnato dall'art. 147 l.f. Ne' l'osservazione per cui la dizione normativa si riferisce al solo sfasamento tra fallimento sociale e fallimento personale (anziche' allo sfasamento tra perdita della qualita' di socio illimitatamente responsabile e fallimento sociale) puo' indurre a mutare opinione, giacche' le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche che inducono a porre un termine massimo al sopraggiungere della pronuncia estensiva si pongono esattamente allo stesso modo. Invero, sarebbe assurdo lasciar "consolidare" in un anno l'esonero dal fallimento del socio receduto e tenere indefinitamente nell'incertezza il destino del socio attuale, dopo che egli ha comunque perso ogni dominio sull'impresa. Anzi, la nettezza della cesura rappresentata dalla dichiarazione del fallimento principale combinata con l'intrinseca esigenza di concentrazione della procedura concorsuale dovrebbero imporre a maggior ragione il rispetto di un termine perentorio per definire la posizione del socio. Basti pensare che medio tempore i creditori non saprebbero se promuovere contro di lui l'esecuzione individuale o aspettare d'insinuarsi al concorso. L'omessa determinazione di un limite al sopravvento della pronuncia estensiva dopo la dichiarazione del fallimento sociale urta dunque, non solo l'esigenza di perequare la posizione del socio rispetto a quella dell'imprenditore individuale, non solo l'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche, ma anche l'esigenza di garantire ai creditori un accesso certo ed efficiente alla tutela giudiziaria, nonche' a tutti i cittadini una buona amministrazione della giustizia. Queste riflessioni inducono a ritenere che, se occorre stabilire un termine per l'estensione del fallimento al socio, questo andrebbe innanzi tutto fissato a decorrere dalla dichiarazione del fallimento principale ed e' il caso di sottolineare che tale profilo potrebbe assumere autonoma e concreta rilevanza nella decisione del caso di specie, laddove la pronuncia estensiva e' intervenuta entro l'anno dalla dichiarazione del fallimento sociale. Riepilogando, il problema non pare risolvibile per via interpretativa, recependo l'indicazione fornita dall'art. 10 l.f. nel contenuto precettivo dell'art. 147, sia perche', come s'e' detto, l'operazione ermeneutica sembra tecnicamente sbagliata, sia perche', in ogni caso, cio' determinerebbe altre disarmonie nel sistema non tollerabili alla luce degli artt. 3, 24 e 92 della Carta costituzionale. Infatti, il termine di un anno, che gia' di per se' appare eccessivamente ristretto nell'applicazione all'imprenditore individuale, diverrebbe ancora piu' irragionevolmente breve se applicato al meccanismo estensivo del fallimento ai soci che hanno perso la responsabilita' illimitata in epoca anteriore alla dichiarazione del fallimento principale, giacche', come s'e visto, l'accertamento dei relativi presuposti di fatto, salvi casi eccezionali, dipende dall'iniziativa del curatore e dunque non puo' che intervenire dopo l'accertamento giudiziale dell'insolvenza sociale, ossia all'esito di una fase che, di per se', ha gia' inevitabilmente consumato un lasso di tempo non trascurabile. Tale irragionevolezza, che si ravvisa in senso assoluto rispetto ai tempi normali occorrenti per addivenire con cognizione di causa alla dichiarazione per ripercussione del fallimento personale dei soci illimitatamente responsabili che hanno perso tale qualita' prima della dichiarazione del fallimento sociale, diviene ancora piu' macroscopica nel confronto tra le due situazioni che verrebbero sottoposte allo stesso termine, ossia la procedura basilare (l'accertamento dell'insolvenza sociale) e la procedura consequenziale (l'accertamento dei presupposti per l'estensione ai soci) nonostante la seconda possa essere realisticamente condotta solo in progressione. Una disciplina unitaria e indifferenziata dei due fenomeni sarebbe dunque manifestamente incongrua. Inoltre, la brevita' del termine di un anno impedisce l'accesso dei creditori ad una efficace e realistica tutela concorsuale delle proprie legittime pretese nei confronti dei soci illimitatamente responsabili che hanno perso tale qualita' in epoca anteriore alla dichiarazione del fallimento sociale e ostacola il buon andamento dell'amministrazione della giustizia stimolando la giustapposizione di una pluralita' di azioni esecutive individuali contro i soci parallelamente allo svolgimento della procedura concorsuale relativa alla societa'. Pertanto, preso atto delle indicazioni provenienti dalla sentenza n. 66/1999 della Corte costituzionale, nell'impossibilita' di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalita' dell'art. 147 l.f. rilevati rispetto all'ipotesi del socio illimitatamente responsabile che abbia perso tale qualita' non resta che rimettere la questione alla stessa Corte costituzionale per le determinazioni di competenza.