ha pronunciato la seguente


                              Ordinanza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2,
del  codice  di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 23
marzo 2000 dal Tribunale di Locri nel procedimento penale a carico di
Ielo Carmelo ed altri, iscritta al n. 414 del registro ordinanze 2000
e  pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima
serie speciale, dell'anno 2000.
    Udito  nella  camera di consiglio dell'11 ottobre 2000 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che  il  Tribunale di Locri, con ordinanza emessa il 23
marzo  2000,  nel  corso  dell'udienza  dibattimentale di un processo
penale,   ha   sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 513,  comma  2,  cod.  proc.  pen.,  nel testo risultante a
seguito della sentenza di questa Corte n. 361 del 1998, per contrasto
con  l'art. 111 della Costituzione, come modificato dall'art. 1 della
legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2;
        che  il  rimettente premette, in punto di fatto, che, in sede
di  esame  dibattimentale  di  persona  imputata  in  un procedimento
connesso  ex  art. 210  cod.  proc.  pen., questa aveva dichiarato di
volersi avvalere della facolta' di non rispondere;
        che,  in  mancanza dell'accordo delle parti sulla lettura dei
verbali  delle  dichiarazioni  rese  da detta persona nel corso delle
indagini   preliminari,   il  pubblico  ministero  aveva  chiesto  di
contestare   alla   stessa   il   loro   contenuto  onde  consentirne
l'acquisizione  al  fascicolo  per  il  dibattimento,  secondo quanto
stabilito dalla norma denunciata;
        che,   riguardo   alla   non   manifesta  infondatezza  della
questione,  il  giudice a quo ripercorre preliminarmente l'articolato
iter  storico  della disciplina dettata dalla disposizione impugnata,
in  ordine  all'utilizzabilita'  delle  dichiarazioni precedentemente
rese  dalle  persone  indicate  nell'art. 210  cod. proc. pen. che si
avvalgano della facolta' di non rispondere;
        che  il  rimettente  ricorda,  in particolare, come - dopo le
sentenze  di  questa  Corte  n. 254  del  1992  e  n. 60  del  1995 e
l'intervento  del  legislatore  ordinario  con  legge  7 agosto 1997,
n. 267  -  la Corte si fosse nuovamente pronunciata, dichiarando, con
sentenza   n. 361   del  1998,  l'illegittimita'  costituzionale  del
novellato  art. 513,  comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen., nella
parte  in  cui non prevedeva che, qualora il dichiarante rifiutasse o
comunque  omettesse  in  tutto  o  in  parte  di  rispondere su fatti
concernenti  la  responsabilita'  di  altri  gia'  oggetto  delle sue
precedenti  dichiarazioni, si applicasse l'art. 500, commi 2-bis e 4,
cod. proc. pen., in tema di contestazioni nell'esame testimoniale;
        che  tale  quadro  normativo risulta, peraltro, profondamente
inciso  dalla  recente  legge  costituzionale n. 2 del 1999, volta ad
inserire  nella  Carta fondamentale i principi del "giusto processo",
la   quale,   modificando   l'art. 111   della  Costituzione,  ha  in
particolare  stabilito,  da  un  lato,  che  "il  processo  penale e'
regolato  dal  principio  del  contraddittorio nella formazione della
prova",  e,  dall'altro,  che "la colpevolezza dell'imputato non puo'
essere  provata  sulla  base di dichiarazioni rese da chi, per libera
scelta,  si e' sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da
parte   dell'imputato  o  del  suo  difensore"  (nuovo  quarto  comma
dell'art. 111 della Costituzione);
        che,   inoltre,   il  decreto-legge  7  gennaio  2000,  n. 2,
convertito,  con modificazioni, dalla legge 25 febbraio 2000, n. 35 -
emanato  in attuazione dell'art. 2 della citata legge costituzionale,
che   demandava   alla   legge   ordinaria  il  compito  di  regolare
l'applicazione  dei  nuovi  principi nei procedimenti penali in corso
alla  sua entrata in vigore - ha sancito l'immediata operativita' dei
principi  stessi  in  tali  procedimenti,  fatte  salve alcune regole
speciali,  relative  segnatamente  alla  valutazione  a fini di prova
delle  dichiarazioni gia' acquisite al fascicolo per il dibattimento:
ipotesi,  questa,  che  peraltro  non ricorre nel giudizio a quo pure
gia'  in corso alla data di entrata in vigore della legge di modifica
costituzionale;
        che,  pertanto,  la norma processuale dell'art. 513, comma 2,
cod. proc. pen. - rimasta immutata e tuttora in vigore, in quanto non
"compresa"   nella   ricordata   disciplina  transitoria  -  dovrebbe
misurarsi,   anche   nel  giudizio  a  quo  con  il  nuovo  parametro
costituzionale, al quale non risulterebbe in effetti allineata;
        che,  infatti, il meccanismo delle contestazioni - introdotto
dalla  sentenza  della  Corte  n. 361 del 1998, integrativa del testo
della   disposizione   denunciata  -  consentendo  l'acquisizione  al
fascicolo  per il dibattimento e la conseguente utilizzabilita' delle
dichiarazioni  precedentemente  rese da persone che abbiano rifiutato
di   sottoporsi   all'esame  dibattimentale,  vulnererebbe  tanto  il
principio del contraddittorio nella formazione della prova, quanto il
divieto di fondare l'affermazione della colpevolezza dell'imputato su
dichiarazioni   rese   da  chi,  per  libera  scelta,  si  e'  sempre
volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o
del suo difensore;
        che,  peraltro,  onde  rimuovere  la norma dall'ordinamento -
sottolinea   conclusivamente   il  giudice  a  quo  -  si  renderebbe
necessario  sollevare l'incidente di costituzionalita', giacche', per
principio   generale,   la   legge  costituzionale  sopravvenuta  non
abrogherebbe,  travolgendole  automaticamente, le leggi ordinarie che
risultino in contrasto con essa, potendo la loro ablazione aver luogo
solo  in  esito  allo scrutinio di costituzionalita' davanti a questa
Corte;
        che  il  rimettente  osserva,  infine, in punto di rilevanza,
come  l'accoglimento della questione eviterebbe ad esso giudice a quo
di "prendere in considerazione" la richiesta del pubblico ministero e
di  valutare,  quindi, se le dichiarazioni di che trattasi, acquisite
mediante il meccanismo delle contestazioni, siano utili ai fini della
prova della responsabilita' dell'imputato;
        che nel giudizio dinanzi alla Corte non si sono costituite le
parti  private,  ne'  e'  intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri.
    Considerato che il Tribunale rimettente dubita della legittimita'
costituzionale  della  norma  contenuta  nell'art. 513, comma 2, cod.
proc.  pen.,  quale  risulta a seguito della sentenza di questa Corte
n. 361  del  1998,  per  contrasto  con il quarto comma dell'art. 111
della Costituzione, introdotto dalla legge costituzionale 23 novembre
1999,  n. 2,  il  quale,  nella cornice del piu' generale inserimento
nella  Carta  fondamentale dei principi compendiati nella espressione
del   "giusto   processo",  li  articola  specificamente  nell'ambito
processuale   penale,   restando  peraltro  affidato  al  legislatore
ordinario  il  compito - ad esso proprio - di definire l'architettura
degli istituti processuali e di calibrarne dinamica e struttura;
        che  il  rimettente,  nel sollevare la questione, muove dalla
premessa  della perdurante vigenza della norma denunciata e della sua
applicabilita'  nel  giudizio a quo: assumendo, per un verso, che "la
legge  costituzionale sopravvenuta ... non abroga, facendole decadere
automaticamente,  le norme processuali ordinarie che le si pongono in
contrasto",  cosi'  da  rendere  necessario,  quale unico rimedio, il
sindacato di costituzionalita' demandato a questa Corte; e ritenendo,
sotto  altro  profilo,  che l'impugnato art. 513, comma 2, cod. proc.
pen. non  sarebbe intaccato neppure dal decreto-legge 7 gennaio 2000,
n. 2,  convertito,  con  modificazioni, dalla legge 25 febbraio 2000,
n. 35  -  volto  ad introdurre la disciplina intertemporale dei nuovi
principi  rispetto  ai  procedimenti  penali  in  corso  alla data di
entrata  in  vigore della legge costituzionale n. 2 del 1999, secondo
quanto  specificamente  previsto  dall'art. 2 della legge stessa - in
quanto "non compreso" nella relativa disciplina;
        che,  proprio  nella  prospettazione  del giudice rimettente,
sotto  questo  secondo  profilo,  la  motivazione  dell'ordinanza  di
rimessione  appare  peraltro  manchevole:  il  giudice  a  quo  si e'
limitato,   infatti,   nella   sostanza,   ad   escludere  l'avvenuta
caducazione espressa della norma censurata ad opera di altra fonte di
omologo  rango,  prendendo  in  esame solo il comma 2 dell'art. 1 del
d.l.  n. 2 del 2000; mentre ha omesso qualsiasi valutazione in ordine
alla possibile abrogazione della norma stessa - almeno in riferimento
ai  procedimenti  in  corso,  quale  quello di cui e' investito - per
incompatibilita'  con  il disposto del comma 1 dell'art. 1 del citato
decreto-legge,  come  modificato  in  sede  di conversione, che rende
immediatamente  applicabili  in detti procedimenti "i principi di cui
all'art. 111  della  Costituzione",  fatte  salve le disposizioni dei
successivi commi (disposizioni che non assumono rilievo nella specie,
secondo quanto lo stesso rimettente puntualizza);
        che, in tal modo, il problema della perdurante applicabilita'
della norma denunciata con riguardo ai processi in corso problema che
nasce  a  seguito  della successiva disciplina della stessa materia -
viene  a  porsi non gia' sul piano dei rapporti tra legge ordinaria e
legge  costituzionale  posteriore  -  aspetto,  quest'ultimo,  che e'
l'unico  ad  essere  stato  delibato  dal  giudice a quo - bensi' sul
versante della successione fra norme dello stesso rango, fenomeno che
resta   senz'altro   regolato   dai   principi   generali   stabiliti
dall'art. 15 delle preleggi;
        che  l'esigenza  di  verifica, da parte del rimettente, circa
l'effettiva  applicabilita'  della norma impugnata nel giudizio a quo
tanto  piu' si impone, in quanto lo stesso rimettente ha posto a base
del quesito di costituzionalita' l'asserita incompatibilita' tra tale
norma  ed  il nuovo precetto costituzionale, poi "trasfuso", mediante
espresso richiamo, in disposizione di legge ordinaria;
        che,  di  conseguenza,  risolvendosi  l'omesso  esame di tale
aspetto  in  un  difetto di motivazione sulla rilevanza, la questione
deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87  e  9,  secondo  comma,  delle  norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.