IL PRETORE Letti gli atti del procedimento n. 651/96 r.g. pretura a carico di Datore Giansante per il reato di cui all'art. 2, primo comma, della legge 10 maggio 1976 n. 319; O s s e r v a Nel processo in questione e' stata contestata la violazione della legge n. 319 dei 1976 in relazione allo scarico di un frantoio oleario, considerato dalla legge quale scarico da insediamento produttivo, quindi soggetto agli obblighi ed alle sanzioni penali previsti per questi scarichi a tutela dall'inquinamento. Tuttavia e' nel frattempo intervenuta la legge 11 novembre 1996 n. 574, la quale, stabilendo "Nuove norme in materia di utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione e di scarichi dei frantoi oleari" prevede una particolare disciplina di favore per questi scarichi espressamente derogatoria rispetto a quella stabilita dalla legge n. 319/1976 tutti gli altri scarichi da insediamenti produttivi. Con precedente ordinanza questo pretore ritenendo non manifestamente infondato il sospetto che gli artt. 3, 8 e 10, comma 1, 2, 3 e 4, della legge 574/1996 fossero in contrasto con gli artt. 3, 9, secondo comma, 32 e 41, secondo comma della Costituzione, aveva rimesso gli atti alla Corte, la quale si e' pronunziata con l'ordinanza n. 20 del 1998 dichiarando la manifesta inammissibilita' delle questioni proposte giacche' nelle ordinanze del pretore di Pescara, che sollevano la legittimita' costituzionale dell'art. 10, commi 3 e 4 della legge n. 574/1996, manca l'esposizione del fatto che chiarisca, se ricorrono nei giudizi principali, le condizioni alle quali la legge subordina la causa di non punibilita' per le violazioni della legge n. 319/1976, commesse prima dell'entrata in vigore della legge n. 574/1996; come pure manca la motivazione sulla rilevanza della questione di legittimita' costituzionale della norma che fa salvi gli effetti prodottisi sulla base dei decreti legge decaduti. La riproposizione della questione di legittimita' costituzionale gia' sollevata, dopo che la Corte costituzionale ha chiesto al giudice a quo di riesaminare il profilo della rilevanza con riguardo alla disciplina transitoria posta dall'art. 10 della legge 574/1996 e' giustificata a parere di questo pretore sulla base delle seguenti considerazioni. L'imputato ha posto in essere condotte che, per quel che si e' ricavato dall'istruttoria dibattimentale, non sono state conformi al dettato degli artt. 1 e 2 del decreto legge 10/1987, convertito in legge 119/1987. Egli, pertanto, alla luce di quanto stabilisce l'art. 10, comma 4, della legge 574/1996, dovrebbe essere riconosciuto responsabile del reato p. e p. dall'art. 21 legge 319/1976, per aver effettuato scarichi senza autorizzazione. Ma il medesimo tipo di condotta non e' piu' assoggettato a sanzione penale dopo la promulgazione della legge 574, purche' si tratti di scarichi effettuati successivamente all'entrata in vigore di questa legge. Nel valutare la posizione dell'imputato il giudice applica dunque la norma transitoria di cui al quarto comma dell'art. 10 della legge 574. Ma certamente il giudice non puo' prescindere al contempo dalle altre norme della legge 574 ed in particolare da quelle che concernono il trattamento sanzionatorio del tipo di scarichi in esame: vale a dire il primo ed il secondo comma dello stesso art. 10 che sottraggono tali scarichi alla disciplina della legge Merli e a quella del decreto legge del 1987, e l'intero art. 8, che prevede per i medesimi scarichi sanzioni amministrative. E allora non puo' dirsi che per la definizione del processo le disposizioni depenalizzanti non assumono rilevanza, ai sensi dell'art. 23 della legge 87/1953. D'altra parte, di fronte a norme che depenalizzano una materia, la valutazione del requisito della rilevanza sembra a questo pretore poter ispirarsi a margini piu' ampi che non in altri casi. Soprattutto quando, come nel caso della legge 574/1996, viene stabilita una disciplina transitoria, che consente, in deroga all'art. 2, secondo comma, cod. pen., la sottoposizione a sanzione penale delle condotte verificatesi prima dell'entrata in vigore della legge di depenalizzazione. In questo caso, infatti, accade che il giudice penale si trova nella condizione di dover condannare taluno per un fatto che ormai non e' piu' previsto come reato. Ed e' chiaro che il giudizio sulla legittimita' costituzionale della legge di depenalizzazione riveste allora un ruolo particolarmente delicato: la successione di norme crea infatti una disparita' di trattamento molto evidente fra cittadini, che, pur realizzando la medesima condotta, si vedono soggetti, gli uni al rigore della sanzione penale, gli altri alla piu' mite sanzione amministrativa. E la disparita' e' ancora piu' stridente se, come nel caso in esame, la depenalizzazione non e' conseguenza di un mutamento del bene giuridico protetto o di un'attenuazione della sua esigenza di tutela: la salvaguardia dell'ambiente e' un valore non contingente ne' regressivo, ma anzi sempre piu' evidenziato dalle scienze naturali ed economiche, dagli stessi riconoscimenti operati dalla giurisprudenza costituzionale e dalle piu' recenti previsioni normative. Diverso puo' essere invece, ad esempio, il caso di una normativa a tutela dell'ordine pubblico, che ragionevolmente ed opportunamente puo' risentire del mutare delle condizioni politiche e sociali di una comunita' e del venir meno di situazioni di instabilita' e disordine. Un'interpretazione eccessivamente rigorosa del requisito della rilevanza sottrarrebbe, di fatto, al sindacato della Corte costituzionaie tutte le leggi che eliminano la sanzione penale per talune condotte: e tale risultato appare inaccettabile sotto piu' di un profilo. Innanzitutto, in quanto ad un elemento - la rilevanza intesa come impossibilita' di definire il giudizio indipendentemente dalla risoluzione della questione di costituzionalita' - introdotto da disposizione di legge ordinaria, qual, e' l'art. 23 della legge 87/1953 (pur se fondata sulla previsione dell'art. 1 della legge costituzionale gennaio 1948), non puo' riconoscersi un'efficacia tanto forte da decurtare, in via generale e per un'intera tipologia di atti legislativi, un'attribuzione direttamente fondata sulle norme della Costituzione, quale appunto il sindacato della Corte sulle leggi e gli atti aventi forza di legge. In secondo luogo, perche' questo risultato potrebbe condurre a situazioni aberranti: si pensi a leggi che depenalizzassero illeciti particolarmente gravi o introducessero ingiustificate diversita' di sanzione, penale e amministrativa, per una medesima condotta, che rimarrebbero al di fuori di qualunque controllo di costituzionalita'. Infine, perche' le leggi di depenalizzazione, come tutte le leggi che incidono sul giudizio di liceita' delle condotte umane e sulla relativa sanzione, interagiscono in modo diretto con i diritti di liberta' dei cittadini e con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza: appare dunque necessario, a parere dello scrivente che proprio su queste leggi il controllo che la Costituzione prevede per gli atti legislativi possa essere esercitato in modo adeguato. Questo problema e' stato del resto affrontato e risolto dalla giurisprudenza costituzionale, con specifico riguardo alle c.d. leggi penali di favore. Il principio giurisprudenziale affermato in varie pronunce, fra cui, fondamentale, la n. 148 del 1983, ripresa di recente dalla n. 25 del 1994, e' quello secondo cui "il principio costituzionale della irretroattivita' dei reati e delle pene non vale ad esonerare dal sindacato della Corte le norme penali di favore quand'anche lesive degli imperativi costituzionali di eguaglianza in materia penale". E' noto a chi scrive che per contro la Corte, pronunciando su alcune eccezioni sollevate in relazione alla disciplina di favore introdotta dalla legge 172/1995 per gli scarichi delle pubbliche fognature, le ha dichiarate manifestamente inammissibili in quanto "il fondamentale principio di stretta legalita' dei reati e delle pene preclude pronunce che configurino nuove ipotesi di reati o aggravamenti di pena" (ordinanza n. 332 del 1996), aggiungendo che "le questioni che tendono ad introdurre o reintrodurre figure di reato o aggravamenti di pena chiedono una pronuncia che esula dai poteri spettanti a questa Corte, giacche' il potere di creare fattispecie penali o di aggravare le pene e' esclusivamente riservato al legislatore, in forza del principio di stretta legalita' dei reati e delle pene sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione" (sentenza n. 330 del 1996). Ma tae argomentazione puo' essere superata nel caso di specie, poiche' non si chiede alla Corte di creare nuovi illeciti penali o di aggravare le pene, bensi' di valutare se il nuovo regime di favore creato con la legge 574 per gli scarichi dei frantoi sia complessivamente in contrasto con principi fondamentali della costituzione. E il ripristino della disciplina precedente, che continua ad applicarsi agli scarichi effettuati prima dell'entrata in vigore della legge 574, eliminerebbe proprio quella disparita' di trattamento che contrasta con art. 3 della Costituzione. Nel caso in esame l'art 10, comma 4 legge 574/1996 sostanzialmente prevede che coloro che hanno effettuato scarichi di acque di vegetazione derivanti dalla lavorazione meccanica delle olive senza richiedere l'autorizzazione sindacale prevista dalla legge 119/1987 siano puniti ai sensi della legge 319/1976 con le sanzioni penali previste dall'art. 21, primo comma, legge citata. Cio' appare conforme al principio generale che sanziona penalmente tutti gli scarichi non autorizzati derivanti da insediamenti produttivi ma appare in netto contrasto con l'attuale disciplina prevista dalla legge 574/1996. Tale ultima legge prevede, infatti, lo sversamento delle acque di vegetazione sui terreni (rectius utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione) a seguito di sola comunicazione da parte dell'interessato al Sindaco prevedendo, pero', anche per le ipotesi di scarico non comunicato preventivamente ed effettuato, in violazione dei limiti di accettabilita' e con effettivi rischi di danni ambientali, la sola sanzione amministrativa. In particolare si consente lo scarico delle acque di vegetazione e delle sanse umide, cui l'art. 1, secondo comma, estende lo stesso regime di favore, provenienti dalla lavorazione delle olive, oltre che senza autorizzazione preventiva anche senza l'osservanza dei limiti tabellari previsti dalla legge 319, pure gia' previsti dall'art. 2, secondo comma, legge 119/1987 (disposizioni urgenti in materia di scarico dei frantoi oleari), prevedendo al piu' sanzioni amministrative non superiori, nel massimo, a 5 milioni; e si precisa in proposito che "L'utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione ai sensi dell'art. 1, non e' subordinata all'osservanza da parte dell'interessato delle prescrizioni dei limiti e degli di accettabilita' previsti dalla legge n. 319/1976 e succ. modificazioni" (art. 10, primo comma). Peraltro la legge in esame era stata preceduta sin dall'aprile 1995 da una serie di decreti legge reiterati e mai convertiti i quali tendevano anch'essi a creare una disciplina di favore (anche se piu' limitata) in deroga a quella generale per gli scarichi dei frantoi. Sotto il profilo penale, la nuova legge oltre ad essere piu' favorevole, fa anche salvi gli effetti prodottisi sulla base dei citati decreti legge, prevedendo in proposito, una espressa causa di non punibilita' (art. 10, commi 3 e 4). Ne consegue che i titolari di impianti produttivi, diversi dai frantoi, sono sottoposti per i relativi scarichi alla disciplina piu' stringente e penalmente sanzionata dalla 319/1976, altrettanto avviene per i titolari di frantoi che prima della entrata in vigore della legge 574/1996, abbiano scaricato le acque reflue senza autorizzazione del Sindaco. Per contro non e' sottoposto a sanzione penale chi sversa le acque di vegetazione senza alcuna comunicazione (art. 1 legge 574/1996), dove, come e quando voglia. Sempre e solo in via amministrativa e' sanzionata dall'art. 8 l'inosservanza del limite di accettabilita' previsto dall'art. 2, primo comma, anche in caso di particolare gravita', con rischio di danno alle acque al suolo, al sottosuolo o alle altre risorse ambientali (art. 2, secondo comma), nel quale art. 8, terzo comma, prevede la sanzione amministrativa massima di lire quattro milioni laddove il superamento dei limiti di accettabilita' ambientale non puo' che essere di grave pregiudizio di un bene costituzionalmente tutelato come fondamentale. Ma la sanzione penale e' altresi' esclusa in relazione all'art. 5 anche quando acque di vegetazione e sanse umide siano sversate in zone prossime alle aree di salvaguardia delle captazione di acque destinate a consumo umano o su terreni in cui siano localizzatte falde che possono venire a contatto con le acque di percolazione del suolo o con falde a profondita' inferiore a 10 metri. Cio' nonostante che la legge 36/1994, art. 1, affermi in attuazione del dettato costituzionale il fondamentale principio che qualsiasi uso delle acque e' effettuato secondo principi di solidarieta' salvaguardando le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale. Si tratta di condotte tutte in evidente violazione dei diritti fondamentali all'ambiente e alla salute nella piu' classica ed ormai tradizionale delle accezioni e che, tuttavia, il legislatore con la legge 574/1996 depenalizza in deroga a principi penali in virtu' dei quali le stesse condotte sarebbero da inquadrare in fattispecie previste dallo stesso codice penale oltre che dalla disciplina speciale di settore sulle acque. Il principio di specialita' e di prevalenza della sanzione amministrativa escluderebbe, infatti, anche l'applicazione di altre ipotesi di reato salvo la previsione dell'art. 4, primo comma, legge cit. limitatamente alle ipotesi ivi previste e piu' restrittive rispetto alle fattispecie di cui agli artt. 2 e 5. A parere di questo pretore sussistono, pero', profili di incostituzionalita' che inducono questo, giudice a prospettare la questione alla Corte costituzionale. In primo luogo, infatti, non sembra infondato ritenere che sia stato violato il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. La Corte costituzionale ha costantemente affermato che il rispetto dell'art. 3 consente al, legislatore di emanare norme differenziate riguardo a situazioni obiettivamente diverse solo a condizione che tali norme rispondano alla esigenza che la disparita' di trattamento sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne giustifichino l'adozione (cfr. per tutte la sentenza n. 3 del 1963). Per cui la Corte ha dichiarato illegittime norme che prevedevano un trattamento sanzionatorio irrazionalmente differenziato rispetto a quello previsto da altre fattispecie, ovvero, con una decisione recente proprio relativo all'art. 21 della legge Merli (ove si fa' espresso riferimento anche al complesso della normativa ambientale) eliminando il divieto di applicazione di sanzioni sostitutive (sentenza n. 254 del 20-23 giugno 1994). In questa sentenza la Corte ricorda che si viola il principio di eguaglianza qualora con leggi successive si dia vita ad un "sistema normativo assolutamente squilibrato". Ed anzi, proprio a proposito del principio di eguaglianza in questo delicato settore la Corte, come rilevato da recente dottrina, ha anche precisato che si tratta di un modello "dinamico" il quale, in presenza di una diversa disciplina giuridica di situazioni omogenee, dovrebbe indurre l'interprete ad interrogarsi sul "perche' una determinata disciplina operi, all'interno del tessuto egualitario dell'ordinamento, quella specifica distinzione" ed a "trarne le debite conseguenze in punto di corretto uso del potere normativo" (sent. n. 89 del 28 marzo 1996); dichiarando, in tema di sanzioni, la "arbitrarieta' delle statuizioni non uniformi" per "contrasto con i principi di ragionevolezza e di razionalita' della legislazione, desumibili dall'art. 3 della Costituzione" (sent. n. 52 del 21 febbraio 1996). Esattamente quello che ha fatto il legislatore con la nuova legge. Infatti con essa si e' introdotta, senza alcuna ragionevole giustificazione, un evidente disparita' di trattamento, sia come obblighi che come sanzione, tra scarichi da insediamenti produttivi; tanto piu' che, trattandosi di norme contro l'inquinamento, l'unico presupposto che dovrebbe giustificare un trattamento di favore per gli scarichi dei frantoi dovrebbe riguardare la loro minore pericolosita' per l'ambiente e non il tipo di attivita'. Mentre e' vero il contrario, come si evince anche da tutta la normativa tecnica elaborata per il trattamento delle acque di vegetazione (vedi tra gli altri d.m. 24 luglio 1987, n. 397). In altri termini appare del tutto evidente che se lo scopo del legislatore e' di evitare lo scarico nell'ambiente di sostanze con parametri che superino determinati limiti di accettabilita', e' del tutto irrilevante, ai fini eventuali "ragionevoli" esclusioni, la provenienza ed il tipo di attivita' svolta. Del resto appare del tutto evidente che se il legislatore ritenesse che gli scarichi dei frantoi sono da ritenersi innocui, in quanto non superano i limiti tabellari, non ci sarebbe stata alcuna necessita', (dopo avere stabilito l'obbligo del rispetto dei limiti di cui alla tabella A della legge 319/1976 entro due anni dall'entrata in vigore della legge n. 119/1997), di escludere oggi con la legge n. 574/1996 il rispetto degli obblighi della legge 319. Per altro, la nuova legge configura una evidente disparita' di trattamento rispetto anche al sistema complessivo della normativa di tutela ambientale (cfr ad es. il d.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 sull'inquinamento atmosferico da industria) ed in particolare di altre leggi che si occupano, come la Merli, di inquinamento delle acque (quale 27 gennaio 1992 n. 133 sugli scarichi di sostanze pericolose), le quali prevedono tutte sanzioni penali (e non amministrative) per fatti di inquinamento o per violazioni delle prescrizioni dell'autorizzazione commessi da titolari di insediamenti produttivi. Ne va sottaciuto che le stesse direttive della legge n. 146/94 e successive proroghe, nell'indicare i criteri generali ai quali il legislatore deve attenersi nell'emanazione delle norme di recepimento delle direttive CEE sottolinea all'art. 2 lett. D la necessita' di utilizzare sanzioni penali per infrazioni che ledano o espongono a pericolo interessi generali dell'ordinamento del tipo di quelli tutelati dagli artt. 34 e 35 della legge 689/1981 fra i quali appunto la normativa a tutela delle acque. (legge n. 319/1976). E' da sottolineare ancora in proposito come il piu' recente orientamento della giurisprudenza (Cass. Pen. III n. 5533/97) abbia rilevato che nelle contravvenzioni in tema ambientale indipendentemente dalla natura formale ricorre comunque l'aspetto sostanziale della messa in pericolo o lesioni del bene ambientale (fattispecie relativa proprio all'ipotesi di scarico sprovvisto di autorizzazione l'art. 21, comma 1, legge 319/1976). Ma il nuovo testo appare in contrasto anche con l'art. 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute. Se infatti secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, l'art 32 stabilisce il diritto ad un ambiente salubre per cui "l'amministrazione non ha il potere di rendere l'ambiente insalubre neppure in vista di motivi di interesse pubblico di particolare rilevanza" (Cass. 6 ottobre 1979 n. 5172) appare evidente il contrasto con questo diritto di una normativa la quale elimina per i soli titolari di scarico di frantoi oleari gli obblighi e le sanzioni penali previste dalla legge n. 319 per violazioni che danneggino l'ambiente. Altrettanto evidente appare il contrasto della citata legge 575/1996 con l'art. 9, secondo comma della Costituzione laddove per insegnamento della Corte costituzionale l'ambiente e' diritto fondamentale insuscettivo di essere subordinato a qualunque altro, mentre in questo caso, evidenti ragioni di carattere economico conducono non solo a prevedere diverse procedure amministrative di autorizzazione o di semplice comunicazione ma giungono comunque a depenalizzare le relative violazioni privando di effettiva tutela penale un bene ed un diritto fondamentale. Cio' fa sorgere anche perplessita' sul possibile contrasto con l'art. 41, secondo comma della Costituzione che vieta iniziative economiche private "in contrasto con l'utilita' sociale". Del resto, richiamando alcune considerazioni gia' accennate, e' pacifico per la Corte, che l'esercizio della discrezionalita' del Legislatore in tema di sanzioni "puo' essere censurato quando esso non rispetti il limite della ragionevolezza e dia luogo ad una disparita' di trattamento palesemente irrazionale ed ingiustificata" (sentenza n. 25 del 26 gennaio 1984); e che spetta alla Corte verificare, caso per caso, se una data misura sanzionatoria sia o meno proporzionata (sent. n. 110 del 12 aprile 1996). Considerato che per le argomentazioni sopra esposte vi sono validi motivi per ritenere non manifestamente infondato il sospetto che gli artt. 3, e 8, in relazione all'art. 10 commi 1, 3, e 4 della legge 11 novembre 1996 n. 574 siano in contrasto con gli artt. 3, 9 secondo comma, 32, 41 secondo comma della Costituzione e che ove le predette norme fossero dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale si applicherebbero la disciplina e le sanzioni della legge n. 319/1976 che altrimenti dovrebbe applicarsi solo per le violazioni pregresse di cui in imputazione.