IL TRIBUNALE

    Sciogliendo  la  riserva  assunta all'udienza del 14 aprile 2000;
  letti gli atti;

                          Ritenuto in fatto

    Che  con  sentenza del 29 maggio 1997 questo tribunale dichiarava
  il  fallimento  della  Edilmaria  S.r.l.,  nominato  questo giudice
  delegato alla procedura;
    Che  lo  stato  passivo  del fallimento era formato, depositato e
  reso  esecutivo  da  questo  giudice-persona fisica, nella predetta
  qualita';
    Che  con  ricorso  ex art. 98 legge fallimentare depositato il 10
  aprile  1999 Colarossi Nicolina, Spirito Benedetto e Spirito Franco
  proponevano  opposizione,  dolendosi  della  mancata ammissione del
  credito da essi tempestivamente fatto valere, e disatteso, pari:
        a) a  L.  190.000.000  quale  somma dei corrispettivi di n. 2
  atti di vendita immobiliare posti in essere a favore della societa'
  poi  fallita  il  18  settembre  1990 ed il 10 dicembre 1992, della
  quale  era  dedotto  il  mancato percepimento malgrado le contrarie
  dichiarazioni  contenute  nelle rispettive scritture di vendita (di
  averli gia' riscossi all'atto della stipula);
        b) a   L.   1.303.795.100   che   deducevano   aver   versato
  all'amministratore  della  societa' poi fallita, perche' fossero in
  essa  conferita  quale  finanziamento soci in conto capitale, e che
  erano state invece personalmente incamerate dal Franceschini;
        c) L.   375.000.000,  che  deducevano  di  aver  detenuto  in
  libretti  bancari  vincolati  sui  quali,  a richiesta del medesimo
  amministratore,  avevano  costituito  un pegno a garanzia di debiti
  della societa', che era poi stato escusso dai creditori;

    Che   la   curatela   del   fallimento   Edil  Maria  S.r.l.,  su
  autorizzazione  di  questo  medesimo  giudice-persona  fisica nella
  medesima  qualita'  di  cui  sopra,  si  e'  costituita in giudizio
  resistendo all'avversa pretesa;
    Che  la  causa  e'  stata  assunta a riserva per le deliberazioni
  sulle richieste istruttorie, che si compendiano in una richiesta di
  prova testimoniale avanzata dagli opponenti, ed intesa a dimostrare
  per tal mezzo i fatti come sopra descritti;
                         Ritenuto in diritto
    Che  la  Corte costituzionale, con sentenza n. 387 del 15 ottobre
  1999,   ha   dichiarato  non  fondata,  ma  nei  sensi  di  cui  in
  motivazione,  la questione di legittimita' costituzionale dell'art.
  51,  n. 4,  secondo  comma,  c.p.c., nella parte in cui non prevede
  incompatibilita'  tra le funzioni del giudice che pronuncia decreto
  di  repressione  della  condotta  antisindacale  ex  art. 28, legge
  n. 300/1970, e quelle del giudice dell'opposizione a tale decreto;
    Che in particolare, il Giudice delle leggi, premesso che:
        il principio di imparzialita-terzieta' della giurisdizione ha
  pieno valore costituzionale in ogni tipo di processo;
        che  questo  non  significa  che  detto  valore  debba essere
  preservato  allo stesso modo in ogni tipo di processo, e che quindi
  possano  estendersi  al giudizio civile le regole costituzionali in
  materia  di  c.d.  "prevenzione"  formulate  dalla  stessa Corte in
  materia  di processo penale "dovendosi ancora una volta ribadire la
  netta  distinzione  fra  processo  civile e processo penale: per la
  diversa posizione e i differenti poteri di impulso delle parti";
        che  "le  (peraltro) insopprimibili esigenze di imparzialita'
  del  giudice  sono  risolvibili  nel  processo  civile - per le sue
  caratteristiche  -  attraverso gli istituti dell'astensione e della
  ricusazione ...";
        che     peraltro    "sul    piano    generale,    presupposto
  imprescindibile,  rispetto  ad  ogni  tipo  di  processo, e' (solo)
  quello  di  evitare  che  lo  stesso giudice, nel decidere, abbia a
  ripercorrere  l'identico itinerario logico precedentemente seguito;
  sicche',     condizione     necessaria     per    dover    ritenere
  un'incompatibilita'   endoprocessuale   e'   la   preesistenza   di
  valutazioni che cadano sulla stessa reiudicanda";
        che  "nel  processo civile, la previsione contenuta nell'art.
  51,  n. 4,  c.p.c.,  secondo  la  quale  il giudice ha l'obbligo di
  astenersi  se  ha conosciuto (della causa) come magistrato in altro
  grado  del  processo,  trova  fondamento  nell'esigenza  stessa  di
  garanzia  che  sta  alla  base  del  concetto  di  revisio  prioris
  istantiae, che postula l'alterita' del giudice dell'impugnazione";
        che  "la  fattispecie  (di cui all'art. 28 s.d.-l.) rientrava
  all'evidenza   nell'ambito  della  previsione  dell'art. 51,  n. 4,
  c.p.c.,   avuto   riguardo   anche   alla   considerazione  che  il
  provvedimento  ... aveva una funzione decisoria idonea di per se' a
  realizzare  un  assetto  dei  rapporti  tra le parti, non meramente
  incidentale  o  strumentale  e  provvisorio ovvero interinale (fino
  alla decisione di merito), ma anzi suscettibile, in caso di mancata
  opposizione,  di  assumere  valore  di  pronuncia  definitiva,  con
  effetti di giudicato tra le parti";

    Che  "Tale  espressione (magistrato in altro grado del processo),
  deve,  infatti,  intendersi  alla luce dei principi che si ricavano
  dalla  Costituzione  relativi  al giusti processo, come espressione
  necessaria  del  diritto  ad  una  tutela  giurisdizionale mediante
  azione  (art.  24  Cost.),  avanti  ad  un  giudice con le garanzie
  proprie    della    giurisdizione,   cioe'   con   la   connaturale
  imparzialita',  senza  la  quale  non  avrebbe  significato  ne' la
  soggezione  dei  giudici  solo  alla legge (art. 101 Cost.), ne' la
  stessa autonomia della magistratura (art. 104, primo comma, Cost.";
    Che  "in  altri  termini,  l'espressione  "altro grado , non puo'
  avere  un  ambito  ristretto  al  solo  diverso grado del processo,
  secondo   l'ordine   degli   uffici   giudiziari,   come   previsto
  dall'ordinamento   giudiziario,   ma   deve   ricomprendere  -  con
  un'interpretazione  conforme alla Costituzione - anche la fase che,
  in  un  processo  civile,  si  succede  con carattere di autonomia,
  avente  contenuto impugnatorio, caratterizzata (per la peculiarita'
  del  giudizio  di  opposizione  di cui si discute) da pronuncia che
  attiene al medesimo oggetto e alla stesse valutazioni decisorie sul
  merito dell'azione proposta nella prima fase, ancorche' avanti allo
  stesso organo giudiziario";
    Ritenuto  che,  come immediatamente rilevato dalla dottrina, tali
  principi  si  attagliano  fedelmente  ai  rapporti  tra  decreto di
  approvazione  ed  esecutivita' dello stato passivo nel fallimento e
  giudizio di opposizione allo stesso ex art. 98, legge fallimentare,
  atteso che:
        a) e'  opinione  comune  e  condivisa  dal  giudicante che il
  decreto   di   cui  all'art.  97,  legge  fallimentare,  ha  natura
  giurisdizionale  e  contenuto  decisorio riguardo all'esistenza del
  credito,  alla  sua  opponibilita'  alla  massa  dei  creditori nel
  fallimento  ed  alla  sua  collocazione  agli effetti del concorso,
  tanto  che,  in  caso  di mancata opposizione, gli si riconosce, in
  detti  limiti  (c.d.  infrafallimentari)  efficacia  del  giudicato
  formale  e  sostanziale  (ex pluris, Cass. nn. 9220/1995, 404/1993,
  3903/1988): esso non ha dunque valore provvisorio, ne' strumentale,
  ne' interinale, ne' cautelare;
        b) e'  del pari opinione comune e da questo giudice condivisa
  che   il   giudizio   di  opposizione  di  cui  all'art. 98,  legge
  fallimentare,  oltre  ad  essere  meramente  eventuale,  ha  natura
  impugnatoria  (Cass.  n. 845/1993), ed il suo oggetto coincide, nei
  limiti  del  devolutum  (come  in tutti i giudizi impugnatori tra i
  quali,  per primo, l'appello), con quello individuato dalla domanda
  di insinuazione al passivo;
        c) nella  specie, ed in concreto, questo giudice e' chiamato,
  quale  giudice  istruttore,  non  solo ad istruire personalmente la
  causa,  ma  a  partecipare  alla  decisione  della  stessa  in modo
  virtualmente attributivo in suo favore della posizione di relatore,
  malgrado   il   giudizio  in  questione  lo  chiami  a  riesaminare
  valutazioni gia' compiute sulla stessa reiudicanda nel merito, come
  risulta  dalla  motivazione  della reiezione riportata dal curatore
  nella comunicazione di deposito dello stato passivo, nella quale si
  nega  l'esistenza,  in  capo  alla societa', dei debiti rivendicati
  dagli odierni opponenti;

    Ritenuto che, come e' comune opinione, le sentenze interpretative
  di  rigetto  additano,  seppur  indirettamente,  di  illegittimita'
  costituzionale  l'interpretazione della norma censurata offerta dal
  giudice  remittente;  e  che  quindi  non  sia  piu' possibile oggi
  interpretare    l'art.    51,   n. 4,   c.p.c.,   nel   senso   che
  l'incompatibilita'  da  esso  prevista  investa solo i rapporti tra
  diversi gradi orinamental-funzionali del giudizio;
    Ritenuto  che,  per  converso,  e  come  e'  di  comune opinione,
  l'interpretazione  costituzionalmente conforme indicata dal giudice
  delle  leggi non vincola il giudice del merito; ma che pur tuttavia
  non  si  vede  come  la  disposizione  in  questione  possa  essere
  altrimenti  interpretata, se non nel senso che il giudice che abbia
  partecipato   ad   una  fase  decisoria  del  giudizio,  non  possa
  partecipare  a successiva fase decisoria dello stesso giudizio, che
  rivesta,  rispetto alla prima, carattere eventuale ed impugnatorio;
  vieppiu'  quando  egli  sia chiamato a ripensare, nell'ambito della
  medesima  reiudicanda,  valutazioni  gia' esperite nella precedente
  fase del giudizio;
    Ritenuto,  quindi,  che  questo  giudice  dovrebbe,  in  linea di
  massima, chiedere di essere autorizzato ad astenersi;
    Ritenuto,  tuttavia,  che  cio'  non  sia  possibile  nel caso di
  specie, perche' e' qui la stessa legge che, per un caso speciale ma
  astratto  (artt.  98  e  99  L.fall.)  indica  proprio  nel giudice
  delegato  al  fallimento  (nominato  nella sentenza dichiarativa di
  fallimento  ai  sensi  dell'art.  16, comma 2, n. 1 l. fall. e come
  tale  funzionalmente  destinato  a  formare  e rendere esecutivo lo
  stato  passivo  del  fallimento  ai sensi degli artt. 95 e segg. l.
  fall.) il giudice funzionalmente destinato a ricevere il ricorso in
  opposizione,   ad  istruirlo,  ed  anche  a  partecipare  alla  sua
  decisione (art. 25 n. 1 l. fall.) in posizione di relatore;
    Ritenuto,  pertanto,  che  alla  stregua  dei  principi da ultimo
  enunciati  dalla  stessa Corte costituzionale, gli artt. 98 e 99 l.
  fall,   non   possano  sottrarsi,  nella  parte  in  cui  devolvono
  funzionalmente  al  giudice delegato al fallimento il potere-dovere
  di  ricevere  ed  istruire  (nonche'  di  concorrere a decidere) le
  opposizioni  allo stato passivo del fallimento ex art. 98 l. fall.,
  a  rinnovati  dubbi  di legittimita' costituzionale con riferimento
  agli artt.:
        3  della  Costituzione,  per  l'ingiustificata  disparita' di
  trattamento  che  si determina, in un caso che si ritiene ricadente
  nella  previsione  di  cui  all'art.  51,  n. 4,  c.p.c.,  tra  gli
  opponenti  allo  stato passivo, che si trovano a dover coltivare le
  proprie  pretese  civili,  in un giudizio funzionalmente retto, nel
  suo  svolgimento  (salve  alcune  particolarita'  indifferenti alla
  questione  dell'imparzialita' e terzieta' del giudice), dal normale
  rito  contenzioso  ordinario,  di  fronte  ad  un  giudice che tali
  pretese  ha  gia'  disattese in un provvedimento giurisdizionale di
  natura  decisoria  ed idoneo alla regiudicata; e la generalita' dei
  consociati, che quello stesso giudice avrebbero diritto a ricusare,
  o a vedere astenersi;
        24  della  Costituzione,  perche' la necessita' legale che il
  giudizio  si  svolga  dinanzi  ad  un  giudice privo delle garanzie
  oggettive    di   terzieta'   ed   imparzialita'   gia'   giudicate
  "imprescindibili"  dal  Giudice  delle  leggi (giudice che peraltro
  dirige l'attivita' della controparte sostanziale: art. 25, comma 1,
  l.  fall.;  l'autorizza  a  stare  in giudizio: art. 25, comma 6; e
  sorveglia  l'attivita'  del  suo difensore: art. 25 n. 7) menoma il
  diritto di difesa dell'opponente;
        101,  della  Costituzione,  perche' la menomata condizione di
  terzieta-imparzialita'  del giudice, che abbia gia' conosciuto, nei
  piu'  volte  segnalati  termini,  della  stessa  causa ancora a lui
  devoluta,   incrina,   sottoponendolo   alle   sue   gia'  compiute
  valutazioni   decisorie   sulla   medesima   regiudicanda,  la  sua
  soggezione alla sola legge;
        104,  comma  1,  della  Costituzione, perche' la sovraesposta
  condizione  normativa  incrina  l'autonomia  e l'indipendenza della
  finzione giurisdizionale;
        art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che
  afferma ormai espressamente il valore e la rilevanza costituzionale
  "in  ogni  processo"  (e quindi anche in quello civile ed in quello
  fallimentare)  del  principio  della terzieta' ed imparzialita' del
  giudice;
    Rappresentato  che  e'  noto  che  la  questione  che  oggi viene
  riproposta  all'esame  del Giudice delle leggi, o questioni ad essa
  analoghe,  sono  state  ripetutamente  gia'  disattese dalla Corte,
  anche  di  recente  (sent.  18 novembre 1970 n.158; sent. 29 aprile
  1975 n.94; ord. 18 luglio 1998 n. 304);
    Ritenuto,   peraltro,   che   dall'ultima  pronuncia,  il  valore
  costituzionale  della  terzieta' ed imparzialita' del giudice abbia
  ricevuto promozione ed ulteriore valorizzazione sia dal Legislatore
  costituzionale  (che  significativamente  ha ritenuto di enunciarlo
  espressamente novellando l'art. 111 della Costituzione, malgrado il
  principio fosse gia' acquisito nella "costituzione vivente" e nella
  stessa giurisprudenza della Corte costituzionale); sia dalla citata
  sentenza  n. 387/1999,  la  quale,  a ben vedere, nell'escludere la
  conformita'   al   canone  costituzionale  di  una  interpretazione
  restrittiva   dell'art.   51,   n. 4  c.p.c.  (mirante  a  limitare
  l'incompatibilita'  del  giudice dell'impugnazione ai soli rapporti
  tra  gradi ordinamentali del giudizio), appare aver introdotto, nel
  quadro di una mutata ed accresciuta sensibilita' rispetto al valore
  costituzionale  che  qui  si assume leso, un deciso superamento del
  primo  argomento  che fu portato dalla stessa Corte, nella sentenza
  n. 158/1970, (che ha indubbiamente svolto in materia la funzione di
  sentenza-stipite)  che  ebbe,  infatti, in primo luogo ad affermare
  che  l'art.  51,  n. 4, c.p.c. non si applicava al caso del riesame
  della pronuncia pur decisoria resa in altra fase dello stesso grado
  del giudizio;
    Ritenuto   che   nella  segnalata,  incoraggiata  ottica  di  una
  interpretazione  piu' rigorosa del canone costituzionale, anche gli
  altri  argomenti  portati  a  difesa  degli  art.  98 e 99 l. fall.
  mostrino  "il  segno  dei tempi", o comunque meritino una rinnovata
  meditazione; ed invero:
        a)la  regola,  che  impregna  di  se'  l'intero  procedimento
  fallimentare, di concentrazione dei suoi "momenti", giurisdizionali
  e  non,  presso  gli  organi  della procedura, non appare implicare
  imprescindibilmente   (ne'   a  rischio  della  tenuta  dell'intero
  impianto  della  legge fallimentare) che il giudizio di opposizione
  allo stato passivo debba essere "ricevuto", istruito e codeciso dal
  giudice   delegato  al  fallimento,  posto  che  il  giudice  della
  decisione   sull'opposizione,   ed   in   genere  il  "giudice  del
  fallimento"   e'  il  tribunale  fallimentare  in  senso  puramente
  funzionale,  ordinamentale e logistico (e cioe' il tribunale-organo
  giurisdizionale   che   ha  dichiarato  il  fallimento)  sulla  cui
  composizione  in  senso  personale  nulla,  se si prescinde proprio
  dagli  artt.  98 e 99 l. fall., e' prescritto dalla legge (salva la
  collegialita),  e  dei  cui  collegi, nei limiti delle disposizioni
  relative  all'ordinamento  interno,  puo'  far  parte chiunque. Nel
  giudizio ex artt. 98 e segg. l. fall. il giudice delegato assume le
  vesti  di  un  puro  e  semplice giudice istruttore individuato per
  legge   invece   che   attraverso   il   normale  meccanismo  della
  designazione  (art.  168-bis  c.p.c.),  che  non  si  ha  motivo di
  dubitare  subentrerebbe  automaticamente  in  caso  di accoglimento
  della    questione,    a    scongiurare    lacune   di   sorta,   e
  l'irrisolvibilita'    della    questione    senza   un   intervento
  discrezionale del legislatore.
        b)  nulla, ad avviso del giudicante, al di la' di discutibili
  suggestioni traibili proprio ed esclusivamente dall'attribuzione di
  competenza  funzionale contestata, consente, negli articoli 98 e 99
  L.Fall.,  di  ritenere  attribuiti  al  giudice delegato-istruttore
  poteri  diversi  da quelli spettanti a qualunque giudice istruttore
  in  un  giudizio  civile  contenzioso  ordinario. Anche peraltro ad
  accedere  alla  tesi per cui la competenza funzionale attribuita al
  giudice  delegato  avrebbe la funzione di consentire l'esercizio di
  poteri  inquisitori,  la  cui  attivazione  sarebbe  favorita dalla
  conoscenza degli atti del fallimento che si presume versare in capo
  al medesimo, e che sarebbe opportuno esercitare per pervenire ad un
  accertamento "non falsato" circa il rapporto tra il creditore ed il
  fallito,  non si vede come tale "opportunita'" (anch'essa destinata
  ad  inquinare l'immagine di terzieta' ed imparzialita' del giudice)
  possa  assumere  rango  costituzionale, e come tale essere portata,
  mediante   un   giudizio   comparativo,  a  convalidazione  di  una
  disposizione che comunque fosse ritenuta in se' lesiva della Carta.
  Ne'   per  vero,  si  comprende  il  fondamento  di  tale  presunta
  necessita',  in un giudizio civile di parte a cognizione piena, nel
  quale  v'e'  gia' un soggetto (il curatore) legittimato e capace di
  rappresentare  in  giudizio  i diritti e gli interessi della Massa,
  munito dei diritti processuali corrispondenti al massimo livello di
  tutela contemplato al riguardo dall'ordinamento, che opera comunque
  per legge sotto la vigilanza del giudice delegato, che lo autorizza
  ad agire e resistere e sorveglia l'operato suo e del suo difensore,
  e che comunque e' un pubblico ufficiale, un soggetto qualificato ed
  un  fiduciario  dell'ufficio, la cui limitata autonomia processuale
  non  sembra,  anche se non assistita inquisitoriamente dal giudice,
  poter rappresentare un pericolo qualificato di falsificazione degli
  accertamenti giurisdizionali in materia;
        c)  ancora,  nella prospettiva generale gia' individuata, non
  appare  idoneo  a  destituire di fondamento la questione il rilievo
  che   il  giudice  delegato,  come  istruttore,  si  limiterebbe  a
  raccogliere  ad  uso  del  collegio (la cui composizione collegiale
  farebbe  comunque  salva l'imparzialita' della decisione finale) il
  materiale  probatorio  necessario, e a dirigere e a dare impulso al
  procedimento.
    La  necessita'  costituzionale  qui  implicata  e' infatti in via
  generale  assolta  dagli  artt. 51, n. 4, e 178, disp. att. c.p.c.,
  mediante la previsione di un obbligo di astensione immediato, e non
  limitato  alla fase decisoria. L'attivita' istruttoria, d'altronde,
  si  esplica  essa  stessa  mediante l'assunzione di "decisioni" (in
  senso  ampio) aventi natura giurisdizionale, che pur ampiamente (ma
  non  totalitariamente:  si  pensi  a  mero  titolo  di esempio alle
  ordinanze  di  cui  agli artt. 270, secondo comma, 295, 307, ultimo
  comma,  c.p.c.)  soggette al sindacato del Collegio, non sono punto
  irrilevanti nell'economia della decisione della causa, e non paiono
  poter  essere  degradate  al  livello  di  una  sorta  di attivita'
  materiale;
        d)  non  appare, infine, confutabile che il potere-dovere del
  giudice    delegato-istruttore   di   "staccarsi"   moralmente   ed
  intellettualmente  dagli atteggiamenti e dalle decisioni assunte in
  sede  di  verifica  del  passivo  non  possa  valere, di per se', a
  destituire  di fondamento la questione: tale dovere vale sempre per
  il  giudice. Cio' nulla sembra poter togliere al rilievo che spetta
  alla legge garantire l'indipendenza della funzione giurisdizionale,
  mettendo  il  giudice nella condizione di poter svolgere le proprie
  funzioni  in  modo  da  non  dover  subire, e da non potersi vedere
  oppone  a  fondamento  delle  pretese di una parte proprie medesime
  valutazioni  decisorie nella medesima regiudicanda, e, soprattutto,
  di  potersi  presentare  alle  parti  come giudice davvero terzo ed
  imparziale;
    Ritenuto che, per quanto precede, non e' manifestamente infondata
  la  questione  di  legittimita'  costituzionale degli artt. 98 e 99
  della  legge  fallimentare, con riferimento agli artt. 3, 24, 101 e
  104  della  Costituzione, nonche' dell'art. 1, comma 2, della legge
  costituzionale  n. 2,  del  1999,  nella  parte  in  cui  designano
  funzionalmente  il  giudice  delegato a ricevere, ad istruire, ed a
  partecipare  alla  decisione  dei giudizi di opposizione allo stato
  passivo, anche quando questo sia stato da lui stesso reso esecutivo
  (il che peraltro e' del tutto naturale);
    Ritenuto  che  la  questione  e' rilevante nel presente giudizio,
  perche',  in  caso di suo accoglimento, questo giudice non potrebbe
  continuare  ad  istruire  il  presente  giudizio, ed in particolare
  pronunciare  sulle  richieste  istruttorie  delle parti; dovrebbe e
  potrebbe chiedere di astenersi per essere sostituito;
  Ritenuto,  conseguenzialmente,  che la sollevazione della questione
  e' pregiudiziale rispetto ad ogni altra istanza pendente;