ha pronunciato la seguente


                              Ordinanza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 627, commi 3
e  4,  e  628,  comma 2, del codice di procedura penale, promosso con
ordinanza  emessa  il  6 luglio 1999 dalla Corte di appello di Ancona
nel  procedimento  penale  a  carico  di PANTANETTI Adriano ed altro,
iscritta  al  n. 492  del  registro ordinanze 1999 e pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale  della  Repubblica  n. 39,  1a  serie  speciale,
dell'anno 1999.
    Visto l'atto di costituzione di Bartolini Giordano nonche' l'atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  10 ottobre  2000  il  giudice
relatore Giovanni Maria Flick.
    Ritenuto  che, con ordinanza emessa il 6 luglio 1999, la Corte di
appello  di  Ancona  ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo
comma,  24,  primo  e  secondo  comma,  e  25,  secondo  comma, della
Costituzione,   questione   di   legittimita'   costituzionale  degli
artt. 627,  comma  3, e 628, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in
cui  il  primo  non  prevede  che  il  giudice  del  rinvio possa non
uniformarsi  alla  sentenza  della  Corte di cassazione "per cio' che
concerne  ogni  questione  di diritto con essa decisa", ed il secondo
"impone il ricorso per cassazione per inosservanza della disposizione
dell'art. 627,  comma  3,  cod.  proc.  pen. qualora  le questioni di
diritto  decise dalla Cassazione siano in irragionevole contrasto con
i diritti fondamentali della difesa costituzionalmente garantiti";
        che,  con  la  medesima  ordinanza,  la  Corte  rimettente ha
altresi'  sollevato,  in  riferimento  agli artt. 3, primo comma, 24,
primo  e  secondo  comma,  e  112  della  Costituzione,  questione di
legittimita'  costituzionale dell'art. 627, comma 4, cod. proc. pen.,
in  relazione agli artt. 521, comma 2, 522, comma 1, 620, lettera f),
621 e 185 cod. proc. pen., nella parte in cui fa divieto di proporre,
nel  giudizio  di  rinvio,  nullita' assolute concernenti l'esercizio
dell'azione  penale da parte del pubblico ministero e l'immutabilita'
della  contestazione,  verificatesi  nei  precedenti  giudizi,  anche
quando  tali  nullita'  si  siano prodotte esclusivamente per effetto
della  pronuncia  della Corte di cassazione, la quale abbia ritenuto,
solo  nella  sentenza,  che il fatto per cui si procede e' diverso da
quello enunciato nel decreto di citazione a giudizio o nella sentenza
impugnata;
        che  il  giudice  a  quo  premette di essere investito, quale
giudice  del  rinvio,  del  processo  nei  confronti  di  due persone
imputate,  la  prima, del reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen.,
per   avere   fatto   falsamente   figurare   in   un   progetto   di
ristrutturazione   edilizia   la  contiguita'  di  un  accessorio  al
fabbricato  da  ristrutturare, inducendo in errore i tecnici comunali
ed il sindaco preposti all'istruzione del procedimento ed al rilascio
della  relativa concessione, i quali formavano cosi' un atto pubblico
ideologicamente falso; la seconda, di concorso nel medesimo reato;
        che,  a seguito del ricorso per saltum del pubblico ministero
e  della  parte  civile  avverso  la  sentenza  di  primo  grado,  di
assoluzione  di  entrambi gli imputati perche' il fatto non sussiste,
la Cassazione aveva annullato, in parte qua la sentenza impugnata con
rinvio  alla  Corte di appello rimettente, enunciando il principio di
diritto  in  forza  del  quale  il  fatto  oggetto di giudizio doveva
ritenersi  integrativo  del  delitto  di  falsita'  mediata  in  atto
pubblico (art. 479 cod. pen.), e non di quello (che sarebbe risultato
estinto  per  prescrizione)  di  falsita'  mediata  in autorizzazione
amministrativa (art. 480 cod. pen.);
        che, secondo la Cassazione, il falso andava infatti riferito,
non  gia'  alla  concessione  edilizia (avente, di per se', natura di
autorizzazione),  ma  alla  preliminare  attivita'  di verifica della
conformita' del progetto agli strumenti urbanistici ed allo stato dei
luoghi,  verifica che - costituendo presupposto indispensabile per il
rilascio della concessione - doveva qualificarsi come atto pubblico;
        che,  ad  avviso  del  rimettente, tale principio di diritto,
vincolante  per il giudice del rinvio a norma dell'art. 627, comma 3,
cod.  proc. pen. - identificando l'atto pubblico, oggetto di falsita'
penalmente  rilevante,  non  gia' "in una manifestazione esplicita di
volonta',  di  scienza,  di  partecipazione,  di  giudizio,  in forma
scritta  o  verbalizzata  per  iscritto", ma in un mero comportamento
materiale  - violerebbe l'art. 25, secondo comma, della Costituzione,
configurando un reato di falso non previsto dalla legge;
        che  anche  a ritenere che la Cassazione intendesse alludere,
non all'attivita' materiale di verifica, ma ad un atto (diverso dalla
concessione  edilizia)  che  ne  riassume  il  risultato, il suddetto
principio   di  diritto  si  porrebbe  egualmente  in  contrasto  con
ulteriori  parametri  costituzionali  - segnatamente, il principio di
ragionevolezza  ed  il  diritto di difesa, di cui agli artt. 3, primo
comma,  e  24  della  Costituzione - in quanto il giudice del rinvio,
uniformandosi ad esso, si troverebbe costretto a pronunciare sentenza
in relazione alla falsita' di un atto non specificamente identificato
e,  al  tempo  stesso, per un fatto mai in precedenza contestato agli
imputati;
        che,  quanto  al  secondo  quesito  di  costituzionalita', il
rimettente  osserva  come  la  Cassazione,  nel ritenere che il falso
investa  un  atto  diverso  dalla  concessione edilizia, mai peraltro
contestato,  avrebbe dovuto - anziche' annullare la sentenza di prime
cure  con  rinvio  ad  essa Corte di appello di Ancona, quale giudice
competente  per il giudizio di appello - annullare la sentenza stessa
senza  rinvio  ai  sensi  degli artt. 620, comma 1, lettera f) e 521,
comma 2, cod. proc. pen., dando notizia del provvedimento al pubblico
ministero  per le sue determinazioni a norma dell'art. 621 cod. proc.
pen;
        che,   tuttavia,   l'art. 627,  comma  4,  cod.  proc.  pen.,
impedendo   di  proporre  nel  giudizio  di  rinvio  nullita',  anche
assolute,  verificatesi nei precedenti giudizi - ancorche' derivanti,
come nella specie (ex art. 522 cod. proc. pen.), esclusivamente dalla
sentenza  della  Cassazione  -  obbligherebbe il giudice del rinvio a
pronunciarsi  sul  fatto  diverso  non  contestato,  con  conseguente
violazione  -  oltre che del principio di ragionevolezza, del diritto
di  difesa  e del diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 3, primo
comma,  e  24,  primo  e  secondo  comma, della Costituzione) - anche
dell'art. 112 della Costituzione, che riserva in via monopolistica al
pubblico ministero l'esercizio dell'azione penale;
        che   il  rimettente  sottolinea,  da  ultimo,  in  punto  di
rilevanza,  come,  nel  caso  di  accoglimento  delle questioni, egli
potrebbe,   per  un  verso,  discostarsi  dal  principio  di  diritto
enunciato  dalla  Cassazione  e, per l'altro, trasmettere gli atti al
pubblico  ministero  per  l'eventuale esercizio dell'azione penale in
relazione  al  fatto  diverso  da  quello  contestato,  che la stessa
Cassazione ha accertato;
        che  nel  giudizio  di  costituzionalita'  e'  intervenuto il
Presidente   del   Consiglio   dei   Ministri,   con   il  patrocinio
dell'Avvocatura  generale  dello  Stato, concludendo - sulla base del
richiamo alla giurisprudenza di questa Corte in tema di definitivita'
delle   pronunce   di   cassazione   -   per   la   declaratoria   di
inammissibilita' o di infondatezza delle questioni;
        che  si e' altresi' costituita la parte civile nel giudizio a
quo   la   quale   ha  chiesto  che  le  questioni  siano  dichiarate
manifestamente  infondate,  osservando, da un lato, che la disciplina
censurata  dal rimettente risulta pienamente coerente con il ruolo di
massimo  interprete  della  legge  attribuito dalla Costituzione alla
Corte  di  cassazione; e, dall'altro, che la violazione del principio
di  correlazione  tra  accusa  e  sentenza, ipotizzata dal rimettente
medesimo,  e'  in  realta'  insussistente,  essendosi  la  Cassazione
limitata  ad  una  piu'  precisa  qualificazione giuridica del fatto,
senza pregiudizio per il diritto di difesa degli imputati.
    Considerato  che,  con  l'ordinanza in epigrafe, il giudice a quo
ripropone, nella sostanza, dubbi di costituzionalita' gia' piu' volte
esaminati  e  disattesi da questa Corte, sia in rapporto all'art. 627
del  vigente  codice  di  procedura  penale,  sia in riferimento alle
corrispondenti  previsioni  degli  artt. 544  e  546  del  codice  di
procedura  penale  del  1930,  sia  ancora  con riguardo al parallelo
disposto dell'art. 384 del codice di procedura civile;
        che  le richieste del giudice a quo si risolvono, difatti, in
pratica,  nella rivendicazione di un sindacato del giudice del rinvio
su  (presunti)  errores  in  iudicando e in procedendo della Corte di
cassazione:  sindacato  da  ritenere  peraltro  incompatibile  con il
sistema  delle  impugnazioni,  anche  nel  suo "volto costituzionale"
(sentenze nn. 224 del 1996, 21 del 1982, 50 del 1970);
        che  le  norme  censurate  -  connettendosi  direttamente  al
principio di definitivita' delle sentenze di cassazione - rispondono,
in  effetti,  ad  una  esigenza  logica,  prima ancora che giuridica:
quella, cioe', che le linee del procedimento siano tracciate "in modo
che esse abbiano a progredire verso la soluzione finale attraverso la
concatenazione di atti aventi valore definitivo, cosi' da impedire la
perpetuazione  dei giudizi" (sentenze nn. 224 del 1996, 294 del 1995,
21 del 1982, 50 del 1970; ordinanza n. 11 del 1999);
        che  e'  connaturale,  infatti, al sistema delle impugnazioni
ordinarie  che  vi  sia  una  pronuncia  terminale  -  identificabile
positivamente  in  quella  della  Cassazione "per il ruolo di supremo
giudice  di  legittimita' ad essa affidato dalla stessa Costituzione"
(art. 111,  attuale  settimo  comma,  della Costituzione: v. sentenze
nn. 224 del 1996, 294 del 1995, 247 del 1995, 21 del 1982) - la quale
definisca,  nei  limiti  del  giudicato,  ogni  questione  dedotta  o
deducibile  al  fine  di  dare  certezza  alle  situazioni giuridiche
controverse   e  che,  quindi,  non  sia  suscettibile  di  ulteriore
sindacato ad opera di un giudice diverso (sentenza n. 21 del 1982);
        che  tale esigenza di definitivita' e certezza costituisce un
valore  costituzionalmente  protetto,  in quanto ricollegabile sia al
diritto  alla tutela giurisdizionale (art. 24 della Costituzione), la
cui  effettivita' risulterebbe gravemente compromessa se fosse sempre
possibile  discutere  sulla legittimita' delle pronunce di cassazione
(sentenza n. 224 del 1996); sia al principio della ragionevole durata
del  processo,  ora  assunto  a rango di precetto costituzionale alla
luce   del  secondo  comma  dell'art. 111  della  Costituzione,  come
modificato  dall'art. 1  della legge costituzionale 23 novembre 1999,
n. 2;
        che,   in  tale  ottica,  il  vincolo  scaturente,  ai  sensi
dell'art. 627,  comma  3,  cod.  proc. pen., dal principio di diritto
enunciato  dalla  Cassazione  - su cui si appunta (anche nei riflessi
sul  collegato  art. 628,  comma  2,  cod.  proc.  pen.) il primo dei
quesiti di costituzionalita' - rappresenta una conseguenza necessaria
del  modello  della  separazione  del  giudizio rescindente da quello
rescissorio, il quale implica che il secondo debba essere fondato sui
risultati  del  primo  (sentenza  n. 50 del 1970; ordinanza n. 11 del
1999):  salva  restando la facolta' del giudice del rinvio di mettere
in  discussione,  sotto il profilo della legittimita' costituzionale,
non  gia' le norme che limitano i contenuti del giudizio rescissorio,
ma  -  eventualmente  -  quelle che sarebbe tenuto ad applicare nella
"lettura"  datane  dal  giudice  di legittimita' (in altre parole, le
regulae  iuris  enunciate  all'esito  del  giudizio  rescindente:  v.
ordinanza n. 11 del 1999);
        che, allo stesso modo, la scelta legislativa - espressa nella
specie  dall'art. 627,  comma  4,  cod.  proc.  pen. e contestata dal
rimettente  con  il  secondo quesito - di rendere improponibili in un
determinato  grado  del  procedimento  eccezioni  di nullita', che si
assumono  occorse  in  fasi  precedenti  ed  esaurite, non puo' dirsi
irrazionale,   ma   risulta,  al  contrario,  pienamente  rispondente
all'accennato  obiettivo  di  evitare  la  perpetuazione dei giudizi,
contribuendo   cosi'   a   realizzare   un   interesse   fondamentale
dell'ordinamento  (sentenze  nn. 247  del  1995, 21 del 1982, 136 del
1972);
        che,  infine,  non puo' egualmente considerarsi imposto dagli
artt. 24   e   112   della   Costituzione   che  eventuali  nullita',
verificatesi  (in  assunto)  per  violazione  del diritto di difesa o
della  spettanza  al  pubblico  ministero  dell'esercizio dell'azione
penale,  possano  essere  fatte valere in ogni momento, anche dopo la
formazione  del  giudicato "interno" (v., con riferimento all'art. 24
della  Costituzione,  sentenza  n. 21  del  1982),  e,  segnatamente,
nell'ambito  del  giudizio  di  rinvio:  giacche',  per  converso, la
ribadita  inoppugnabilita'  delle decisioni della Corte di cassazione
logicamente  implica  che il vincolo connesso al principio di diritto
in   esse   enunciato  non  possa  venir  rimosso  a  seguito  di  un
inammissibile  controllo del giudice del rinvio circa la sussistenza,
o meno, di vizi in procedendo nella fase del giudizio di legittimita'
(sentenza n. 224 del 1996);
        che   le   questioni  debbono  essere  dichiarate,  pertanto,
manifestamente infondate.