ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 4,
della  legge  31 maggio  1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia),
nel  testo  sostituito  dall'art. 3 della legge 19 marzo 1990, n. 55,
promosso  con  ordinanza emessa il 23 settembre 1999 dal tribunale di
Avellino  nel  procedimento  concernente Pagnozzi Stella, iscritta al
n. 48  del  registro  ordinanze  2000  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 9, 1a serie speciale, dell'anno 2000.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera di consiglio dell'11 ottobre 2000 il giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky.

                          Ritenuto in fatto

    1.1.  -  Con  ordinanza  del  23 settembre  1999  il tribunale di
Avellino  ha  sollevato,  in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 27 e 41
della   Costituzione,   questione   di   legittimita'  costituzionale
dell'art. 10,   comma   4,   della   legge   31 maggio  1965,  n. 575
(Disposizioni  contro  la  mafia),  "nella parte in cui la suindicata
norma, estendendo ai conviventi i divieti e le decadenze previsti nei
commi  1  e  2  dello  stesso  articolo,  non consente alcuna prova o
accertamento contrario".
    1.2.  -  Nel  giudizio principale e' stata richiesta al tribunale
rimettente,  da  parte  del  questore  competente, l'applicazione del
divieto  di  iscrizione  nel registro degli esercenti il commercio, a
norma  dell'art. 10,  comma  4,  citato,  nei  confronti della moglie
convivente   di   un  soggetto  gia'  sottoposto,  con  provvedimento
definitivo, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di
pubblica  sicurezza  con  obbligo  di  soggiorno per la durata di due
anni, a norma della legge n. 575 del 1965.
    1.3.  -  Ad  avviso  del  tribunale,  la  disposizione  della cui
applicazione  si tratta presenterebbe profili di incostituzionalita',
e  cio' nonostante che la Corte costituzionale, in una sua precedente
decisione    (ordinanza    n. 675   del   1988),   abbia   dichiarato
manifestamente   infondata   una  questione  allora  sollevata  circa
l'estensione  degli  effetti interdittivi a soggetti terzi, ritenendo
ragionevole  la presunzione di intestazione fittizia dei beni sottesa
alla norma impugnata.
    Il  dubbio  di  costituzionalita', del resto manifestato anche in
dottrina e in giurisprudenza, concerne comunque - prosegue il giudice
a  quo  -  aspetti diversi da quelli gia' esaminati dalla Corte nella
richiamata   decisione   del   1988,   e   precisamente  riguarda  la
prescrizione  che impone al giudice di applicare al convivente di chi
sia  stato  sottoposto  a  una misura di prevenzione secondo la legge
antimafia  dunque  a  una  persona  che come tale non ha subito alcun
procedimento  il  divieto  di iscrizione nei registri delle camere di
commercio   e,   con   esso,   il   divieto  di  ottenere  licenze  o
autorizzazioni all'esercizio del commercio.
    Cio'  che appare irragionevole al tribunale, anche avuto riguardo
alle  conclusioni  della  richiamata ordinanza n. 675 del 1988, e' il
carattere  assoluto  della  presunzione  di intestazione fittizia dei
beni  per  eludere  la disciplina antimafia, presunzione che e' posta
appunto  nell'ipotesi  dell'estensione  degli  effetti  della misura:
l'impossibilita'  di  fornire  una  prova contraria per il convivente
contrasta  con  la possibilita' di svolgere accertamenti patrimoniali
per  verificare  se la persona pericolosa disponga di beni e capitali
suscettibili  di essere reinvestiti nell'attivita' commerciale che fa
capo  alla  persona  convivente  o  se  invece  quest'ultima disponga
autonomamente di mezzi finanziari allo scopo.
    Del  resto,  aggiunge  il  rimettente, non puo' sostenersi che la
censurata   presunzione  -  che  l'attivita'  commerciale  del  terzo
costituisca attivita' di "copertura" di quella illegale del prevenuto
-  sia necessariamente corrispondente alla realta' dei fatti, poiche'
puo'   ben   darsi   il   caso   che   l'attivita'   commerciale  del
parente/convivente  venga  iniziata e svolta in modo autosufficiente;
ne  e'  esempio,  prosegue  il  tribunale, proprio il caso di specie,
giacche'  il  prevenuto  risulta  da  tempo  e  tuttora  detenuto  in
esecuzione  di condanne penali, cio' che legittima il dubbio circa la
sua   possibilita'   di  finanziare  il  coniuge-convivente  ai  fini
dell'esercizio del commercio.
    La  presunzione assoluta oggetto della questione sarebbe, secondo
l'ordinanza  di  rinvio,  in  contrasto  con  il  canone  generale di
ragionevolezza della legge, e inoltre con a) l'art. 3 [secondo comma]
della  Costituzione,  sotto il profilo della rimozione degli ostacoli
di  ordine sociale al lavoro, costituendo anche l'unione matrimoniale
o la convivenza una condizione di vita sociale, "non sempre scelta in
piena liberta'", b) l'art. 4 della Costituzione, circa l'effettivita'
del   diritto   al  lavoro,  c)  l'art. 27  della  Costituzione,  per
l'estensione  a  una  persona estranea al procedimento di conseguenze
lato  sensu penalistiche, poiche', secondo il Tribunale, la misura di
prevenzione    postulerebbe    pur    sempre   un   accertamento   di
responsabilita' penale, solo variando il grado probatorio necessario,
d)   l'art. 24   della   Costituzione,   perche'   vengono  applicate
conseguenze   sfavorevoli   a   un   soggetto  che  nel  procedimento
giurisdizionale  di  prevenzione  non  ha  avuto  la  possibilita' di
interloquire  e  difendersi,  ed  e)  l'art. 41  della  Costituzione,
perche'  ne  deriva  un  ostacolo  alla  libera  iniziativa economica
dell'individuo.

    2.  -  E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato.
    L'Avvocatura richiama il precedente maggiormente pertinente della
Corte  costituzionale,  costituito  dall'ordinanza  n. 675  del 1988,
della  quale  riprende  alcuni passaggi argomentativi, in particolare
per  l'affermazione  che  l'estensione  degli effetti accessori della
misura  di  prevenzione  al  coniuge,  ai  figli  e ai conviventi del
prevenuto,  cioe'  a soggetti non personalmente colpiti dalla misura,
poggia  sull'esigenza  di  "impedire  che  i  divieti  e le decadenze
possano  essere  elusi mediante il ricorso ad intestazioni fittizie a
persone  di  comodo" e dunque che non e' irragionevole, "in relazione
alla situazione ad alto rischio di pericolosita' nella quale la norma
e'  destinata  ad  operare",  la  previsione  che  i conviventi siano
"assoggettati alle medesime preclusioni della persona sottoposta alla
misura,  in  base alla presunzione che essi possano intervenire quali
prestanome della stessa, o che quest'ultima possa comunque aver parte
alle  attivita'  economiche alle quali si riferiscono i provvedimenti
oggetto di divieti o decadenze".
    Le  argomentazioni  del  tribunale  di Avellino non sono, secondo
l'Avvocatura,  idonee  a condurre a diversa conclusione rispetto alla
citata pronuncia. Anche a trascurare il dato formale secondo cui, una
volta  posta e ritenuta come valida la presunzione di interposizione,
le  conseguenze sfavorevoli solo formalmente possono dirsi imputabili
a soggetti "terzi" giacche' il soggetto effettivamente colpito rimane
pur   sempre   il   prevenuto,   rileva  l'Avvocatura  che  comunque,
nell'effettuare   la   valutazione   circa  la  ragionevolezza  della
previsione,  la Corte ha gia' chiarito che il criterio di giudizio si
fonda su un bilanciamento di interessi; alla stregua di questo stesso
criterio deve pertanto essere considerata la prospettazione dei nuovi
e   ulteriori  dubbi  d'incostituzionalita'  della  norma,  che,  nel
contesto di alta pericolosita' nel quale essa e' destinata a operare,
pur  essendo di particolare rigore, si presenta tuttavia come l'unico
efficace   strumento   per  impedire  aggiramenti  o  elusioni  della
disciplina  antimafia,  attraverso intestazioni di comodo; le censure
del  rimettente  non  sarebbero  dunque  idonee  a condurre a diverso
orientamento.  La  richiesta  dell'Avvocatura, pertanto, e' nel senso
dell'infondatezza della questione.

                       Considerato in diritto


    1. -   L'art. 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni
contro  la  mafia),  nei  commi  1  e 2 (nella formulazione vigente a
seguito  della  legge  19 marzo  1990, n. 55) prevede, a carico delle
persone  alle  quali sia stata applicata con provvedimento definitivo
una  misura  di  prevenzione, diversi divieti e decadenze relativi ad
atti   e  provvedimenti  autorizzativi,  concessori,  abilitativi  di
attivita'  d'impresa e relativi a erogazioni di danaro da parte dello
Stato,  di  enti  pubblici  e delle comunita' europee. Il comma 4 del
medesimo articolo, della cui legittimita' costituzionale il tribunale
di  Avellino  dubita,  stabilisce,  tra  l'altro,  che tali divieti e
decadenze  operino  anche  nei  confronti  di chiunque conviva con il
sottoposto  alla misura di prevenzione. Il tribunale ritiene che tale
previsione  -  determinata  dall'intento  di  evitare  che la persona
convivente, usata come schermo, possa servire per eludere i divieti e
le  decadenze  stabiliti  -  violi  gli artt. 3, 4, 24, 27 e 41 della
Costituzione.  La doglianza riguarda quella che il giudice rimettente
ritiene   essere  una  presunzione  assoluta  che  non  consentirebbe
all'interessato    di    provare    il    carattere    non   fittizio
dell'intestazione dei beni che gli appartengono.

    2. - La questione non e' fondata.

    3. - Nella  valutazione  della  legittimita' costituzionale della
disposizione denunciata, si deve tenere conto nel suo complesso della
ponderazione  fatta  dal  legislatore degli interessi implicati nella
disciplina  in  esame,  nella quale entra, come ragione determinante,
l'esigenza  di  contrastare l'attivita' economica di soggetti colpiti
da  misure  di  prevenzione  antimafia  tramite,  in  particolare, il
reimpiego del danaro proveniente da attivita' criminosa. Gli invocati
artt. 4,  24,  27  e  41  della  Costituzione  prevedono diritti che,
secondo     l'ordinanza    del    giudice    rimettente,    sarebbero
irragionevolmente   sacrificati   dalla   presunzione   assoluta  che
sottosta'   alla  disposizione  impugnata.  Di  qui,  il  riferimento
all'art. 3  della  Costituzione che impone al legislatore il rispetto
del canone della ragionevolezza o non-arbitrarieta' nella valutazione
comparativa  e  complessiva  degli  interessi  che  la norma mette in
gioco.
    In questa valutazione ponderata, occorre innanzitutto considerare
la  determinazione dell'efficacia quinquennale dei divieti, stabilita
nell'ultima parte del medesimo comma 4 dell'art. 10 (quale sostituito
con  la  legge  n. 55  del  1990);  la  possibilita' di richiedere la
riabilitazione  -  alla  quale  consegue  la  cessazione  dei divieti
previsti dall'art. 10 della legge n. 575 del 1965 - dopo tre o cinque
anni,  a  seconda  del  tipo  di  criminalita'  al quale la misura di
prevenzione  si  riferisce  (riabilitazione  introdotta  dall'art. 15
della  legge  3 agosto  1988, n. 327, e, nell'area della criminalita'
organizzata,  dall'art. 14  della  legge  n. 55 del 1990), nonche' la
deroga  (introdotta anch'essa dall'art. 3 della legge n. 55 del 1990)
contenuta   nello   stesso  art. 10,  al  comma  5,  che  prevede  la
possibilita'  che  il  giudice  escluda  la  decadenza  e  il divieto
(eccettuate  le  autorizzazioni e le licenze di polizia relative alle
armi,  alle  munizioni e agli esplosivi) nel caso in cui, per effetto
di  tali  provvedimenti,  vengano  a mancare i mezzi di sostentamento
all'interessato e alla famiglia.
    Ma  soprattutto,  assume  rilievo  l'art. 10-quater  della  legge
n. 575  del  1965  (nella  versione  risultante dalla legge n. 55 del
1990).  Esso  stabilisce  che  il  tribunale,  prima  di  adottare un
provvedimento  previsto  dall'art. 10,  comma 4, con decreto motivato
chiama  a intervenire nel procedimento le parti interessate (e quindi
anche  il  convivente  nei  cui  confronti  hanno  da essere disposti
divieti  e  decadenze), e che esse possono, anche con l'assistenza di
un  difensore,  svolgere  in  camera di consiglio le loro deduzioni e
chiedere  l'acquisizione  di ogni elemento utile alla decisione; cio'
che  di  per  se'  vale  a  escludere  il  prospettato  contrasto con
l'art. 24  della Costituzione. Aggiunge la medesima disposizione che,
ai  fini  dei relativi accertamenti - cioe' degli accertamenti che si
rendono   necessari  per  l'estensione  delle  interdizioni  e  delle
decadenze   nei   confronti   dei   conviventi  -,  si  applicano  le
disposizioni  degli  artt. 2-bis e 2-ter della legge. In particolare,
l'art. 2-bis riguarda l'effettuazione di indagini sul tenore di vita,
sulle  disponibilita'  finanziarie,  sul patrimonio e in genere sulle
condizioni  economiche  dei soggetti, indicati nell'art. 1 (indiziati
di  appartenere  ad  associazioni  di tipo mafioso, alla camorra o ad
altre associazioni aventi caratteristiche analoghe a quelle mafiose),
nei  cui confronti possa essere proposta la misura della sorveglianza
speciale (comma 1).
    Analoghe  indagini,  secondo  il  comma 3 dello stesso art. 2-bis
sono condotte anche nei confronti di altri soggetti che possono avere
a  che  fare  con  le  attivita'  economiche dei primi, tra i quali i
conviventi (nell'ultimo quinquennio).
    Dalle  disposizioni  da ultimo citate risulta che il giudice deve
tenere  conto  di  una  serie  di  elementi  utili  a  ricostruire la
posizione  economica  non  solo  della persona sospettata ma anche di
quella  convivente,  potendosi  ricavare  cosi'  che le misure di cui
all'impugnato  comma  4 dell'art. 10 presuppongono l'esistenza di una
"convivenza" avente caratteri congruenti alla ratio dei provvedimenti
che  su  di  essa  si  basano:  una convivenza segnata in concreto da
coinvolgimento negli interessi economici del soggetto sottoposto alla
misura  di prevenzione; coinvolgimento di cui le "parti interessate",
nel  procedimento  previsto  dalla legge, sono abilitate a dimostrare
l'inesistenza,  senza di che le norme ora citate risulterebbero prive
di senso.
    Il  che  e'  quanto  dire che, se tra la convivenza assunta dalla
legge  come condizione delle misure previste dal comma 4 dell'art. 10
e  queste  ultime  v'e' automatismo, non qualunque tipo di convivenza
puo'  essere a base di tale automatismo e che il soggetto interessato
e'  abilitato a difendersi fornendo la prova dell'inesistenza in essa
di quei caratteri che, soli, giustificano le misure stesse.
    Per  le  ragioni  anzidette,  la  norma  da  cui muove il giudice
rimettente  si  rivela  meno  rigida  di  quanto  egli  assume e cio'
consente   di   superare   i  dubbi  di  legittimita'  costituzionale
prospettati nel formulare la questione in esame.