ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 83,  primo
comma,  del  codice penale militare di pace (Vilipendio alla bandiera
nazionale  od  altro  emblema  dello  Stato),  promosso con ordinanza
emessa  il  10 dicembre  1998  dal  tribunale  militare di La Spezia,
iscritta  al  n. 123  del  registro ordinanze 1999 e pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale  della  Repubblica  n. 11,  1a  serie  speciale,
dell'anno 1999.
    Udito  nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il giudice
relatore Valerio Onida.

                          Ritenuto in fatto

    Nel  corso  di  un  procedimento penale, nel quale l'imputato dei
reati  di insubordinazione con ingiuria e di vilipendio alla bandiera
(quest'ultimo   contestato  perche',  soldato  in  servizio,  in  una
pubblica   via  ad  ora  notturna,  rivolgendosi  a  tre  carabinieri
"vilipendeva  la  bandiera italiana, dicendo "la bandiera italiana mi
fa  schifo  )  aveva chiesto l'applicazione di una pena "patteggiata"
calcolata  partendo  dalla  pena base del secondo reato, il tribunale
militare  di  La  Spezia,  con  ordinanza emessa il 10 dicembre 1998,
pervenuta  a questa Corte il 22 febbraio 1999, ha sollevato questione
di  legittimita'  costituzionale,  in  riferimento  all'art. 3  della
Costituzione,  dell'art. 83,  primo comma, del codice penale militare
di  pace  (Vilipendio  alla bandiera nazionale od altro emblema dello
Stato),  "nella  parte  in cui prevede la pena della reclusione nella
misura da tre a sette anni".
    Il  giudice  a quo muovendo dalla constatazione che il vilipendio
alla  bandiera  e'  punito  in  modo  assai diverso dall'art. 83 cod.
pen. mil.  pace  (reclusione  militare  da tre a sette anni) rispetto
all'art. 292 cod. pen. (reclusione da uno a tre anni), osserva che la
norma  incriminatrice  denunciata,  come  altre relative ai "reati di
tradimento"  (libro  secondo,  titolo  I,  capo I, del cod. pen. mil.
pace),  corrispondenti  ai delitti contro la personalita' dello Stato
previsti dal codice penale comune, si qualifica, rispetto all'omologo
reato   punito   dall'art. 292   cod.  pen.,  esclusivamente  per  la
condizione  di  militare  del  soggetto  attivo del reato. Secondo il
remittente,  il  dovere  di  fedelta'  sarebbe  piu'  intenso per chi
appartiene alle forze armate, ma sussisterebbe per tutti i cittadini,
onde  la maggiore  gravita'  dell'offesa  derivante dalla particolare
posizione  soggettiva  del  militare  potrebbe bensi' comportare pene
piu'  gravi,  ma  solo  nei limiti di un trattamento "ragionevolmente
piu' afflittivo".
    L'ordinanza  osserva, inoltre, che il legislatore non ha adottato
un  criterio  unitario  nel  determinare  gli  incrementi di pena per
questi reati militari, rispetto ai corrispondenti reati comuni, ma ha
fissato a volte aumenti di pena assai inferiori a quelli disposti per
il   vilipendio   alla  bandiera,  altre  volte  aumenti  anche  piu'
consistenti.  Non  sarebbe  ragionevole,  secondo  il  remittente, un
criterio  che,  nell'incrementare  la  pena, si discosti da canoni di
tendenziale uniformita': l'irrazionale eterogeneita' degli aumenti di
pena   rispetto  alla  normativa  comune  rafforzerebbe  i  dubbi  di
legittimita' costituzionale della norma denunciata.
    Si  pone  poi a confronto il rispettivo trattamento sanzionatorio
del vilipendio alla nazione e del vilipendio alla bandiera nei codici
militare  (artt. 82  e  83)  e comune (artt. 291 e 292), osservandosi
che,  mentre  nel codice comune i due reati sono puniti con la stessa
pena,  nel  codice  militare  invece  la  pena  e'  piu' grave per il
vilipendio  alla  bandiera, alterandosi cosi' il rapporto di gravita'
fra  i  due  reati,  mentre la qualita' militare del soggetto agente,
unico  elemento  differenziale  dei  reati militari rispetto a quelli
comuni, dovrebbe influire in modo uniforme sull'aumento di pena.
    L'attenuante  prevista  dall'art. 102  cod.  pen. mil. pace per i
fatti  di  lieve  entita'  mitigherebbe  bensi'  il rigore della pena
edittale, ma non attenuerebbe i dubbi di legittimita' costituzionale,
essendo  essa  applicabile  anche  agli  altri reati di tradimento, e
trovando  corrispondenza  nell'attenuante  di  cui  all'art. 311  del
codice penale.
    In  definitiva, secondo il giudice a quo la previsione di pena di
cui  all'art. 83  cod. pen. mil. pace darebbe luogo ad una violazione
dell'art. 3    della    Costituzione,    sotto   il   profilo   della
ragionevolezza,  in  relazione  sia  al raffronto con l'art. 292 cod.
pen.,  sia  alla  comparazione  tra  i  reati militari di tradimento,
soggettivamente  qualificati,  e  gli  omologhi reati comuni nel loro
insieme, sia al confronto tra le pene stabilite dai codici militare e
comune  per  i reati di vilipendio alla bandiera e di vilipendio alla
nazione.

                       Considerato in diritto


    1. - La  questione  sollevata investe l'art. 83, primo comma, del
codice penale militare di pace (Vilipendio alla bandiera nazionale od
altro  emblema dello Stato), nella parte in cui prevede la pena della
reclusione militare da tre a sette anni.
    Tale  previsione  sanzionatoria sarebbe in contrasto con l'art. 3
della  Costituzione,  sotto  il profilo della ragionevolezza, perche'
comporterebbe   un  aumento  di  pena  eccessivo  rispetto  a  quella
comminata per lo stesso reato dall'art. 292 del codice penale comune;
perche'  si discosterebbe da criteri di tendenziale uniformita' nella
determinazione  degli  incrementi  di  pena  per  i reati militari di
tradimento  rispetto  ai  corrispondenti  reati  previsti  dal codice
penale;  e  perche',  infine,  comportando per il reato di vilipendio
alla  bandiera una pena piu' elevata di quella stabilita dallo stesso
codice  penale  militare  (art. 82)  per  il  vilipendio alla nazione
italiana,  altererebbe  il  rapporto di corrispondente gravita' fra i
due  reati,  risultante  dagli artt. 291 e 292 del codice penale, che
prevedono la medesima pena.

    2. - La  questione,  nei  termini  in  cui  e'  proposta,  non e'
fondata.
    Il  reato  di  vilipendio alla bandiera, gia' previsto dal codice
penale  del  1889  solo  sotto forma di offesa "materiale" (art. 115:
"Chiunque, per fare atto di disprezzo, toglie, distrugge o sfregia in
luogo pubblico o aperto al pubblico la bandiera o altro emblema dello
Stato ..."),  e  punito  con una pena assai inferiore all'attuale (da
tre  a  venti  mesi  di  reclusione), fu trasformato in "vilipendio",
punito  in  ogni  forma,  materiale  o  verbale,  con  la  pena della
reclusione  da  uno a tre anni, dal legislatore del codice penale del
1930, nel clima ideologico, proprio dell'epoca, di tutela dello Stato
come  entita'  "ideale"; e' rimasto infine in vita nel contesto della
legislazione  dello  Stato  democratico  fondato  sulla  Costituzione
repubblicana,  senza  che  il  legislatore  abbia finora posto mano a
sostanziali riforme della materia.
    Nel codice penale per l'esercito e in quello marittimo, approvati
rispettivamente con il r.d. 28 novembre 1869, n. 5378, e con la legge
28 novembre  1869,  n. 5366,  tale reato non era contemplato. Esso e'
stato  invece  previsto nel vigente codice penale militare di pace, e
configurato,  dal punto di vista oggettivo, in modo identico rispetto
al  codice  comune:  solo, la pena prevista e' considerevolmente piu'
severa   (da   tre   a   sette  anni  di  reclusione  militare:  pena
ulteriormente  aumentata  quando si applica il codice penale militare
di guerra, ai sensi dell'art. 47 di tale codice).
    Il  bene  protetto dalla norma incriminatrice e', in questo caso,
la  dignita' del simbolo dello Stato, come espressione della dignita'
dello   Stato   medesimo   nell'unita'   delle   istituzioni  che  la
collettivita'  nazionale  si  e' data: simbolo che, nell'ambito delle
istituzioni  e  delle attivita' militari, e' esposto e utilizzato con
particolare  solennita'  e  frequenza,  ed  e'  oggetto  di  speciale
attenzione  e  rispetto:  nella  normativa  disciplinare  delle forze
armate,  infatti,  e'  espressamente previsto che alla bandiera siano
"tributati  i  massimi  onori" (art. 7, comma 3, del d.P.R. 18 luglio
1986, n. 545).
    Come  per  tutti  i  reati  di questa natura, si pongono delicati
problemi  di  confine  con l'area della liberta' di espressione, come
dimostra  anche  la giurisprudenza costituzionale di altri paesi. Nel
nostro  ordinamento,  e'  da  richiamare  la giurisprudenza di questa
Corte,  secondo  la  quale  l'incriminazione  per vilipendio (in quel
caso,  della  Repubblica,  delle  Istituzioni  costituzionali e delle
Forze  armate: art. 290 cod. pen.) non si estende alle espressioni di
critica,  anche  aspra,  potendosi  applicare  solo  a manifestazioni
offensive  che neghino ogni valore ed ogni rispetto ("tenere a vile")
all'entita'  oggetto  di  protezione,  in  modo  idoneo  ad indurre i
destinatari  della  manifestazione  "al disprezzo delle istituzioni o
addirittura  ad  ingiustificate  disobbedienze"  (sentenza  n. 20 del
1974;  cfr. anche sentenza n. 199 del 1972). Cosi' che non puo' certo
ritenersi  ricadere  nell'ambito  delle fattispecie incriminatrici di
vilipendio qualsiasi espressione di personale dissenso, di avversione
o  di  disdegno,  priva di concreta idoneita' offensiva, spettando al
giudice  di  "impedire, con un prudente apprezzamento della lesivita'
in concreto, una arbitraria e illegittima dilatazione della sfera dei
fatti da ricondurre al modello legale" (sentenza n. 263 del 2000).

    3. - Nella  specie,  peraltro,  il  remittente,  senza  porsi  il
problema  della  sfera di applicabilita' della incriminazione e della
riconducibilita'  ad  essa  della  condotta  contestata all'imputato,
solleva  una  questione  riguardante  esclusivamente  l'entita' della
sanzione  prevista. Ma il giudice a quo non pone nemmeno in dubbio la
legittimita'  costituzionale  di un trattamento penale piu' severo di
tale reato quando esso sia commesso da militare in servizio, soggetto
al  codice  penale  militare  di  pace,  rispetto  al  medesimo reato
commesso  da  civili,  soggetti al codice penale comune; afferma anzi
esplicitamente  che  tale  differenza di trattamento si giustifica in
relazione   alla maggiore   intensita'  che  il  dovere  di  fedelta'
rivestirebbe nei riguardi dei militari.
    Egli  si  limita,  evocando  come  unico parametro l'art. 3 della
Costituzione,  a  contestare  l'eccessiva  gravosita' del trattamento
sanzionatorio  del  vilipendio  alla  bandiera  nel  codice militare,
raffrontato con quello previsto da altre norme.

    4. - I  tertia  comparationis  indicati dal remittente, peraltro,
non fanno capo ad altre figure di reato, previste dallo stesso codice
militare, che egli dimostri essere di pari gravita' e offensivita', e
al  relativo trattamento sanzionatorio con il quale quello denunciato
possa  utilmente  confrontarsi;  e sono anzi tra di loro eterogenei e
perfino in parte contraddittori.
    In  primo luogo, infatti, si lamenta l'eccessivo divario rispetto
alla  sanzione  prevista  dal  codice  penale  comune per il medesimo
reato:   ma,   avendo  lo  stesso  remittente  premesso  di  ritenere
giustificato  un  trattamento piu' severo nei confronti dei militari,
la  censura  si  riduce  ad  un  profilo  quantitativo, difficilmente
traducibile in dimostrazione di assoluta irragionevolezza del divario
medesimo. Senza dire che il giudice a quo, nell'indicare come termine
di  raffronto  la  pena prevista dall'art. 292 cod. pen., trascura di
osservare  che  essa,  in  forza  della circostanza aggravante di cui
all'art. 292-bis  introdotta  dall'art. 9  della legge 23 marzo 1956,
n. 167,  e'  aumentata  nel  caso  in cui il reato sia commesso da un
militare  in congedo: onde l'eventuale annullamento dell'art. 83 cod.
pen. mil.  di  pace, che desse luogo alla applicazione ai militari in
servizio   dell'art. 292   cod.  pen. comune,  produrrebbe  un  nuovo
paradossale squilibrio, risultando il vilipendio alla bandiera punito
piu'  gravemente  per  i militari in congedo (art. 292-bis) che per i
militari  in  servizio  a  meno  di  assimilare questi ultimi in sede
interpretativa (ma arbitrariamente) ai primi.
    In  secondo  luogo,  si  invoca  l'eterogeneita' delle scelte del
codice militare nel determinare il quantum di aggravamento delle pene
rispetto   a   quelle   previste   dal  codice  comune  per  i  reati
corrispondenti,  e si osserva come, accanto a livelli meno elevati di
aggravamento  in  taluni  casi,  in  altri  siano previsti livelli di
aggravamento  anche  maggiori  di quelli che valgono nell'ipotesi del
vilipendio  alla  bandiera  (e'  il  caso  dell'offesa all'onore e al
prestigio  del  Presidente  della  Repubblica, punito rispettivamente
dall'art. 79  del  codice  penale  militare di pace con la reclusione
militare da cinque a quindici anni, e dall'art. 278 del codice penale
comune   con  la  reclusione  da  uno  a  cinque  anni).  Ma  proprio
l'eterogeneita'  degli elementi di raffronto impedisce di considerare
idonei tali tertia comparationis.
    In  terzo  luogo,  si  mette a confronto la pena comminata per il
vilipendio  alla bandiera con quella comminata per il vilipendio alla
nazione,  ma  non  gia'  per  sostenere  che,  nell'ambito del codice
militare,  questi  debbano  essere considerati reati di pari gravita'
(il  remittente  non  si  pone nemmeno il problema del significato di
questa  seconda  figura di reato, che si direbbe posta a tutela di un
valore  solo "spirituale", non altrettanto facilmente riferibile allo
Stato  com'e'  invece  la  bandiera),  bensi',  ancora una volta, per
lamentare    la   diversita'   delle   scelte   fatte   in   materia,
rispettivamente, dal codice penale comune e da quello militare, senza
argomentare  circa  l'esistenza  di eventuali giustificazioni di tale
diversita'.
    Onde,  in  definitiva,  la  censura mossa alla norma impugnata si
riduce    ad    una    critica,    di    significato   essenzialmente
politico-legislativo,   all'eccessiva   severita'  sanzionatoria  del
codice militare.
    Ma e' appunto al legislatore che incombe il dovere di ripensare e
ridimensionare  il  sistema  dei  reati  e  delle pene recato da tale
codice,   avendo   naturalmente   riguardo,  anzitutto,  ai  principi
costituzionali.  Interventi  demolitori  o  "manipolativi"  di questa
Corte  possono  configurarsi solo in presenza di accertate violazioni
dei  precetti  costituzionali  in  materia  di reati e di pene, nella
specie  non dedotte, o di manifesta irragionevolezza delle previsioni
sanzionatorie,  di  cui,  nella  specie,  non  e'  dimostrata in modo
convincente la sussistenza.
    Resta  fermo  comunque il dovere dei giudicanti di verificare, in
sede  applicativa,  la  riconducibilita'  della  condotta  al modello
legale e la sua concreta offensivita'.