IL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE Ha pronunciato la seguente ordinanza; Visto il ricorso n. 183/2000 R.G. proposto dal dott. Vincenzo D'Acquaviva avverso la delibera in data 15 dicembre 1999, con la quale il consiglio dell'ordine degli avvocati di Bari rigettava la sua domanda di iscrizione all'albo per incompatibilita'; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visti gli atti di causa; Sentito il relatore alla pubblica udienza del 28 ottobre 2000, consigliere Paolo Pauri e udito il sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, dott. Luigi Ciampoli e l'avv. Vito Nanna in rappresentanza del C.O.A. di Bari; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue; F a t t o Il dott. Vincenzo D'Acquaviva, dipendente di ruolo della ASL BA/5 con la qualifica di ausiliario specializzato, in possesso dell'abilitazione all'esercizio della professione forense, in data 22 dicembre 1997, presentava domanda di iscrizione nell'albo degli avvocati di Bari. Con racc. a.r. del 24-27 gennaio 1998 e con altra racc. a mano l'esponente reiterava nuovamente l'invito diffidando e sollecitando il consiglio dell'ordine affinche' procedesse alla iscrizione nell'albo. Decorso inutilmente il termine di tre mesi, in data 31 marzo 1998, presentava ricorso al Consiglio nazionale forense, contro il comportamento illegittimo del C.O.A. di Bari, ma il ricorso veniva rigettato per carenza dello jus postulandi. In seguito il C.O.A. di Bari, con racc. a.r. del 3 aprile 1998 faceva presente, con riferimento alla domanda del ricorrente, depositata il 22 dicembre 1997, "che nella seduta del 19 marzo 1998 il consiglio ha deliberato di (omissis) sospendere tutte le richieste di iscrizione di dipendenti della pubblica amministrazione a part-time in quanto si e' avuta notizia informale della decisione del C.N.F. di rimessione della questione alla Corte costituzionale". Con altra racc. a mano prot. n. 4803 del 21 luglio 1998, il ricorrente sollecitava ancora una volta l'iscrizione nell'albo evidenziando l'efficacia dell'art. 1, commi 56 e 56-bis della legge n. 662/1996, almeno fino alla pronuncia di incostituzionalita' da parte della Corte costituzionale. Esponeva inoltre che la disciplina sul part-time aveva fatto sorgere il diritto soggettivo all'iscrizione, azionabile giudizialmente e che continuava a subire il pregiudizio economico derivante dalla mancata iscrizione e dalla lesione della immagine sociale. A seguito della nota, il presidente del C.O.A. di Bari, in riscontro alla medesima, scriveva: "Nel prendere buona nota del contenuto, Le comunico che la Sua istanza sara' discussa nella prima seduta consiliare post-feriale". A seguito della pronuncia n. 183/1999 del Giudice delle leggi, con ennesima raccomandata del 10 giugno 1999, il ricorrente reiterava la domanda di iscrizione. Non ricevendo alcun riscontro, in data 7 settembre 1999, presentava un esposto-denuncia al procuratore della Repubblica di Bari (inviandone copia al Presidente della Repubblica) con il quale lamentava il comportamento omissivo del C.O.A., sollecitando un intervento teso a ripristinare la legalita', se ritenuta violata. In data 3 dicembre 1999, a distanza di sei mesi dall'ultima domanda di iscrizione, al ricorrente veniva notificata la citazione a comparire alla seduta del C.O.A. di Bari del 15 dicembre 1999, "per essere ascoltato nella Sua reiterata istanza di iscrizione nell'albo degli avvocati nella qualita' di funzionario pubblico part-time". Il ricorrente replicava, evidenziando la illegittimita' di tale procedimento, non previsto da alcuna disposizione di legge, oltre che a distanza di due anni dalla data dell'istanza di iscrizione. Con deliberazione del 15 dicembre 1999 il C.O.A. di Bari deliberava infine il rigetto della domanda, richiamandosi agli orientamenti e motivazioni contenuti nella ordinanza del C.N.F. dell'8 gennaio 2000, con la quale e' stata rimessa dinanzi alla Corte costituzionale la questione delle iscrizioni previste dalla legge n. 662/1996. Ha proposto ricorso il dr. Vincenzo D'Acquaviva eccependo che la deliberazione di rigetto della domanda e' illegittima, e ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi: 1) violazione di legge e mancata applicazione di norma: articoli 3 e 33 della Costituzione; 24-31, r.d.l. n. 1578/1933; 45, r.d. n. 37/1934; 1, commi 56 e 56-bis, legge n. 662/1996; 39, legge n. 449/1997; 41, comma 31, legge n. 448/1998; 3, legge n. 241/1990; 15, disp. prel. c.c. Eccesso di potere: ingiustizia manifesta. Erroneita' dei presupposti. Violazione e mancata applicazione dei principi del giusto procedimento, di legalita' e buona amministrazione, logicita' e imparzialita'. Sviamento dell'interesse pubblico. Disparita'. Illogicita' e contraddittorieta' dell'atto. In via preliminare ha chiarito di essere dipendente di una A.S.L. con qualifica di ausiliario (III livello, il piu' basso del comparto sanita') e che per cio' stesso non puo' essere considerato alla stregua dei pubblici dipendenti cui fa riferimento l'art. 3 del r.d. n. 1578/1933, posto che il d.lgs. n. 29/1993 ha introdotto la c.d. privatizzazione del pubblico impiego, per cui non e' ipotizzabile alcuna violazione ai principi di buon andamento ed efficienza dell'attivita' amministrativa anche perche', data la modesta qualifica di ausiliario e', percio' stesso autonomo, indipendente nelle sue determinazioni e moralmente libero da qualsivoglia condizionamento. Ha poi evidenziato che il comportamento tenuto dal C.O.A. di Bari e' risultato in palese violazione della legislazione vigente in materia di ordinamento professionale e della legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, dal momento che invece di deliberare nel termine di tre mesi dalla presentazione della domanda ha sospeso le iscrizioni avendo avuto notizia "informale" della decisione del C.N.F. di rimessione della questione alla Corte costituzionale, mentre l'obbligo giuridico di procedere alla iscrizione e' atto dovuto, meramente ricognitivo, che non necessita di una valutazione discrezionale. Ha poi sostenuto che il quinto comma dell'art. 33 della Costituzione prescrive, per l'abilitazione all'esercizio professionale, esclusivamente il superamento di un esame di Stato, senza menzionare l'iscrizione in albi quale condizione per esercitare tale diritto. Sempre in tema di procedimento fondato su presupposti erronei e in violazione della normativa vigente, ha ricordato come il C.O.A. di Bari, a distanza di sei mesi dalla nuova istanza, ha notificato un singolare decreto di citazione a comparire, definendolo "delibera", fissando il termine di dieci giorni ... per le difese, e come la delibera di rigetto, pur essendo stata emessa il 15 dicembre 1999 e' stata notificata il 17 maggio 2000 (cinque mesi dopo), anziche' entro quindici giorni e non e' stata trasmessa al procuratore della Repubblica, in violazione degli articoli 24, comma 6, e 31, comma 5, del r.d.l. n. 1578/1933. Ha infine rilevato che l'ordine degli avvocati di Bari ha violato anche l'art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile in materia di successione e abrogazione di leggi, ponendosi in netto contrasto con il principio tempus regit actum, per il quale un atto e' regolato dalla normativa e dalla forma vigente al momento del suo compimento. Ha quindi chiesto che il C.N.F. annulli la delibera del C.O.A. di Bari 15 dicembre 1999 notificata il 17 maggio 2000 e ordini la iscrizione di esso ricorrente nell'albo degli avvocati di Bari, con vittoria di spese, diritti ed onorari. Il Consiglio nazionale forense, gia' investito della controversia in materia di compatibilita' tra l'iscrizione all'albo degli avvocati e il rapporto di pubblico impiego in regime di part-time, con ordinanza 29 gennaio 1998 sollevava questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 56 e 56-bis, legge 23 dicembre 1996, n. 662 per violazione degli articoli 3, 24, 54, 70, 97, 98, 101 e 104 della Costituzione. La Corte costituzionale, con ordinanza n. 183 del 20 maggio 1999, ha ritenuto la questione manifestamente inammissibile, per mancata integrazione del contraddittorio nel giudizio dinanzi al Consiglio nazionale forense (C.N.F.), con riferimento al Consiglio dell'ordine degli avvocati (C.O.A.) il cui provvedimento era stato impugnato. Pertanto, non essendosi la Corte costituzionale pronunziata in merito, il Consiglio nazionale forense, nella sua qualita' di giudice speciale ai sensi dell'art. 111 Cost., e della VI disp. trans. Cost., non potendo decidere la questione senza fare applicazione delle norme di cui ai commi 56 e 56-bis dell'art. 1, legge 23 dicembre 1996, n. 662, solleva la questione di legittimita' costituzionale delle norme stesse, ex art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, per le seguenti argomentazioni in D i r i t t o 1. - La Corte costituzionale, con ordinanza n. 183 del 20 maggio 1999, riteneva la questione sollevata manifestamente inammissibile, per mancata integrazione del contraddittorio nel giudizio dinanzi al Consiglio nazionale forense (C.N.F.), con riferimento ai Consigli dell'ordine degli avvocati (C.O.A.) i cui provvedimenti sono stati impugnati. 1.1. - La Corte ha infatti ritenuto, coerentemente con i principi generali in forza dei quali i Consigli dell'ordine degli avvocati (C.O.A.) agiscono in qualita' di autorita' amministrative i cui atti possono essere impugnati di fronte al giudice competente (appunto il C.N.F.), che i C.O.A. stessi siano parte necessaria nel giudizio dinanzi al C.N.F.. 1.2. - La Corte ha inoltre rilevato: che non sarebbero stati osservati gli adempimenti che la legge impone al Consiglio nazionale forense (C.N.F.) per consentire ai Consigli dell'ordine di "... prender parte al giudizio, almeno mediante l'esecuzione degli adempimenti di cui agli articoli 60 e 61 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e d'attuazione del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 sull'ordinamento della professione d'avvocato)"; "che il mancato compimento dell'attivita' minima necessaria a porre le parti in rapporto fra loro (e con il giudice) determina un'abnormita' dei procedimento rilevabile ictu oculi" e "che la suddetta abnormita' comporta la manifesta inammissibilita' della questione ...". 2. - In merito alla questione dell'integrazione del contraddittorio nel caso di specie, si osserva che il Consiglio nazionale forense (C.N.F.) ha regolarmente comunicato al Consiglio dell'ordine degli avvocati di Bari, autore del provvedimento impugnato, l'avvenuta ricezione degli atti relativi al deposito del ricorso, effettuato presso lo stesso C.O.A. (art. 59, r.d. 22 gennaio 1934, n. 37), con raccomandata r.r. 24 luglio 2000 (che si allega in copia), nonche' inviato regolarmente comunicazione dell'avvenuta fissazione dell'udienza ai sensi del richiamato art. 61, con raccomandata r.r 4 settembre 2000 per l'udienza del 28 ottobre 2000 (che si allega in copia); 2.1 - Sulla base delle considerazioni espresse sub 2, il Consiglio nazionale forense ritiene che siano state adempiute le prescrizioni che la legge impone ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio, e che la questione di costituzionalita' sollevata non sia pertanto manifestamente inammissibile. 3. - Il Consiglio nazionale forense ritiene opportuno non prescindere dal ribadire la propria legittimazione a sollevare la questione di costituzionalita', in relazione alla considerazione resa dalla Corte costituzionale nell'ordinanza n. 183/1999, nella quale si legge "... anche a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine alla conformita' a Costituzione del Consiglio nazionale forense quale giudice speciale ...". 3.1. - Il Consiglio nazionale forense, in qualita' di organo esercitante funzioni, oltre che amministrative, anche propriamente giurisdizionali, e' giudice speciale ai sensi dell'art. 111, e della VI disposizione transitoria della Costituzione della Repubblica, ed e' pertanto pienamente legittimato a sollevare questione di legittimita' costituzionale di norme o parti di norme di legge e atti aventi forza di legge dello Stato e delle regioni, ex art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87. 3.2. - Com'e' noto, l'art. 102 della Costituzione si limita a disporre il divieto di "istituzione" di giudici speciali, nel quadro di una generale opzione del costituente verso l'unicita' della giurisdizione, ma non dispone ipso iure la soppressione delle giurisdizioni speciali operanti al momento dell'entrata in vigore della Costituzione, per le quali, piu' limitatamente, la Costituzione stessa prevede, nella citata disposizione transitoria, la possibilita' di una "revisione" (e non di una "soppressione") entro cinque anni dall'entrata in vigore della Costituzione stessa. 3.3. - La Corte costituzionale ha ritenuto il termine dei cinque anni avente natura meramente ordinatoria (sentenza 23 dicembre 1986, n. 284, in Foro it., 1988, I, 3563, punto 3 del considerato in diritto). Anche, poi, a volere considerare perentorio il termine, e' evidente che cio' non puo' di per se' comportare la radicale incostituzionalita' dei giudici speciali esistenti, non essendo l'espressione "revisione" certo equivalente al termine "soppressione", o "eliminazione". Solo il legislatore ordinario, in virtu' della riserva di legge di cui alla VI disp. trans. Cost., "... dovra' in quella sede valutare se sia conveniente sopprimerli, con l'eventuale trasformazione in sezioni specializzate dei tribunali ordinari, ovvero mantenerli, con le opportune modificazioni ..." (punto 3 del considerato in diritto). E cio' forse a temperare, in direzione di un impianto pluralistico dell'assetto delle istituzioni di giustizia, l'opzione succitata verso il principio di unicita' della giurisdizione (Azzariti). 3.4. - Non vale certo, ad escludere la qualita' di giudice speciale del Consiglio nazionale forense allorche' giudichi in sede di gravame avverso le decisioni dei C.O.A., la circostanza della contitolarita' in capo al C.N.F., di funzioni amministrative e di funzioni giurisdizionali. La Corte costituzionale ha avuto modo di ribadire che la coesistenza di funzioni amministrative in capo ad organo che svolge funzioni giurisdizionali non esclude di per se' l'ineliminabile requisito costituzionale dell'indipendenza, secondo il disposto degli articoli 101 e 108 della Costituzione (Corte costituzionale 22 gennaio 1976, n. 25, in Foro it. 1976, I, 1; 27 maggio 1968, n. 49, id., 1968, I, 1383; 23 dicembre 1986, n. 284, id. I, 3563; e, piu' di recente, Corte costituzionale 8 luglio 1992, n. 326, in Giur. cost., 1992, fasc. 4). 3.5. - Ne' vale, ad escludere la natura propriamente giurisdizionale del Consiglio nazionale forense allorche' giudichi in sede di gravame avverso le decisioni dei C.O.A., la circostanza della natura elettiva dell'organo. Nella citata sentenza n. 284/1986, la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire come il criterio elettivo, peraltro costituzionalmente previsto all'art. 106, secondo comma, Cost., possa ben conciliarsi con il requisito dell'indipendenza, e che occorra avere riguardo, piuttosto, alle concrete modalita' di scelta dei componenti l'organo giudicante. Ora, secondo l'ordinamento vigente della professione d'avvocato, il meccanismo di elezione dei componenti il Consiglio nazionale forense, basato sull'elezione da parte dei componenti dei vari Consigli degli ordini degli avvocati, a loro volta eletti dagli iscritti all'albo, integra un sistema elettorale di secondo grado, di per se' particolarmente idoneo ad assicurare la selezione di candidati di alto profilo morale e intellettuale, qualificati da esperienza e conoscenza assai approfondita delle questioni attinenti l'ordinamento forense, e del tutto al riparo, per l'autorevolezza delle personalita', se non per l'autorita' che rivestono, dalla possibilita' di condizionamenti contingenti nell'esercizio delle funzioni loro assegnate, da qualsiasi parte essi provengano. Sembra anzi a questo Consiglio nazionale che un tale assetto ordinamentale, che ha consentito in passato l'elezione a presidente del Consiglio nazionale e rappresentante dell'avvocatura italiana tutta di personalita' quali Vittorio Scialoja e Piero Calamandrei, vada gelosamente custodito nell'interesse della comunita' nazionale, giacche' la conservazione della qualita' di organo giurisdizionale in capo al C.N.F. appare il migliore presidio dell'indipendenza e dell'autonomia dell'avvocatura e degli avvocati, e quindi dell'effettivita' della difesa e dell'assistenza in giudizio, secondo il disposto dell'art. 24 della Costituzione della Repubblica. 3.6. - Non depone inoltre nel senso dell'incostituzionalita' della c.d. giurisdizione disciplinare la circostanza che il Consiglio nazionale forense giudichi su soggetti appartenenti alla medesima categoria professionale. La Corte costituzionale ha infatti ritenuto che tale circostanza non pregiudichi di per se' il requisito dell'indipendenza del giudice, riconoscendo in forza di tale assunto natura propriamente giurisdizionale alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, composto per due terzi da magistrati (sentenza n. 12 del 1971, in Foro. it., 1971, I, 536). 3.7. - Al riconoscimento della natura giurisdizionale di tale attivita' decisoria del Consiglio nazionale forense e' pervenuto del resto esplicitamente lo stesso Giudice delle leggi, allorche', nella sentenza 6 luglio 1970, n. 114, (in Foro it. 1970, I, 2303) ha osservato che "... il Consiglio nazionale, a differenza dei singoli consigli dell'ordine, svolge, quando e' chiamato a decidere sui ricorsi contro i provvedimenti adottati da detti consigli, funzione giurisdizionale per la tutela di un interesse pubblicistico, esterno e superiore a quello dell'interesse del gruppo professionale: il che puo' trovare conferma nella ricorribilita' contro le decisioni del Consiglio nazionale alle sezioni unite della Corte di cassazione". Per gli stessi motivi la Corte costituzionale aveva infatti escluso la legittimazione alla sollevazione della questione di costituzionalita' di un Consiglio dell'ordine degli avvocati, che aveva erroneamente argomentato circa la propria qualita' di giudice a quo muovendo dalla considerazione dei poteri che spettano al p.m. nell'ambito del procedimento disciplinare dinanzi al C.O.A. stesso; tali poteri vanno piu' propriamente inquadrati nell'ambito di una attivita' di collaborazione all'esercizio di una funzione amministrativa, resa a tutela di un interesse del gruppo professionale, mentre "... quando il procedimento si sposta nella sede del reclamo le funzioni del pubblico ministero si esercitano ai fini della tutela di un interesse esterno a quello del gruppo, diverso e distinto dall'altro che si incentra nell'ordine". La Corte mostra di riconoscere come la natura giurisdizionale dell'attivita' decisoria resa dal C.N.F. in sede di gravame avverso le decisioni dei C.O.A. sia collegata all'esigenza superiore della tutela di interessi pubblici, mentre l'attivita' resa dai C.O.A. in sede disciplinare resta a presidio degli interessi collettivi della categoria professionale. 4. - Nella succitata sentenza n. 284/1986, la Corte si riserva di valutare, a prescindere dal potere di "revisione" del legislatore, se, nel caso concreto, il giudizio che si svolge innanzi ad un Consiglio nazionale professionale istituito prima dell'entrata in vigore della Costituzione sia conforme ai canoni costituzionali, e specialmente, come prima accennato, al canone dell'indipendenza del giudice e al principio della piena garanzia del contraddittorio nel procedimento. 4.1. - Il C.N.F. ritiene che le caratteristiche del procedimento decisorio che si instaura innanzi al Consiglio nazionale forense a seguito dell'impugnazione di un provvedimento di un C.O.A. presenti anche sul piano oggettivo le caratteristiche strutturali e funzionali di un'attivita' propriamente giurisdizionale. 4.2. - Con riguardo infatti al profilo oggettivo del funzionamento dell'organo, si osserva che le particolari modalita' del procedimento a conclusione del quale e' resa la decisione sembrano soddisfare pienamente il rispetto dei canoni di cui al suesteso punto 4. Il procedimento innanzi al Consiglio nazionale forense e' disciplinato dal capo IV del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 (articoli 59 e ss.). Il ricorso avverso la decisione del C.O.A. e' effettuato mediante deposito presso la segreteria del C.O.A. stesso, che provvede immediatamente a darne comunicazione alle altre parti e al pubblico ministero. Le parti interessate possono prendere visione degli atti, produrre deduzioni ed esibire documenti, che vengono inseriti nel fascicolo trasmesso al Consiglio nazionale forense. Le parti interessate devono eleggere domicilio in Roma ai fini delle comunicazioni e delle notificazioni prescritte, e darne avviso alla segreteria del Consiglio nazionale forense. Il professionista interessato puo' farsi assistere da avvocato abilitato al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori (iscritto cioe' nell'albo speciale di cui all'art. 33 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578). La segreteria del Consiglio nazionale forense, non appena ricevuti gli atti del ricorso, li comunica al pubblico ministero presso la Corte di cassazione, che li restituisce entro i quindici giorni successivi alla ricezione, e avverte il ricorrente e le altre parti interessate che gli atti rimarranno depositati negli uffici del Consiglio nazionale per il termine di dieci giorni a decorrere dal giorno successivo a quello in cui il pubblico ministero deve effettuarne la restituzione. Durante il termine succitato il ricorrente, il difensore e le altre parti hanno facolta' di prendere visione degli atti, di proporre deduzioni e di esibire documenti. La stessa facolta' spetta al pubblico ministero presso la Corte di cassazione. Il presidente del Consiglio nazionale forense nomina il consigliere relatore e fissa la data dell'udienza per la discussione. Di tale provvedimento e' data immediata comunicazione al ricorrente ed alle altre parti con indicazione del giorno e dell'ora in cui la seduta avra' luogo. La discussione del ricorso avviene in udienza pubblica, con intervento del pubblico ministero, dopo la relazione effettuata dal consigliere relatore. Il professionista interessato puo' esporre le sue deduzioni personalmente o a mezzo del difensore. Il Consiglio nazionale procede, su richiesta delle parti o d'ufficio a tutte le indagini necessarie per l'accertamento dei fatti. La decisione del ricorso e' deliberata senza la presenza delle parti, cioe' dell'incolpato e del suo difensore, e del C.O.A. il cui provvedimento e' stato impugnato, e senza la presenza del pubblico ministero. Mentre infatti la norma originaria disponeva che "il pubblico ministero assiste alla decisione" (art. 63, secondo comma, r.d. 22 gennaio 1934), la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima per violazione dell'art. 24, secondo comma, Cost., l'assistenza del p.m. nel momento della deliberazione della decisione, a fronte del corrispondente obbligo di allontanarsi dell'incolpato e del di lui difensore (sentenza 17 febbraio 1972, n. 27, in Foro It. 1972, I, 568). Nella citata sentenza, la Corte ha rilevato che "l'esame delle disposizioni concernenti i procedimenti disciplinari innanzi al Consiglio nazionale forense (art. 59 e 68, r.d. n. 37 del 1934) non lascia adito a dubbi sulla posizione di parte che assume il pubblico ministero ...". La Corte ha ritenuto inoltre di equiparare pienamente ai procedimenti giurisdizionali ordinari il procedimento che si svolge in sede di giurisdizione disciplinare innanzi al C.N.F., asserendo che "la veste e le attribuzioni del p.m. nei procedimenti disciplinari innanzi al Consiglio nazionale forense non sono dissimili da quelle spettanti al p.m. nei procedimenti ordinari e cio' nondimeno per questi ultimi, l'ordinamento giudiziario vigente detta una norma generale di contenuto diametralmente opposto sancendo appunto il divieto per i p.m. di assistere alla deliberazione della decisione delle cause civili e penali da parte dei giudici di merito". 4.3. - La Corte costituzionale ha dunque sancito che la deliberazione della, decisione del Consiglio nazionale forense e' "la fase conclusiva piu' delicata del giudizio, (e') compito esclusivo dell'organo giudicante", e proprio a garanzia dell'indipendenza di tale organo, la presenza del p.m., parte processuale, non ha ragione di essere, realizzando piuttosto "una situazione di vantaggio con evidente menomazione del diritto di difesa dell'incolpato". 4.4. - Anche le caratteristiche della decisione del ricorso confermano la natura propriamente giurisdizionale dell'attivita' resa. Il provvedimento decisorio assume infatti le forme di una sentenza pronunziata in nome del popolo italiano, e presenta come elementi necessari, l'indicazione: dell'oggetto del ricorso, le deduzioni del ricorrente, le conclusioni del pubblico ministero, i motivi sui quali si fondano, il dispositivo, l'indicazione del giorno del mese e dell'anno in cui sono pronunziate, la sottoscrizione del presidente e del segretario, la pubblicazione mediante deposito nella segreteria del Consiglio, la comunicazione immediata al procuratore generale presso la Corte di cassazione (cui si comunicano anche le date delle notificazioni eseguite alle altre parti interessate), e soprattutto l'impugnabilita' delle sentenze stesse dinanzi alle sezioni unite della Corte di cassazione, presidio dell'uniforme interpretazione ed applicazione del diritto oggettivo nell'ordinamento. 4.5. - In conclusione, la natura di giudice speciale del Consiglio nazionale forense appare confermata da un'analisi del profilo soggettivo delle caratteristiche dell'organo giudicante, e dall'analisi del profilo oggettivo attinente alle modalita' di svolgimento di un procedimento decisorio scandito da particolari ritualita' e requisiti di forma, a garanzia dell'indipendenza del giudice e del rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., anche in virtu' delle ulteriori garanzie introdotte dalla citata giurisprudenza del giudice delle leggi. 5. - Il Consiglio nazionale forense, ritenendo pertanto la questione ammissibile, e reputando di essere pienamente legittimato a sollevarla, intende riproporre, per i seguenti ordini di motivi, la questione di legittimita' costituzionale della norma di cui al comma 56 dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, che recita: "56. Le disposizioni di cui all'articolo 58, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, nonche' le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno"; nonche' della norma di cui al comma 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1999, n. 662, inserito in forza dell'art. 6 della legge 28 maggio 1997, n. 140, che recita: "2. Dopo il comma 56 dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e' inserito il seguente: 56-bis. Sono abrogate le disposizioni che vietano l'iscrizione ad albi e l'esercizio di attivita' professionali per i soggetti di cui al comma 56. Restano ferme le altre disposizioni in materia di requisiti per l'iscrizione ad albi professionali e per l'esercizio delle relative attivita'. Ai dipendenti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitano attivita' professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche; gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione". 6. - La questione di legittimita' costituzionale delle norme di cui ai commi 56 e 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e' rilevante per la decisione del giudizio principale innanzi al Consiglio nazionale forense, che non puo' infatti essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione (art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87). Il ricorrente chiede infatti l'iscrizione all'albo degli avvocati in forza dell'applicazione delle norme succitate, che dispongono l'abrogazione parziale delle disposizioni che sanciscono l'incompatibilita' tra l'esercizio della professione forense e la condizione di dipendente pubblico (art. 3, r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578). 7. - La questione di legittimita' costituzionale delle norme succitate non e' manifestamente infondata (art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87). Invero diversi appaiono i profili di dubbio circa la coerenza delle norme con diverse disposizioni della Costituzione, in particolare rispetto all'art. 3, all'art. 4 all'art. 24, all'art. 97, all'art. 98. 8. - Numerosi sono i profili di dubbio circa la costituzionalita' della norma rispetto all'art. 97 e all'art. 98 della Costituzione, che sanciscono i principi di imparzialita' e di buon andamento della pubblica amministrazione, nonche' l'obbligo esclusivo di fedelta' alla Nazione dei pubblici impiegati. Va innanzi tutto precisato che le norme hanno un campo di applicazione particolarmente vasto, rimuovendo l'incompatibilita' tra l'attivita' di dipendente pubblico part-time, e l'esercizio di tutte le professioni intellettuali. 8.1. - Con riferimento al principio di imparzialita', si osserva che l'attivita' di dipendente pubblico, seppure part-time, comporta in capo al soggetto una serie di obblighi e facolta' che identificano uno status particolare di lavoratore subordinato, qualificato, nonostante le tendenze in atto nell'ordinamento alla progressiva equiparazione del rapporto di impiego pubblico al rapporto di impiego privato, da uno stringente obbligo di fedelta' alla pubblica amministrazione presso la quale il soggetto e' incardinato, secondo il suo specifico rapporto di servizio: status simbolicamente ed enfaticamente ipostatizzato in Costituzione all'art. 98, primo comma, che appunto sancisce che "I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione". ll rapporto d'ufficio, a volte addirittura rapporto di immedesimazione organica, tra il pubblico dipendente e l'amministrazione per la quale svolge le proprie prestazioni lavorative e' basato sul dovere d'ufficio di perseguire e proteggere l'interesse pubblico primario affidato alla cura dell'amministrazione stessa, in base al principio di legalita' dell'azione amministrativa. Il dovere di imparzialita' si concreta sia in una posizione soggettiva di prudente equidistanza dagli interessi privati, collettivi e/o individuali, eventualmente coinvolti nel procedimento, con conseguente obbligo di astensione ogni qualvolta "... l'amministratore non si trovi in una posizione di assoluta serenita' rispetto alla deliberazione da adottare" (Barile), sia, sul piano oggettivo, nella necessita', per la p.a. procedente, di valutare e ponderare tutti gli interessi tutelati dalla legge e coinvolti nell'azione amministrativa, e nella conseguente adozione delle scelte discrezionali in base a criteri previsti dalla legge, o conformemente ad indirizzi generali, fissati dagli organi competenti o dalla stessa p.a. (Cerri, Berti). 8.2. - Anche il principio di buon andamento, del quale i principi di economicita' efficacia e pubblicita' dell'azione amministrativa costituiscono esplicazione, ai sensi dell'art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, contribuisce a ritagliare intorno alla posizione del pubblico dipendente uno status caratterizzato da una notevole serie di obblighi e doveri. Dopo un primo orientamento della giurisprudenza e della dottrina volto a negare giuridicita' e precettivita' al principio in parola, considerato oggetto di norma programmatica, dottrina (Andreani) e giurisprudenza (vedi ad es. Corte costituzionale 25 luglio 1996, n. 313) ne hanno invece individuato un duplice significato giuridico: obbligo di conseguire un risultato che assicuri ponderata soddisfazione a tutti gli interessi pubblici coinvolti; indicazione dei mezzi attraverso i quali conseguire quel risultato. Coordinando tali esiti dottrinari con l'impianto democratico della Costituzione, ed in particolare con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, il principio di buon andamento assumerebbe una differente prospettiva in riferimento ad un'amministrazione di "prestazione" e ad una di "regolazione"; nel primo settore il principio implicherebbe l'adeguamento delle strutture, dei mezzi e del personale alle esigenze del cittadino-utente, in modo da assicurare il pieno sviluppo della persona e la sua effettiva partecipazione; nell'amministrazione di regolazione, quella basata sui provvedimenti autoritativi, il buon andamento consterebbe invece nell'adeguamento dei procedimenti al fine di assicurare una combinazione degli interessi coinvolti in concorso con i soggetti pubblici e privati, singoli e associati titolari di quegli interessi. Cosi', dunque, come l'imparzialita' mira ad assicurare l'eguaglianza "formale", il buon andamento mirerebbe all'eguaglianza "sostanziale" nell'amministrazione di prestazione, al superamento del carattere unilaterale nell'amministrazione di regolazione. 8.3. - Tali doveri mal si conciliano con la fisiologica vicinanza agli interessi giuridicamente rilevanti - od anche ai meri interessi materiali - della clientela, che la condizione di libero professionista ontologicamente comporta. Si pensi ad un dottore o ragioniere commercialista che sia anche pubblico dipendente di un ufficio dell'amministrazione finanziaria, centrale o periferica, o dell'ufficio imposte di un ente locale. In questo caso si appalesa evidente l'immanente contrasto tra il dovere d'ufficio e il dovere professionale che gravano sul medesimo soggetto, con il rischio di un sistematico nocumento all'imparzialita' dell'azione amministrativa arrecato dal pubblico dipendente che sia anche libero professionista. 8.4. - Se l'inconciliabilita' tra il dovere d'ufficio del pubblico dipendente e il dovere professionale del professionista assume carattere generale, pur tuttavia la questione e' di particolare delicatezza con riferimento all'esercizio della professione d'avvocato, la cui indipendenza ed autonomia sono presupposto dell'effettivita' del diritto costituzionale di difesa, secondo il disposto dell'art. 24 Cost., e laddove l'imparzialita' e il buon andamento colpiti sarebbero quelli dell'amministrazione della giustizia. Mal si concilia con la legalita' e l'efficienza dell'amministrazione della giustizia, gia' cronicamente problematiche nel nostro paese, la posizione dell'avvocato che sia anche dipendente di un ufficio giudiziario, e sia magari alle dipendenze funzionali di un magistrato in servizio. Sorge inoltre il dubbio che l'avvocato dipendente pubblico part-time possa non sentirsi pienamente libero di assumere nell'interesse dell'assistito, iniziative e condotte difensive che sappia essere invise al titolare dell'ufficio giudiziario a lui sovraordinato nell'ambito del rapporto di pubblico impiego. Nel conflitto tra le due appartenenze e le due responsabilita', l'avvocato - a torto o a ragione non rileva - potrebbe ritenersi limitato nel dispiegamento di tutte le attivita' di difesa che la legge consente, e rinunziare a taluni atti, con evidente pregiudizio della posizione dell'assistito, oppure potrebbe giovarsi della sua posizione all'interno dell'amministrazione della giustizia per procurare indebiti vantaggi, con evidente pregiudizio dell'imparzialita' e del buon andamento dell'amministrazione: nell'un caso avremmo una grave violazione dell'art. 24, nell'altro una grave violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione. Le considerazioni qui esposte giustificherebbero una pronunzia addittiva della Corte costituzionale, nel senso della dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle norme di cui ai commi 56 e 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nella parte in cui queste non escludono la professione d'avvocato dal proprio campo di applicazione (vedi oltre, punto n. 13). 9. - All'atto di valutare la legittimita' costituzionale della compatibilita' tra l'esercizio della libera professione e l'attivita' di docenza nelle scuole (disposta dall'art. 92, sesto e settimo comma, d.P.R. 31 maggio 1974, n. 417, la Corte costituzionale ha avuto modo di giustificare la deroga al regime ordinario di incompatibilita' previsto nell'ordinamento di varie professioni libere, con la considerazione "... dell'influenza positiva che all'attivita' didattica puo' derivare dalla pratica professionale ..." (sentenza n. 284/1986, cit., punto 8 del considerato in diritto), e solo in ragione di tale specialita' della condizione del dipendente pubblico-docente ha ritenuto la norma censurata in quell'occasione conforme a Costituzione. Se e' vero che il libero professionista puo' in ragione della sua attivita' arricchire i contenuti didattici dell'insegnamento con il patrimonio culturale dell'esperienza concreta, la norma citata prevede che, in ogni caso, l'esercizio delle libere professioni non debba recare "... pregiudizio all'assolvimento di tutte le attivita' inerenti alla funzione docente" e che tali libere professioni "... siano compatibili con l'orario di insegnamento e di servizio"; cio' che qui piu' conta evidenziare e' che la Corte riconosce essenziale l'apposizione di questo limite generale per escludere l'incostituzionalita' della norma per violazione degli artt. 97 e 98 Cost. 9.1. - Ora, nel caso in esame, i commi 56 e 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non pongono alcun limite specifico, in ragione degli interessi costituzionalmente protetti dagli artt. 97 e 98, alla facolta' di esercitare la libera professione per i dipendenti pubblici part-time, se non la precisazione che "... Ai dipendeti pubblici iscritti ad albi professionali e che esercitano attivita' professionale non possono essere conferiti incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche; gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio in controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione". Tale preclusione non appare assolutamente sufficiente a scongiurare il pericolo di violazione sistematica delle norme costituzionali citate, e sia sufficiente al riguardo richiamare gli esempi e le argomentazioni spese sub 7.2.1, e 7.2.2. 10. - E non sembra a questo Consiglio nazionale che sia irrilevante per la valutazione della costituzionalita' delle disposizioni in oggetto la condizione di evidente maggiore appetibilita' sul mercato di un professionista che sia anche pubblico dipendente, e che possa pertanto giovarsi della conoscenza oggettiva della macchina amministrativa, e della conoscenza personale di interlocutori istituzionali della clientela. E cio' non tanto per la lesione del principio della liberta' di concorrenza tra operatori professionali, quanto per la considerazione che chi entra in un mercato professionale da pubblico dipendente si avvale di un bagaglio di nozioni tecniche, scientifiche, o anche solo di carattere organizzativo, che ha acquisito proprio grazie al suo inserimento all'interno dell'amministrazione. In altre parole, l'amministrazione - e quindi l'intera comunita' nazionale - ha nella maggior parte dei casi subito dei costi spesso cospicui per la formazione dei propri quadri, formazione che gli altri cittadini che esercitano la libera professione si sono dovuti procacciare a proprie spese. Appare a questo Consiglio nazionale che la situazione da ultimo descritta integri molteplici violazioni del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), sia in senso formale, sotto il profilo della disparita' di trattamento, sia in senso sostanziale, sotto il profilo di una lesione del principio delle pari opportunita': nel caso di specie il legislatore anziche' rimuovere, finisce per aggiungere indebitamente "... ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ...". 11. - Invero l'art. 3 della Costituzione viene in considerazione anche, e ancor piu' significativamente, per un rilievo di carattere generale circa l'assoluta irragionevolezza delle norme di cui ai commi 56 e 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662. La Corte costituzionale, pur nel rispetto della natura discrezionale e politica delle scelte operate dal legislatore ordinario, si e' infatti sempre riservata il potere di valutare in concreto se l'attivita' di ponderazione e di bilanciamento tra interessi costituzionalmente protetti operata nel caso singolo integri o meno una violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo dell'assoluta mancanza di ragionevolezza e logicita' della scelta operata. Nel caso di specie, in ragione di un'esigenza di contenimento della spesa pubblica, rinvenibile, oltre che nella ratio generale del provvedimento, persino nell'intitolazione dell'atto normativo che per primo ha introdotto le disposizioni in oggetto (trattasi del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, recante "Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica", poi convertito con parziali modificazioni in legge 28 maggio 1997, n. 79), il legislatore ha dettato una disciplina che pone seriamente in pericolo valori costituzionali ben piu' rilevanti, quali l'integrita' e l'effettivita' del diritto di difesa - che ben puo' ascriversi tra i diritti inviolabili deIl'uomo di cui all'art. 2 Cost, - in ragione del vulnus all'indipendenza ed all'autonomia del difensore, e quali i principi di imparzialita' e buon andamento dell'amministrazione. Appare a questo Consiglio nazionale irragionevole pretermettere alla garanzia di principi fondamentali quali quelli richiamati le pur rilevanti esigenze di contenimento dell'erogazione di risorse pubbliche che sono alla base dell'intervento normativo, volto manifestamente ad agevolare il passaggio dei pubblici dipendenti dal regime a tempo pieno, ovviamente piu' oneroso per l'Erario, al regime a tempo parziale. 12. - Un ulteriore profilo che consente di non dubitare della non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale delle norme de quibus concerne la sospetta violazione dell'art. 4 Cost. Per quanto la proclamazione dell'Italia come Repubblica democratica fondata sul lavoro e la statuizione di cui all'art. 4 della Costituzione non comportino una concezione del diritto al lavoro come garanzia dell'effettivo accesso al lavoro delle persone prive di occupazione (Corte costituzionale, 3 marzo 1988, n. 238, in Giur. cost., 1988, I,1027) e per quanto l'art. 4 della Costituzione non garantisca a ciascun cittadino il diritto al conseguimento od alla conservazione di un'occupazione (Corte costituzionale 22 novembre 1985, n. 300, in Cons. Stato, 1985, II, 1529), pur tuttavia cio' non esclude che il legislatore sia chiamato, anche in forza del secondo comma dell'art. 3 Cost., ad effettuare scelte di politica occupazionale tese ad ampliare le concrete possibilita' di impiego, e, conseguentemente, la generale offerta di lavoro del sistema pubblico e privato. Appare pertanto poco ragionevole, se non direttamente in violazione dell'art. 4 Cost., ogni ipotesi normativa che invece consenta al medesimo soggetto di svolgere piu' attivita' lavorative, specie in una situazione socioeconomica caratterizzata, in molte regioni d'Italia, da notevoli difficolta' di inserimento nei circuiti della produzione di beni e servizi, in un quadro generale ben lontano dalla piena occupazione. Lo svolgimento contemporaneo di piu' attivita' lavorative inevitabilmente sottrae al mercato del lavoro ambiti e spazi che potrebbero assorbire la domanda di occupazione di soggetti che ne sono totalmente sprovvisti. 13. - Per questi motivi, sembra al Consiglio nazionale forense che la questione di legittimita' costituzionale delle norme di cui ai commi 56 e 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non sia manifestamente infondata, e che debba, tanto essere rivolta alla Corte costituzionale, affinche' questa proceda alla declatatoria di illegittimita' costituzionale delle norme succitate, o addivenga ad una pronunzia di incostituzionalita' delle suddette norme nella parte in cui queste non escludono la professione d'avvocato dal proprio campo di applicazione.