ha pronunciato la seguente


                              Ordinanza

nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 11 e 12 della
legge  8  febbraio  1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) e 596-bis
del  codice  penale, promosso, nell'ambito di un procedimento civile,
con  ordinanza  emessa  il  26  ottobre  1999  dal tribunale di Roma,
iscritta  al  n. 109  del  registro ordinanze 2000 e pubblicata nella
Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n. 13  -  1a serie speciale -
dell'anno 2000.
    Visti  l'atto  di costituzione dell'attore nel procedimento a quo
nonche'  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  12  dicembre  2000 il giudice
relatore Guido Neppi Modona;
    Uditi l'avvocato Elio Ripoli per la parte costituita e l'avvocato
dello  Stato  Giuseppe  Albenzio  per il Presidente del Consiglio dei
ministri.
    Ritenuto  che  il  tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento
all'art   68,   primo   comma,   della   Costituzione,  questione  di
legittimita'  costituzionale  degli  artt.  11  e  12  della  legge 8
febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa) e 596-bis del codice
penale,  in  quanto interpretati nel senso "della loro applicabilita'
nei confronti del direttore ed editore del giornale, anche ai casi in
cui  l'autore  delle opinioni sia ammesso alla garanzia dell'art. 68,
primo comma, Cost.";
        che  il  rimettente  premette  che  nella  causa  civile  per
risarcimento dei danni, intentata da persona che si ritiene diffamata
da  un  articolo  apparso sul quotidiano "il Manifesto" nei confronti
dell'autore  della  pubblicazione,  del  direttore responsabile e del
legale  rappresentante  della  societa'  editrice,  il  tribunale  ha
dichiarato con sentenza l'inammissibilita' della domanda proposta nei
confronti  dell'autore  dell'articolo,  deputato  Nicola  Vendola,  a
seguito  della  delibera di insindacabilita' pronunciata dalla Camera
dei deputati a norma dell'art. 68 della Costituzione;
        che   il   giudice   a   quo   rileva   che,  per  "costante"
interpretazione  giurisprudenziale,  nei casi di diffamazione a mezzo
stampa  permane  la  responsabilita' del direttore e dell'editore del
giornale  "anche  in  presenza della causa di esonero riconosciuta al
parlamentare  ex  art.  68  c.  1  Cost.", in quanto la "oggettivita'
dell'illecito   penale   [...]  non  consente  il  venir  meno  della
responsabilita'   per   omissione,   nell'ipotesi   in  cui  l'autore
dell'illecito  non  e'  punito  per  l'applicabilita' della specifica
esenzione soggettiva (e funzionale) prevista dall'art. 68 Cost.";
        che,    ad    avviso    del    rimettente,   tale   indirizzo
giurisprudenziale si pone in contrasto con l'art. 68 Cost., in quanto
"di  fatto  tende  ad  escludere  o  a rendere oltremodo difficile la
possibilita'  per  il parlamentare di esprimere le proprie opinioni a
mezzo della stampa";
        che ne deriverebbe una evidente contraddizione, perche' da un
lato  viene  prevista  una  prerogativa  per  le opinioni espresse in
connessione  con l'esercizio della funzione parlamentare, dall'altro,
affermandosi "la responsabilita' dei veicoli di divulgazione" di tali
opinioni,  si  creano  ostacoli  alla  diffusione  del  pensiero  del
parlamentare fuori dal contesto del Parlamento;
        che si e' costituito nel giudizio l'attore nel procedimento a
quo  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
infondata;
        che  la  parte  costituita - premesso che avverso la sentenza
parziale   pronunciata  dal  giudice  rimettente  nei  confronti  del
parlamentare  autore  dell'articolo  diffamatorio  e'  stato proposto
appello,  con il quale, tra l'altro, viene contestata la legittimita'
della  deliberazione  di  insindacabilita'  votata  dalla Camera e si
sollecita la Corte di appello a sollevare conflitto di attribuzione -
rileva,  nel  merito, che il sacrificio della giurisdizione derivante
dalla  prerogativa  soggettiva  dell'art.  68  della Costituzione non
assicura,  contrariamente  a  quanto  asserisce  il  tribunale,  "una
copertura  costituzionale  delle opinioni diffamatorie, bensi' offre,
solo  a  favore  del  parlamentare,  una  astensione  dall'intervento
sanzionatorio   che  non  elide  la  illegittimita'  oggettiva  della
condotta,   ne'   sopprime   il  dovere  di  controllo  dei  soggetti
responsabili ai sensi delle norme denunciate";
        che  l'accoglimento della censura estenderebbe inopinatamente
la  insindacabilita' a soggetti estranei all'esercizio delle funzioni
che   costituiscono  il  fondamento  della  prerogativa  stessa,  con
evidente  "degrado  della  dialettica  politica",  poiche'  la libera
divulgazione   di   espressioni  o  concetti  diffamatori  "non  puo'
costituire materia di alcuna garanzia costituzionale";
        che,  sotto  il  profilo  della rilevanza della questione, la
parte  conclude  che, ove la Corte di appello sollevasse il conflitto
di  attribuzione, la deliberazione della Camera non potrebbe sfuggire
all'annullamento  da  parte  della  Corte  costituzionale, essendo in
palese  contrasto  con  i  principi  enunciati in materia dalla Corte
stessa  circa  il  nesso  funzionale  tra  le  opinioni espresse e la
funzione parlamentare;
        che  sussiste,  pertanto,  un profilo di pregiudizialita', in
quanto l'annullamento della deliberazione della Camera determinerebbe
l'irrilevanza  della  questione  di  costituzionalita'  sollevata dal
tribunale;
        che  e'  intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio
dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato,  chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile, o,
in subordine, infondata;
        che, secondo l'Avvocatura, le censure prospettate dal giudice
rimettente   "non   discendono   dal  diritto  vivente  formatosi  in
riferimento  ad una normativa ordinaria, che si porrebbe, percio', in
contrasto   con  la  norma  costituzionale",  ma  si  fondano  "sulla
riconduzione   della   guarentigia  costituzionale  al  novero  delle
immunita'   ed   alla  riconduzione  di  queste  ultime  (secondo  un
orientamento prevalente, seppur non unitario) alle cause personali di
esclusione  della  pena (percio' facenti eccezione all'art. 3 c.p.)":
di conseguenza, la questione sarebbe inammissibile perche' tendente a
un   "intervento   sul   parametro  valutativo  piuttosto  che  sulla
disposizione secondaria";
        che  in  sede di discussione il difensore della parte privata
costituita e l'avvocato dello Stato hanno ulteriormente sviluppato le
ragioni  a  sostegno della inammissibilita' e dell'infondatezza della
questione di legittimita' costituzionale.
    Considerato  che  il  giudice  a  quo  rileva che, per "costante"
interpretazione  giurisprudenziale,  in  caso di diffamazione a mezzo
stampa  permane  la  responsabilita'  del  direttore  del  giornale e
dell'editore anche quando nei confronti del parlamentare autore della
pubblicazione  sia  intervenuta  la deliberazione di insindacabilita'
della  Camera  di  appartenenza  a  norma  dell'art. 68, primo comma,
Cost.,  e  lamenta  che  tale indirizzo giurisprudenziale, basato sul
presupposto  che  l'insindacabilita'  sia  una  causa  soggettiva  di
esenzione  dalla  responsabilita', si pone in contrasto con l'art. 68
Cost.,   in  quanto  di  fatto  inciderebbe  sulla  possibilita'  del
parlamentare di esprimere le sue opinioni a mezzo della stampa;
        che  il  rimettente vorrebbe quindi estendere l'esonero dalla
responsabilita'  al direttore del giornale e all'editore, ma non trae
le  conseguenze  applicative  dell'interpretazione  che  egli  stesso
considera  conforme  al  parametro  costituzionale  evocato,  a causa
dell'esistenza    della    "costante"    giurisprudenza   che   segue
l'interpretazione da lui non condivisa;
        che,   contrariamente   a  quanto  il  rimettente  mostra  di
ritenere, nulla osta a che il giudice a quo adotti egli stesso quella
interpretazione  che,  a  suo avviso, gli consentirebbe di superare i
prospettati dubbi di costituzionalita';
        che,  in  definitiva,  il  rimettente  ha sottoposto a questa
Corte  esclusivamente  una questione di interpretazione dell'art. 68,
primo comma, Cost., e non gia' una questione concernente il contrasto
tra  il  significato  da attribuire alle norme ordinarie da applicare
nel giudizio a quo e il parametro costituzionale evocato;
        che    la   questione   deve   pertanto   essere   dichiarata
manifestamente inammissibile.