IL TRIBUNALE All'udienza del 21 dicembre 2000, pronuncia la seguente ordinanza nel procedimento n. 20/2000 contro Oscar Casagrande e Mario Vasi, imputati dei reati di cui agli artt. 110 c.p., 216, 217 e 219 l.f. Vista l'istanza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. presentata dall'imputato Mario Vasi all'odierna udienza, in relazione alla quale il p.m. ha prestato il consenso ritenendo la congruita' della pena proposta; Ritenuto che, a seguito dell'entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999 n. 479 che ha riformato l'art. 446, primo comma, c.p.p., non e' piu' consentita la formulazione dell'istanza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. nella fase degli atti preliminari al dibattimento del procedimento ordinario - tale istanza rimane consentita davanti al Collegio soltanto nei procedimenti con rito direttissimo; O s s e r v a La legge n. 479/1999 non contiene norme transitorie, sicche', secondo il principio tempus regit actum, dovrebbe ritenersi inammissibile la richiesta di applicazione della pena formulata all'odierna udienza, ancorche' in data 28 settembre 1999 (epoca in cui il G.U.P. ha emesso il decreto che dispone il giudizio) l'imputato, sulla base delle norme allora vigenti, aveva la facolta' di formulare tale istanza - e poteva riservarsi di farlo - sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento. La modifica dell'art. 446 c.p.p., nel precludere la possibilita' di richiedere l'applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., ha anche effetti sostanziali, posto che la disciplina degli artt. 444 e segg. c.p.p. ha solo in parte natura processuale, posto che essa consente all'imputato di non subire una vera e propria sentenza di condanna, di ottenere una pena ridotta, evitare la condanna al pagamento delle spese, alle pene accessorie ed alle misure di sicurezza; la sentenza non ha, poi, efficacia nei giudizi civili e amministrativi ed e' diversa anche la disciplina degli effetti penali (art. 445 c.p.p.). Invero, nel caso in esame non e' indifferente procedere con un rito o con l'altro, dato che la scelta del rito alternativo comporta una decisione avente un contenuto anche qualitativamente diverso rispetto alla decisione ordinaria: sicche', ben puo' ritenersi che l'istituto di cui agli artt. 444 e segg. c.p.p. contenga una disciplina di natura non solo processuale, ma anche sostanziale, quanto alla natura ed agli effetti delle conseguenze penali per l'imputato che vi aderisca. Sotto tale profilo non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 446, primo comma, c.p.p. come modificato dall'art. 33, comma l lett. a), della legge 16 dicembre 1999 n. 479, nella parte in cui non salvaguarda, con riferimento ai giudizi pendenti - e cioe' a quelli in cui il decreto dell'art. 429 c.p.p. e' stato emesso in epoca successiva al 2 giugno 1999 ma anteriormente al 2 gennaio 2000, - la facolta' dell'imputato di chiedere l'applicazione della pena sino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, cosi' come previsto dalla norma previgente e sino al 2 gennaio 2000 applicata ai detti giudizi. Appare vulnerato l'art. 25, secondo comma, della Costituzione posto che la norma suddetta, anticipando alle conclusioni dell'udienza preliminare il termine finale per la formulazione della richiesta di applicazione della pena, - senza nulla disporre per regolare i processi pendenti - prevede, con riferimento ai procedimenti che si trovano gia' nella fase del giudizio, una decadenza con effetto retroattivo, in ordine all'esercizio di un diritto dell'imputato avente riflessi - come si e' rilevato, - non solo processuali, ma anche sostanziali in ordine alla quantificazione della pena, al contenuto del provvedimento sanzionatorio ed agli altri effetti penali. E' poi palesemente vulnerato l'art. 24 Cost., laddove l'imputato non e' stato messo in condizione di conoscere entro quale termine avrebbe dovuto presentare l'istanza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.; la modifica dell'art. 446 c.p.p. costituisce un ingiustificato repentino mutamento delle regole del processo in corso, posto che il legislatore non ha neppure assegnato un termine entro cui, nei procedimenti pendenti, le domande avrebbero dovuto essere presentate; sicche' il soggetto che sino al 31 dicembre 1999 in base alla legge vigente, nella quale faceva affidamento, aveva la facolta' di formulare tale istanza e poteva riservarsi di farlo all'udienza successiva, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, a partire al 2 gennaio 2000 si e' trovato decaduto da tale facolta'. Non manifestamente infondata e', altresi', la questione di legittimita' costituzionale della norma suddetta, nella parte in cui non ha salvaguardato la posizione dell'imputato che, sulla base delle norme sino ad allora vigenti, avrebbe potuto formulare l'istanza di applicazione della pena ad udienza successiva, con riferimento all'art. 3 Cost., per l'evidente irragionevolezza di tale disciplina, che, senza alcuna - almeno evidente - esigenza di tutela di interessi pubblici della collettivita', va ad incidere sulla situazione sostanziale dell'imputato posta in essere dalla legge precedente, frustrando cosi' anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale ed indispensabile dello Stato di diritto (cfr. Corte costituzionale sentenze nn. 36 e 349/1985). Sussiste, peraltro, una ingiustificata disparita' di trattamento tra la situazione degli imputati la cui udienza venne fissata a data anteriore al 2 gennaio 2000 e quella di coloro per i quali venne fissata udienza successiva, posto che solo nel secondo caso si e' verificata, con l'entrata in vigore della legge suddetta, la preclusione alla formulazione dell'istanza di applicazione della pena. Ritenuto che le questioni sollevate d'ufficio con riferimento agli artt. 3, 24 e 25, secondo comma, della Costituzione non sono manifestamente infondate e che esse sono rilevanti nel presente giudizio, posto che, ove accolte, il tribunale potrebbe prendere in esame la domanda formulata dall'imputato con riferimento alla quale il p.m. ha espresso il suo consenso.