ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7,
del  regio  decreto  3 marzo  1934,  n. 383  (Testo unico della legge
comunale  e  provinciale), promosso con Ordinanza emessa il 11 maggio
1999 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Bigoni Maria Anna
contro  la  Regione  Emilia-Romagna  ed altri, iscritta al n. 685 del
registro  ordinanze  1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 51 - 1a serie speciale - dell'anno 1999.
    Visto l'atto di costituzione di Bigoni Maria Anna;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  23 gennaio  2001  il  giudice
relatore Fernando Santosuosso.
    Ritenuto che nel corso di un giudizio promosso per l'annullamento
di  una  delibera  del Comitato regionale di controllo per la Regione
Emilia-Romagna  il  Consiglio  di  Stato, con ordinanza del 13 maggio
1996, sollevava questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8,
alinea  n. 7,  del  regio  decreto  3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico
della legge comunale e provinciale), in riferimento agli artt. 3 e 51
della Costituzione;
        che  in  quella  sede  il giudice rimettente osservava che la
norma  impugnata,  nell'impedire  con rigido automatismo l'accesso al
pubblico impiego (comunale) a coloro i quali fossero stati condannati
per  determinati  reati,  appariva  irragionevole,  e cio' sulla base
della  giurisprudenza  costituzionale  che,  a partire dalla sentenza
n. 971   del  1988,  aveva  dichiarato  l'illegittimita'  della  c.d.
destituzione  di  diritto, disposta, cioe', sulla base della semplice
condanna   penale   e   senza   lo  svolgimento  di  un  procedimento
disciplinare;
        che  questa  Corte,  con sentenza n. 249 del 1997, dichiarava
non  fondata  la  predetta  questione, sul rilievo preminente che non
fosse  possibile  istituire  un  paragone  tra le cause di cessazione
dall'impiego e quelle che, invece, sono ostative all'assunzione;
        che  il  Consiglio di Stato, tuttavia, nel corso del medesimo
giudizio  di  appello  pendente  tra  le medesime parti, e' tornato a
sollevare questione di legittimita' costituzionale della stessa norma
di  cui  in  precedenza,  sempre  in  riferimento agli artt. 3, primo
comma, e 51, primo comma, della Costituzione;
        che nell'odierna ordinanza di rimessione il giudice a quo nel
riepilogare i termini di fatto della questione, ricorda che, nel caso
specifico,  si  tratta  della vincitrice di un concorso pubblico che,
presentando  la  relativa  domanda,  non aveva dichiarato di avere un
precedente  penale  per  il  reato  di  emissione di assegni a vuoto;
bloccata   provvisoriamente   la   nomina,  la  candidata  era  stata
processata e condannata anche per il delitto di cui all'art. 496 cod.
pen. (false  dichiarazioni  su  qualita'  personali),  dopo di che il
comune  aveva ritenuto di procedere ugualmente alla nomina, annullata
poi dal Comitato regionale di controllo;
        che  il  Consiglio  di  Stato,  nel  riproporre la questione,
osserva  che l'art. 8, alinea n. 7, del regio decreto n. 383 del 1934
appare in contrasto con gli invocati parametri in quanto, precludendo
l'accesso  agli  uffici  pubblici, fra gli altri, ai condannati per i
delitti  contro la fede pubblica, fa riferimento ad una "vastissima e
proteiforme  categoria di reati", il cui grado di offensivita' non e'
omogeneo;
        che  nel  caso specifico la ricorrente e' stata condannata in
entrambe  le occasioni ad una modesta pena pecuniaria, a fronte della
quale  -  secondo  il  rimettente - appare sproporzionata la sanzione
comminata  dalla norma in oggetto, con la prospettazione quindi di un
primo  dubbio  di legittimita' costituzionale, nella irragionevolezza
della scelta legislativa di tanta indiscriminata ampiezza;
        che  il  Consiglio di Stato ravvisa anche un ulteriore motivo
di  censura,  emergente dal raffronto tra la norma impugnata e quella
concernente il pubblico impiego statale;
        che per quest'ultima categoria, infatti, il d.P.R. 10 gennaio
1957,  n. 3,  prevedeva  soltanto  l'ipotesi  della  destituzione  di
diritto (art. 85), mentre il testo unico n. 383 del 1934 sull'impiego
comunale distingueva i casi di impedimento all'assunzione (art. 8) da
quelli  di  destituzione  di  diritto (art. 247), sicche', mentre per
l'impiego  statale  il venir meno di quest'ultima sanzione (a seguito
della  sentenza n. 971 del 1988 di questa Corte) ha comportato anche,
in  via interpretativa, il travolgimento della "speculare disciplina"
relativa alle condizioni ostative all'accesso, per l'impiego comunale
la  norma  oggi  impugnata  e'  rimasta formalmente e sostanzialmente
operante  fino alla data della sua abrogazione, disposta dall'art. 64
della  legge  8 giugno  1990,  n. 142  (Ordinamento  delle  autonomie
locali);
        che  da  tale diversita' di trattamento deriva, ad avviso del
rimettente, un'evidente violazione del principio di eguaglianza;
        che  in  punto di rilevanza della presente questione, infine,
il  Consiglio  di  Stato si limita a ribadire che la norma impugnata,
pur   essendo  stata  abrogata,  dev'essere  applicata  nel  giudizio
pendente, trattandosi di fatti anteriori al 1990;
        che  si e' costituita in giudizio la parte privata ricorrente
nel giudizio a quo chiedendo l'accoglimento della presente questione.
    Considerato  che  il  Consiglio  di  Stato  torna  a  proporre la
questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7,
del  regio  decreto  3 marzo  1934,  n. 383  (Testo unico della legge
comunale  e  provinciale),  in  riferimento  agli  artt. 3 e 51 della
Costituzione;
        che  detta questione e' stata gia' sollevata e dichiarata non
fondata da questa Corte, con la sentenza n. 249 del 1997, nell'ambito
del medesimo grado di giudizio pendente tra le stesse parti;
        che  essa, pertanto, pur ponendo all'esame della Corte alcuni
aspetti non esattamente coincidenti con quelli decisi a suo tempo, si
presenta,  nella  sostanza,  come  la  riproposizione  della medesima
questione;
        che al giudice a quo e' precluso, per costante giurisprudenza
(v.  fra  le altre, le sentenze n. 215 e n. 12 del 1998), rimettere -
sia  pure con ulteriori argomenti - una seconda volta alla Corte, nel
corso  dello  stesso  grado  di  giudizio  pendente tra le parti, una
questione  concernente  la  medesima norma di legge in riferimento ad
identici    parametri   costituzionali,   giacche'   tale   ulteriore
rimessione,   comportando   un   bis   in  idem  si  risolverebbe  in
un'inammissibile impugnazione della precedente pronuncia di merito;
        che  la  presente  questione,  non  potendo  definirsi nuova,
dev'essere dichiarata manifestamente inammissibile.