IL TRIBUNALE

    Visto  il  ricorso  ex  art. 98,  legge  fallimentare proposto da
Caguana  Valentin  Pablo  Antonio nei confronti di Fallimento Isla de
John  Martin  s.a.s. di Maragno Rosa & C., ha pronunciato la seguente
ordinanza.      Il  creditore  Caguana  Valentin  Pablo  Antonio  del
Fallimento  Isla  de  John  Martin  s.a.s.  di  Maragno  Rosa & C. ha
depositato  in  data  19 dicembre  2000  ricorso  ex  art. 98,  legge
fallimentare  avverso  il provvedimento di esclusione pronunciato dal
G.D.      Il  ricorso  risulta  depositato  presso la seconda sezione
civile  del  tribunale  di  Milano  ed  e' stato trasmesso al giudice
delegato  al  fallimento Isla de John Martin s.a.s. di Maragno Rosa &
C.  senza  che  vi  sia  un formale provvedimento di assegnazione del
procedimento  che  risulta  attribuito  alla  cognizione  del giudice
delegato  in  virtu'  del  disposto  di cui all'art. 98, primo comma,
legge  fallimentare, in combinazione con il successivo art. 99, primo
comma.     La norma, in parte qua, appare in contrasto con i principi
di  cui  all'art. 111  Cost., per le seguenti considerazioni relative
alla  violazione  delle  regole del giusto processo ed in particolare
della  imparzialita' del giudice.     Sulla rilevanza della questione
di   legittimita'   costituzionale.      In  base  a  quanto  prevede
l'art. 98,   legge   fallimentare,   i   ricorsi  aventi  ad  oggetto
l'opposizione  allo  stato passivo sono attribuiti automaticamente al
giudice  delegato del fallimento cui si riferisce il credito visto il
non   equivoco   tenore   letterale   della   norma:   "i   creditori
esclusi ... possono  fare  opposizione,  entro  quindici  giorni  dal
deposito  dello  stato passivo in cancelleria, presentando ricorso al
giudice  delegato".  Il  giudice delegato e' anche giudice istruttore
della  causa  di  opposizione in base al disposto di cui all'art. 99,
primo  comma,  legge  fallimentare,  a  mente  del  quale "il giudice
delegato  provvede  all'istruzione delle varie cause di opposizione".
    La   norma   impone  quindi  che  la  causa  di  opposizione  sia
necessariamente  affidata  al  giudice  delegato.      La trattazione
della  causa  davanti  ad  un  giudice  diverso  dal giudice delegato
presuppone allora che sia rimossa la disposizione di cui all'art. 98,
legge   fallimentare,   e   tale   rimozione   puo'  avvenire,  salvo
l'intervento  del  legislatore,  solo  mediante  la  declaratoria  di
illegittimita'  costituzionale  della norma.     Poiche' la questione
di    legittimita'   costituzionale   di   cui   all'art. 98,   legge
fallimentare, attiene al profilo preliminare della individuazione dei
giudice  cui assegnare la causa di opposizione allo stato passivo, la
competenza a sollevare la predetta questione spetta direttamente allo
stesso   giudice   delegato   investito  del  procedimento  ai  sensi
dell'art. 98,    legge    fallimentare.       Sulla   non   manifesta
infondatezza.      Con  la  legge  costituzionale  n. 2  del 1999, il
Parlamento  ha  innovato fortemente il contenuto dell'art. 111 Cost.,
stabilendo  che  il  giusto  processo  e'  solo quello regolato dalla
legge, che si svolge nel contraddittorio delle parti in condizioni di
parita',  davanti  ad  un  giudice terzo e imparziale, entro un tempo
ragionevole.      Se  pure  l'innesto del giusto processo all'interno
della  carta  costituzionale come valore positivo identificabile solo
con  il  rispetto  di  determinate  regole  e'  stato  occasionato da
esigenze  connesse  alla  tutela  penale  (la  forte proiezione della
riforma  verso  il processo penale e' testimoniata da quella parte di
innovazione che e' dedicata, espressamente, al solo processo penale),
non per questo i principi fissati nell'art. 111 Cost. non debbono non
trovare  applicazione  anche  nel processo civile.     Di fronte alla
novella   costituzionale   l'interprete  puo'  reagire  in  due  modi
differenti     (e     cosi'    e'    accaduto    nella    letteratura
processualcivilistica   nettamente  divisasi  in  due  schieramenti),
racchiusi fra la condivisione di una lettura minimalista da un lato e
la  enfatizzazione  delle  possibili  conseguenze sul processo civile
dall'altro.        Le    premesse    sottese   alla   cultura   della
sottovalutazione dell'intervento novellatore possono essere condivise
nel  senso  che  non  si  puo' affermare che il processo, prima della
legge  costituzionale  n. 2  del 1999, non fosse giusto, posto che da
tempo  la  dottrina  aveva  enucleato  alcuni  valori  essenziali del
processo  civile tali da risultare costituzionalizzati in base ad una
lettura  combinata  degli  artt. 24, 25, 101 e 111 Cost.     Cio' che
non  puo'  essere  recepito  e'  il  riflesso  minimalista  di quella
premessa  dal  momento  che  mentre in passato una certa norma poteva
essere  dichiarata incostituzionale solo se in contraddizione con uno
dei  principi di cui agli artt. 24, 25, 101 e 111 Cost., ora ciascuna
singola   disposizione  va  direttamente  confrontata  con  il  nuovo
art. 111  Cost.      Cosi',  per  esemplificare,  ancor  prima  della
modifica  costituzionale  si riteneva che l'impulso d'ufficio potesse
collidere  non  solo con il sistema processuale ordinario (vedi artt.
99  e  112  c.p.c.),  ma  anche  con il principio della terzieta' del
giudice,  gia' imminente nella Carta costituzionale per effetto delle
interazioni  fra  gli  artt. 3,  24  e  25 e l'art. 101 Cost., ed ora
emblematicamente riassunto nel nuovo art. 111.     Secondo gran parte
della  letteratura  il  principio  di  neutralita'  del  giudice  era
ricavabile dal divieto di iniziativa processuale d'ufficio (art. 24),
dalla  garanzia  del  giudice  naturale  (art. 25),  dal  divieto  di
costituire giudici speciali (art. 102) e dalla soggezione dei giudici
alla   legge   (art. 101).   Dalla  lettura  in  controluce  di  tali
disposizioni,  in  base  a  questa  impostazione,  era quindi agevole
arguire la costituzionalizzazione del giusto processo, quale processo
tenuto   da   un   giudice   terzo  e  imparziale.      La  rilevanza
costituzionale  del  giusto  processo  passava  pur  tuttavia  per la
verifica  della compatibilita' di singole norme ordinarie con singole
norme  primarie,  con la conseguenza che il principio della terzieta'
del giudice non poteva considerarsi violato quando pur risultando per
breve  periodo  compresso  il  principio  della domanda di parte come
presupposto  dell'esercizio  della  giurisdizione, il contraddittorio
non   fosse  sostanzialmente  eroso.  In  sostanza  la  garanzia  del
contraddittorio  (espresso  con  formule  anche  disomogenee)  poteva
temperare    il    divieto   della   iniziativa   officiosa.   Adesso
l'effettivita' del contraddittorio non dovrebbe supplire al principio
nemo  iudex  sine  actore,  per il semplice fatto che il valore della
tutela  del  contraddittorio  e'  autonomo  rispetto  al valore della
terzieta'  del  giudice  (emblematica  e'  al  proposito  la  vicenda
dell'art. 146, legge fallimentare, di cui si e' occupata Corte cost.,
8  maggio  1996,  n. 148,  in Foro it., 1996, I, 2648).     In questa
prospettiva  della  autonomia  dei principi di cui all'art. 111 Cost.
dai  precetti  costituzionali  di  cui  agli  artt. 24,  25, 101, 111
(vecchio  testo)  della  Costituzione,  va  colto  l'aspetto  davvero
innovatore  della  legge  sul  giusto processo.     Ogni disposizione
dell'ordinamento  processuale  va  quindi  oggi riletta alla luce del
nuovo   testo  dell'art. 111  della  Costituzione.      La  rilettura
dell'art. 98,   legge   fallimentere,   suggerisce   prima  facie  il
potenziale  conflitto  tra tale disposizione e l'art. 111 Cost. nella
parte in cui si prevede che il processo debba svolgersi davanti ad un
giudice  imparziale.      Il dubbio di costituzionalita' attinge piu'
al  principio  della  imparzialita'  del  giudice  che a quello della
terzieta'  (anche  se taluni interpreti criticano l'endiadi adoperata
dal  legislatore  ed  osservano che tali espressioni in verita' nulla
aggiungono  di  nuovo  a  quanto  ricavabile  in  origine dalla Carta
fondamentale),   se   diversamente   dalla   terzieta'   intesa  come
neutralita' del giudice rispetto alle parti, si legge l'imparzialita'
come  valore  fondante  un  approccio  del  giudice  al  procedimento
equidistante    rispetto   alle   parti   e   scevro   da   possibili
condizionamenti  da  prevenzione cognitiva.     Il giudice e' davvero
imparziale  soltanto  se il suo approccio al processo non e' alterato
da  conoscenze acquisite in precedenza (nell'esercizio delle funzioni
giudiziarie)  che  si  collochino al di fuori del medesimo giudizio e
se,  biunivocamente,  le  conoscenze  apprese  nel  processo  possano
condizionare  l'esercizio  delle  altre  funzioni assegnategli e cio'
indipendentemente dal fatto, per usare le parole del giudice ad quem,
che vi sia identita' di valutazione contenutistica della fattispecie.
    Il  giudice,  oltre che terzo rispetto alle parti, deve essere ed
apparire  imparziale.  Ora come l'espressa previsione della terzieta'
del  giudice  impone  di  rivalutare  tutte  le  ipotesi di attivita'
giurisdizionali officiose, allo stesso modo e per le medesime ragioni
l'imparzialita'  del  giudice  pur  essendo  un valore costituzionale
immanente,  non  trovava  una nitida espressione nel diritto positivo
(Corte  cost.,  24 aprile 1996, n.131, in Foro it., 1996, I, c. 1489)
ricordava   che  il  principio  costituzionale  dell'imparzialita'  e
terzieta'   del   giudice   connota   nell'essenziale   la   funzione
giurisdizionale  come  paradigma  del  giusto  processo).     Cio' ha
consentito  al giudice delle leggi di manipolare l'art. 34 c.p.p. (il
leading case della giustizia costituzionale e' rappresentato da Corte
cost., 15 settembre 1995, n. 432, in Foro it., 1996, I, c. 411 che ha
aperto  la stagione delle nuove incompatibilita' nel processo penale)
e  al  contempo  di  lasciare  inalterata  la disciplina del processo
civile  sino al 1999.     La Corte ha ripetutamente affermato che nel
processo   civile   determinate  possibili  incrostazioni  valutative
potevano  essere  tollerate in quanto non venendo in giuoco il valore
primario   della   liberta'   personale,  la  presenza  del  medesimo
magistrato  in diverse fasi di uno stesso procedimento poteva trovare
giustificazione   o   nella   diversita'  della  cognizione  o  nella
diversita'  delle  funzioni (Corte cost., 7 novembre 1997, n. 326, in
Foro  it.,  1998,  I,  c. 1007,  ha  precisato  che il problema della
prevenzione  cognitiva  si  attenua  nel  processo civile per effetto
della  mediazione  dell'impulso  paritario  delle  parti;  lo  stesso
giudice a proposito della incompatibilita' fra cognizione cautelare e
cognizione  di  merito  ha  escluso  -  diversamente  dalle  analoghe
situazioni   del   processo  penale  -  l'esistenza  di  una  omologa
valutazione  contenutistica  delle  due  cognizioni  -  Corte  cost.,
7 novembre  1997,  n. 326  -  non  tenendo  in  adeguato conto che la
cognizione  sommaria del giudice investito del procedimento cautelare
non  sembra  esprimere una valutazione di verosimiglianza ma di prova
superficiale).      Di questa diversita' di approccio fra il processo
penale e quello civile si e' resa consapevole soprattutto la dottrina
nell'ultimo  quadriennio  sollecitando  la giustizia costituzionale a
pervenire  ad  un  assetto  finale  non  troppo  dissimile  da quello
edificato  per  il  processo  penale,  anche  nella prospettiva della
salvaguardia  dell'unita'  della  giurisdizione  e della riconosciuta
unita'   culturale   del   giudice.       Anche  a  seguito  di  tali
sollecitazioni  si  e'  prodotto  un  primo  parziale  risultato  con
riferimento  ai  rapporti  fra  cognizione  sommaria  e cognizione di
controllo  a  contradditorio  pieno  (Corte  cost.,  15 ottobre 1999,
n. 387,  in  Foro  it.,  1999, I, c. 1441 ha dichiarato infondata, la
questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 51, primo comma,
n. 4,  e  secondo  comma,  c.p.c.,  nella  parte  in  cui non prevede
incompatibilita' tra le funzioni del giudice che pronuncia decreto di
repressione  della condotta antisindacale ex art. 28, legge 20 maggio
1970,  n. 300,  e quelle del giudice dell'opposizione a tale decreto,
poiche'   la   fattispecie  rientra  all'evidenza  nell'ambito  della
previsione  di  tale  disposizione  del  codice  di  rito,  in quanto
l'espressione  "altro  grado"  contenuta  nell'art.  51, primo comma,
n. 4, c.p.c. non puo' avere un ambito ristretto al solo diverso grado
del  processo, secondo l'ordine degli uffici giudiziari come previsto
dall'ordinamento  giudiziario,  ma  deve  ricomprendere anche la fase
che,  in  un  processo civile, si succede con carattere di autonomia,
avente   contenuto  impugnatorio,  caratterizzata  da  pronuncia  che
attiene  al  medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul
merito  dell'azione proposta nella prima fase, ancorche' davanti allo
stesso  organo  giudiziario, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.).
    Proprio  l'apertura  contenuta  in  questa  decisione  induce  il
giudice   delegato   a   riproporre  il  quesito  sulla  legittimita'
costituzionale dell'impianto fallimentare oppositorio dal momento che
le  luci  offerte  dalla  sentenza  n. 387/1999  non sembrano da sole
idonee  a risolvere i problemi delle incompatibilita' del giudice nel
processo  civile  quanto meno per il fatto a) che non tutti i profili
possono  ascriversi  ad  una estensione della lettura fase o grado in
senso  sostanziale  dell'art. 51,  n. 4,  c.p.c.;  b) gli adattamenti
tabellari  non  possono  superare  il  testo  normativo.      Sub a).
Poiche'  il  giudice istruttore della causa di opposizione allo stato
passivo  e'  e  non  puo' non essere il giudice delegato, non si puo'
lasciare  alla  iniziativa  soggettiva  (parti  per  la  ricusazione;
giudice  per l'astensione) la scelta se rendere giusto il processo ex
art. 98  legge  fallimentare; il problema ordinamentale va risolto in
astratto  una  volta  per  tutte.      Sub  b). La soluzione empirica
suggerita  dal  giudice  delle  leggi  (previsione  da inserire nelle
tabelle  di composizione dell'ufficio, che il magistrato della fase a
cognizione  piena  sia  diverso da quello della fase sommaria) non e'
attuabile  perche',  diversamente  dall'ipotesi  di  cui  all'art. 28
statuto  dei  lavoratori  ove  il  magistrato  che  si  occupa  della
opposizione  non  e'  per  legge  lo  stesso  che ha trattato la fase
sommaria, nel giudizio ex art. 98, legge fallimentare, l'identita' e'
automatica  e  predeterminata.      Escluso che la distonia provocata
dall'art. 98   legge  fallimentare,  possa  essere  superata  in  via
amministrativa  o con il meccanismo della ricusazione-astensione, non
resta  che  indagare  sulla esistenza anche nel processo civile di un
principio  di  incompatibilita' del giudicante (previsto nel processo
penale)   derivante   da   una  preventiva  cognizione  sul  medesimo
procedimento,  argomento  sul  quale  la  dottrina  si  e' di recente
lungamente  interrogata  (pur  se  sino  ad  ora  forti resistenze al
cambiamento  sono  state  raccolte  proprio sul piano del processo di
fallimento  visto  che  il  giudice costituzionale, pur ripetutamente
interessato, ha costantemente disatteso i dubbi di legittimita').
    In  particolare  per  cio'  che  attiene  alla  vicenda  che  qui
interessa, Corte cost., 18 luglio 1998, n. 304, in Foro it., 1998, I,
c. 3024 (sulla falsariga dei precedenti risalenti costituiti da Corte
cost., 18 novembre 1970, n. 158, in Foro it., 1970, 1, c. 2998; Corte
cost.,  29  aprile  1975,  n. 94,  in  Foro it., 1975, I, c. 1045) ha
escluso il dubbio di costituzionalita' con riferimento alla posizione
del giudice delegato nel giudizio di opposizione allo stato passivo.
    In  quella  occasione  il giudice remittente aveva dubitato della
costituzionalita'   dell'art. 99,  legge  fallimentare,  argomentando
dalle  considerazioni condivise dalla Corte costituzionale in tema di
incompatibilita' nel processo penale.
    Il  giudice  delle  leggi  ha osservato che "l'attivita' relativa
alla  formazione dello stato passivo si caratterizza per una verifica
dei  crediti  effettuata  con  cognizione sommaria, laddove quella in
sede  di opposizione e' finalizzata a raccogliere elementi utili alla
decisione del collegio sulla base dei motivi dell'opposizione stessa,
suscettibili d'introdurre nuovo materiale probatorio".
    La  ratio decidendi della pronuncia manifesta infondatezza sembra
dunque raccolta in due proposizioni: a) il giudice delegato nella sua
veste  di  giudice istruttore si limita a raccogliere gli elementi da
sottoporre all'esame del collegio; b) l'oggetto della cognizione puo'
essere  diverso  in  quanto  nel  processo di opposizione puo' essere
raccolto ulteriore materiale probatorio.
    Sub  a).  La  prima  proposizione  tende  a sminuire il ruolo del
giudice  delegato  quale  mero  giudice della "raccolta delle prove",
trascurando   che   il  giudice  delegato  quale  giudice  istruttore
partecipa  alla  decisione  del  collegio  non  gia'  in posizione di
emarginazione,  ma quale componente che piu' degli altri e' informato
delle  vicende  del  processo.  Peraltro  il fatto che il giudice del
provvedimento  gravato  sia  investito  della cognizione impugnatoria
quale   membro   di   un   collegio,   non   puo'   certo   escludere
l'incompatibilita'    per   prevenzione   cognitiva   come   dimostra
chiaramente l'art. 669-terdecies c.p.c. in tema di reclamo cautelare.
Il  fatto  che la cognizione impugnatoria sia affidata ad un collegio
non  e'  una  garanzia  sufficiente  per  superare il principio della
imparzialita'.
    Sub  b).  La seconda proposizione mira a sottolineare la profonda
diversita' del profilo cognitorio fra fase della verifica del passivo
e  fase dell'opposizione. Si assume, infatti, che nella fase sommaria
la  cognizione  sarebbe  limitata  a  prove  cartolari  (cosi' si era
espressa   l'Avvocatura   dello  Stato  nel  giudizio  costituzionale
concluso   con   la  pronuncia  n. 304/1999),  mentre  nella  fase  a
cognizione  piena  potrebbero  essere  dedotte le prove tipiche di un
qualsiasi altro processo ordinario di cognizione.
    Questa  affermazione  non  puo' essere condivisa, sia per eccesso
che per difetto, e cio' giustifica una nuova istanza di rimessione.
    Innanzi  tutto  non  e' vero che nel processo di opposizione allo
stato  passivo possono essere dedotti tutti i mezzi di prova previsti
per  il processo di cognizione, in quanto non possono trovare spazio,
ad  esempio, le prove costituende che presuppongono la disponibilita'
della lite - confessione e giuramento -.
    In  secondo  luogo non e' vero che nella fase della verificazione
del  passivo  le uniche prove da cui il giudice delegato possa trarre
il proprio convincimento siano solo quelle "cartolari" precostituite.
Infatti,  a  tacer  d'altro,  nel giudizio di verifica possono essere
assunte  le  opportune informazioni secondo quanto dispone l'art. 95,
legge  fallimentare.  Le  opportune  informazioni  possono fornire al
giudice   delegato  elementi  di  valutazione  non  dissimili,  nella
sostanza,  da  quelli  ricavabili  dall'istruttoria orale. Cosi' pure
elementi  di valutazione possono essere desunti dalle contestazioni e
dalle   osservazioni   dei  controinteressati  (ovverosia  gli  altri
creditori).
    All'interno  di  questa  nozione di sommarie informazioni possono
trovare   spazio  tutte  le  c.d.  prove  "di  non  lunga  indagine",
definizione che, peraltro, in quanto assente nel diritto positivo, si
presta  ad  interpretazioni  a  fisarmonica.  In  tale  contesto  nei
"cataloghi"  di  prove di lunga indagine suggeriti in letteratura non
se  ne  incontrano  due  uguali. Tutto cio' induce a ritenere che non
possa  essere  recepita nel nostro ordinamento la nozione astratta di
"prova  di lunga indagine " e che invece debba valutarsi in concreto,
in  relazione  alle  singole  specificita'  del  procedimento,  se un
determinato mezzo istruttorio sia o no ammissibile.
    In  questo  senso  se  non  puo'  essere trascurato che sul piano
normativo  un  valore  essenziale  della  verifica fallimentare e' la
celerita', non si puo' neppure misconoscere che nella realta' attuale
e  nella  prassi  l'esigenza di pervenire rapidamente alla formazione
dello stato passivo non e' affatto osservata.
    Ed  allora  se la valutazione della ammissibilita' della prova di
lunga  indagine  va  svolta  in concreto, deve escludersi che possano
essere  considerate  incompatibili  con  il  procedimento di verifica
tanto le prove orali, quanto gli accertamenti tecnici nella misura in
cui questi adempimenti istruttori possano concludersi in termini tali
da  non  provocare  ritardi nella dichiarazione di esecutivita' dello
stato passivo.
    La  cognizione  sommaria  del  giudice delegato non e' quindi una
cognizione  superficiale  ma  una  cognizione  che  si fonda su prove
deformalizzate.
    La  diversita'  dello spettro cognitivo di cui dispone il giudice
delegato nella fase sommaria dell'accertamento del passivo rispetto a
quella  di  cui  dispone  il  giudice  delegato  che  diviene giudice
istruttore  nella  causa  di opposizione e' quindi affidata a criteri
puramente  casuali  (esame  di  questioni  di  puro diritto, esame di
domande  che  necessitano  di lunga istruttoria, esame di domande che
possono essere risolte con breve istruttoria, ecc...) che non possono
assolutamente influenzare il valore del principio della imparzialita'
del giudice.
    Il  semplice  fatto che nel corso del procedimento di opposizione
allo  stato  passivo possa arricchirsi il materiale probatorio non e'
un    motivo    sufficiente    per    escludere    che   il   giudice
delegato-istruttore  abbia  un  approccio al processo uguale a quello
che  avrebbe  un altro giudice completamente estraneo alla formazione
del provvedimento impugnato.
    Per  superare  il  vincolo  della  forza della prevenzione tipico
delle  ripetitivita'  decisorie  si  potrebbe  sostenere  che la fase
necessaria  della  verifica  sommaria  del passivo e quella eventuale
della  opposizione costituiscono fasi dello stesso processo come gia'
si  e' affermato in occasione del rapporto fra procedimento cautelare
ante causam e processo di merito.
    Ma  se  il processo di merito non esprime in alcun modo una forma
di  gravame rispetto al provvedimento cautelare si' che il legame fra
i  due procedimenti e' soltanto quello della strumentalita', nel caso
dell'opposizione  ex  art. 98, legge fallimentare, le cose non stanno
proprio cosi'.
    Infatti se pur e' vero che tale giudizio rappresenta un ordinario
giudizio  di cognizione di primo grado (cui seguono appello e ricorso
per  cassazione),  la  struttura  del  processo  e' caratterizzata da
alcune   componenti  dei  giudizi  di  gravame  che  ne  condizionano
profondamente l'esito.
    Si  pensi  al  fatto  che  a)  l'opposizione va radicata entro un
termine  perentorio che decorre dalla comunicazione del provvedimento
sfavorevole  (Cass.,  17  marzo  2000, n. 3104), tanto e' vero che se
manca  l'avviso si ritiene ammissibile l'opposizione entro il termine
annuale  (Cass.,  27  agosto 1990, n. 8763, in Fallimento, 1991, 251;
trib.  Catania,  13  giugno  1998, in Foro it., 1998, I, 3010); b) la
legittimazione    alla   opposizione   spetta   solo   al   creditore
"soccombente";  c) nel giudizio non possono essere introdotte domande
nuove  (Cass.,  8  novembre 1997, n. 11026, in Fallimeno, 1998, 1232;
Cass.,  11  luglio  1996, n. 6319, in Giust. civ., 1996, I, 2848); d)
non  e'  ammissibile  la reformatio in pejus (trib. Milano, 12 maggio
1997, in Giur. it., 1998, 1666).
    Talora poi il giudice di legittimita' ha dichiarato espressamente
che   il  giudizio  di  opposizione  allo  stato  passivo  ha  natura
impugnatoria (Cass., 8 novembre 1997, n. 11026).
    Ci  si  trova  pertanto  di fronte da un lato ad un provvedimento
sommario  che  incide  su  diritti  soggettivi (si pensi al diritto a
partecipare  alle distribuzioni del ricavato) e dall'altro lato ad un
procedimento  nel  quale viene riesaminato il provvedimento sommario,
situazione  questa  assai  simile,  per  non  dire identica, a quella
decisa con la pronuncia n. 387/1999.
    In  relazione a questi profili impugnatori il timore che la forza
della  prevenzione possa condizionare l'esercizio della giurisdizione
da  parte  del  giudice  delegato-istruttore  non  puo' assolutamente
essere  escluso e l'ordinamento non puo' tollerare il solo dubbio che
la parte possa avere della imparzialita' del giudice che sul medesimo
bene  della vita gia' si sia pronunciato (sul punto vanno recepite le
ormai  ripetute  affermazioni  di principio contenute nelle decisioni
della  Corte  europea dei diritti dell'uomo, secondo la quale justice
must  not  only  be  done,  it must also be seen to be done; sent. 30
ottobre 1991, in Rev. trim. droits de l'homme, 1992, 201).
    Ma  la  ragione  della  necessita'  di  separare  le due funzioni
(giudice  delegato e giudice istruttore) deriva anche all'inverso dal
possibile  vincolo  da  cognizione preventiva che il giudice delegato
puo'  avere  in  quanto giudice istruttore della causa di opposizione
allo  stato  passivo.  L'esempio emblematico e' costituito da come le
conoscenze  acquisite  in  corso  di  causa  possano  condizionare la
valutazione  amministrativa  della  convenienza  di  una  transazione
(ammissibile  anche  in  questi  procedimenti,  cfr. trib. Trieste, 3
aprile  1998,  in  Giur. comm., 1999, II, 434; trib. Roma, 8 febbraio
1995,  in  Dir. fallim., 1995, II, 922) che il tribunale fallimentare
deve autorizzare con la presenza nel collegio del giudice delegato.
    L'unica  soluzione  per  evitare  che  si  possa  dubitare  della
imparzialita'  funzionale  del  giudice  delegato  (e  non gia' della
imparzialita'   del   singolo   magistrato)   e'   costituita   dalla
soppressione  dell'inciso contenuto nell'art. 98, legge fallimentare,
nella  parte  in  cui  si  prevede  che  l'opposizione  si  introduca
"presentando  ricorso  al  giudice  delegato",  e di quello contenuto
nell'art. 99,  legge  fallimentare,  nella  parte  in cui si dice "il
giudice delegato provvede all'istruzione".
    Sul  piano  normativo  processuale  ed  ordinamentale non vi sono
controindicazioni  assorbenti  sia  a)  perche'  sarebbe  sufficiente
sostituire  al  giudice delegato nell'art. 98, legge fallimentare, il
presidente  (un  modello al riguardo e' quello di cui all'art. 87 del
t.u.  n. 385/1993 in tema di liquidazione coatta amministrativa delle
aziende  bancarie),  e  sopprimere la parola "delegato" nell'art. 99,
sia  b)  perche'  l'istituzione  del  giudice unico di primo grado ha
consentito  la  creazione  di  tribunali  nei  quali  la composizione
dell'organico non e' mai inferiore alle quattro unita'.
    Si  impone  quindi  la  rimessione  del  procedimento  alla Corte
costituzionale  perche'  valuti  la legittimita' degli artt. 98 e 99,
legge fallimentare, in relazione all'art. 111 Cost.