ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge
25 luglio  1988, n. 334 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione sul
trasferimento  delle  persone  condannate,  adottata  a Strasburgo il
21 marzo  1983) promosso con ordinanza emessa il 24 novembre 2000 dal
tribunale  di  sorveglianza  di  Roma sull'istanza promossa da S. B.,
iscritta  al  n. 860  del  registro ordinanze 2000 e pubblicata nella
Gazzetta   Ufficiale   della  Repubblica  n. 3,  1a  serie  speciale,
dell'anno 2001.
    Visti   l'atto  di  costituzione  di  S.  B.  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza pubblica del 6 marzo 2001 il giudice relatore
Gustavo Zagrebelsky;
    Uditi  l'avvocato  Grazia Volo per S. B. e l'avvocato dello Stato
Ignazio F. Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Il  tribunale  di  sorveglianza di Roma, con ordinanza del
24 novembre 2000, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, primo
comma,  25,  secondo comma, 27, terzo comma, e 32, primo comma, della
Costituzione,  questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 2
della  legge  25 luglio  1988,  n. 334  (Ratifica ed esecuzione della
Convenzione  sul  trasferimento  delle persone condannate, adottata a
Strasburgo  il  21 marzo 1983), nella parte in cui, nel dare piena ed
intera  esecuzione  alla  Convenzione di cui al titolo, consente - ad
avviso  dello  stesso  rimettente  -  che gli accordi tra lo Stato di
condanna e lo Stato di esecuzione, previsti dall'art. 3, paragrafo 1,
lettera    f),   della   medesima   Convenzione,   possano   derogare
all'applicazione  dell'art. 147,  primo  comma, numero 2), del codice
penale,  che prevede il rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena
in presenza di condizioni di grave infermita' fisica del condannato.
    Nel  procedimento  di  sorveglianza,  il  tribunale rimettente e'
chiamato  a decidere su una istanza di rinvio (obbligatorio: art. 146
cod.   pen.)  dell'esecuzione  della  pena  -  o,  in  subordine,  di
applicazione  della detenzione domiciliare (art. 47-ter, comma 1-ter,
della  legge  di  ordinamento penitenziario 26 luglio 1975, n. 354) -
formulata,  per  ragioni  di  grave  infermita' fisica, da persona in
espiazione  di  pena in carcere. L'istanza, precisa il rimettente, e'
stata  disattesa  in  via provvisoria dal magistrato di sorveglianza,
che non ha ritenuto sussistente l'estremo del "grave pregiudizio" del
condannato,  a  norma dell'art. 684, comma 2, del codice di procedura
penale, in attesa della decisione collegiale del tribunale.
    1.1.  -  Ai  fini  della  questione,  il giudice a quo espone tre
premesse in punto di fatto.
    La prima concerne la vicenda giuridica della richiedente.
    La  persona  detenuta  - riferisce il tribunale - sta espiando in
Italia  le  pene  inflitte:  a) con una sentenza del 15 febbraio 1984
della Corte distrettuale Federale per il Distretto meridionale di New
York  (condanna  a  quaranta  anni  di  reclusione  e  50.000 dollari
statunitensi  di  multa),  e  b)  con una sentenza del 19 aprile 1984
della  Corte  distrettuale Federale per il Distretto orientale di New
York (tre anni di reclusione). Dette condanne sono state riconosciute
ai  fini  del  trasferimento dell'interessata in Italia, in base alla
legge   3 luglio  1989,  n. 257  (Disposizioni  per  l'attuazione  di
convenzioni  internazionali  aventi  ad  oggetto  l'esecuzione  delle
sentenze  penali),  dalla  Corte  d'appello di Roma, con sentenza del
9 luglio  1999. Questa sentenza costituisce il titolo dell'esecuzione
in Italia delle condanne emesse dalla giurisdizione statunitense, per
la  pena  residua  la  cui  conclusione e' prevista in data 29 luglio
2008,  alle  condizioni stabilite nell'accordo concluso tra i Governi
degli    Stati    Uniti   d'America   e   dell'Italia   e   accettate
dall'interessata   all'atto   della   prestazione   del  consenso  al
trasferimento.
    1.2. - La seconda premessa concerne le condizioni di salute della
detenuta,  che,  gia'  operata  per  un  tumore  nel 1988, durante la
detenzione  presso stabilimenti statunitensi, ha sviluppato una nuova
e  diversa forma tumorale, per la quale e' stata sottoposta in Italia
a  verifiche  in  struttura  sanitaria  esterna (in base all'art. 11,
secondo  comma, della legge n. 354 del 1975) e quindi a un intervento
chirurgico;  a  seguito  della  patologia,  del  tipo  di  intervento
eseguito  e  dei  fattori  di  rischio,  le  - esaurienti, precisa il
tribunale  -  consulenze mediche espletate indicano ora la necessita'
di  un  trattamento  radiante,  per  un  ciclo  di sei settimane (con
cadenza  quotidiana  da  lunedi'  a  venerdi')  e  di  un  successivo
trattamento chemioterapico di sei cicli per la durata di sei mesi.
    1.3.  -  La  terza  premessa  attiene alla impraticabilita' delle
terapie   complementari   sopra  dette  nell'ambito  delle  strutture
penitenziarie  e  in  regime di detenzione, secondo quanto risulta da
una   nota   ufficiale  in  data  9 novembre  2000  del  Dipartimento
dell'amministrazione  penitenziaria,  che informa che la radioterapia
non    e'    eseguibile    nei    centri    diagnostici   terapeutici
dell'amministrazione  penitenziaria,  mentre la chemioterapia sarebbe
eseguibile  solo presso un centro che, allo stato, per circostanze di
fatto, e' pero' inagibile.
    Ne'  -  prosegue  sul  punto il tribunale - potrebbe nella specie
farsi  ricorso alla possibilita' di ricoveri, piu' o meno prolungati,
presso  ospedali  o  luoghi  di  cura  civili,  su autorizzazione del
magistrato  di  sorveglianza e in costanza dello stato di detenzione,
in  applicazione del citato art. 11 della legge n. 354 del 1975; tale
possibilita',   "in   astratto  sussistente",  deve,  ad  avviso  del
rimettente,  essere  "problematicamente  rapportata  alla continuita'
temporale  e  [alla]  complessiva  durata del trattamento, nonche' ai
noti   suoi   [del   trattamento  sanitario]  riflessi  collaterali",
incidenti  sul  carattere afflittivo della pena, fino al limite di un
aggravio inutile e vessatorio.
    Dunque,  conclude  in  fatto  il  tribunale,  si delinea - per la
serieta'  della  patologia  e  la  sua  recidivanza,  per  il tipo di
terapia,  e  anche  per  i profili psicologici, cosi' pregnanti nelle
malattie  tumorali  - una condizione di incompatibilita' tra lo stato
di  salute  della  persona  interessata  e  la detenzione in ambiente
carcerario,  incompatibilita'  che  troverebbe  il  suo piu' adeguato
strumento  di  risoluzione nell'applicazione del rinvio (facoltativo)
dell'esecuzione  della  pena,  a  norma  dell'art. 147,  primo comma,
numero   2),  cod.  pen;  un  istituto,  precisa  il  tribunale,  che
appare maggiormente  congruente  al  caso, rispetto alla richiesta di
applicazione   del   rinvio   obbligatorio  dell'esecuzione  di  pena
(art. 146), che postula una irreversibilita' e una terminalita' della
malattia che qui non sussistono.
    1.4.  -  Ma  l'art. 147, primo comma, numero 2), cod. pen. non e'
applicabile  al  caso  in  esame, in conseguenza del peculiare regime
giuridico  che  regola l'esecuzione in Italia delle pene irrogate nei
confronti dell'interessata.
    Quest'ultima   e'   stata   infatti   trasferita  in  Italia,  in
applicazione   della   Convenzione   di   Strasburgo  del  1983,  per
"continuare"  [secondo  l'art. 9,  paragrafo  1,  lettera  a),  della
Convenzione]  l'esecuzione  delle  pene  irrogate  negli  Stati Uniti
d'America,    e    il    consenso    al    trasferimento   da   parte
dell'amministrazione  statunitense e' stato espressamente subordinato
al  rispetto  di puntuali condizioni concernenti il regime detentivo,
condizioni che costituiscono il presupposto dell'accordo tra Stato di
condanna - gli Stati Uniti - e Stato di esecuzione - l'Italia - e che
sono   state   espressamente   accettate  dalla  detenuta,  cittadina
italiana,  in  sede  di  prestazione  del  consenso al trasferimento,
consenso   che   e'   richiesto  come  necessario  dall'art. 3  della
Convenzione.  E  la  Corte d'appello, nel procedere al riconoscimento
delle  sentenze  penali  emesse  negli  Stati  Uniti, ha affermato la
legittimita'  delle  condizioni  di  detenzione  concordate tra i due
Governi.
    Ora,  osserva  il tribunale, l'accordo intergovernativo detta, al
punto 5 dell'allegato A che ne fa parte, la seguente condizione: "Che
la  condanna  venga  eseguita senza la possibilita' di permessi dallo
stabilimento  penale,  anche  per  brevi  periodi.  Cio' includerebbe
permessi per fine settimana, per giorni festivi, assenze di qualsiasi
tipo,  permessi  di  lavoro,  liberta' provvisoria di qualsiasi tipo,
inclusa   liberta'  vigilata  oppure  reclusione  in  strutture  meno
restrittive,  o  qualsiasi  altra  forma  di visite o attivita' al di
fuori  dello  stabilimento".  Per  quanto  specificamente  concerne i
profili  sanitari,  al  successivo punto 6 si prevede, per il caso di
malattia,   che  la  detenuta  "resti  reclusa  in  uno  stabilimento
ospedaliero  penale  e  non  in  altro  stabilimento e che ogni altro
problema medico venga trattato nella stessa maniera in cui lo sarebbe
se  [la  persona]  continuasse  a scontare la pena negli U.S.A.". E a
tale  riguardo,  nell'allegato B all'accordo si precisa (punto d) che
negli   Stati   Uniti   d'America   esistono   strutture  ospedaliere
penitenziarie idonee a far fronte a qualunque patologia.
    Ancora,  il  punto 7 dell'allegato A all'accordo prescrive che le
condizioni   suddette   vengano   applicate   "anche  se  persone  in
circostanze  analoghe condannate e recluse in Italia possano ricevere
un  trattamento diverso o [essere] ammesse a uno o a tutti i benefici
che non potranno essere concessi" alla condannata.
    Il  successivo punto 11, infine, prevede che l'accordo vincoli lo
Stato  italiano,  e  non  solo l'attuale Governo, e che, nel caso del
mancato  rispetto di una qualunque di dette condizioni, "l'accordo di
trasferimento  sia  nullo"  e  l'Italia e l'interessata acconsentano,
"senza  appello",  alla  richiesta  degli Stati Uniti di riportare la
persona  condannata  in uno stabilimento penitenziario dello Stato di
condanna   per   scontare   la   parte  restante  della  pena,  senza
possibilita'  da  parte  dell'Italia di rilascio dalla reclusione "in
pendenza  di  una  decisione  o  altra  risoluzione  in merito a tale
richiesta".
    Il  quadro  cosi'  delineato  preclude  dunque qualsiasi forma di
rilascio  dalla  carcerazione,  sia  pure come reclusione in ambiente
meno  restrittivo  (ad esempio attraverso la detenzione domiciliare),
indipendentemente  dalla causa che possa esserne alla base e pertanto
anche  in presenza di esigenze sanitarie non eludibili. Anzi, afferma
il  rimettente,  avrebbe potuto perfino dubitarsi della legittimita',
rispetto  all'accordo, dello stesso ricorso alla misura temporanea di
cui   all'art. 11   dell'ordinamento   penitenziario,   anche  se  il
magistrato  di sorveglianza e l'amministrazione competente hanno, sul
punto,  fornito una interpretazione adeguatrice, imposta dalla totale
indisponibilita'  di centri clinici interni alle strutture carcerarie
idonei a svolgere gli interventi sanitari resisi indispensabili.
    Ma,  conclude  su  tale punto il rimettente, cio' che sicuramente
puo' escludersi a tenore dell'accordo e' la possibilita' di ricorrere
al differimento temporaneo dell'esecuzione di pena.
    1.5.  -  Il  tribunale di sorveglianza svolge quindi una disamina
delle    finalita'   della   Convenzione   di   Strasburgo,   rivolta
essenzialmente  a  favorire  il  reinserimento  sociale  di  chi  sia
condannato in un Paese estero, attraverso l'espiazione della pena nel
Paese  di  origine;  pena,  si precisa, quale e' stata inflitta dallo
Stato  di  condanna,  essendo  lo  Stato di esecuzione vincolato alla
natura  giuridica  e  alla durata della sanzione cosi' come stabilite
dal  primo,  pur  con gli adattamenti che risultassero indispensabili
(art. 10 della Convenzione).
    In  tale  assetto, e' coerente che lo Stato di condanna - che non
e'   obbligato  a  disporre  il  trasferimento  -  voglia  garantirsi
condizioni  di  detenzione  nel Paese di esecuzione il piu' possibile
prossime  a  quelle sue proprie, escludendo gli eventuali trattamenti
penitenziari  piu'  vantaggiosi previsti nell'ordinamento dello Stato
di  destinazione.  In  simili casi, aggiunge il tribunale, puo' dirsi
che   comunque,   nonostante  la  rinuncia  a  uno  o  piu'  benefici
penitenziari,   e'   preferibile,  alla  stregua  della  ratio  della
Convenzione,  effettuare  un  trasferimento  regolato  da  condizioni
restrittive  piuttosto  che impedire, per rispetto di una uniformita'
astratta,   il  trasferimento  medesimo;  e  cio',  osserva,  non  e'
contraddetto  dalla  disposizione  dell'art. 9,  paragrafo  3,  della
Convenzione,  secondo  cui  "l'esecuzione  della condanna e' regolata
dalla  legge  dello Stato di esecuzione [che] e' l'unico competente a
prendere  ogni  decisione  al riguardo", formulazione questa che, nel
quadro  cosi'  delineato,  deve  essere  intesa, restrittivamente, in
riferimento al solo regime materiale di esecuzione.
    E'  appunto  sulla  base  di  questa  ricostruzione  che la Corte
d'appello,  valutando  la  compatibilita' tra le condizioni negoziate
dai  due  Governi  e  i  principi dell'ordinamento giuridico italiano
(specie quanto a natura e durata della pena), ha recepito le medesime
condizioni,   in   quanto  conformi  alla  finalita'  primaria  della
Convenzione.
    La  conseguenza  di  quanto sopra detto, conclude il tribunale di
sorveglianza,  e' che l'esecuzione della pena in Italia nei confronti
della  persona  trasferita  si  svolge secondo le norme penitenziarie
interne  cosi' come integrate e in larga misura derogate dall'accordo
intergovernativo  citato,  e  che  la  sentenza della Corte d'appello
italiana e' il titolo che legittima la carcerazione secondo il quadro
delineato,  titolo  che  non  compete  al  tribunale  di sorveglianza
sindacare.
    1.6. - Tutto cio' posto, il tribunale di sorveglianza ritiene che
l'impossibilita' di applicare, alla stregua dell'accordo, un istituto
del  diritto  interno posto a presidio della integrita' personale del
detenuto, quale e' il rinvio dell'esecuzione di pena ex art. 147 cod.
pen., si ponga in contrasto con diversi parametri costituzionali.
    1.7.  -  Per un primo aspetto, il rimettente ravvisa un contrasto
con  gli  artt. 2  e  32  della  Costituzione,  poiche' tra i diritti
inviolabili  dell'uomo,  che  la  Repubblica  riconosce e garantisce,
rientra  il  diritto  alla  salute,  che riveste carattere di diritto
fondamentale   e,   appunto,   inviolabile,   connesso   a   un  bene
indisponibile da parte del singolo.
    Ne' potrebbe dubitarsi dell'inclusione, nell'ambito soggettivo di
tutela, della persona in stato di detenzione; la legislazione interna
appresta  a  tal  fine  diversi  strumenti  di  garanzia,  sia per la
prevenzione,   sia   per  l'organizzazione  del  servizio  sanitario,
assicurando   gli   interventi  terapeutici  necessari  sia  intrache
extra-murari;  prevede  poi  forme  diverse di esecuzione della pena,
allorche'  sia  necessario  conciliare  questa  con le esigenze della
salute,  ad  esempio  con l'istituto della detenzione domiciliare per
motivi  sanitari (art. 47-ter ordinamento penitenziario); infine, per
i  casi  limite  di  assoluta incompatibilita' tra la detenzione e le
condizioni di salute, pone istituti come quelli di cui agli artt. 146
e  147  cod. pen., che, sospendendo temporaneamente l'esercizio della
potesta'  punitiva  dello Stato, consentono il rinvio dell'esecuzione
della pena, a tutela del bene primario della salute individuale.
    L'assoluta   preclusione   all'applicazione   del   rimedio   del
differimento,  che  e'  un  istituto  di  civilta' giuridica a tutela
dell'integrita'  fisica  di  chi sia detenuto, equivale a menomare un
diritto  fondamentale,  in  un caso che viceversa esigerebbe una piu'
intensa  garanzia.  Ne' la violazione del diritto costituzionale alla
salute   potrebbe   essere  esclusa  in  base  al  consenso  espresso
dall'interessata  rispetto  alle  condizioni  contenute nell'accordo,
vertendosi in materia di diritti indisponibili.
    1.8.  -  Sarebbe  violato,  in  secondo luogo, il principio della
finalita'   rieducativa  della  pena  (art. 27,  terzo  comma,  della
Costituzione).
    Se   infatti   possono  ammettersi  deroghe  all'applicazione  di
istituti   "premiali"   dell'ordinamento,   in   applicazione   della
Convenzione e nel quadro degli accordi intergovernativi, in vista del
raggiungimento    dell'obiettivo   fondamentale   rappresentato   dal
trasferimento   del   condannato,   che  e'  appunto  mezzo  al  fine
rieducativo,  cio'  che  non  puo'  ammettersi  e'  la  previsione di
condizioni  tali  da  delineare  un  "trattamento"  che,  comprimendo
l'applicazione  di  istituti  basilari di protezione della integrita'
fisica,  finisce  per contraddire l'essenza stessa della prescrizione
costituzionale,  nessuna risocializzazione essendo possibile in danno
del bene della salute dell'individuo.
    1.9.  -  Sarebbero altresi' violati gli artt. 27, terzo comma sul
divieto  di  trattamenti contrari al senso di umanita', e 25, secondo
comma sul principio di legalita' della pena, della Costituzione.
    Ratio  della  norma  di cui all'art. 147, primo comma, numero 2),
cod.  pen. e'  proprio  quella  di  evitare sia una esecuzione penale
contrastante  con  il  senso  di  umanita'  e  con  la dignita' della
persona,  sia  una  espiazione  che, per il surplus di afflittivita',
finisca  per  trasformarsi in una sanzione qualitativamente diversa e
piu'  grave,  perche'  incidente non solo sulla liberta' personale ma
addirittura sull'integrita' fisica.
    1.10. - Infine, sarebbe violato il principio di uguaglianza.
    Per  effetto  delle condizioni definite dall'accordo, si verifica
che la persona di cui si tratta e' l'unica cittadina italiana che, in
condizioni  detentive,  viene  a essere privata della possibilita' di
usufruire  di  uno  strumento  essenziale  posto  dalla  legislazione
nazionale a tutela della salute, cioe' del rinvio dell'esecuzione per
grave infermita' fisica.
    Ne'   la   macroscopica   disparita'   di   trattamento  potrebbe
giustificarsi con la particolarita' del caso, che non puo' costituire
un elemento di differenziazione di tale portata.
    1.11.   -   I   plurimi   dubbi   di   costituzionalita'  debbono
indirizzarsi,  conclude  il  tribunale  rimettente,  verso  la  norma
(art. 2  della  legge 25 luglio 1988, n. 334) che da' esecuzione alla
Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate,
immettendone  le  disposizioni  nell'ordinamento  interno,  in quanto
queste  rendono  possibile  (nel  loro  complesso  e  in  particolare
attraverso  la  previsione  del  necessario  accordo  tra lo Stato di
condanna   e  lo  Stato  di  esecuzione  sul  trasferimento:  art. 3,
paragrafo  1,  lettera f) la stipula di accordi che, come si verifica
nella  specie,  derogano all'applicazione dell'art. 147, primo comma,
numero 2), cod. pen.
    La   rilevanza   della  proposta  questione,  afferma  infine  il
tribunale,  e'  ravvisabile  nel diverso esito che il giudizio cui il
rimettente  e'  chiamato  potrebbe  avere  in caso di accoglimento di
essa;  solo  cosi'  l'accordo piu' volte citato sarebbe privato della
base  legislativa  che lo abilita a porsi come eccezione alla regola,
ripristinandosi  la  piena  operativita'  di  quest'ultima  anche  in
relazione al caso di specie.

    2. - Nel  giudizio costituzionale cosi' promosso si e' costituita
la  parte  privata.  Nell'atto  di  costituzione,  riservando  a  una
successiva  memoria  le  argomentazioni  a sostegno dell'accoglimento
della   questione,   il   difensore   ne  ha  chiesto  una  sollecita
trattazione, in relazione alle condizioni sanitarie dell'interessata,
precisando  che  la  stessa,  terminato  il ciclo di radioterapia, ha
iniziato   il  trattamento  di  chemioterapia,  che  dovrebbe  essere
praticato  in  regime  di  day  hospital  anziche'  in  condizioni di
ricovero   ospedaliero   e   che   in  pari  tempo  e'  evidentemente
incompatibile con il regime carcerario; si verifica, in concreto, una
situazione   "ibrida",   in   attesa   della   decisione  sul  rinvio
dell'esecuzione  della pena: da un lato l'interessata dovrebbe essere
dimessa  dalla  struttura  sanitaria,  che  non potrebbe mantenere il
ricovero  per  quella  specifica  terapia,  dall'altro  non  e' pero'
possibile   neppure   il   ripristino   della   detenzione,  che  non
consentirebbe di prestare la cura necessaria.

    3. - E'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato.
    3.1.  -  L'Avvocatura eccepisce in primo luogo l'inammissibilita'
della  questione, sotto il profilo della rilevanza, osservando che il
giudice  chiamato  a fare applicazione della disciplina censurata non
e'  il  Tribunale  di  sorveglianza  rimettente, ma (era) la Corte di
appello, tenuta a valutare l'accordo intergovernativo e a determinare
la  pena  da  eseguire  in  Italia  in  sede  di riconoscimento delle
sentenze penali straniere. E la Corte di appello, con la sentenza, ha
espressamente preso in considerazione la disciplina di cui si tratta,
valutando rispetto a essa l'accordo e concludendo nel senso della sua
legittimita',  delibando  il  riconoscimento  delle  due  sentenze di
condanna  emesse  negli  Stati  Uniti.  Sotto  questo  primo profilo,
dunque,  la  questione  sarebbe  inammissibile  perche'  "coperta dal
giudicato".
    3.2.  - In secondo luogo, ad avviso dell'Avvocatura, la eventuale
dichiarazione di incostituzionalita', cosi' come prospettata, avrebbe
per  effetto  l'invalidita'  dell'accordo  e dunque il venir meno del
titolo   di   legittimazione   del   trasferimento  della  persona  e
dell'esecuzione  in  Italia  della  pena  inflitta negli Stati Uniti,
cosicche'  il  Tribunale  di  sorveglianza  rimettente  non  potrebbe
disporre  neppure  in tale ipotesi il differimento dell'esecuzione in
applicazione  della normativa quale risultante dalla dichiarazione di
incostituzionalita'.
    Dal  testo  dell'accordo  risulta  infatti che il differimento ex
art. 147,  primo  comma, numero 2), cod. pen., in quanto contrastante
con  le  condizioni  stabilite, qualora venisse disposto in concreto,
farebbe   operare   la   clausola   espressa   (non   sospettata   di
incostituzionalita') che sancisce la nullita' dell'accordo in caso di
inosservanza  delle  relative  prescrizioni  e  che impone il rientro
della  detenuta  negli  Stati  Uniti;  con  l'effetto, quindi, non di
sospendere  temporaneamente  l'esecuzione  della  pena,  ma  di farla
semplicemente proseguire nello Stato di condanna.
    In  nessun  caso,  quindi,  il Tribunale di sorveglianza potrebbe
dirsi chiamato a fare applicazione della disciplina sul trasferimento
delle  persone  condannate, perche' il differimento della pena che si
richiede di disporre non potrebbe avere luogo neppure a seguito della
richiesta   dichiarazione   di  incostituzionalita'  della  normativa
denunciata.
    3.3.  -  Ancora,  l'Avvocatura  osserva  che il sistema prescelto
dall'Italia   in   sede   di  adesione  e  ratifica  delineato  nella
Convenzione  comporta  la  continuazione  dell'esecuzione  della pena
inflitta  all'estero,  e che cio' solo indipendentemente da specifici
accordi  in  tal  senso sembra escludere il ricorso a un differimento
facoltativo   dell'esecuzione   di   pena   (diversamente  da  quanto
probabilmente  potrebbe  dirsi  per  il  differimento  obbligatorio),
specie se un corrispondente istituto non e' previsto nell'ordinamento
dello   Stato   di   condanna.  Infatti  il  differimento  interviene
sull'esecuzione  non per regolarne lo svolgimento ma facendola venire
meno,   sia  pure  temporaneamente,  impedendo  cosi'  in  radice  la
"continuazione" dell'esecuzione.
    In    questa   prospettiva,   puo'   affermarsi   che   l'accordo
intergovernativo  tra Stati Uniti e Italia non ha aggiunto nulla alla
disciplina  generale,  e  anche  per tale aspetto la norma interna di
esecuzione del trattato internazionale non verrebbe in rilievo.
    3.4.   -   Ulteriore   ragione   di   inammissibilita',   secondo
l'Avvocatura  dello  Stato, risiederebbe nella circostanza che, se e'
vero  che  fonti  esterne  all'ordinamento  nazionale sono soggette a
controllo  di costituzionalita' attraverso la legge di esecuzione del
trattato che le prevede, e' anche vero che tale principio postula che
le   disposizioni  attivate  sul  piano  pattizio  abbiano  carattere
normativo  e  siano,  nella scala delle fonti, equiordinate agli atti
con  forza  e  valore  di  legge,  come  ad  esempio  avviene  per  i
regolamenti  comunitari  (sentenze  nn. 170  del  1984 e 183 del 1973
della Corte costituzionale).
    Nulla  di  tutto  cio' e' riscontrabile nella specie: il trattato
internazionale,  e  quindi  la  legge  che  a  esso  da'  esecuzione,
considera  non  gia'  una  fonte produttiva di norme, che cioe' possa
stabilire regole generali e astratte, ma una fonte convenzionale, che
produce  accordi  specifici  su  singoli  casi  concreti; e la regola
convenzionale  che  di  volta  in  volta  sia  posta non potrebbe non
conformarsi  all'ordinamento  nel  quale si inserisce la norma che la
prevede, cioe' all'ordinamento italiano.
    Pertanto,  conclude  in  rito l'Avvocatura, la questione non puo'
avere  ingresso, perche' spetta al giudice ordinario e non al giudice
costituzionale  il  sindacato  di conformita' dell'accordo intercorso
tra Stati Uniti e Italia, rispetto all'ordinamento interno.
    3.5.  -  Nel  merito,  l'Avvocatura  deduce  l'infondatezza della
questione, in riferimento a tutti i parametri invocati.
    La  Corte  costituzionale  ha  di  recente affrontato il tema dei
rapporti   tra   le   convenzioni   internazionali   concernenti   la
cooperazione   giudiziaria   nella   materia   penale  e  i  principi
costituzionali,  e  ha affermato la sussistenza di alcuni principi di
carattere  assoluto,  coessenziali  al quadro costituzionale, come il
divieto  della  pena di morte o il divieto di pene contrarie al senso
di umanita' (sentenza n. 223 del 1996).
    Ma  non  e' questo osserva - l'Avvocatura - il caso di specie: e'
anzi  la  finalita'  che  ispira la Convenzione e quindi la normativa
denunciata  a muoversi per rendere la pena il piu' possibile conforme
al senso di umanita'.
    Quanto  al  principio della finalita' rieducativa della pena e al
divieto di trattamenti contrari al senso di umanita', l'Avvocatura fa
rilevare  che  le  condizioni negoziate tra gli Stati in applicazione
della  Convenzione  di  Strasburgo  sono rivolte proprio a mettere in
opera  la  Convenzione  in  casi nei quali essa resterebbe altrimenti
inoperante; come e' evidente nel caso specifico, nel quale ben cinque
richieste  di  trasferimento erano state in precedenza respinte dagli
Stati  Uniti.  E  proprio  con  riferimento  alla vicenda in esame il
Comitato  per  i  problemi criminali - che, nell'ambito del Consiglio
d'Europa,  verifica  il  funzionamento delle convenzioni stipulate in
materia  penale  -  ha  sottolineato,  in  un  proprio  rapporto  del
25-27 settembre  1995, che, mentre l'obiettivo della esecuzione della
condanna  e'  raggiungibile  a  prescindere  dalla  Convenzione,  non
altrettanto  e' a dirsi per il fine del reinserimento del condannato,
che  dunque  e'  la  "ragion  d'essere" dello strumento convenzionale
internazionale.
    Tale   finalita'   di   risocializzazione   e'  stata  del  resto
riconosciuta  dallo  stesso giudice rimettente, essendo da preferire,
nell'alternativa   tra   l'applicazione   "condizionata"   e  la  non
applicazione   della   Convenzione,   in   nome  dell'uniformita'  di
trattamento, la prima possibilita'.
    Quando  dunque  le  restrizioni  rispetto all'ordinario regime di
detenzione   dello   Stato  di  esecuzione  rappresentano  condizioni
imprescindibili  per l'applicazione della Convenzione, non puo' dirsi
violato  il principio della finalita' rieducativa perche', in difetto
di   un   accordo,   il   trasferimento   non   avrebbe  luogo  e  la
risocializzazione  del  condannato  ne  risulterebbe  compromessa  in
modo maggiore, in quanto l'esecuzione della pena dovrebbe proseguire,
alle medesime condizioni, ma nel Paese estero di condanna.
    Circa  il  principio  di  legalita'  della  pena, sia inteso come
rispetto  della  riserva  di legge sia come esigenza di tassativita',
esso   sarebbe  rispettato,  per  il  recepimento  della  Convenzione
nell'ordinamento  attraverso  la  legge  di  ratifica ed esecuzione e
perche'  in  essa  e'  posta una disciplina analitica sull'esecuzione
della condanna.
    Quanto  alla  dedotta  violazione  del  diritto fondamentale alla
salute,  l'Avvocatura  rileva che nel caso concreto il diritto appare
salvaguardato  poiche' la magistratura di sorveglianza ha disposto il
trasferimento della detenuta in struttura ospedaliera civile, a norma
dell'art. 11  ordinamento  penitenziario;  mentre  e'  affidata  alla
discrezionalita'  del  giudice  di  merito l'eventuale valutazione di
insufficienza  di  detto  strumento  rispetto alle esigenze sanitarie
dell'interessata.  Proprio  per  la  -  praticata  -  possibilita' di
ricovero  in  una  struttura ospedaliera esterna, pur se in regime di
detenzione,  l'Avvocatura  richiama  l'attenzione sulla necessita' di
una  valutazione  della  disciplina  che operi un bilanciamento degli
interessi  in  gioco,  tenendo  conto  del  fatto che e' questione di
rinvio  facoltativo e non di rinvio obbligatorio della esecuzione: le
restrizioni concordate rappresentano una conditio sine qua non per il
trasferimento   e  pertanto,  se  si  ritenesse  incostituzionale  la
normativa che tali restrizioni consente, si perverrebbe al risultato,
paradossale,  di  negare  la  stessa  possibilita' del trasferimento,
cosi'    contrastando    proprio   l'attuazione   dei   principi   di
risocializzazione e umanizzazione del trattamento di cui il tribunale
lamenta la violazione.
    Ove  l'accordo  in  questione  non  sussistesse,  infatti, non vi
sarebbe  stato  luogo al trasferimento in Italia, e la condannata non
avrebbe  certo  fruito  di  condizioni di maggiore salvaguardia della
salute,  giacche' avrebbe ricevuto cure analoghe ma all'interno della
struttura carceraria dello Stato estero.
    Quanto,   infine,   alla  dedotta  violazione  del  principio  di
uguaglianza,  a  impedirne  il  richiamo  e',  per  l'Avvocatura,  la
singolarita'  del  caso,  che  non consente di istituire utilmente un
raffronto  con  la  generalita',  per  difetto di omogeneita' dei due
termini.
    L'Avvocatura   conclude   pertanto   per   una   declaratoria  di
inammissibilita' o di infondatezza della questione.

    4.  - La difesa della parte privata ha successivamente depositato
una memoria.
    4.1.  -  Dopo aver ripercorso sia l'iter della procedura svoltasi
dinanzi  al  tribunale  di  sorveglianza  sia  le  argomentazioni  da
quest'ultimo    prospettate    nel    sollevare   la   questione   di
costituzionalita',  la  difesa  della  persona condannata si sofferma
sulle   deduzioni   dell'Avvocatura  dello  Stato  e  in  particolare
sull'eccezione di inammissibilita' della questione, formulata in base
all'argomento  del  carattere  non  normativo  dell'accordo di cui si
tratta,  dunque  per  l'inidoneita'  dell'atto  a formare oggetto del
sindacato di costituzionalita'.
    Questa   eccezione   e'   condivisa   dalla  difesa  della  parte
costituita,  che  a  essa  si  richiama  per  riproporre  quanto gia'
sostenuto   nell'ambito   del   giudizio   dinanzi  al  tribunale  di
sorveglianza   e   cioe'   che   dell'accordo   intergovernativo  sul
trasferimento sarebbe possibile fornire una interpretazione diversa e
idonea a superare il dubbio di costituzionalita'.
    Non  deriverebbe infatti dall'impugnato art. 2 della legge n. 334
del  1988, di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Strasburgo,
la  lamentata  impossibilita'  di  applicare l'art. 147, primo comma,
numero 2), cod. pen., ma piuttosto cio' sarebbe esclusiva conseguenza
dell'accordo  specifico con il quale e' stata posta la disciplina del
regime  detentivo  della  condannata;  non  si  tratterebbe dunque di
valutare  una disposizione generale ed astratta, che sia suscettibile
di  sindacato  di  costituzionalita',  ma  semmai  di  considerare la
vicenda  disciplinata  da  una  "norma  del caso singolo". Il rilievo
sarebbe  confermato  sia dal testo della Convenzione, che si limita a
stabilire  nel  suo art. 3, paragrafo 1, lettera f), la necessita' di
un accordo per poter disporre il trasferimento, sia dalla ratio della
fonte   internazionale  pattizia,  che  e'  certamente  orientata  al
rispetto  del  senso  di  umanita' nell'esecuzione della pena; il che
esclude  che  si  possa  fornire  della  legge  nazionale che immette
nell'ordinamento    le    disposizioni    della    Convenzione    una
interpretazione  tale  da  autorizzare il Governo a stipulare accordi
contrari alla Costituzione, come invece ritiene il rimettente.
    Ma se il vizio attiene al - solo - accordo, allora la valutazione
di  conformita'  di  esso  ai  principi fondamentali dell'ordinamento
italiano  e'  compito del giudice ordinario, sia di quello chiamato a
delibare  il  riconoscimento  della sentenza penale straniera, sia di
ogni  altro  giudice  che  debba  definire  questioni coinvolte dalla
disciplina contenuta nell'accordo medesimo.
    Ora,  prosegue  la difesa, la Corte d'appello ha deciso nel senso
della  conformita' tra l'accordo e i principi fondamentali, oltre che
con  lo  spirito  della  Convenzione  di  Strasburgo,  nonostante  la
creazione  di  una  sorta  di  regime  singolare  "di  rigore"; ma la
restrizione  dei  benefici  accordabili  all'interessata non potrebbe
spingersi   fino   all'eliminazione   di   ogni  tutela  dei  diritti
fondamentali,  in  primo  luogo  del diritto alla salute, poiche' una
simile   conclusione   contraddirebbe   proprio   lo   spirito  della
Convenzione.
    La  premessa  per  una diversa interpretazione e' individuata nel
disposto  del  punto  6  dell'allegato  A all'accordo, che, ad avviso
della  difesa,  e'  suscettibile di una lettura contraria a quella da
cui muove il Tribunale di sorveglianza; il citato punto 6 dispone che
"nel caso di malattia", la persona "resti reclusa in uno stabilimento
ospedaliero  penale  e  non in altro stabilimento e che ogni problema
medico  venga  trattato  nella stessa maniera in cui lo sarebbe se la
condannata continuasse a scontare la pena negli Stati Uniti".
    Questa "omologazione" del trattamento italiano a quello americano
sarebbe,  secondo  la  memoria,  sempre  da  riferire alle condizioni
sanitarie  tenute  presenti al tempo della conclusione dell'accordo e
comunque   a   eventuali  infermita'  dell'interessata  tali  da  non
richiedere  determinate  cure  specialistiche;  il Governo italiano e
l'interessata,   secondo   la   difesa,  avrebbero  cioe'  aderito  e
acconsentito   alle   condizioni   poste   dal  Governo  statunitense
confidando nelle buone condizioni di salute della detenuta.
    A  tale proposito, nella memoria si richiama quanto stabilisce la
Convenzione  di  Strasburgo, relativamente agli obblighi reciproci di
fornire informazioni e alla documentazione da produrre (artt. 4 e 6),
nel  quadro  della  formazione  genuina  del  consenso  e  del  leale
svolgimento  delle  trattative  in  vista  dell'accordo; l'art. 6, in
particolare,  prescrive che lo Stato di condanna fornisca a quello di
esecuzione   ogni   rapporto  medico  concernente  la  persona,  ogni
informazione  sul  trattamento  nonche'  ogni  raccomandazione  sulla
prosecuzione  di  esso; si fa rilevare, sul punto, che dalla cartella
che  accompagna la detenuta risulta che gia' prima del trasferimento,
e  precisamente  nel maggio  del  1999, un esame clinico svolto negli
Stati   Uniti  aveva  evidenziato  una  formazione  calcificata  (poi
asportata  nell'intervento  in  Italia),  tanto  che era stato allora
prescritto un successivo controllo entro tre mesi. Ma, puntualizza la
difesa,  la  cartella clinica non e' stata fornita all'Italia in sede
di trattative, ne' e' stata allegata all'accordo.
    Su  tali  premesse, la difesa afferma che le condizioni fisiche e
in particolare il rischio di malattie tumorali cui andava incontro la
detenuta  non  hanno  fatto  parte del contenuto delle trattative tra
Stati   Uniti   e   Italia;  ora  pertanto  si  dovrebbe  prescindere
dall'accordo,  poiche'  si  sarebbe  in  presenza  di  una condizione
totalmente   nuova   rispetto  all'accordo  medesimo,  condizione  da
valutare  come  tale  in  modo  autonomo  e  in  aderenza ai principi
dell'ordinamento.
    Del  resto,  l'impossibilita'  di  disciplinare in toto il regime
giuridico  della detenuta sulla base dell'accordo sarebbe gia' emersa
nei  fatti.  Lo  stesso  tribunale  di  sorveglianza  ha sottolineato
l'improrogabilita'  del ricovero in luogo esterno di cura, ex art. 11
ordinamento  penitenziario,  per gli accertamenti e per l'intervento:
neanche  tale misura temporanea, a rigore, sarebbe stata concedibile,
sulla  base  dell'accordo, ma in definitiva ha prevalso l'esigenza di
tutela dell'integrita' fisica dell'individuo, indipendentemente dalla
volonta'  che  questi  abbia  manifestato nell'ambito della pregressa
procedura  di trasferimento. Questo punto di vista, si rileva ancora,
non  e'  stato  contrastato dagli Stati Uniti, che, informati di tali
sviluppi,  non  hanno eccepito nulla ne' hanno chiesto l'annullamento
dell'accordo,  avallando  l'interpretazione  garantista  degli organi
giudiziari italiani. Cio' in linea - si sostiene ancora nella memoria
- con l'atteggiamento da ultimo manifestato dal Governo statunitense,
che,  attraverso la concessione della "commutazione" della pena a due
persone  gia' coimputate della cittadina italiana, avrebbe dimostrato
l'intento   di   definire   una  volta  per  tutte  quella  parentesi
politico-giudiziaria.
    4.2.  -  Qualora  le  argomentazioni  sopra  svolte non dovessero
sfociare in una dichiarazione di inammissibilita' della questione, la
difesa della parte privata chiede comunque, nel merito, una pronuncia
che  sia  tale  da riaffermare la centralita' del diritto del singolo
alla  propria  vita  e  da  confermare  che la tutela della salute e'
posizione  giuridica  essenziale  e  imprescindibile,  in  linea  con
l'orientamento     sempre     manifestato     dalla    giurisprudenza
costituzionale,  ad alcuni passaggi della quale la difesa fa testuale
richiamo.

                       Considerato in diritto


    1.  -  Il tribunale di sorveglianza di Roma, con riferimento agli
artt. 2,  3,  primo  comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 32,
primo  comma,  della  Costituzione, solleva un dubbio di legittimita'
costituzionale  sull'art. 2  della  legge 25 luglio 1988, n. 334, che
da'  "piena  ed intera esecuzione" alla Convenzione sul trasferimento
delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983.
    Dovendosi pronunciare, a norma dell'art. 147, primo comma, numero
2), del codice penale, sul differimento dell'esecuzione della pena di
persona detenuta della quale si allega la grave infermita' fisica, il
giudice rimettente osserva:
        a)  che  la  persona  interessata  al  provvedimento e' stata
condannata  a  pena  detentiva  negli  Stati Uniti d'America, con due
sentenze riconosciute in Italia;
        b)  che,  in applicazione della Convenzione di Strasburgo sul
trasferimento  delle persone condannate, essa si trova attualmente in
stato di detenzione in Italia;
        c)  che l'accordo tra i Governi degli Stati Uniti d'America e
dell'Italia  che ha consentito il trasferimento e' accompagnato da un
protocollo   contenente   una  serie  di  clausole  che  prevedono  e
l'impossibilita'   di   concedere   alla  persona  detenuta  benefici
comportanti  l'allontanamento,  sia  pure  per  brevi  periodi, dallo
stabilimento  carcerario  secondo  quanto  esposto in dettaglio nella
narrazione dei fatti; e l'applicabilita' di tali limitazioni anche in
caso di malattia, dovendo allora le cure avvenire in uno stabilimento
ospedaliero  penale e non in altro stabilimento e ogni altro problema
medico  dovendo essere trattato alla stessa maniera in cui lo sarebbe
se  la persona interessata continuasse a scontare la pena negli Stati
Uniti d'America;
        d)  che  tali  condizioni  sono  da  applicare anche se altre
persone,   in   circostanze  analoghe,  siano  ammesse  a  godere  di
trattamenti e benefici esclusi nel caso in questione;
        e)  che l'accordo tra i Governi degli Stati Uniti d'America e
dell'Italia prevede che lo Stato italiano, e non solo il Governo, sia
vincolato  al  suo  rispetto  e  che,  nel  caso di violazione di una
qualunque  delle condizioni previste, l'accordo sul trasferimento sia
nullo;  che  l'Italia  e  la  persona  detenuta  acconsentano,  senza
appello,  alla  richiesta  degli  Stati Uniti d'America di ricondurre
questa  persona  in  uno  stabilimento penitenziario statunitense per
scontare  la  parte  restante  di pena; che non vi sia rilascio dalla
reclusione per il tempo necessario a prendere decisioni o risoluzioni
in proposito;
        f)  che le clausole anzidette sono state approvate sulla base
dell'art. 3,  paragrafo  1,  lettera  f),  della Convenzione il quale
stabilisce che il trasferimento del condannato ha luogo, tra l'altro,
a condizione che lo "Stato di condanna" e lo "Stato di esecuzione" si
siano "mis d'accord sur ce transfe'rement";
        g)  che, alla stregua di tali limitazioni, la possibilita' di
differimento   della  pena  in  caso  di  grave  infermita'  previsto
dall'art. 147  del  codice  penale non potrebbe trovare applicazione,
cio'   che   determinerebbe  tuttavia  una  violazione  dei  principi
costituzionali sopra indicati.
    Poiche',   secondo  il  giudice  rimettente,  l'effetto  ostativo
all'applicazione   dell'art. 147   del  codice  penale  deriva  dalle
clausole  dell'accordo  tra  i  Governi degli Stati Uniti d'America e
dell'Italia;   poiche'   tali  clausole  sempre  secondo  il  giudice
rimettente  -  si  basano sull'applicazione dell'art. 3, paragrafo 1,
lettera   f),   della   Convenzione  di  Strasburgo  e  poiche'  alla
Convenzione  e'  stata data esecuzione nel nostro ordinamento tramite
l'art. 2  della  legge  n. 334  del  1988, si solleva la questione di
costituzionalita'  su  questa  disposizione nella parte in cui, dando
esecuzione  all'art. 3,  paragrafo  1, lettera f), della Convenzione,
legittima  la  stipula  o non esclude la legittimita' della stipula -
dell'accordo  che  impedisce  di  dare  applicazione all'art. 147 del
codice penale.

    2. - Il  Presidente del Consiglio dei ministri interveniente e la
parte  privata  costituitasi in giudizio prospettano alcune eccezioni
di inammissibilita' della predetta questione.
    2.1.  -  Il  Presidente  del  Consiglio  ritiene innanzitutto che
l'accordo  intergovernativo,  con  le  garanzie alle quali il Governo
degli  Stati  Uniti  ha  subordinato  il suo consenso, sia gia' stato
definitivamente   valutato   dalla  competente  Corte  d'appello  con
sentenza  9 luglio  1999, pronunciata in sede di riconoscimento delle
sentenze  statunitensi  di  condanna, a norma dell'art. 1 della legge
3 luglio  1989,  n. 257 (Disposizioni per l'attuazione di convenzioni
internazionali aventi ad oggetto l'esecuzione delle sentenze penali).
Poiche',  a  norma  dell'art. 2 di questa legge, alle sentenze penali
straniere  e' dato riconoscimento a condizione (tra l'altro) che esse
non   contengano  disposizioni  contrarie  ai  principi  fondamentali
dell'ordinamento  giuridico  italiano,  e  poiche'  nessun rilievo e'
stato  mosso  alla  legittimita'  dell'accordo,  in  generale,  o, in
particolare,  di  specifiche  sue clausole, se ne dovrebbe trarre, ad
avviso  del  Presidente  del  Consiglio, che la pronuncia della Corte
d'appello  copre  con la forza della res iudicata ogni questione che,
successivamente, possa venire a porsi in proposito. Conseguentemente,
al  tribunale  di  sorveglianza  sarebbe preclusa ogni valutazione al
riguardo  e  la  questione  di  legittimita' costituzionale sollevata
sarebbe priva di rilevanza.
    L'eccezione non puo' essere accolta.
    La   sentenza   della  Corte  d'appello  da  cui  deriverebbe  la
preclusione  afferma  in generale non potersi "negare la legittimita'
di  un trasferimento che comporti la prosecuzione dell'esecuzione per
il tempo e secondo le condizioni stabilite dallo Stato di condanna" e
potersi ritenere legittime tali condizioni "se non siano in contrasto
con   l'ordinamento   giuridico   dei   due  Stati"  e  "dichiara  il
riconoscimento"   delle   sentenze   statunitensi   "alle  condizioni
stabilite dagli USA ed accettate" dalla persona interessata. Tuttavia
-  salvo  che  per  quanto  concerne la rideterminazione della durata
della   pena,   alla  stregua  degli  artt. 10,  paragrafo  2,  della
Convenzione e 3, commi 1 e 2, della legge n. 257 del 1989 essa non ha
svolto  alcuna  valutazione  circa  la  legittimita' delle specifiche
clausole che accompagnano, condizionandolo, l'accordo tra Governi, in
particolare circa quelle relative ai trattamenti sanitari. Del resto,
lo  stesso Ministro della giustizia, nella lettera del 28 luglio 1999
con  la  quale  comunica  al  suo corrispondente dell'amministrazione
statunitense  l'avvenuto riconoscimento delle sentenze da eseguire in
Italia,   non   riferisce   di   un   riconoscimento  giudiziario  ma
esclusivamente   dell'accoglimento   governativo   delle  condizioni,
accoglimento  di  cui  la  sentenza della Corte d'appello si limita a
dare atto.
    Inoltre,   mancando  una  specifica  disciplina  convenzionale  o
legislativa  delle  condizioni apposte all'accordo di trasferimento e
della  loro  efficacia,  allo  stato  della legislazione vigente, non
risulta   quale   possa   essere   il   significato   giuridico   del
riconoscimento che ha operato l'autorita' giudiziaria in tale caso.
    Da  ultimo - quali che siano la portata e il fondamento normativo
di  tale  riconoscimento,  accompagnato da condizioni, della sentenza
straniera  l'eccezione  in  esame implica una concezione per la quale
esso,  piuttosto  che  a  riconoscimento  di  una sentenza secondo le
nostre  leggi  processuali,  si atteggerebbe a una sorta di ordine di
esecuzione  di  una disciplina individuale dell'esecuzione della pena
concordata  tra  Governi,  idoneo a farla valere nell'ordinamento e a
dotarla  di  forza tale da precludere ogni possibile, futura azione a
difesa  dei  diritti  del  detenuto.  Il che, tanto piu' in quanto si
tratta  di norme in materia di diritti indisponibili, il cui rispetto
non  e'  percio'  reso  facoltativo nemmeno dal consenso del soggetto
interessato,    dimostra,   con   l'assurdita'   della   conseguenza,
l'insostenibilita' della premessa.
    2.2.   In   secondo  luogo,  per  il  Presidente  del  Consiglio,
l'eventuale   accoglimento   della   questione  di  costituzionalita'
potrebbe  determinare  l'applicazione di una disposizione della legge
italiana  in  contrasto  con le condizioni nell'accordo stabilite. In
tal caso varrebbe pero' la clausola di nullita' dell'accordo stesso e
opererebbe  il consenso preventivamente prestato dal Governo italiano
e  dalla  persona  interessata alla richiesta del Governo degli Stati
Uniti  di  ripristinare  la  detenzione  nello  Stato di condanna per
l'esecuzione   della   parte   restante  di  pena.  La  questione  di
costituzionalita'  sarebbe allora irrilevante, non potendosi comunque
pervenire,  in  tale  contesto  di impegni italiani, all'applicazione
dell'art. 147 del codice penale.
    Sennonche',   la  citata  clausola  dell'accordo,  riguardante  i
Governi  sul piano dei rapporti internazionali - a parte l'incertezza
circa  il  vincolo che ne possa derivare nei confronti dell'autorita'
giudiziaria  sotto  la cui giurisdizione si svolge l'esecuzione della
pena  in  Italia e della quale occorrerebbe comunque un provvedimento
di  autorizzazione al ritrasferimento negli Stati Uniti - non esclude
affatto   di   per   se'   l'adozione   di   provvedimenti  da  parte
dell'autorita'  giudiziaria  stessa,  incompatibili con le condizioni
stabilite  nell'accordo.  Essa prevede invece gli effetti conseguenti
all'eventuale  adozione  di  tali provvedimenti, effetti, oltretutto,
rimessi  a  una  possibilita'  - la richiesta del Governo degli Stati
Uniti  -  e  non  dipendenti  dalla  necessita',  cio' che conferisce
all'eccezione di irrilevanza un carattere soltanto ipotetico.
    2.3.  -  In  terzo luogo, il Presidente del Consiglio osserva che
l'inapplicabilita'  dell'art. 147 del codice penale, prima ancora che
dal  contenuto  delle  clausole  che  accompagnano  l'accordo  tra  i
Governi,  deriva  dalla stessa Convenzione o, meglio, dal meccanismo,
regolato  dalla  Convenzione  e  prescelto  dall'Italia  in  sede  di
adesione    e    ratifica:    il   meccanismo   della   continuazione
dell'esecuzione  della  pena inflitta dallo Stato estero (previsto in
alternativa   a   quello   della   conversione  della  condanna).  La
continuazione  di  per  se',  indipendentemente da specifici accordi,
comporterebbe,    per    l'evidente   incompatibilita'   concettuale,
l'impossibilita'  di  concepire  un  differimento  dell'esecuzione. E
cio', ancora, confermerebbe l'irrilevanza della questione.
    L'eccezione   non  puo'  essere  accolta  per  il  suo  carattere
nominalistico.  La  continuazione,  infatti,  sta solo a significare,
alla  stregua  dell'art. 10,  paragrafo  1,  della  Convenzione,  che
l'esecuzione prosegue, dopo il trasferimento, cosi' come e' stabilita
nella  sentenza  di  condanna (salva l'eventualita' dell'adattamento,
previsto  nel  paragrafo 2 del medesimo articolo 10), a differenza di
quanto  accade  con  il  sistema della conversione della condanna, il
quale  comporta  la  sostituzione  di  una  condanna  all'altra,  nel
rispetto  degli  accertamenti  contenuti nella prima sentenza e della
natura   della  pena  con  essa  disposta,  secondo  l'art. 11  della
Convenzione.   E   lo   stesso   art. 10,  paragrafo  1,  postula  il
mantenimento della natura e della durata della pena, ma ne' l'una ne'
l'altra,  evidentemente,  sono  intaccate dal mero differimento della
sua esecuzione.
    2.4.  -  Infine,  il Presidente del Consiglio subordinatamente al
mancato accoglimento delle precedenti eccezioni di inammissibilita' -
concorda  con la parte privata nel ritenere che non spetti alla Corte
costituzionale, ma spetti se mai al giudice ordinario, la valutazione
circa  la  conformita'  all'ordinamento  italiano  dell'accordo tra i
Governi degli Stati Uniti e dell'Italia, un accordo che sarebbe privo
di natura normativa e, comunque, di forza di legge.
    E'  sufficiente  peraltro osservare in contrario che la questione
di costituzionalita', per quanto dalla sua soluzione possano derivare
conseguenze circa la valutazione della legittimita' dell'accordo, non
riguarda  direttamente  l'accordo  stesso  ma  la  legge  che ha dato
esecuzione alla Convenzione, contenente una norma in base alla quale,
secondo  la  prospettazione  del  rimettente, l'accordo sarebbe stato
stipulato dalle autorita' di governo dei due Paesi.

    3. - La  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 2
della  legge  25 luglio 1988, n. 334 ammissibile per le ragioni sopra
indicate e' peraltro infondata, alla stregua delle considerazioni che
seguono.
    3.1.  -  L'orientamento di apertura dell'ordinamento italiano nei
confronti  sia  delle  norme  del diritto internazionale generalmente
riconosciute, sia delle norme internazionali convenzionali incontra i
limiti  necessari  a garantirne l'identita' e quindi, innanzitutto, i
limiti derivanti dalla Costituzione.
    Cio'  vale  perfino  nei casi in cui la Costituzione stessa offre
all'adattamento  al  diritto internazionale uno specifico fondamento,
idoneo a conferire alle norme introdotte nell'ordinamento italiano un
particolare    valore    giuridico.    I    "principi    fondamentali
dell'ordinamento  costituzionale"  e  i  "diritti  inalienabili della
persona"  costituiscono infatti limite all'ingresso tanto delle norme
internazionali  generalmente  riconosciute  alle  quali l'ordinamento
giuridico  italiano  "si  conforma"  secondo  l'art. 10, primo comma,
della  Costituzione  (sentenza  n. 48  del  1979); quanto delle norme
contenute  in  trattati  istitutivi  di organizzazioni internazionali
aventi gli scopi indicati dall'art. 11 della Costituzione o derivanti
da  tali organizzazioni (sentenze nn. 183 del 1973; 176 del 1981; 170
del  1984;  232 del 1989 e 168 del 1991). E anche le norme bilaterali
con le quali lo Stato e la Chiesa cattolica regolano i loro rapporti,
secondo  l'art. 7,  secondo  comma,  della  Costituzione, incontrano,
quali   ostacoli   al  loro  ingresso  nell'ordinamento  italiano,  i
"principi   supremi   dell'ordinamento  costituzionale  dello  Stato"
(sentenze  nn. 30  e 31 del 1971; 12 e 195 del 1972; 175 del 1973; 16
del  1978;  16  e  18  del  1982). Le norme di diritto internazionale
pattizio  prive  di un particolare fondamento costituzionale assumono
invece  nell'ordinamento  nazionale  il  valore  conferito loro dalla
forza  dell'atto che ne da' esecuzione (sentenze nn. 32 del 1999; 288
del  1997;  323  del  1989).  Quando  tale esecuzione e' disposta con
legge, il limite costituzionale vale nella sua interezza, alla stessa
stregua   di   quanto   accade  con  riguardo  a  ogni  altra  legge.
Sottoponendo  a controllo di costituzionalita' la legge di esecuzione
del  trattato, e' possibile valutare la conformita' alla Costituzione
di quest'ultimo (ad esempio, sentenze nn. 183 del 1994; 446 del 1990;
20   del   1966)   e   addivenire  eventualmente  alla  dichiarazione
d'incostituzionalita'   della   legge  di  esecuzione,  qualora  essa
immetta,  e  nella  parte  in  cui  immette,  nell'ordinamento  norme
incompatibili con la Costituzione (sentenze nn. 128 del 1987; 210 del
1986).
    Non  e'  pero' questo l'esito del controllo cui si deve pervenire
nel caso in esame.
    3.2.  -  Il  tribunale  rimettente, nel sollevare la questione di
costituzionalita',  ritiene che la norma legislativa impugnata, dando
"piena  ed intera esecuzione" alla Convenzione, ammetta o non escluda
che  il  Governo  italiano  in applicazione dell'art. 3, paragrafo 1,
lettera  f),  della  Convenzione  -  possa pattuire con il Governo di
altro  Stato,  firmatario  della  Convenzione,  condizioni  personali
speciali  di  esecuzione  della pena detentiva, da applicarsi a opera
dell'autorita'  giudiziaria  nei  confronti  della  persona  detenuta
trasferita,  con  preferenza non solo rispetto alle norme legislative
ma  anche rispetto a quelle costituzionali, in materia di diritti dei
detenuti.
    Queste  proposizioni,  tuttavia,  prima  ancora  che alla stregua
della Costituzione non si giustificano alla stregua delle norme della
Convenzione e della legge che a essa ha dato esecuzione.
    Le  conseguenze  del trasferimento sull'esecuzione della condanna
trovano  la loro disciplina negli artt. da 9 a 15 della Convenzione e
nulla  vi  si  dice  circa  la  possibilita' che i Governi abbiano di
concordare, per singoli condannati, regole di esecuzione speciali che
costituiscano  eccezioni  rispetto  all'ordinamento  dello  Stato  di
esecuzione.
    Al  contrario, l'art. 9, in tema di conseguenze del trasferimento
nello Stato di esecuzione, al paragrafo 3, stabilisce espressamente e
in  generale  -  con riferimento tanto al sistema della continuazione
dell'esecuzione (sistema prescelto dall'Italia) quanto a quello della
conversione della condanna - che "l'exe'cution de la condamnation est
re'gie  par  la  loi  de  l'Etat  d'exe'cution  et  cet Etat est seul
compe'tent  pour prendre toutes les de'cisions approprie'es". D'altro
canto, le Osservazioni intese a facilitare una risoluzione amichevole
delle  difficolta' insorte fra l'Italia e gli Stati Uniti concernenti
l'applicazione  della  Convenzione  sul  trasferimento  delle persone
condannate,  formulate  dal  Comitato  per  i  problemi criminali del
Consiglio   d'Europa  (Strasburgo,  sessione  8-12 giugno  1998),  in
riferimento,  precisamente,  al  caso che ha dato origine al presente
giudizio,  hanno  riconosciuto  che, in base alla Convenzione, "se lo
Stato  di  condanna  puo'  sollecitare  informazioni  allo  Stato  di
esecuzione  sui  differenti  modi  in  cui la persona, se trasferita,
potrebbe  essere trattata secondo le leggi e le procedure dello Stato
di  esecuzione,  lo Stato di condanna non e' certamente legittimato a
chiedere  garanzie  vincolanti  in  proposito"  e quindi, tanto meno,
garanzie circa eccezioni a tali leggi e procedure.
    L'art. 10,  inoltre,  in  riferimento al caso della continuazione
dell'esecuzione  dopo aver stabilito, al paragrafo 1, che lo Stato di
esecuzione  "est  lie'  par  la  nature  juridique et la dure'e de la
sanction  telles qu'elles re'sultent de la condamnation", regola poi,
al   paragrafo   2,   il   caso   dell'adattamento   quando   vi  sia
incompatibilita' di natura giuridica o durata della sanzione rispetto
alla   legislazione   dello   Stato   di  esecuzione  o  quando  tale
legislazione  l'esiga.  In  questa ipotesi, lo Stato di esecuzione e'
abilitato   ad   adattare,   tramite   una  decisione  giudiziaria  o
amministrativa,  la sanzione (il cui concetto evidentemente abbraccia
la  condizione  giuridica  globale  del  condannato, costituita dalle
situazioni  soggettive  che  determinano  il  suo  status  di persona
assoggettata  all'esecuzione  della pena) alla pena o misura previste
dalla  propria  legge  per  reati  della stessa natura . La pena e la
misura  adattate  devono corrispondere "autant que possible" a quella
inflitta con la condanna da eseguirsi.
    La  Convenzione e' dunque univoca nel riferire l'esecuzione della
pena  al  regime  giuridico  vigente  nello  Stato di esecuzione e ad
assoggettarla   alle   misure   concrete   che  questo  prevede  come
appropriate.  Essa  inoltre  vincola lo Stato di esecuzione (nel caso
della  continuazione)  alla natura e alla durata della sanzione, come
stabilite  dallo  Stato di condanna, ma in caso di disomogeneita' tra
gli  ordinamenti  - promuove la corrispondenza, per quanto possibile,
tra  le  sanzioni,  quali  pronunciate  e quali da eseguire, dando la
preminenza  a  quanto  e'  richiesto  dall'ordinamento dello Stato di
esecuzione.
    Nello  spirito  della  Convenzione, lo Stato di condanna, dunque,
puo'   potestativamente   prestare   o  negare  il  suo  consenso  al
trasferimento  del  condannato,  quando  ritenga che il regime legale
dell'esecuzione   penale   nel   potenziale   Paese   di  esecuzione,
rispettivamente,  sia  o non sia sostanzialmente equivalente a quello
previsto dal proprio ordinamento e, perche' possa prendere le proprie
determinazioni  con  cognizione  di  causa,  sara'  informato circa i
caratteri  di  tale  regime  nello Stato di esecuzione (nella specie,
tale  conoscenza,  oltre  che  attraverso  informazioni  offerte  dal
Ministero  della  giustizia,  e'  stata  garantita dal Comitato per i
problemi   criminali   del   Consiglio   d'Europa,   con   analitiche
prospettazioni  nelle  gia'  menzionate  Osservazioni).  Lo  Stato di
esecuzione,  a  sua  volta, e' vincolato alla natura giuridica e alla
durata  della sanzione quale e' prevista nell'ordinamento dello Stato
di  condanna,  ma  non  al  di  la'  del  limite superato il quale si
determinerebbe   una   rottura   del   proprio  ordinamento,  essendo
possibile, per evitare tale conseguenza, operare l'adattamento che la
salvaguardia  di quest'ultimo rende strettamente necessario. Cio' che
chiaramente  e'  escluso  dalla  Convenzione  -  e la ragione di tale
esclusione,  alla  luce  dei  principi  dello  Stato  di diritto, non
necessita   di  spiegazioni  -  e'  l'eventualita'  che  il  soggetto
trasferito  sia  sottoposto  a un vero e proprio regime di esecuzione
speciale  e personale, concernente i diritti, oltre che i doveri, che
lo riguardano come detenuto.
    3.3.  -  In  questo  contesto  si  colloca l'art. 3, paragrafo 1,
lettera f), della Convenzione il quale prevede, affinche' il detenuto
possa essere trasferito nel suo Stato di cittadinanza, che "l'Etat de
condamnation  et  l'Etat d'exe'cution doivent s'ĂȘtre mis d'accord sur
ce    transfe'rement";    una   disposizione   che,   anche   secondo
l'interpretazione  che  ne  da'  il  Rapport explicatif relatif a' la
Convention  sur  le transfe'rement des personnes condamne'es (Conseil
de  l'Europe,  Strasbourg,  1983,  1/2  25), non fa che confermare il
principio-base  della  Convenzione,  vale a dire che il trasferimento
non   e'   obbligatorio   ma   necessita   dell'accordo  degli  Stati
interessati.
    Il  Tribunale  rimettente, tuttavia cosi' come la Corte d'appello
nel  provvedimento  di  riconoscimento delle sentenze statunitensi di
condanna  -,  ha  ritenuto  che tale disposizione autorizzi i Governi
degli Stati a convenire fra loro particolari condizioni relativamente
al  trasferimento:  come  possono  mettersi  d'accordo  o possono non
mettersi d'accordo, infatti, potrebbero altresi' mettersi d'accordo a
certe condizioni. In ogni caso pero', ammessa questa interpretazione,
il   potere   governativo  di  concordare  particolari  modalita'  di
esecuzione della pena deve essere accordato al sistema generale della
Convenzione   in  cui  viene  a  inserirsi,  sistema  risultante,  in
particolare,  dai  gia'  esaminati  artt. 9  e 10 i quali, per quanto
detto,  fanno salvo l'ordinamento giuridico dello Stato di esecuzione
e,  in  primo  luogo,  evidentemente, i suoi principi e le sue regole
costituzionali.
    Pertanto,  l'art. 3,  paragrafo  1,  lettera  f), non puo' essere
interpretato  nel  senso  ipotizzato  dal rimettente nel sollevare la
questione di legittimita' costituzionale.