ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nei  giudizi  di legittimita' costituzionale dell'art. 341 del codice
penale e del combinato disposto degli artt.2, terzo comma, del codice
penale  e  673 del codice di procedura penale, promossi con ordinanze
emesse  il  28 ottobre  1999  e  il  20 gennaio 2000 dal tribunale di
Rovereto, in composizione monocratica, iscritte al n. 151 e al n. 524
del  registro  ordinanze  2000  e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 16 e n. 40, 1a serie speciale, dell'anno 2000.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  7 marzo 2001 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.
    Ritenuto  che,  nel corso di un procedimento di esecuzione avente
ad  oggetto la richiesta di revoca parziale di una sentenza penale di
condanna  per  vari reati, tra i quali quello di oltraggio a pubblico
ufficiale,  e  conseguente  rideterminazione  della  pena  sulla base
dell'intervenuta abrogazione dell'art. 341 del codice penale disposta
dall'art.  18  della  legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo
per  la  depenalizzazione  dei  reati  minori  e modifiche al sistema
penale  e  tributario),  il  tribunale  di  Rovereto, in composizione
monocratica,  con  ordinanza in data 28 ottobre 1999 (r.o. n. 151 del
2000),  solleva  due questioni di legittimita' costituzionale: l'una,
avente  ad oggetto l'art. 341 cod. pen., in riferimento agli artt. 1,
secondo  comma,  2,  3, primo e secondo comma, 25, secondo comma, 27,
terzo  comma,  28, 54 e 97, primo comma, della Costituzione; l'altra,
relativa  al  combinato  disposto  degli  artt. 2,  terzo comma, cod.
pen. e  673  del  codice  di  procedura  penale,  in riferimento agli
artt. 3, primo comma, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della
Costituzione;
        che,  quanto  alla  prima  questione, il remittente, muovendo
dalla  premessa che l'art. 18 della legge n. 205 del 1999 non avrebbe
comportato  una  vera  e  propria  abolitio  criminis ma una semplice
successione nel tempo di leggi penali incriminatrici, poiche' tutti i
comportamenti  previsti  dall'art. 341  cod. pen. devono ormai essere
ricondotti  alla  piu'  generale  fattispecie  dell'ingiuria  di  cui
all'art. 594    cod.   pen.,   eventualmente   aggravata   ai   sensi
dell'art. 61, numero 10, cod. pen., rileva che se "in tutti i giudizi
di  cognizione  in  corso  per  effetto  dell'intervenuta abrogazione
dell'art. 341  cod.  pen. dovra'  trovare  applicazione  la piu' mite
disciplina di cui all'art. 594 cod. pen., ai sensi dell'art. 2, comma
3, cod. pen.", al contrario, nei procedimenti di esecuzione, relativi
a   sentenze   di   condanna   passate   in  giudicato,  un'eventuale
dichiarazione   di   incostituzionalita'   dell'art. 341   cod.  pen.
comporterebbe  l'applicazione,  in  luogo  della  disciplina  di  cui
all'art. 2 cod. pen., dell'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
        che,  prosegue  il  remittente precisando la sua tesi, mentre
gli  effetti  del  sopravvenire  di  un  atto  legislativo andrebbero
distinti  a  seconda  che  si  tratti  di abolitio criminis o di mera
successione  nel tempo di leggi penali, riconducibili rispettivamente
al  secondo  e  al  terzo  comma  dell'art. 2  cod. pen., nel caso di
dichiarazione di illegittimita' costituzionale di una legge l'art. 30
della  legge  n. 87  del  1953  non consentirebbe distinzione alcuna,
poiche' si imporrebbe sempre e comunque l'efficacia retroattiva della
pronuncia  di  incostituzionalita'  senza  alcun  limite di carattere
processuale;
        che sarebbe appunto questa la ragione per la quale l'art. 341
cod.  pen.,  anche  se  abrogato,  potrebbe  formare  oggetto  di una
questione   dotata   del   requisito   della  rilevanza:  l'eventuale
accoglimento  di  tale  questione comporterebbe l'applicabilita', non
piu'  dell'art. 2  cod.  pen.,  ma dell'art. 30 della legge n. 87 del
1953 e, quindi, sul piano processuale, dell'art. 673 cod. proc. pen.,
con la conseguente revoca, nel giudizio principale, della sentenza di
condanna;
        che,  quanto alla non manifesta infondatezza della questione,
il  remittente  dubita, in riferimento ai suindicati parametri, della
legittimita' costituzionale: a) della configurazione dell'oltraggio a
un  pubblico ufficiale come autonomo reato, anziche' quale aggravante
del  reato  di  ingiuria;  b)  in subordine, del tipo e della entita'
delle pene stabilite per tale reato, a causa della mancata previsione
della pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva, e del regime
di procedibilita' d'ufficio anziche' a querela di parte;
        che,  con  la  seconda  questione, il remittente dubita della
legittimita'  costituzionale  del  combinato  disposto degli artt. 2,
terzo  comma, cod. pen. e 673 cod. proc. pen., nella parte in cui non
consente  la  modifica  del  giudicato,  in  sede  di procedimento di
esecuzione,  nel  caso  di  successione di leggi penali nel tempo con
effetto meramente modificativo e conseguente abrogazione di una norma
incriminatrice,  perlomeno  nei  casi in cui l'intervento legislativo
viene  a  porre  in  discussione  l'an  della  sanzione,  mediante la
modifica  del regime di procedibilita' del reato, ovvero il quantum o
la  species  della  pena,  prevedendo  la  nuova  disciplina  la pena
pecuniaria (sia pure in alternativa) in luogo di quella detentiva;
        che  ad avviso del remittente, la ratio sottesa al limite del
giudicato   posto   dall'art. 2,   terzo  comma,  cod.  pen.  sarebbe
"eminentemente  pratica",  cioe'  connessa all'esigenza di evitare un
nuovo  giudizio  ad  ogni  sopravvenire  di  modifiche  normative; si
tratterebbe,  quindi,  di  un  fondamento  certamente  meno "alto" ed
importante rispetto a quello a base della regola della retroattivita'
della  norma  favorevole,  consistente  nel  principio di eguaglianza
sotto il profilo della parita' sostanziale di trattamento;
        che,  rileva  il  giudice a quo il limite del giudicato posto
dal   terzo  comma  dell'art. 2  cod.  pen.  sarebbe  intrinsecamente
irragionevole  sia  in rapporto alla diversa regola di cui al secondo
comma  dell'art. 2,  sia  "all'interno  dei  casi  di mero intervento
modificativo, in senso favorevole, da parte del legislatore";
        che,  prosegue  il  remittente, la mancanza di ragionevolezza
della disciplina censurata sarebbe evidente almeno nel caso in cui la
modifica  legislativa  non incidesse solo su aspetti secondari o solo
sui limiti edittali di pena, ma comportasse, come nel caso di specie,
una  modifica  del  regime di procedibilita' e della stessa specie di
pena    irrogabile,   determinando   il   passaggio   da   una   pena
obbligatoriamente  detentiva  ad una pena pecuniaria, sia pure in via
alternativa:  in  simili  casi, infatti, verrebbero in considerazione
anche  altri  parametri  costituzionali,  quali  l'art. 13  Cost., in
riferimento  al  bene  supremo  della  liberta' personale; l'art. 25,
secondo  comma, Cost., in riferimento al principio di offensivita', e
l'art. 27,  terzo  comma,  Cost.,  dal  quale  sarebbe  desumibile il
principio di proporzione tra fatto e pena;
        che,   rileva  ancora  il  remittente,  l'accoglimento  della
prospettata questione di costituzionalita' consentirebbe di applicare
l'art. 673  cod. proc. pen. tutte le volte in cui la successiva legge
piu'  favorevole  escludesse  la punibilita' del fatto, per qualsiasi
ragione   (anche   attinente  al  regime  di  procedibilita')  ovvero
l'applicazione di una pena detentiva;
        che,  ad  avviso  del  giudice  a  quo  entrambe le questioni
sollevate,   indipendenti  l'una  dall'altra  e  invocabili  "in  via
alternativa, non essendo ravvisabile un rapporto di dipendenza logico
per   l'eterogeneita'  delle  premesse  e  delle  norme  denunziate",
sarebbero rilevanti;
        che,  nel corso di altro procedimento di esecuzione avente ad
oggetto  la  richiesta  di  revoca  di  una  sentenza  pronunciata ex
art. 444  cod.  proc.  pen.  per  il  reato  di  oltraggio a pubblico
ufficiale  a  seguito dell'intervenuta abrogazione dell'art. 341 cod.
pen.  disposta  dall'art. 18  della  legge 25 giugno 1999, n. 205, il
tribunale  di Rovereto, in composizione monocratica, con ordinanza in
data  20 gennaio  2000  (r.o.  n. 524  del 2000), solleva, sulla base
delle  medesime  argomentazioni,  identiche questioni di legittimita'
costituzionale   sia  dell'art. 341  cod.  pen.,  sia  del  combinato
disposto di cui agli artt. 2, terzo comma, cod. pen. e 673 cod. proc.
pen;
        che  e'  intervenuto  in entrambi i giudizi il Presidente del
Consiglio   dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale dello Stato, e ha concluso, quanto alla prima questione, nel
senso  della  manifesta  inammissibilita' per intervenuta abrogazione
della  disposizione  censurata  e,  quanto  alla  seconda  questione,
chiedendo  che  la  stessa  venga  dichiarata non fondata, poiche', a
differenza  del  principio  di  irretroattivita'  della  legge penale
(art. 25, secondo comma, Cost.), quello di retroattivita' della norma
piu'  favorevole  non  e'  costituzionalizzato  e la regola enunciata
dall'art. 2,  terzo  comma, cod. pen. rappresenterebbe un ragionevole
contemperamento   tra   il  principio  del  favor  rei  e  quello  di
intangibilita' del giudicato.
    Considerato  che,  poiche'  le  ordinanze di rimessione sollevano
identiche   questioni  di  legittimita'  costituzionale,  i  relativi
giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;
        che   il   giudice   a   quo  muovendo  dal  presupposto  che
l'abrogazione  dell'art.  341 del codice penale disposta dall'art. 18
della  legge  25 giugno  1999,  n. 205  (Delega  al  Governo  per  la
depenalizzazione  dei  reati  minori  e modifiche al sistema penale e
tributario)  non  avrebbe  comportato  una  vera  e  propria abolitio
criminis  ma avrebbe dato luogo ad una semplice successione nel tempo
di leggi penali incriminatrici, solleva due questioni di legittimita'
costituzionale;
        che,  con  la  prima  questione,  il  remittente,  pur  nella
consapevolezza   della  sua  intervenuta  abrogazione,  sottopone  al
giudizio  di  questa  Corte  l'art. 341  cod. pen., ritenendo che una
eventuale  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  di  tale
disposizione  comporterebbe  l'applicazione,  in  luogo  dell'art. 2,
terzo  comma,  cod.  pen.,  dell'art. 30  della  legge 11 marzo 1953,
n. 87,  che non consentirebbe di distinguere l'ipotesi della abolitio
criminis  da  quella della successione nel tempo di leggi penali, con
la  conseguenza che la sentenza di condanna per il reato di oltraggio
potrebbe essere revocata ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen;
        che,   con  la  seconda  questione,  il  medesimo  remittente
denuncia  il  combinato  disposto  degli articoli 2, terzo comma, del
codice  penale  e  673 del codice di procedura penale, nella parte in
cui  non  consente la modifica del giudicato, in sede di procedimento
di  esecuzione, nel caso di successione di leggi penali nel tempo con
effetto meramente modificativo e conseguente abrogazione di una norma
incriminatrice,  perlomeno  nei  casi in cui l'intervento legislativo
viene  a  porre  in  discussione  l'an  della  sanzione,  mediante la
modifica  del regime di procedibilita' del reato, ovvero il quantum o
la  species  della  pena,  prevedendo  la  nuova  disciplina  la pena
pecuniaria (sia pure in alternativa) in luogo di quella detentiva;
        che, a prescindere da ogni valutazione circa la plausibilita'
della  interpretazione  dalla  quale  muove  il  remittente in ordine
all'effetto  della  abrogazione  dell'art. 341  cod.  pen., nel senso
cioe'  che  questa  abbia  dato luogo ad una successione nel tempo di
leggi  penali,  con  conseguente  applicabilita'  dell'art. 2,  terzo
comma,  cod.  pen.,  piuttosto  che  ad  una  vera e propria abolitio
criminis,  osta  allo  scrutinio nel merito un preliminare profilo di
inammissibilita';
        che,  infatti, il remittente, nel sollecitare l'intervento di
questa   Corte,   ha  precisato  che  le  questioni  di  legittimita'
costituzionale   rilevanti   sarebbero  due,  "ciascuna  delle  quali
indipendente  dall'altra e invocabile in via alternativa, non essendo
ravvisabile  un  rapporto  di  dipendenza  logico per l'eterogeneita'
delle premesse e delle norme denunziate";
        che, in tal modo, il giudice a quo prospetta quesiti plurimi,
di  portata  affatto  differente,  ponendo  esplicitamente  i quesiti
stessi   in   un   legame   irrisolto  di  alternativita',  senza  un
collegamento   di   subordinazione   logica   che   consentirebbe  la
delibazione  della  questione  subordinata  in  caso  di rigetto o di
dichiarazione di inammissibilita' di quella che la precede;
        che,  pertanto,  secondo  la  consolidata  giurisprudenza  di
questa  Corte,  le  questioni devono essere dichiarate manifestamente
inammissibili  (ordinanze  n. 78  del  2000, n. 286 del 1999, n. 449,
n. 384 e n. 146 del 1998).
    Visti  gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  secondo  comma,  delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale.