IL GIUDICE DI PACE

    Sciogliendo la riserva espressa all'udienza del 29 novembre 1999,
nel  procedimento iscritto al R.G. dell'anno 1998 n. 215, promosso da
Giovanni Fimiani, rappresentato e difeso dall'avv. Carlo Fimiani, nei
confronti   del  Banco  Ambrosiano  Veneto,  rappresentato  e  difeso
dall'avv. Giovanni Mangia, rileva quanto segue.
    Con  atto  di  citazione  notificato  il 2 febbraio 1998 Giovanni
Fimiani  conveniva  davanti  a  questo  tribunale il Banco Ambrosiano
Veneto  S.p.a. perche' si accertasse non essere dovuta dall'attore la
somma  (di  L.  39.992.220)  risultante dal saldo debitore inviatogli
dalla  banca,  relativo ad un rapporto di conto corrente intrattenuto
conl'Istituto di credito.
    L'attore  lamentava  -  per  quanto qui interessa - la violazione
degli articoli 1283 e 1284 c.c., perche', da un canto, la banca aveva
applicato  interessi  diversi  rispetto  a quelli pattuiti e talvolta
persino  superiori  a  quelli fissati annualmente con d.m. sulla base
della  normativa  antiusura  e,  dall'altro,  perche'  la banca aveva
provveduto  a  capitalizzare trimestralmente gli interessi attivi, in
spregio  al  dettato  dell'art. 1283 Codice civile, che limita a casi
tassativi  la  possibilita' di applicare interessi anatocistici, casi
tra  i  quali  non  rientra  la  prassi  generalmente praticata dalle
banche.
    Deduceva  in  particolare  che  la clausola di salvezza contenuta
nell'incipit  del  predetto  articolo  fa  riferimento  a fattispecie
diverse  da  quelle  in esame, e segnatamente a norme consuetudinarie
(nella  specie  inesistenti)  ed  ad  usi  che,  per  interpretazione
costante,  vanno intesi come usi normativi, integranti il regolamento
contrattuale ex artt. 1374 Codice civile e 8 delle disposizioni sulla
legge  in  generale;  eccepiva  percio'  la  nullita'  assoluta delle
clausole (di capitalizzazione trimestrale) contenute nel contratto.
    Il  Banco  Ambrosiano,  nel  costituirsi  in giudizio, contestava
punto  per  punto  le anzidette doglianze, deducendo essere legittima
(perche'   derivante  da  norma  consuetudinaria)  l'applicazione  di
interessi anatocistici su base trimestrale.
    Nelle  more  del  processo  e' poi accaduto che la Suprema Corte,
invertendo  un  proprio consolidato orientamento, ha dichiarato nulla
(v.  Cas.  n. 2374/1999)  la previsione di tali clausole contrattuali
perche'  non  sarebbe  rinvenibile  nel  sistema  la  relativa  norma
consuetudinaria  idonea  ad  integrare  il  regolamento  pattizio dei
contratti  di  conto  corrente,  specie in materia bancaria dove, tra
l'altro, l'art. 4 della legge n. 154/1992, poi trasfuso nell'art. 117
del d.lgs. n. 385/1993, vieta la clausole contrattuali di rinvio agli
usi.
    Dopo tale pronuncia e' pero' intervenuto il d.lgs. 4 agosto 1999,
n. 342  che  (art. 25), integrando l'art. 120 del D.Lgs. n. 385/1993,
ha  stabilito  (al  comma  2)  che  le  modalita'  e i criteri per la
produzione  degli  interessi  anatocistici  sulle operazioni bancarie
sono stabilite con delibera del C.I.C.R., con l'unico vincolo che sia
assicurata  nei  confronti della clientela la stessa periodicita' nel
calcolo degli interessi sia attivi che passivi.
    Ha  previsto  inoltre  (comma  3 dello stesso articolo) che, fino
all'emanazione   della   predetta  delibera  (con  la  quale  saranno
determinate  le  modalita' e i tempi dell'adeguamento) sono valide ed
efficaci   le  clausole  relative  alla  produzione  degli  interessi
anatocistici, contenute nei contratti stipulati fino a quel momento.
    Cio'   premesso,   ritiene   questo   giudice   rilevante  e  non
manifestamente  infondata  l'eccezione  -  sollevata dall'attore - di
illegittimita'  costituzionale  dell'art. 25,  commi 2 e 3 del d.lgs.
n. 342/1999,  per  violazione  degli  articoli 3, 41 e 47 della Carta
costituzionale.
    La norma, infatti, produce l'effetto di sanare - non soltanto per
il  passato,  ma addirittura fino al momento in cui verra' emanata la
delibera di cui si e' detto - clausole negoziali che, alla luce della
giurisprudenza  appena  citata, sono del tutto nulle; e poiche' detta
nullita'   era   stata  eccepita  dall'attore,  risulta  evidente  la
rilevanza  della  questione,  posto  che  la  norma troverebbe sicura
applicazione nella decisione del presente giudizio.
    Deve  di  seguito  considerarsi  che  la  norma  introduce  -  in
contrasto   con  l'art. 3  della  Costituzione  -  una  irragionevole
disparita'  di  trattamento  tra  gli istituti di credito e gli altri
operatori  economici  che prestano servizi finanziari e che pure sono
sottoposti,   come   le   banche,   ad  un  analogo  regime  di  tipo
autorizzativo   e   ispettivo,  nonche'  agli  stessi  meccanismi  di
vigilanza ad opera delle preposte autorita' di controllo.
    L'efficacia  ora per allora delle nuova disciplina, contenuta nel
comma  3  dell'art. 25,  consentirebbe  quindi  ad  una  categoria di
soggetti  (le  banche)  di  ottenere,  quantomeno  per il passato, un
trattamento  piu'  favorevole  rispetto  a  tutti  gli altri soggetti
dell'ordinamento e, in particolare, come detto, ad altri intermediari
finanziari  che  svolgono  un'attivita' analoga e la cui funzione non
puo'  essere considerata, sul piano sociale, meno rilevante di quella
degli  istituti di credito, ma ai quali, per questa via, non potrebbe
che  applicarsi  la  piu'  severa  disciplina prevista dall'art. 1283
Codice civile.
    In  secondo  luogo  non  si  puo' fare a meno di rilevare come la
predetta normativa susciti dubbi di legittimita' costituzionale anche
sotto  un  diverso  profilo:  la  discrezionalita' del legislatore di
disciplinare il regime divalidita' - invalidita' degli atti negoziali
dei  privati  trova  uno dei suoi limiti nel rispetto del criterio di
ragionevolezza.
    Orbene,  se  e'  vero  che  il  legislatore  puo' disciplinare le
fattispecie  solo per il futuro ovvero estendere anche al passato gli
effetti  della  norma,  e'  quantomeno  dubbio  che possa qualificare
valide, con intervento ex post, situazioni giuridiche soggettive gia'
considerate nulle sotto la disciplina della normativa precedente.
    La   Corte  costituzionale  ha  gia'  espresso  a  tal  proposito
orientamento  contrario  in  relazione  al  divieto  di  fideiussione
omnibus  (sent.  27 giugno 1997, n. 204), con sentenza interpretativa
di  rigetto  che  appare  da  condividere e con la quale la normativa
predetta sembra contrastare.
    Accogliendo,  infatti,  la  tesi  opposta,  si  perverrebbe  alla
conclusione  che la discrezionalita' del legislatore, nello stabilire
la  vigenza  temporale  della  norma, si dilaterebbe fino ad assumere
aspetti  arbitrari,  tali  da  ledere  i  fondamentali  princi'pi  di
certezza   del   diritto  a  cui  anche  l'esercizio  della  funzione
legislativa deve attenersi.
    Sotto  un  diverso  profilo la norma in esame sembra poi porsi in
contrasto  anche  con  gli artt. 41, secondo e terzo comma e 47 della
Carta  costituzionale, posto che, da un canto, piu' che l'utilita' ed
i  fini sociali sembra tutelare esclusivamente una certa categoria di
operatori   finanziari   (le  banche)  a  discapito  degli  altri  e,
soprattutto,  ai  danni  di  coloro  che, come clienti - consumatori,
intrattengono rapporti negoziali con le banche stesse.
    Per  un  altro  verso,  la norma appare diretta non a tutelare ed
incoraggiare  il  risparmio,  e  quindi a contemperare i contrapposti
interessi  in gioco (delle banche, degli altri operatori finanziari e
dei  loro  clienti)  quanto,  piuttosto,  a porre al riparo le banche
dalle  istanze  di  ripetizione  che  la  clientela, sulla scorta del
mutato indirizzo giurisprudenziale adottato dalla Cassazione, avrebbe
potuto avanzare.
    Per  quanto  considerato,  sospeso  il  giudizio,  gli atti vanno
rimessi   alla   Corte  costituzionale,  apparendo  rilevante  e  non
manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale.