IL TRIBUNALE
Nella pubblica udienza del 23 febbraio 2001 ha pronunciato la
seguente ordinanza nel procedimento penale n. 216/1998 R.G. a carico
di Mancini Antonio Donato ed altri per i reati di cui agli artt. 323,
479, 643 c.p. commessi dal 1988 al 1995 in Atina, Sora e Picinisco.
Svolgimento del processo
A seguito di tre distinti decreti del giudice udienze preliminari
emessi tra il settembre 1997 ed il marzo 1999, il tribunale veniva
investito della cognizione di una complessa vicenda concernente
condotte di circonvenzione asseritamente poste in essere dagli
imputati Caira Domenico, Panetta Ennio, Porretta Giovanni, Di Vito
Ersilia, Mancini Armando, Concilietti Sandro, Rufa Ernesto e Panico
Enzo ai danni di tale La Rocca Angelo (proc. 228/1998 e 388/1999
R.g.), nonche' delle fattispecie di abuso d'ufficio e falso ascritte
al Mancini ed a Fabrizio Lorenzo allo scopo di favorire il Panetta
(216/1998).
All'udienza del 26 ottobre 1999, su richiesta del difensore della
parte civile il quale segnalava come tutti i procedimenti
scaturissero da un'unica denunzia delle pp.oo., il tribunale
disponeva la riunione dei medesimi, ritenendo la ricorrenza di "cause
di connessione teleologica e probatoria" ed il 9 dicembre successivo
si dava corso all'attivita' preliminare. Il 10 ottobre 2000 il
Collegio, in diversa composizione, disponeva la rinnovazione della
fase introduttiva, delibando in merito alla prove di cui le parti
avevano richiesto l'ammissione.
In quella sede si rilevava che il difensore di Caira Domenico
aveva indicato quale teste, nella propria lista ritualmente
depositata, il legale degli imputati Mancini e Panetta, chiedendone
l'ammissione su circostanze pertinenti i fatti in contestazione e
rilevanti secondo la prospettazione della parte interessata.
Sulla scorta di detta constatazione e del conseguente dubbio
cumulo in capo all'avv. Cacace della duplice veste di difensore e
teste, il Collegio segnalava alle parti lo stallo processuale
determinato dalla mancata previsione di una specifica
incompatibilita', rinviando all'udienza odierna per le determinazioni
in merito, all'esito del contraddittorio incidentalmente instaurato
al riguardo.
Indi - sentite le parti - il tribunale pronunziava la presente
ordinanza.
Ritiene il Collegio di dover sollevare d'ufficio la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 197 comma 1 lett. d) c.p.p.
nella parte in cui non prevede tra le "Incompatibilita' con l'ufficio
di testimone" quella del legale che nel medesimo procedimento presta
o ha prestato la propria attivita' defensioriale ovvero, e
consequenzialmente, dell'art. 13 R.D. legge 27 novembre 1933 n. 1578
nella parte in cui non dispone l'obbligo di astensione e, comunque,
la decadenza dall'ufficio di difensore del legale che abbia assunto
la qualita' di teste, a richiesta di parte, nel processo in cui
presta assistenza tecnica.
Le carenze previsionali enunziate - alla stregua degli argomenti
che si vanno ad illustrare - sembrano, infatti, porsi in irriducibile
contrasto con le norme costituzionali di cui agli artt. 3, primo
comma, 24, secondo comma, 111, primo e secondo comma della Carta
fondamentale.
In punto di rilevanza delle questioni additate a sospetto, v'e'
da segnalare come la stessa consegua direttamente all'esercizio del
diritto alla prova da parte della difesa dell'imputato Caira che, con
lista del 7 ottobre 1998, ha indicato a teste l'avv. Cacace su un
episodio attinente l'incolpazione ex art. 643 c.p. a lui addebitata.
La capitolazione concerne i contenuti di un incontro tra la p.o. La
Rocca ed il prevenuto, con l'assistenza dei relativi legali, intesa
alla ripetizione dal primo di una somma mutuata in favore del
Panetta.
Le circostanze dedotte, esulanti dall'ambito del segreto
professionale tutelato ex art. 200 c.p.p. che facoltizza
all'astensione - tra gli altri - gli avvocati, nella valutazione del
Collegio appaiono conferenti rispetto all'addebito e di certo non
manifestamente superflue.
I parametri ex artt. 190 e 495 c.p.p. che disciplinano la materia
vincolano, infatti, il giudice procedente all'ammissione sulla base
dei soli dati estrinseci rilevabili dal confronto tra gli elementi
dell'accusa, compendiati nell'imputazione, e la prospettazione
difensiva, salva la possibilita', in corso d'istruzione
dibattimentale, di rivisitare gli originari provvedimenti sulla base
delle emergenze acquisite.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale, consolidatosi a far
data dalla riforma ritualistica, l'art. 495 comma secondo c.p.p.
costituisce lo strumento attraverso il quale il legislatore ha
recepito nel nostro ordinamento la norma di cui all'art. 6 n. 3 lett.
d) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo che configura in
capo all'imputato "il diritto di ottenere la citazione e
l'interrogatorio dei testimoni a discarico a pari condizioni di
quelli a carico", inteso, nell'interpretazione della Cassazione quale
"vero e proprio diritto il cui esercizio puo' essere denegato solo
quando le prove richieste sono manifestamente superflue o
irrilevanti" ( Cass. sez. V 27 settembre 1993 n. 8842).
Lettura questa perfettamente aderente ai contenuti della
direttiva n. 75, art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81 che
sancisce "l'obbligo del giudice del dibattimento di assumere... le
prove indicate a discarico dell'imputato sui punti costituenti
oggetto delle prove a carico...", espressione dell'esigenza di un
contraddittorio paritetico, ora assunta a norma di rango
costituzionale nella previsione del primo e secondo comma, art. 111,
della Carta fondamentale come novellato dalla legge cost. 2/1999.
Nella specie, all'ordinanza ammissiva consegue la segnalata
attualita' di un conflitto funzionale in capo al difensore degli
imputati Panetta Ennio e Mancini Armando, non risolvibile alla
stregua degli strumenti ordinamentali vigenti.
Deve per completezza segnalarsi come anche l'eventuale
separazione della posizione dell'imputato Caira risulterebbe
insuscettibile di ricondurre nell'ambito della ordinaria, corretta,
dialettica l'impasse procedurale in esame.
Infatti, gli incolpati Caira Domenico, Panetta Ennio e Mancini
Armando sono chiamati a rispondere della fattispecie di cui
all'art. 643 c.p, in concorso tra loro sicche', anche a voler
strumentalmente ricorrere, sull'accordo delle parti, alla previsione
dell'art. 18, ultimo comma, c.p.p., si darebbe corpo ad una mera
finzione, elusiva dei precetti normativi che presidiano l'istituto,
pur rimanendo inalterata la situazione di fatto che vi ha dato
origine.
Con riguardo al profilo della non manifesta infondatezza osserva
il Collegio che il legislatore del 1988, nel disciplinare i casi
d'incompatibilita', privi "di esplicita ed organica disciplina" nel
sistema all'epoca vigente, pretermise scientemente l'ipotesi che ne
occupa, testualmente osservando "quanto al difensore, si e' ritenuto
che la disciplina dell'incompatibilita' trovi la propria sede
normativa nell'ordinamento forense, essendo in gioco anche profili di
deontologia professionale che non possono trovare regolamentazione
nel codice di procedura penale" ( Relazione al progetto preliminare
del codice di procedura penale in Lex, Utet, 1988, pag.443).
E cio' nonostante la giurisprudenza di legittimita' fosse stata
chiamata ad occuparsi di concrete fattispecie involgenti il problema
in epoca non troppo risalente, statuendo "il divieto del
contemporaneo esercizio delle funzioni di difensore e teste nel
medesimo procedimento, in quanto il difensore, che deve operare
nell'interesse della parte non puo' svolgere l'ufficio di testimone,
contrassegnato dall'obbligo di dire la verita'. D'altra parte,
poiche' deve ritenersi prevalente la funzione di testimone, in
considerazione del fatto che in materia penale l'accertamento della
verita' costituisce obiettivo prioritario, deve considerarsi
legittima la conseguente decadenza automatica dall'ufficio di
difensore nel dibattimento, quando questi assuma anche la veste di
testimone" Cosi' Cass. pen. sez. VI 4 agosto 1981 n. 7827, in Giust.
Pen. 1982, III, pag. 628, conforme cass. pen. sez. V, 8 agosto 1988
n. 8761 in Cass. pen. 1990 I, pag. 269.
L'orientamento citato si ricollega ad elaborazioni dottrinarie
che, seppur incidentalmente, nell'ambito dell'esame dei profili di
tutela del segreto professionale nel previgente sistema, avevano
nondimeno colto la "logica incompatibilita'" tra le due funzioni,
individuandone la ratio nel conflitto tra doveri diversi e
contrastanti che le connotano ( Guarneri, "Incompatibilita' tra
l'ufficio di difensore e quello di teste", in Corti Brescia e
Venezia, 1955, pag. 65 e segg; sulla ricognizione delle varie
posizioni Gazzaniga E., "sull'ammissibilita' della deposizione
testimoniale del difensore" in Cass. pen. 1990, 11, pag. 269 e
segg.).
Il non liquet legislativo, determinato dalla preoccupazione di
un'indebita ingerenza in un settore che richiama anche delicati
profili deontologici, ha di fatto lasciate sfornite di presidio
normativo le ipotesi di collisione in atto tra interessi di rango
costituzionale parimenti tutelati, quali quelli dell'inviolabilita'
del diritto di difesa e del diritto all'esame dei testi a discarico
in condizioni di parita' con l'accusa.
Ne' strumenti operativi atti a dirimere la questione risultano
aliunde apprestati: l'ordinamento forense, individuato dal
legislatore del 1988 quale sede propria della disciplina delle
incompatibilita' concernenti il difensore, e' compendiato nel r.d.l.
27 novembre 1933 n. 1578, convertito con modificazioni nella legge 22
gennaio 1934 n. 36 che all'art. 13 prevede esclusivamente che "gli
avvocati..., non possono essere obbligati a deporre nei giudizi di
qualunque specie su cio' che a loro sia stato confidato o sia
pervenuto a loro conoscenza per ragione del loroufficio, salvo quanto
disposto dall'art. 351, comma 2, c.p.p." (ora 200 c.p.p.).
La disposizione codicistica richiamata appare inconferente con il
caso di specie alla luce dell'articolazione probatoria operata dal
difensore dell'imputato Caira e comunque la sua applicabilita' ( allo
stato non prospettata) postula la preventiva soluzione del cumulo di
funzioni denunziato.
D'altro canto i connotati sostanziali dell'istituto
dell'incompatibilita' rendono inconfigurabili soluzioni alternative
all'invocato sindacato di costituzionalita'.
La natura eccezionale della previsione articolata ex 197 c.p.p.
e' costantemente ritenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza sul
rilievo che il "suo contenuto pone specifiche eccezioni al dovere
generale di rendere testimonianza fissato dalla legge e reso
imperativo dalla previsione della sanzione penale, e pertanto la sua
interpretazione deve essere strettamente legata al significato del
suo contenuto letterale e non consente l'esclusione dell'obbligo di
testimonianza che si ponga in contrasto con tale significato". In tal
senso Cass. sez. I, 14 aprile 1994 n. 867 in applicazione dei
principi di cui alla decisione della Corte costituzionale n. 109/1992
Orbene, l'assenza di strumenti normativamente apprestati che
consentano di operare - secondo ragionevolezza e trasparenza - un
corretto bilanciamento degli interessi in conflitto sostanzia
un'omissione non compatibile con l'ordinamento processualistico
vigente, minando la coerenza strutturale degli istituti sospettati e
la loro conformita' ad alcuni dei principî cardine della Carta
costituzionale.
Sul punto, rileva il tribunale che l'art. 197 lett d) c.p.p.
espressamente disciplina l'inidoneita' funzionale alla testimonianza
del giudice, pubblico ministero e dei loro ausiliari che nel
procedimento hanno prestato attivita'. La norma esplicita, con tutta
evidenza, una sorta d'incapacita' relativa di soggetti, parti attive
del processo, la cui cognizione dei fatti e' vincolata
all'accertamento giudiziario.
La mancata ricomprensione del difensore tra le figure citate,
nonostante le affinita' funzionali con l'ufficio del p.m. appare
irragionevole ove se ne debba in via interpretativa far discendere
l'obbligo della testimonianza, con valutazione recessiva degli
interessi defensionali, in assenza, peraltro, di poteri del giudice
atti a rimuovere l'inerzia del soggetto interessato, analogamente a
quanto espressamente previsto all'art. 106 comma 2 e 3 in materia di
incompatibilita' della difesa di diversi imputati.
Nell'interpretazione costituzionale dell'art. 3, comma 1, e'
ormai acquisito il dato della censurabilita' di trattamenti difformi
di situazioni giuridiche omologhe: non sconosce il collegio che, al
di la' delle prospettazioni piu' marcatamente egualitaristiche,
all'ufficio del p.m. faccia carico una funzione pubblicistica i cui
connotati e caratteri impongono - quale indefettibile garanzia di
trasparenza e di equita' del processo - che colui che l'azione penale
ha esercitato, portatore di un'istanza punitiva da assoggettare a
verifica, non possa allo stesso tempo essere personalmente strumento
d'accertamento del fatto sub judice.
Ma a ben vedere, lo stesso e' a dirsi per il difensore, parte
egualmente necessaria del processo, addentro alle dinamiche del
procedimento nel suo formarsi, titolare di competenze tecniche,
abilitato "in proprio" alla ricerca della prova.
Alla stregua di dette considerazioni e avuto riguardo
all'estensione della previsione d'incompatibilita' agli ausiliari del
giudice e del p.m., figure meno attinte da esigenze di cautela e
riserbo funzionale rispetto all'organo d'accusa, appare - invero -
poco perspicua l'omessa ricomprensione del difensore nella categoria.
Ma ove cosi' non fosse, e dovesse reputarsi conforme al dettato
costituzionale la norma censurata, ritiene il Collegio che l'obbligo
di testimonianza in capo al difensore officiato nel medesimo processo
implichi ricadute immediate ed evidenti sulla disciplina
dell'ordinamento professionale che all'art. 13 limita le proprie
previsioni all'area del segreto professionale, con espresso richiamo
all'art. 200 c.p.p.
La risoluzione del rapporto fiduciario in conseguenza della
riconosciuta prevalenza dell'obbligo di rendere testimonianza con i
connessi delicati profili di raccordo con la tutela apprestata dalla
Carta fondamentale all'art. 24, secondo comma, non puo' ancorarsi
esclusivamente alla sensibilita' deontologica del singolo,
necessitando al contrario di un presidio normativo che ne disegni in
via prescrittiva modi e forme.
Infatti la recessivita' del vincolo defensionale rispetto al
prevalente interesse all'accertamento del fatto e all'integrale
garanzia del contraddittorio, ove sussistente, non puo' che essere
corredata dall'obbligo di astensione del professionista cui faccia
capo l'incompatibilita' funzionale ovvero dalla facolta' riconosciuta
all'autorita' giudiziaria procedente di rilevarla con procedura
analoga a quella tipizzata all'art. 106, comma 2 e 3, c.p.p.
La mancata previsione legislativa al riguardo, stante la stasi
processuale che ne consegue e l'assenza di strumenti giuridici idonei
a rimuoverla, impone - pertanto - il vaglio di legittimita' della
Corte adita.